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La modernizzazione della letteratura tedesca: il naturalismo e la sperimentazione, Sintesi del corso di Storia

La modernizzazione della letteratura tedesca tra il xix e il xx secolo, con un focus sul naturalismo e la sperimentazione. Del ruolo di autori come döblin, hesse, broch e roth, e del cabaret come una forza centrale nella letteratura d'avanguardia. La denuncia sociale e la sperimentazione letteraria sono analizzate, insieme alla convergenza tra introspezione psicologica e opera letteraria. Il testo include anche una discussione sulle nuove forme di comunicazione e la ricerca di un nuovo romanzo.

Tipologia: Sintesi del corso

2023/2024

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Scarica La modernizzazione della letteratura tedesca: il naturalismo e la sperimentazione e più Sintesi del corso in PDF di Storia solo su Docsity! Aldo Venturelli, L'età del moderno 1. L’età della modernità classica. La letteratura tedesca del primo ‘900 e il suo contesto storico Il contesto storico: la Germania dal 1900 al 1933. Il periodo della storia letteraria tedesca preso in considerazione in questo volume inizia con il 1900 e termina con il gennaio del 1933. Nel 1900 Guglielmo II è ormai imperatore del Reich tedesco da circa dodici anni (diviene cancelliere von Bülow) e l’impero, o meglio quel sistema di potere autoritario e di esibizione di forza militare definito direttamente come guglielminismo, destinato a cadere nel 1918 con la sconfitta della Germania al termine della Prima guerra mondiale, è al suo apice. Il 30 gennaio del 1933 il presidente del Reich, Paul von Hindenburg conferisce ad Adolf Hitler l’incarico di formare il suo primo governo; il cancellierato di Hitler pose fine al primo esperimento di democrazia rappresentativa in Germania, la Repubblica di Weimar, e diede inizio a quel dodicennio di dittatura nazista, che si concluse sono nel 1945 con la sconfitta della Germania al termine della Seconda guerra mondiale. La storiografia letteraria del periodo indicato non può evitare la domanda sulle ragioni che portarono al dissolvimento di una società letteraria così vitale come quella dei quattordici anni della Repubblica weimariana, ma essa si trova innanzitutto ad affrontare una domanda diversa: per quali ragioni il periodo della letteratura tedesca preso in considerazione si presenta così ricco di opere, personalità e temi che sembrano così superare la cesura storica del ‘33? A un primo sguardo si potrebbe dedurre che la letteratura, la cultura e l’arte abbiano il potere di superare le contingenze storiche all’interno del quale si sono formate; ma la verità è che tale ricchezza è sintomo di una sfasatura che si specchia nelle opere. È indubbio che nella storia tedesca dal 1900 al 1933 continua a sopravvivere un divario strutturale tra un sistema politico istituzionale invecchiato e una crescita economica, sociale e tecnologica altamente dinamica. La Germania guglielmina non riuscì mai a superare le ambiguità istituzionali di quello “Stato nazionale tedesco incompiuto”, c reato nel 1871 con l’opera politica del cancelliere Otto von Bismarck. Il Reich si presentava come una federazione di Stati, all’interno dei quali la Prussia manteneva un potere di guida decisivo; il cancelliere del Reich era in primo luogo cancelliere della monarchia prussiana e non era politicamente responsabile di fronte al Reichstag. Non esistevano ministeri del Reich, ma solo apparati amministrativi guidati da segretari del Reich direttamente responsabili nei confronti del cancelliere; quindi, un autentico governo del Reich, responsabile di fronte al Parlamento, non è mai esistito nella Germania dal 1871 al 1918. Un altro aspetto fondamentale dell’ambiguità istituzionale della Germania guglielmina era la collocazione dell’esercito, che dipendeva direttamente dal monarca prussiano; dunque, anche l’esercito rimane un potere sostanzialmente autonomo rispetto al Parlamento. Questo deficit democratico, il potere autoritario del Reich fu in parte controbilanciato, fin dal 1878, da una politica di modernità; all'interno di questa debolezza della democrazia parlamentare venne così ad acquisire significato in Germania la tendenza alla formazione di un potere carismatico raggiunto per via plebiscitaria. Alla formazione di questo potere, rappresentato dallo stesso Guglielmo II, contribuì l’aspirazione della Germania a svolgere una politica mondiale, che trovò nel cancellierato di Bernard von Bülow (governò la Germania dal 1900 al 1909) la sua massima realizzazione. Il deficit di responsabilità politica, che contraddistingueva la monarchia, il cancellierato e l’esercito, contribuì a una scarsa percezione dei pericoli insiti in tale aspirazione a una politica mondiale; essa spinse a una forte ostilità verso l’Inghilterra e la sua potenza marittima, cosa che indusse il paese a un’alleanza con la Francia. Si creò così una profonda trasformazione degli equilibri internazionali. La prudente politica svolta in seguito dal cancelliere Theobald von Bethmann-Hollweg, succeduto a Bülow nel 1909 e che governò la Germania fino al 1917, non riuscì in alcun modo a ristabilire in Europa un equilibrio tale da poter evitare il conflitto mondiale, scoppiato nel 1914 a seguito dell’attentato compiuto a Sarajevo il 28 giugno di quell’anno contro il granduca Francesco Ferdinando, erede al trono austro-ungarico. 1 Il deficit di responsabilità politica, unito all’autonomia dell’esercito di determinare ogni strategia bellica, caratterizzò la condotta della Germania nel corso della Prima guerra mondiale. La certezza della sconfitta indusse nel luglio del 1917 il Reichstag a votare, su proposta dei socialdemocratici, del centro e del Partito popolare progressista, una mozione a favore di una pace senza annessioni e senza indennità: l’armistizio fu firmato dalla Germania l’11 novembre 1918. Intanto la nuova legge del Reich del 28 ottobre dello stesso anno aveva trasformato la Costituzione bismarckiana in quella di una democrazia liberale rappresentativa, caratterizzata dalla responsabilità di fronte al parlamento del cancelliere e dell’intero governo. Guglielmo II lasciò il giorno seguente Berlino per ripararsi nella neutrale Olanda, mentre al socialdemocratico Friedrich Ebert venne consegnato da von Baden l’incarico di cancelliere; egli, con responsabilità ed energia riuscì a gestire il processo di parlamentarizzazione della nuova Repubblica tedesca, l’armistizio e la ripresa economica. Il nuovo ordinamento democratico della Germania trovò realizzazione nella Costituzione, che l’Assemblea costituente, riunita aWeimar, elaborò nel 1919. La Costituzione di Weimar fu più subita che accettata dalla popolazione tedesca; il suo limite principale consistette nel potenziale conflitto che essa creò tra il Parlamento e il presidente del della luce elettrica e la conseguente illuminazione delle città provocarono una profonda trasformazione della tradizionale percezione dello spazio e del tempo. Connessa a tale urbanizzazione è la tendenziale massificazione della società con l’affermarsi di nuovi media, in primo luogo il cinema e la radio. Questo processo di massificazione si afferma, soprattutto nel periodo di stabilizzazione della Repubblica di Weimar, tra il 1924 e il 1929. Nella letteratura di questo periodo assume un valore fondamentale la sperimentazione, la quale riguarda i fondamenti stessi, attraverso i quali una costruzione testuale riesce a prendere forma; così, accanto alla sperimentazione, proprio la processualità dell’opera letteraria assume nella modernità classica un significato fondamentale. Essa comporta una relazione inscindibile tra creatività letteraria e riflessione teorica: la teoria dischiude nuove prospettive, in modo tale che la letteratura si trasforma in un laboratorio di innovazione. Abbandonato il compito di una rappresentazione oggettiva della realtà circostante, la letteratura si fonda sul rischio e sull’incertezza, perde il carattere di una promessa, tesa ad assicurare una soluzione ai problemi da essa stessa posti. L’opera letteraria deve limitarsi a sperimentare delle possibilità espressive, senza poter assicurare alcun risultato. All’interno della letteratura della modernità classica l’esperimento si accompagna spesso a una concezione magica della produzione letteraria e artistica. In tale doppia valenza sperimentale e magica la narrazione tende a trasformarsi in un avvenimento, in un Geschehen, che si realizza attraverso lo smarrimento dell’autore all’interno del processo di composizione testuale. 2.L’eredità del secondo ‘800 L’eredità di Wagner e l’idea di un’opera d’arte totale. Il wagnerismo come fenomeno letterario e artistico era sorto fin dal 1860 con una famosa lettera indirizzata al musicista da Charles Baudelaire. Il rapporto con alcune delle opere più significative di Wagner può essere ritrovato in numerose opere degli anni 1900/33. Una delle tecniche compositive fondamentali nella musica wagneriana, il Leitmotiv, fu più volte ripresa come procedimento strutturale nel processo di creazione letteraria: i Buddenbrook di Thomas Mann, per esempio, seguono tale procedimento. Su un piano più generale, l’eredità lasciata da Wagner, con la quale la letteratura di lingua tedesca del primo ‘900 si confrontò, riguardò la concezione del musicista di un Gesamtkunstwerk, di un’opera d’arte totale all’interno della quale musica, poesia, danza e scenografia si incontrassero e si fecondassero a vicenda. Wagner aveva formulato l’idea in uno dei suoi saggi estetici di maggior rilievo, Arte e rivoluzione, pubblicato nel 1849: in esso, al carattere pubblico della grande tragedia attica, nella quale il popolo ateniese poteva rispecchiarsi, veniva contrapposta la mercificazione dell’arte nella società borghese. A tale trasformazione, in cui si era smarrita ogni idea di polis, ogni visione di una più solidale democrazia, era corrisposta, sul piano artistico, proprio questa frammentazione delle singole arti, non più riunite nell’unità del dramma. L’idea di una Gesamtkunstwerk si presentava in Wagner come un’utopia estetica, la quale prefigurava nell’opera d’arte quella riunificazione delle arti che doveva procedere parallelamente alla creazione di un’umanità tenuta insieme da autentici legami di fratellanza. Wagner aveva intenzione di praticare questi princìpi nelle proprie opere, nonché nella stessa creazione, nel 1876, di un suo proprio teatro a Bayreuth. Fu proprio l’utopia estetica di una riunificazione delle arti a lasciare un’impronta duratura sulla letteratura tedesca ed europea del primo ‘900. Risulterebbe difficile immaginare la drammaturgia brechtiana senza un riferimento e una contrapposizione alla tradizione aperta dal Gesamtkunstwerk wagneriano. Sul piano più specifico della produzione letteraria, particolare attenzione nella costruzione del testo fu dedicata alle sinestesie, sulle quali già il romanticismo si era esercitato: stimolati dalla musica e dalle idee di Wagner, molti scrittori ricercarono nel proprio linguaggio letterario e poetico una nuova musicalità della lingua e un nuovo rapporto tra visione, percezione, immagine e lingua. L’eredità di Nietzsche e la ricerca di una nuova identità. La ricezione del pensiero nietzschiano determinò una svolta irreversibile all’interno della produzione filosofica, letteraria e artistica sia tedesca che europea; dopo Nietzsche tutto fu diverso e un solco profondo venne a scavarsi fra la tradizione letteraria precedente e la nuova generazione di scrittori che a lui si richiamò. La percezione di una crisi non più procrastinabile dei valori etici, l’aspirazione a una più elevata tensione vitale, l’intuizione di una nascosta stratificazione dell’io, una nuova dinamica visione del divenire, non più soggetto a scopi preordinati, furono alcuni dei temi che Nietzsche suggerì agli scrittori e intellettuali che si affacciano sulla scena letteraria tedesca ed europea a cavallo tra ‘800 e ‘900. Nietzsche rappresentò, come disse Thomas Mann, un più alto catalizzatore spirituale; quindi, l’esempio di un destino che gli scrittori ricrearono nella propria interiorità come condizione per nuove esperienze spirituali e psicologiche. La gamma di tali esperienze è molto variegata e riconduce alla personale poetica di ogni singolo scrittore, al cui interno solo taluni aspetti del pensiero nietzschiano generarono nuove esperienze e sensazioni. Il rapporto tra musica e tragedia, che egli pose al centro della Nascita della tragedia, dischiuse nuovi orizzonti alla percezione estetica. Secondo Nietzsche, nella tragedia greca non era l’azione a costituire il centro del conflitto tragico, ma la visione del coro, che partecipava ai dolori del Dio. Le singole figure di questa visione si trasformarono gradualmente nei diversi personaggi protagonisti delle tragedie greche del VI secolo a. C.; essi però si riportano tutti a un’unica visione del mondo radicalmente pessimista. Tale rapporto tra tragedia e musica si fondava per Nietzsche sulla fusione di due istinti naturali, che egli chiamò con il nome di due antiche divinità greche: Apollo e Dioniso. Fu soprattutto la sua caratterizzazione del dionisiaco ad attrarre la fantasia dei lettori e a suggerire a scrittori e artisti la possibilità di una nuova dimensione estetica: infatti il seguace di Dioniso secondo Nietzsche riusciva a intuire le forze più profonde della creazione e a sentirsi in qualche modo egli stesso creatore. Il dionisiaco per Nietzsche presentava però anche un altro volto: quello del dolore e del lamento per lo smembramento del Dio. Già nella Nascita della tragedia affiora in Nietzsche l’intuizione di una crisi di ogni orientamento esistenziale, il rischio di un’autodissoluzione nichilistica di ogni forma di vita. Se per un verso il filosofo capovolgeva l'immagine della grecità come più alta armonia, per altro verso prefigurava quella più attenta analisi della modernità come epoca della crisi e del nichilismo, sulla quale il suo pensiero era destinato a concentrarsi negli anni ‘80 dell’800. Sul piano letterario ed estetico, questa diagnosi del nichilismo confluiva in una caratterizzazione della décadence estetica, della quale Wagner aveva rappresentato l’esempio più significativo: frammentazione, smarrimento nel dettaglio e ricerca di nuove sensazioni rappresentavano per il filosofo aspetti determinanti di questa decadenza artistica. La crisi però non viene presentata dal filosofo solo come un elemento negativo; essa implica anche nuove possibilità esistenziali, nuovi orizzonti ancora da scoprire. Ma soprattutto, la crisi è sintomo di una piena affermazione del divenire; tutto è per Nietzsche in un movimento inarrestabile. Tale divenire si riflette nell’individuo in una diversa disposizione spirituale, mossa dalla ricerca di un continuo autosuperamento in un mondo in perenne divenire. L’eredità del naturalismo. Nel 1886 a Berlino vennero pubblicate le Zehn Thesen zur Moderne (Dieci tesi sul moderno) in occasione di incontro pubblico del Verein Durch!, libera associazione di scrittori appartenenti al movimento letterario naturalista. Apparvero anonime ma successivamente furono ripubblicate con il nome del suo autore, lo storico della letteratura Eugen Wolff, tra i fondatori dell’associazione. La pubblicazione di queste tesi può essere considerata come la data di nascita della modernità letteraria in Germania: l’affermazione della modernità e il rifiuto di una letteratura, il cui ideale è rivolto verso l'antichità, sono infatti più volte in essa ripetuti. Lo stesso fatto che alcuni scrittori e intellettuali vogliano presentarsi all’opinione pubblica come gruppo, legato da un programma comune, rappresenta un elemento di profonda novità nella scena culturale tedesca. Alcuni anni dopo, il naturalismo tedesco raggiungeva il suo apice, in particolare con la creazione a Berlino nel 1889 della Freie Bühne (Il palcoscenico libero), un’associazione teatrale creata da Otto Brahm; l’azione della Freie Bühne occupò un ruolo fondamentale nel rinnovamento del teatro tedesco. Dopo l'inaugurazione, l’associazione mise in scena il naturalismo e la sua trasformazione in un’apparente pluralità di stili talvolta contraddittori, che mutarono in profondità la concezione stessa della letteratura. In Bahr, il superamento del naturalismo si configurava come una conseguenza stessa del naturalismo, e il naturalismo appariva come la prima fase di un processo più generale, quello della modernità: la realtà esterna si era profondamente rinnovata e l’arte, con il naturalismo, aveva cercato i mezzi per riprodurre tale rinnovamento esterno. Ma proprio la profondità delle trasformazioni aveva provocato un rinnovamento radicale dell’uomo stesso e della sua interiorità; per questo, secondo Bahr, il naturalismo doveva lasciare il posto a un’arte e a una letteratura che riuscissero ad indagare in modo adeguato la nuova interiorità degli individui e i loro impulsi più segreti. La ricerca di una nuova psicologia diviene così lo strumento principale per realizzare il proclamato superamento del naturalismo. Tale psicologia deve essere innanzitutto adeguata alle percezioni vissute dall’uomo contemporaneo, e non esercitarsi su vecchi modelli. In secondo luogo, essa deve riuscire a far rivivere nuove sensazioni, perché l’interiorità dell’uomo contemporaneo è aperta a modalità sempre diverse di vivere i sentimenti, e perfino valori della morale; tutto è quindi in trasformazione, e un siffatto dinamismo non riguarda più solo la realtà esteriore, ma deve essere proiettato nella vita interiore dei personaggi raffigurati. In terzo luogo, questa nuova psicologia deve essere deterministica, ovvero servirsi di metodi scientifici per raffigurare una realtà concreta nelle sue effettive determinazioni causali. Secondo Bahr, questa visione analitica deve però sviluppare un metodo di indagine decompositivo, quindi andare alla ricerca più remota di sentimenti e sensazioni, analizzarli nella loro mutevolezza; deve quindi smontarli e sezionarli nei loro meccanismi. La nuova psicologia porta così alla luce quello che è l’elemento centrale dell’uomo contemporaneo, ovvero la sua vita nervosa: questa indagine della nervosità interna dell’uomo richiede quindi nuovi strumenti di rappresentazione stilistica e rappresenta un momento fondamentale del superamento del naturalismo teorizzato da Bahr, che giunge a parlare di una mistica dei nervi che l’arte disvela quando perviene al culmine delle sue rappresentazioni. Il dinamismo, che non contraddistingue più solo i processi di velocizzazione della realtà esteriore, ma si proietta all’interno della psicologia individuale per svelare sempre nuovi aspetti della vita nervosa, rappresenta per Bahr l’essenza stessa della modernità. Con Bahr, l’affermazione della modernità si impone come l’inaugurazione di un movimento. Proprio in questa concezione della modernità trova la sua ragion d’essere quell’apparente pluralismo stilistico, che emerge nei saggi di Bahr: simbolismo, nuovo romanticismo, impressionismo sono termini che ricorrono frequente nella sua opera, e in parte vengono utilizzati come sinonimi. Nella visione di Bahr, simbolismo e nuovo romanticismo non sono movimenti diversi: la nuova interiorità viene spesso da lui concepita come forma di nuovo romanticismo, che a suo avviso ha trovato nelle liriche del giovane Hofmannsthal una sua significativa realizzazione. Certamente dopo il neoromanticismo acquisì un significato diverso quale termine per caratterizzare le prime opere di Hermann Hesse e degli stessi fratelli Mann. Sempre per Bahr, non esiste una frattura rilevante tra simbolismo e impressionismo, e anzi egli giunse a definire quella di Ernst Mach come la filosofia dell’impressionismo, in cui ritrovava la stessa dissoluzione dell’io in un movimento di colori che produceva singolari stati d’animo. Forse, l’esempio più significativo di questa tendenza impressionista nella letteratura austriaca di fine secolo è offerto dalle prose che Peter Altenberg raccolse nel 1896 nella raccoltaWie ich es sehe. Infine, altre denominazioni quali decadenza, estetismo, fin de siècle, Jugendstil, più che definire singole tendenze, ricomprendono l’epoca intercorsa tra il 1890 e i primi anni del ‘900 sotto un unico carattere prevalente. Accanto al pluralismo stilistico, significativo è il pluralismo tematico: proprio la ricerca di sempre nuove situazioni psicologiche si ritrova nell’autorappresentazione di scrittori o nella raffigurazione dei personaggi da loro creati come dandies, o nella rappresentazione di una nuova fisicità e di un raffinato erotismo. Considerato nel suo insieme, il fin di secolo riuscì a creare un clima intellettuale particolarmente fecondo, a caratterizzarsi quindi come una significativa prosecuzione della rivoluzione estetica avviata da Richard Wagner. Di questo clima, L’uomo senza qualità di Musil o Doktor Faustus di Thomas Mann restano raffigurazioni esemplari. La costellazione dell’avanguardia: espressionismo e dadaismo. Al di là dei singoli movimenti o ismi che la costituirono, l’avanguardia artistica del primo ‘900 ha rappresentato una più vasta costellazione culturale. Nello studio dei singoli movimenti è bene non dimenticare questo vasto movimento onnicomprensivo e internazionale, che lega tra loro i singoli movimenti delle avanguardie storiche nel corso del ‘900. Anche in questo caso ci si trova di fronte a quel fenomeno di Gesamtkunstwerk e di rivoluzione estetica che stabilisce un’interdipendenza tra forme diverse di espressione artistica, letteratura, arti figurative, cinema ecc., e crea legami trasversali tra movimenti, dando vita a fenomeni di osmosi culturale. In questo contesto si inserì in Germania l’espressionismo che dominò la scena letteraria e artistica tra gli anni 1910-24. Il problema della sua datazione è tra i più complessi, perché esso, a differenza di altri movimenti come il futurismo e il dadaismo, caratterizzò una comune atmosfera culturale nella quale si collocarono esperienze estetiche, forme di organizzazione intellettuale e riviste letterarie spesso tra loro molto diverse; solo successivamente esso andò gradualmente assumendo contorni programmatici più definiti. Al primo espressionismo, al Früherexpressionismus, che si colloca tra il 1910 e il 1913, seguì il momento di sua massima espansione, che venne a coincidere con gli anni della Prima guerra mondiale, tra il 1914 e il 1918; infine, la crisi del movimento si avviò già nel 1919 e si protrasse fino al 1924. Tale processo di crisi si accompagnò, soprattutto nel teatro, a una forte diffusione dell’espressionismo, a un suo successo esteriore anche al di fuori dei circoli intellettuali nei quali in precedenza era rimasto confinato. L’espressionismo pervenne a una più precisa definizione teorica solo verso la sua fase conclusiva; infatti, il manifesto più significativo dell’espressionismo letterario è il discorso che Edschmid tenne nel 1917 sul tema Expressionismus in der Dichtung, e che ristampò nel suo volume Über den Expressionismus in der Literatur und die neue Dichtung. Anche se per Edschmid l’espressionismo era una categoria dell’anima che superava ogni delimitazione temporale, esso era divenuto solo in quegli anni l’elemento caratterizzante di un’intera generazione. Rispetto all’impressionismo, la nuova generazione poetica desiderava effondere senza limiti il proprio sentimento, così da avvolgere nel suo flusso ogni elemento: in questo modo l’arte intendeva creare una nuova visione, dove tutto veniva correlato con la totalità del mondo, ricondotto alle sue origini primordiali prima che l’anima della creazione si irretisse nella frammentarietà del decorso storico. Da questa idea della visione derivava per l’espressionismo il rifiuto dell’analisi psicologica nella caratterizzazione dei personaggi: tema dell’arte non dovevano più essere i singoli individui, ma una più generale sostanza umana, che legava tra loro gli individui al di là di ogni barriera di luogo e di tempo. Connesso a questo superamento della psicologia era altresì il rifiuto della causalità nel raffigurare la realtà: il mondo, ad avviso di Edschmid, non doveva essere riprodotto, ma ricondotto alla sua creazione originaria, nella quale tutto si riplasmava in nuove correlazioni. Così Edschmid sintetizzava i punti salienti della nuova poetica: “Tutto viene posto in rapporto con l’eternità. Il malato non è semplicemente colui che soffre, ma egli diviene la malattia stessa. Una casa non è più un oggetto, non più solo pietra, essa trascende ciò. Si cerca nella sua essenza fino a che si attingerà la sua forma più segreta, fino a che sorgerà la casa, liberata dalla costrizione della falsa realtà. Ogni uomo non è più un individuo, legato al dovere, alla morale e alla società. In quest’arte egli diviene l’essere più miserevole e commovente: diventa Uomo.” Dunque, i personaggi e gli oggetti rappresentati in un’opera d’arte espressionista non sono più legati a una riproduzione della semplice realtà, ma sono scavati e raffigurati nella loro essenza più profonda, nella prospettiva di un tempo eterno, che riconduce tutto l’universo a un sentimento originario, quasi esso venisse riportato allo stato primordiale della creazione stessa. Questo processo di tipizzazione è ciò che determina il passaggio dal vecchio individuo, proprio dell’arte borghese, a una più generale essenza umana, al sentimento di una più piena e profonda umanità. Anche il linguaggio doveva seguire questo flusso del sentimento, doveva liberarsi da ogni regola convenzionale, da ogni costrizione metrica; ogni elemento del linguaggio, della composizione, della struttura e dello stile, doveva connettersi all’interno di una più ampia concatenazione, che avrebbe dovuto restituire l’unità della visione artistica. In un altro passo del suo discorso così Edschmid sintetizzava talune procedure formali più caratteristiche della letteratura espressionista: “Anche la parola riceva un’altra forza. La parola descrittiva, esplorativa, finisce. Non c’è più posto per essa. La parola diviene freccia, penetra all’interno dell’oggetto e ne viene animata, cristallizzando l’immagine essenziale della cosa. Il verbo si dilata, teso verso l’espressione chiara e propria. L’aggettivo si fonde con la parola significante, e questa deve rendere l’essenza nel modo più conciso possibile e solo l’essenza. Nient’altro.” La ricerca dell’essenza nella rappresentazione si riflette in questa tensione formale, dove predomina il verbo, dove l’aggettivo riduce la sua funzione, dove la parola stessa acquisisce una nuova energia e viene privata di ogni elemento superfluo. La connessione logica passa del tutto in secondo piano, il ritmo della composizione viene invece in primo seguito a quella “svolta del 1920”, che lo storico dell’arte Franz Roh pose al centro di un altro libro del 1925, il quale, insieme alla mostra di Hartlaub, ebbe un significato rilevante nel caratterizzare la nuova situazione artistica, NachExpressionismus. Magischer Realismus (Il postespressionismo. Il realismo magico). Questa dizione di realismo magico permetteva di conferire alla situazione artistica tedesca una proiezione europea più ampia, e di accostare alle nuove tendenze emerse in Germania anche artisti diversi come De Chirico o Picasso. Allo stesso tempo, il realismo magico mostrava come sotto la denominazione di Neue Sachlichkeit potessero convivere esperienza estetiche assai diverse tra loro: una tendenza più verista procedeva parallelamente a un ritorno al neoclassicismo, così come forme di realismo impegnate politicamente si accompagnarono a concezioni più costruttiviste dell’arte, attente a rappresentare la realtà come un processo di strutturazione e composizione. Per descrivere sinteticamente le caratteristiche più significative di queste nuove tendenze della Neue Sachlichkeit e del realismo magico, che si affermarono in Germania dopo l’espressionismo, si possono sottolineare i seguenti elementi: - una nuova attenzione e fedeltà all’oggetto rappresentato; - un’estetica della precisione, fondata sulla sobrietà dell’osservazione; - la scelta di soggetti e temi provenienti dalla vita quotidiana, senza trascurarne gli aspetti più negativi; - l’isolamento dell’oggetto rappresentato rispetto al contesto nel quale si presenta; - una costruzione statica dell’immagine e della composizione; - legami a mosaico delle singole tessere riprese dall’esperienza, rinunciando alla pretesa di creare una totalità organica; - cancellazione di ogni traccia residue del processo della rappresentazione e della raffigurazione estetica; - confronto con ilmondo oggettivo e con i processi di estraniazione umana. Questi elementi si affermarono in particolare negli anni della relativa stabilizzazione economica della Germania weimariana tra il 1924 e il 1930. Anzi, un’intenzione diffusa negli scrittori in quegli anni fu la sincronizzazione tra artista, prodotto artistico e sviluppo tecnico-industriale: i processi di creazione di una società di massa, lo sviluppo di nuovi media, l’urbanizzazione e la vita delle fabbriche divennero oggetti privilegiati della riflessione estetica. La ricerca di procedimenti simbolici che risultassero adeguati alla realtà industriale di una vita privata di ogni magia, come il rifiuto di ogni psicologizzazione dei personaggi o la rappresentazione della realtà dal punto di vista di un osservatore in movimento a forte velocità, divenne prevalente nella letteratura di quegli anni. L’aspetto più caratteristico di questa ricerca letteraria fu dato dalla prevalenza di una letteratura documentaria e il reporter fu elevato quasi a modello di riferimento di ogni adeguata rappresentazione letteraria. L’autore che più incarnò questo ideale fu Egon Kisch, che nel 1924 pubblicò una raccolta Der rasende Reporter (Il reporter folle). Nell’introduzione alla raccolta, Kisch definiva l’importanza della rappresentazione oggettiva del proprio tempo, la volontà di esserne testimone senza punti di vista predeterminati come elemento fondamentale di ogni letteratura documentaria: a suo avviso nulla era più stupefacente della semplice verità, nulla più esotico dell’ambiente circostante, niente più fantasioso dell’oggettività e niente più sensazione del tempo nel quale si viveva. In alcuni casi, la letteratura documentaria si sviluppò come orientata al servizio del proletariato e dei lavoratori; questa ricerca di una letteratura impegnata politicamente trovò in particolare in Das politische Theater, teorizzato e creato da Erwin Piscator, una delle sue espressioni più riuscite. In altri casi, l’intento documentario si realizzò nella predilezione per la ricostruzioni biografiche di grandi personalità storiche o nella predilezione per il romanzo storico. Un altro aspetto che testimonia la predilezione per la letteratura documentaria è dato dalla produzione nata dall’esperienza della Prima guerra mondiale, che trovò uno dei suoi autori più significativi in Ernst Jünger; di orientamenti diversi e fortemente pacifisti, Erich Maria Remarque pubblicò nel 1928 Im Westen nichts Neues, destinato a diventare una delle opere di maggior successo di quegli anni. La ricchezza della scena letteraria di quegli anni fu conseguenza della creazione di una società culturale articolata, che tentò di rispondere alle sfide poste dalla modernizzazione, sia sul piano della riflessione teorica sia su quello della creazione di nuove modalità di comunicazione. Le difficoltà che pesarono sulla democrazia della Repubblica di Weimar esercitarono un influsso rilevante anche sulla capacità della società intellettuale tedesca di quegli anni di percepire con prontezza il cambiamento di scena che l’ascesa del nazismo, dopo le elezioni del 1930, avrebbe poi imposto alla Germania. Un episodio simbolico della situazione di smarrimento che contraddistinse gli ultimi anni della Repubblica di Weimar è datato al 1930, quando Thomas Mann era stato invitato nel Beethoven-Saal di Berlino dall’Associazione degli scrittori tedeschi per leggere alcuni brani di alcune sue opere. In seguito all’imprevista affermazione del nazismo nelle elezioni poco precedenti, egli decise di mutare programma e di tenere un discorso più marcatamente politico. Nel suo Appello alla ragioneMann intendeva parlare da borghese alla borghesia tedesca, cercando di convincerla dell’insensatezza del fanatismo sostenuto dal nazionalsocialismo. Nella sala in cui Mann parlava erano presenti circa 20 esponenti delle formazioni paramilitari naziste che avevano ricevuto l’ordine di assistere in silenzio alla conferenza; insieme a questo gruppo, però, il drammaturgo Arnolt Bronnen aveva organizzato un gruppo di amici, tra i quali figuravano Ernst Jünger, per disturbare il discorso di Mann, che a un certo punto fu costretto a interrompere la sua conferenza e a lasciare la sala. Tuttavia, se Mann qualche anno più tardi era destinato a lasciare la Germania, nemmeno Bronnen o Jünger poterono essere considerati vincitori; la logica dell’ascesa al potere di Hitler e del nazismo seguì infatti altre vie anche rispetto a quelle sognate da Jünger o da Benn, che avevano sperato di trovare nel nazismo una nuova affermazione della germanicità e dei suoi valori culturali. 4.La ricerca di un nuovo linguaggio lirico George, Hofmannsthal e Rilke esprimono concezioni della poesia e della letteratura tra loro diverse, che però presentano alcuni elementi di affinità. I tre autori permettono di riflettere sulle caratteristiche principali della letteratura tedesca postnaturalistica, sul passaggio attraverso il simbolismo e sul suo superamento, sull’apertura di una nuova dimensione del linguaggio poetico e letterario, che troverà poi nell’espressionismo e in Trakl e Benn altre forme significative di sperimentazione. Proprio la ricerca di un’esperienza estetica più profonda accomuna i tre autori; tale ricerca si collega a una continua riflessione sul linguaggio, sulle sue reali capacità di espressione, sulle sue potenzialità di ricreare nuove dimensioni dell’esperienza o di aprire verso inattese prospettive la realtà percepita. La riflessione sul linguaggio si accompagna con un’attenzione verso la sua sonorità e il suo ritmo per ricreare, attraverso la poesia, un nuovo rapporto tra espressione poetica ed espressione musicale. In tal modo, l’espressione poetica si presenta sempre più come l’evocazione e la ricreazione di un nuovo mondo: la poesia si apre non di rado a una relazione con il mito, in modo da riuscire a riempire di nuovi significati quanto pervenuto da una lunga tradizione letteraria. Questo mito, nei tre autori, fa confluire in sé le tensioni della modernità e questa proiezione mostra una consapevolezza delle trasformazioni intervenute nelle relazioni tra l’esistenza umana e i suoi fondamenti etici: la sfera tradizionale dei valori appare sempre meno salda e ciò induce l’espressione poetica a farsi carico di formulare nuovi punti di riferimento morale. La lirica di George, Hofmannsthal e Rilke testimonia le profonde trasformazioni antropologiche intervenute con l’avvento della modernità, la frantumazione dell’io, lo sradicamento dell’individuo. Stefan George. Nel periodo decisivo della sua formazione letteraria, che coincide con la frequentazione, tra il 1889 e il 1890 a Parigi, dei mardistes, Stefan George (1868-1933) assume una posizione di ostilità nei confronti della cultura tedesca contemporanea, che gli appare dominata da una tendenza alle perversione del gusto. All’espansione delle strutture dei media legate alla fruizione di massa, come il giornale, il poeta reagisce isolandosi in una posizione di disdegno. Le prime pubblicazioni di George appaiono a poche decine di esemplari, in modo da chiarire che la loro destinazione non riguarda il pubblico distratto dei lettori occasionali, ma un numero ristretto di spiriti selezionati, definiti dalla loro capacità di riconoscere il bello, e non dalla loro appartenenza a una comunità nazionale o linguistica. Nel giro di un decennio, però, subentra lo sforzo di creare una scuola organizzata, rivolta a una cerchia più ampia di giovani, desiderosi di sottoporsi a un lungo lavoro di perfezionamento spirituale. La nascita del Kreis segna il passaggio a una concezione “interventistica” dell’attività estetica, in cui la contestazione dello stato di degrado in cui a parere dei georgiani versa la cultura della Germania guglielmina, finisce per incrociarsi con l'esercizio di un ruolo correttivo nei confronti di tale degrado. George e i suoi allievi lavorano nel complesso a una riformulazione del concetto di esperienza estetica, intesa a principio con lo spirito di queste fonti, vivificandolo nel presente. Sul culto delle grandi personalità del passato si innesta l’ultima invenzione poetica di George: la trasformazione dell’adolescente Maximilian Kronberger, morto a 17 anni nel 1904, in una divinità perfetta, strappata al contatto con la volgarità dell’esistenza ordinaria prima che questa potesse profanarne la bellezza. Maximin (questo il nome con il quale Kronberger viene introdotto nelle pratiche del cenacolo) diventa l’oggetto di un culto ritualizzato, di cui George si accredita come unico celebrante, in cui trova appagamento la necessità di sostanziare la rappresentazione di un’umanità risanata che il cenacolo oppone al decadimento del presente. In La stella dell’alleanza (1914) questi princìpi ricevono una formulazione sistematica, destinata esclusivamente al consumo interno dei membri del Kreis. Negli ultimi anni il conservatorismo del gruppo si accentua esasperandosi in un disprezzo nei confronti di tutte le realizzazioni della modernità, disprezzo accompagnato dal repertorio antisemita e anti femminile. Pubblicata l’ultima raccolta, Das neue Reich (1928), George si ritira in uno sdegnoso riserbo, rappresentando sé stesso in una condizione di completa estraneità al proprio tempo. Sarà questa astensione a preservarlo, pochi mesi prima della morte, dal tentativo di avvicinamento dei nazisti, i quali, alla ricerca di una legittimazione culturale, cercano di sollecitare il suo consenso alla presa di potere nel gennaio del ‘33. Hugo von Hofmannsthal. Autore poliedrico del modernismo viennese è Hofmannsthal, poeta di profonda cultura, desideroso di abbracciare tutto il ventaglio di generi della tradizione europea (poesia, dramma, racconti, saggi, critiche) e di rigenerarne forme secondo uno spirito conservatore. L’apparizione delle prime liriche di Hofmannsthal fu salutata come un prodigio nella Vienna del fin de siècle. Hermann Bahr, il cui programma estetico consisteva nel superamento del naturalismo, restò così colpito dalla musicalità e dalla raffinatezza di queste liriche ispirate al simbolismo francese da affermare che con Hofmannsthal era iniziato il “secondo periodo della modernità”. Tuttavia, il consenso unanime che accompagna gli esordi del poeta venne a mancare appena egli decise di rifiutare il ruolo di enfant prodige per intraprendere un percorso di maturazione. La delusione di George, incapace di accettare il passaggio di Hofmannsthal dalla lirica al teatro, è sintomatica di un atteggiamento critico che fu assunto anche da autori, come ad esempio Thomas Mann, che avrebbero poi maturato a loro volta un atteggiamento critico verso ogni forma di estetismo fine a sé stesso. Per quanto crudo possa suonare, difficilmente i contemporanei sono riusciti a perdonare a Hofmannsthal di essere sopravvissuto alla prima fase della sua produzione: “se fosse morto dopo le poesie, sarebbe stato un Dio” scrive Thomas Mann. La vicenda artistica di Hofmannsthal sarà dunque segnata dallo scontro tra gli esponenti della decadenza che sognano l’ingenuità come via di fuga dalla modernità e chi, incarnando quel sogno, riesce a smascherarlo e procede, seguendo le indicazioni di Nietzsche, a quel superamento di sé che fu interpretato come un tradimento della propria vocazione poetica. Hofmannsthal nasce a Vienna nel 1874, quando il padre, grazie al suo titolo di studio e alla sua professione di avvocato, era riuscito a ristabilire la situazione economica compromessa dal crack della Borsa del 1873. Questo episodio, riducendo sul lastrico la borghesia viennese, aveva segnato una svolta anche riguardo alla temperie artistica dell’epoca, perché ora il pubblico si orientava verso i generi di evasioni, quali l’operetta, nel tentativo di dimenticare le proprie difficoltà. Le sue più celebri liriche giovanili furono pubblicate tra il 1902 e il 1906 sulla rivista letteraria più prestigiosa dell’epoca, i Blätter für die Kunst diretta da George. Accostare il termine precocità agli esordi di Hofmannsthal sarebbe riduttivo di fronte al risultato raggiunto: lamusicalità del verso, infatti, amplifica il potenziale di suggestione di parole e immagini per evocare una struggente malinconia che non è rimpianto, perché venata dalla consapevolezza che se la fine è ineludibile, essa è anche indispensabile per chi aspiri a quella rivelazione sul senso della vita. Il titolo Des alten Mannes Sehnsucht nach dem Sommer (La nostalgia del vecchio per l’estate) pone in risalto il nucleo tematico della poetica di Hofmannsthal e, al tempo stesso, l’aporia insita nel fatto che un giovane non ancora ventenne può conoscere il pathos della fine e penetrare nella dimensione dell’autunno più profondamente di chi abbia già vissuto quella stagione. Nel 1902, la crisi del poeta sfocia nella stesura di un breve testo, intitolato Ein Brief, oggi citato come La lettera di Lord Chandos: in quest’opera la confessione autobiografica si fonde con la finzione narrativa per dar vita a quello che è forse il più incisivo saggio tedesco sui limiti del linguaggio. Lord Chandos, giovane dell’età elisabettiana, che malgrado i suoi 26 anni aveva già dimostrato un grande talento letterario, scrive al suo mentore Francis Bacon quella che sarà la sua ultima lettera, per giustificare la sua definitiva rinuncia all’attività letteraria. Se in un primo momento il giovane aveva provato avversione solo per i concetti astratti, in seguito questa ripugnanza si estende a ogni singola parola. Piantato in asso dalle parole, Chandos viene a trovarsi in una condizione molto simile all’ebbrezza e sperimenta una pienezza quando avverte l’unità del mondo spirituale e di quello fisico, della natura e dell’arte, di presente, passato e futuro. A questo punto, persino gli oggetti inanimati diventano per lui il tramite per una “rivelazione”, cioè gli consentono l’accesso a un livello di esperienza che sconfina nell’empatia e non è più traducibile in parole. La rinuncia di Chandos alla letteratura non sembra dettata dalla modestia, quanto dalla volontà di potenza dello spirito aristocratico per antonomasia, cioè il poeta che sacrifica le potenzialità del linguaggio al sogno romantico di parole che possano agire sulla realtà come un bacchetta magica. Da come si può denotare, in questo saggio è già chiara la consapevolezza che nella teoria dell’arte estetistica si manifesta uno straniamento. Risale al 1902 anche il saggio Über Charaktere im Roman und im Drama in cui Hofmannsthal insiste sul tema dell’autoreferenzialità della poesia rispetto alla vita, paragonando il poeta alla figura di re Mida, nelle cui mani tutto si trasforma in oro, cessando però di esistere e di recare nutrimento. A sostegno della tesi secondo cui l’artista rinuncia al mondo reale, percepito solo come un “negativo”, Hofmannsthal cita un passaggio della Commedia umana di Balzac, in cui un giovane pittore offre la donna amata al suo maestro. La ragazza rappresenta la “pienezza delle esperienze” e, mentre il giovane è pronto a sacrificarla in nome dell’arte, il vecchio non si accorge nemmeno di lei. In altri termini, l’artista moderno non condivide il sogno di riconvertire l’arte alla vita, ma la sua unica ambizione è quella di vivisezionare la vita, procedendo alla rimozione di tutto ciò che non rientra nella perfezione di un prodotto artistico. Il concetto di preesistenza di Hofmannsthal si fonda su di un’oscura sensazione che si agita sul fondo dell’anima e si manifesta sotto forma di ricordo o di presagio: in determinati istanti sembra che l’esistenza dell’individuo sia solo un sogno o una sorta di schermo bianco su cui vengono proiettati frammenti di vite già vissute che ora riposano in un luogo archetipico che si configura al pari dell’Iperuranio platonico. Alla preesistenza si accompagna un sentimento elitario per cui l’io lirico avverte che i “padri sono congiunti a me come i capelli”, ma presenta ancora sé stesso come l’erede di una stirpe aristocratica e non dell’umanità intera. Tuttavia, già nella liricaManche freilich (Alcuni devono) affiora la consapevolezza di un legame per cui tutte le creature, a prescindere dal loro rango, sono incatenate le une alle altre. Non a caso, Hofmannsthal introduce il termine allomatico, la cui radice allo- definisce l’altro, per illustrare un procedimento artistico che consiste nel dipingere una tela già dipinta o nel creare sulla base di un modello preesistente, senza però che tra le due opere venga a crearsi un rapporto di subordinazione come quello tra originale e copia, perché come il passato influenza il presente, così magicamente il presente sembra gettare le sue ombre sul passato. Sulla base di queste premesse, la svolta dalla lirica al dramma, dal genere soggettivo per eccellenza a quello che privilegia la dimensione del sociale, si configura come un passaggio obbligato. Questa tendenza era già stata annunciata dallo pseudonimo scelto dall’autore per aggirare la legge austriaca che impediva ai liceali la pubblicazione delle loro opere. Nell’omaggio a Loris Melikow, un generale russo ricordato per essersi occupato della riforma del sistema scolastico nel suo paese, era già possibile cogliere un indizio della resistenza di Hofmannsthal verso tutto ciò che aspirava a collocarsi solo sul versante estetico. I primi atti unici dell’autore sono elegie sulla caducità. I personaggi, tutti artisti, sono consapevoli del fatto che la posizione passiva assunta nella vita torni a loro discapito. Il protagonista dell’atto unico Der Thor und der Tod (Il folle e la morte, 1893) è per così dire il Faust del teatro simbolista, ma a differenza di quello goethiano il Faust di Hofmannsthal, nel momento in cui la morte lo strappa alla vita giudica sterile la propria esistenza, consacrata all’osservazione e alla meditazione. Claudio denuncia l’inutilità di una vita trascorsa in un aristocratico isolamento, in una prigione dorata che ha impedito alla realtà e alle persone che più lo hanno amato di arrivare fino al suo cuore. Solo grazie all’apparizione dellamorte, che smaschera la vanità della sua esistenza, Claudio comincia a vivere e il rimpianto gli consente di cogliere il senso dell’esistenza. Si ricorda, inoltre, che la frattura che divide la vita “attiva” e la riflessione estetica è il tema principale delle opere giovanili dell’autore, l’isolamento sociale dell’artista si trasforma in sintomo di crisi: i suoi atti unici tematizzano la cattiva coscienza dell’estetismo. Il primo dramma successivo a questa svolta, Elektra, fu messo in scena a Berlino nello stesso anno in cui era stato composto, il 1903. Tra il pubblico era presente Richard Strauss, che contribuì il fatto che l’alfiere incarnava non solo il desiderio di evasione dalla quotidianità e di una vita intensa e non convenzionale, ma anche quei valori tradizionali che l’avvento della modernità aveva messo in discussione: l’eroismo fedele fino alla morte, la devozione verso la famiglia; in questi ideali un’intera generazione cercò un rifugio all’inizio di un secolo pervaso da ansia apocalittiche. Nel 1899 e nel 1900 Rilke compie insieme a Lou Salomé due viaggi in Russia, che segnano l’inizio di una nuova stagione poetica. I viaggi rivelano al poeta unmondo contadino arcaico, in cui la religiosità è priva di dogmatismo e in cui domina un senso di fratellanza e di unità sconosciuti all’Occidente. Del mito della Russia, è pervaso lo Stundenbuch, le cui liriche, impregnate di religiosità, si configurano come una reazione al processo di modernizzazione e alla conseguente perdita di identità dell’individuo. Il volume è composto di tre cicli lirici: nel Libro della vita monastica 1899 un giovane monaco, pittore di icone, si rivolge a Dio cercando di trovare il principio creatore che sia in grado di rappresentarlo; Il libro del pellegrinaggio 1901 riflette la crisi in cui Rilke cade al ritorno dal secondo viaggio in Russia e la rottura con Lou Salomé, ma anche in nuovo legame con Clara Westhoff, che il poeta sposerà. Il monaco è ora un uomo che ha conosciuto l’ostilità del mondo e nella preghiera cerca di ritrovare il perduto senso dell’esistenza. Nel terzo libro, Il libro della povertà e della morte, 1903, si riflette invece l’incontro scioccante del poeta con la metropoli parigina, in cui si trasferisce. Seppure scritte già nel periodo parigino, queste liriche sono ancora fedeli alla “poetica del pretesto”, sono cioè ancora pervase da un soggettivismo che sarà superato solo nelle Neue Gedichte. A Parigi, il poeta accetta di lavorare come segretario personale di Auguste Rodin. L’impressione che la città francese esercita sul poeta, ma soprattutto l’incontro con lo scultore francese sono all’origine di una svolta fondamentale della sua opera. Nel 1906 viene pubblicata la seconda edizione del Buch der Bilder: il volume, che precedentemente era ancora fedele allo Jugendstil, testimonia ora una profonda crisi creativa. Il giorno lascia spazio alla sera, alla notte e alla tempesta, emblemi dello spaesamento e dell’isolamento dell’io lirico. Rilke comincia a dubitare che la parola possa dominare le cose e che il poeta possa sottometterle alla propria volontà. Gli oggetti del mondo smettono di essere un pretesto per esprimere uno stato d’animo e lentamente acquistano dignità propria. La “poetica del pretesto” è sostituita da quella delle immagini; il vedere ha il sopravvento sul sentire, le poesie non sono più canti, ma quadri. Le immagini sono ancora espressione della soggettività, ma il riferimento al mondo risulta essere sempre più forte, preannunciando il passaggio all’ “estetica della cosa” che si compirà nelle Neue Gedichte. Queste vengono scritte tra il 1903 e il 1908 mentre Rilke è ospite di Auguste Rodin. Agli stati d’animo dello Stundenbuch non si sostituisce la rappresentazione di un mondo oggettivo; non è la cosa in sé ma l’esperienza della cosa, la sua percezione a essere tradotta nella lirica. Nel frattempo lavora anche a un’opera in prosa, Die Aufzeichnungen des Malte Laurids Brigge, che terminerà nel 1910. Il testo presenta una grande quantità di avvenimenti, ma solo la bozza di una trama romanzesca. Rilke stesso non lo ha mai volutamente definito un romanzo. L’opera manca di un ordine cronologico degli avvenimenti; essa presenta una serie di passi eterogenei in cui variano tempi, luoghi e personaggi. L’elemento unificante è dato dall’io narrativo che è lo scrittore di tutti i quaderni: un 28enne che, nella metropoli parigina simbolo della civilizzazione, viene colpito da una profonda crisi interiore. Rilke mette in relazione due opposte visioni del mondo: quella degli uomini che vivono la quotidianità in modo pratico e quella di coloro che attraverso un approccio intuitivo sono in grado di cogliere la profondità del mondo. Nel Malte sono condensati un forte senso di ribellione alle convenzioni e alla rigidità della realtà e una critica alla civilizzazione. Il tono polemico si sposa con una forte tendenza all’oggettività, che rivela il permanere della poetica della Neue Gedichte: l’arte è rinuncia, povertà, capacità di retrocedere per far emergere il reale nella sua oggettività. Anche seMalte è il protagonista indiscusso del romanzo, ciò che viene raccontata non è la sua vita: quest’uomo sembra privo di una biografia, di una famiglia, di un’identità, assomiglia a un io lirico che nei quaderni trova il modo di esprimere la propria identità. La fine delle Neue Gedichte e la pubblicazione del Malte corrispondono per Rilke a un momento di grande crisi creativa ed esistenziale. Dopo aver accettato l’invito a trascorrere un periodo di lavoro nel castello di Duino, sulla costa adriatica, qui Rilke scrivi le prime due Duineser Elegien, mentre nel 1913 partecipa al congresso di psicoanalisi a Monaco e conosce Freud. Le Elegien sono poesie sulla limitatezza dell’essere umano; in esse Rilke rappresenta le condizioni umane, cercando di dare una risposta all'incomprensibilità della nostra vita. All’uomo e alla sua limitatezza, il poeta contrappone gli angeli, con la loro coscienza infinita. L’angelo rilkiano non è però un essere trascendente, ma una creatura che prescinde dal tempo e dallo spazio. Con le Elegien Rilke si congeda del tutto dall’estetica della cosa e fa sua la critica di fine secolo alla modernità; il poeta ritiene che l’uomo moderno abbia perso la capacità degli antichi di dare forma nei miti ai sentimenti dell’animo umano e che il mondo sia dominato dall’astrazione. Se nelle Neue Gedichte aveva tentato di dare forma a questa astrattezza, nelle Elegien accetta che non è più possibile far rivivere il passato mitologico, ma rifiuta un’arte astratta: compito del poeta è quello di trasformare gli oggetti della realtà per renderli cifra dell’interiorità (Verwandlungspoetik, poetica della metamorfosi). Scosso dalla morte precoce della figlia, malata di leucemia, in pochi giorni Rilke scrive di getto i primi 25 Sonetten an Orpheus, che dedicherà alla giovane come una sorta di monumento funebre. Nel ciclo predomina la disponibilità alla trasformazione e il rifiuto di ogni immobilità. La fonte principale del mito sono leMetamorfosi di Ovidio. Ma il cantore appare trasfigurato nei sonetti di Rilke: il poeta lo rappresenta come colui che col suo canto ha domato la natura selvaggio e ha saputo vincere la morte. Orfeo è colui che è capace di trasformare il mondo in canto e condurre dalla concretezza all’astrazione. A differenza degli angeli, creature dell’invisibile, vive tra il visibile e l’invisibile, può scavalcare il confine tra il regno dei vivi e quello dei morti, mostrando come la metamorfosi sia la costante dell’esistenza umana. I Sonetten sono le poesie dell’uomo che è ben consapevole di essere destinato alla morte, ma che, ciononostante, è capace di cogliere con i sensi la bellezza delle cose e cantare l’assenso alla vita. La poesia dei Sonetten an Orpheus ha perso la plasticità delle Neue Gedichte; non è più la pittura, ma la musica l’arte a cui più si avvicina. Non è più l’immagine delle cose ma la loro voce a svelarne l’essenza. Vi è per l’io poetico un’assoluta identità tra l’esistere e il cantare, tra la lirica e la vita. Nel 1922, poco dopo la fine del lavoro alle Elegien e ai Sonetten, inizia per Rilke un calvario che avrà fine solo con la morte. Fanno la loro comparsa i primi sintomi della malattia, una leucemia acuta, che i medici riusciranno a diagnosticare solo pochi mesi prima della morte. 5.Letteratura, psicologia e critica del linguaggio In Schnitzler e in Kraus emergono altre forme di superamento dello Jung Wien e della poetica del fine secolo: il Café Griensteidl, dove Bahr aveva incontrato per la prima volta Hofmannsthal, è di nuovo il luogo predestinato di queste trasformazioni. Con Die demolierte Literatur nel 1987 Kraus avvia la sua polemica sarcastica, che lo vedrà protagonista della cena letteraria viennese per molti decenni, e proprio Bahr, Schnitzler e Hofmannsthal sono tra i primi obiettivi delle sue critiche. La vivacità polemica di Kraus è al tempo stesso una testimonianza della vitalità della letteratura viennese e in genere della ricchezza culturale dell’impero austro-ungarico. Non meno di Kraus, Schnitzler resta per molti decenni un protagonista indiscusso del teatro viennese; con lui viene alla ribalta nella storia letteraria della modernità tedesca la centralità del rapporto tra letteratura e introspezione psicologica. Tale introspezione produce altresì un’innovazione delle tecniche di rappresentazione: ilmonologo interiore, il rinnovamento del linguaggio attraverso il confronto con il flusso di coscienza, si presenta già nel 1900 con la narrativa di Schnitzler. Una delle differenze più significative rispetto al naturalismo consiste nella problematizzazione dell’io, nell’indagine della vita psicologica. Da tele problematizzazione emerge la fragilità esistenziale, che contraddistingue la modernità: ne deriva un senso di crisi, che apre però verso nuove prospettive di libertà. In Kraus, la critica al linguaggio convenzionale e alla sua corruzione attraverso l’uso che ne fanno i giornali, si accompagna alla ricerca di un linguaggio originario e autentico, che ha contraddistinto precedenti esperienze letterarie. Arthur Schnitzler. Insieme a Hofmannsthal e Bahr egli è uno dei protagonisti del gruppo dello Jung Wien, che ricerca una nuova letteratura oltre il naturalismo. Alla fine del 1900, quando Schnitzler è già un autore affermato di teatro e prosa, nel giornale viennese “Die neue Freie Presse” pubblicò un lungo racconto, Leutnant Gustl, che può essere considerato come una delle realizzazioni più significative di quell’arte dei nervi, Nervenkunst, che aveva rappresentato uno dei presupposti dello Jung Wien; l’intero racconto infatti riferisce attraverso una tecnica narrativa nuova, fondata sul monologo interiore e sul flusso di coscienza. Il racconto non si limita a riferire le sensazioni provate dal protagonista e di raccoglierle al fine di mostrare la raffinatezza della sua Karl Kraus. La figura di Kraus emerse con singolarità nel panorama culturale dell’impero asburgico ormai prossimo al tramonto e riuscì a inserirsi nel clima della nuova Austria repubblicana creatasi dallo sgretolamento dell’impero. Ai poeti simbolisti lo univa la fede nella purezza e nella potenza del linguaggio incorrotto, per questo motivo Kraus perseguì la precisione linguistica con rigore. La presenza di Kraus in un contesto storico-letterario, se per un verso è giustificata dalla sua grande produzione poetica, dall’altro deve confrontarsi con un’immensa attività saggistica e giornalistica, comprendente una grande mole di scritti polemici. Kraus è partecipe di un atteggiamento diffuso tra molti letterati del tempo, poiché l’opera di questo autore quasi presagisce la prima guerra mondiale, assumendola in seguito come tragica conseguenza di un generale imbarbarimento di una grave insensibilità etica della cultura, da cui discendono sia l’asservimento della lingua per scopi propagandistici sia il predominio della tecnica. La critica che egli portava avanti nei confronti della società era moralistica: Kraus credeva in valori etici assoluti e li contrapponeva alla realtà a lui contemporanea. Egli si illudeva che la propria battaglia contro la menzogna e i pregiudizi dell’ “opinione pubblica” fosse una delle forme dell’eterna lotta tra spirito e materia. L’altro contrassegno dei testi krausiani è la virulenza di parole con le quali l’autore conduce un assalto al conformismo politico e alla banalità linguistica. Ne discende il tratto di una spiritualità che non trova eguali nel dibattito dei decenni in cui Kraus, specie grazie al periodico “Die Fackel”, del quale cura la pubblicazione dal 1899 fino alla morte, assunse il ruolo di propositore di una scrittura militante. A determinare gli esordi è la frequentazione di quella sorta di tempio della poesia che Hermann Bahr, propugnatore di un’istanza di rinnovamento dell’arte, allesti tra i tavoli del Café Griensteidl. Nel suo primo lavoro edito in veste autonoma, Die demolierte Literatur del 1987, Kraus prende spunto dalla chiusura del locale per indicare i princìpi ispiratori del suo stile. Nel ritratto quasi caricaturale di Bahr e dei suoi adepti, tra cui Hofmannsthal e Schnitzler, si possono riconoscere un linguaggio sincero fino ai limiti dell’aggressività e l’avversione verso qualsiasi tentativo di aggregare la poesia e la cultura intorno a scuole o cenacoli. L’antipatia con cui Kraus guarda ai gruppi, ai movimenti e ai manifesti, se da un lato gli impedirà contatti fruttuosi con le avanguardie, dall’altro segna la difficoltà dell’autore di uscire dalla sfera dell’autoreferenzialità. La conduzione della “Fackel” si legge come il paradigma di un attivismo pubblicistico nel cui solco confluirono le più disparate modalità espressive, dal dramma all’aforisma, dalla satira di costume alla critica letteraria, fino all’annotazione giornalistica. Dal suo osservatorio viennese Kraus ingaggia aspre battaglie verbali, che dapprima mirano a contrastare l’egemonia della “Neue Freie Presse”, e successivamente si concentrano sulla missione di dare voce alla visione dell’autore, fondata su un rigore morale. Il periodo che precede il conflitto mondiale vede la progressiva identificazione di Kraus con la “Fackel”, che a partire dal 1912 riporta unicamente la firma del proprio fondatore. È anche questo un segnale dell’insofferenza di Kraus nei riguardi di gran parte della intellighenzia viennese. La serie delle pubbliche letture krausiane venne inaugurata nel 1910 a Berlino e si protrasse fino a poche settimane prima della scomparsa dell’autore; laddove non lesse le sue medesime opere, Kraus si cimentò con un repertorio di tenore classico: Goethe, Schiller o lo stesso Shakespeare, del quale Kraus rivisita le traduzioni di diversi drammi e sonetti. Questi testi vengono offerti come gli esempi migliori di un linguaggio dell’origine, così come lo intendeva Kraus, vale a dire composto da parole che dicano l’essenza delle cose, senza per questo rinunciare alla propria connotazione poetica. Il rimpianto per tale purezza originaria indusse Kraus a difendere una posizione letteraria di netta matrice conservatrice, fondata sull’idea di un tempo attuale che opera una costante corruzione della natura originariamente pura del linguaggio. Per questo motivo il linguaggio corrisponde all’asse portante dell’intera costruzione krausiana. Il più cristallino della teoria linguistica di Kraus si presenta senza dubbio nelle liriche contenute nei nove volumi deiWorte in Versen, pubblicati tra il 1916 e il 1930. Eppure, è nell’opera più nota di Kraus, Die letzten Tage der Menschheit, composta tra il 1915 e il 1917 che si incontrano, sul piano di una scandalosa attività politica e di una satira feroce, le linee della ricerca sul linguaggio. Fu definito una “tragedia” e fu strutturato come un grande collage di documenti sugli avvenimenti della guerra. In quest’opera, Kraus si rivela un documentarista conscio del fatto che a volte la realtà supera la finzione. In questo dramma, dietro alla descrizione di una Vienna succube del conformismo imposto da un apparato propagandistico, allestito dalla stampa per giustificare la disumanità di una guerra, sono ravvisabili istanze comuni alle avanguardie, dalla simultaneità dei quadri fino al disegno di scenari apocalittici. Tuttavia, l’inconciliabilità di Kraus rispetto al dettato espressionista e a quello dadaista consiste nella passione per la precisione quasi maniacale della parola e nel suo conseguente rifiuto della pantomima. In tal modo, l’uso di materiale desunto dai giornali, dai comunicati militari e dagli atti giudiziari serve per Kraus a denunciare l’origine della barbarie, che egli individuava nel travisamento di significati impuri, attribuiti alle parole a seconda delle convenienze. La fine della guerra, con il crollo dell’impero asburgico travolse il mondo krausiano. Gli anni che seguono il 1918 vedono l’autore reagire alla trasformazione subita dal suo ambiente in modo talvolta contraddittorio, come testimonia l’oscillazione delle simpatie poetiche dell’autore tra l’appoggio dell’area socialdemocratica e la condivisione di convinzioni comuni all’austrofascismo di Dollfuss, fino al silenzio osservato di fronte all’ascesa del nazismo. Questo ultimo aspetto risultò però chiarito dalla pubblicazione postuma, nel 1952, di Die dritte Walpurgisnacht, uno scritto del 1933 che indaga con acume le cause dell’avanzata di Hitler e tra esse individua il fascino perverso delle abnormità linguistiche e in particolare delle aberrazioni fraseologiche perpetrate dai nazisti e dai loro sostenitori. Il Kraus maturo tende a ridurre l’incidenza della valutazione soggettiva per aprirsi a una particolare forma di ricerca che ancora una volta si incentra sulle riflessioni intorno al linguaggio. Kraus intensifica il proprio studio del linguaggio nel tentativo di sottrarlo alle mode e agli utilitarismi politici, ideologici e giornalistici. Fin dal 1923, Kraus accarezza il progetto di una grammatica, e nel 1932 raduna interventi già apparsi nella “Fackel” e li sistema in una raccolta dal titolo Die Sprache, che uscirà postuma nel 1937, un anno dopo la morte dell’autore. Essa emoziona ancora oggi per la passione che Kraus profuse al servizio di un uso più attento della lingua tedesca, e insieme suscita ammirazione per la vasta conoscenza della poesia tedesca, dimostrata dall’ampio ventaglio di citazioni. Robert Walser. L’arte dell’autore svizzero Robert Walser (1878-1956) si lega strettamente alla sua vicenda autobiografica. La sua opera costituisce un documento per una migliore comprensione della spiritualità tedesca ed europea della prima parte del ‘900. D’altro canto, proprio una tale aderenza alla contemporaneità rende inevitabile per Walser un confronto con le mode della sua epoca, che si risolve in manifesta insofferenza verso ogni inquadramento sistematico. Da un simile atteggiamento deriva una scrittura tesa e nervosa, in cui i picchi di creatività si alternano alle cadute ai limiti del soliloquio. Le questione della “modernità” di Walser offre la chiave per una lettura delle sue opere nella corretta prospettiva storica in cui esse si situano e che insieme contribuiscono a definire. La produzione walseriana non si configura seguendo un itinerario precostruito, di maturazione o di involuzione, bensì si segnala proprio per la sua vena anarchica, senza tuttavia che l’autore tenda ad alcuna forma di assoluto isolamento dal proprio tempo. La confutazione dei concetti di sviluppo e progresso sembra essere in questo senso la cifra principale dell’arte di Walser, il filo conduttore di una scrittura. Legato alla sua terra natale da un profondo senso di ammirazione (Biel), Walser non si mostra interessato a giocare con i risvolti di un nazionalismo culturale. Non è, Walser, tra gli autori da inscrivere nella Heimatliteratur perché nelle sue vicende biografiche elaborate nella sua opera letteraria, le bellezze naturali della Svizzera sono ritratte spesso come sagome sfuggenti, quasi stereotipi sullo sfondo della Urbanität. Una delle principali caratteristiche del poeta è l’evocazione, quasi sempre fugace, del genius loci. Ciò che innalza Walser al di sopra della letteratura localistica è proprio l’impronta sovranazionale della sua formazione e ancor più degli anni della sua produzione giovanile. Pertanto, Walser è l’autore che a pieno diritto va annoverato tra i grandi europei del secolo scorso, in virtù della sua arte germinata dal particolare ma per intuizione e per esperienza cresciuta nell’universale. La personalità poetica di Walser si forgia in un fine secolo decisivo per l’affermarsi di una sensibilità moderna. In tale contesto si inserisce la passione giovanile per il teatro che impronta di sé un gran numero di testi dell’autore. Il ritmo della poesia di Walser è scandito dall’alternanza di percezione e riflessione, una scelta comune a molti contemporanei, che tuttavia nel caso dell’autore svizzero diventa imperativo e motivo esistenziale. Walser avanza in questo modo in una sorta di presente poetico. Gran parte della sua originalità, che lo fa sfuggire a ogni incasellamento, risiede proprio in questa ambiguità sospesa tra l’essere cantore del provvisorio e, per l’altro, tra il rimanere consapevole dell’irripetibilità dell’attimo. È a Berlino, tra il 1905 e il 1913, che Walser vive una stagione che lo segnerà profondamente, fino a determinare il corso della sua esistenza, oltre che la sua arte. Si collocano in questo periodo tre romanzi che ancora oggi richiamano l’attenzione di gran parte della ricerca walseriana. Si tratta di I fratelli Tanner morte del padre, la scelta per la letteratura divenne definitiva, così come il suo trasferimento a Monaco. Pur nella divergenza di carattere con il fratello, tra il 1895 e il 1901 Heinrich viaggiò spesso in Italia insieme a Thomas, ammirato dal più giovane fratello per la sua indipendenza e la sua attività letteraria già consolidata. Proprio a Roma nel 1897 i due fratelli iniziarono la stesura dei loro più significativi romanzi d’esordio: I Buddenbrook da parte di Thomas, che fu pubblicato nel 1901, e Nel paese di Cuccagna che Heinrich pubblicò nel 1900 e che considerò sempre come la sua vera prima opera letteraria. Il romanzo, sospeso tra realismo ed estetismo, era ambientato nella Berlino di fine secolo e narrava le vicende di un giovane scrittore di provincia che aveva avuto modo di sperimentare su di sé l’arbitrio di un mecenatismo artistico dettato da facili regole commerciali. Nel 1902 Heinrich Mann pubblicò una delle sue opere di maggior successo, la trilogia Die Göttigen oder die drei Romane der Herzogin von Assy dove viene raffigurata la parabola esistenziale di Violante, duchessa d’Assy, nelle sue tre esperienze della libertà politica: nel segno della dea Diana, dell’arte, nel segno della dea Minerva e dell’eros nel segno di Venere. La trilogia è una delle espressioni più significative di una visione isterica del Rinascimento, che ebbe notevole diffusione nella letteratura europea di fine secolo; attraverso questo culto estetizzante del Rinascimento la grande cultura letteraria dell’Italia cinquecentesca veniva rivissuta. Professor Unrat racconta la storia del progressivo degrado di un professore di liceo di una città di provincia del Nord della Germania, presumibilmente la stessa Lubecca, che, nella ricerca di una punizione esemplare per tre suoi allievi invaghitisi di un’attrice di varietà, giunge a innamorarsi e a sposare egli stesso l’attrice. Il professore è così costretto ad abbandonare l’insegnamento e si perde insieme alla nuova moglie in un vortice di debiti e di truffe, fino a diventare l’attrazione scandalistica della piccola città, prima che uno dei suoi allievi lo denunci e lo consegni all’autorità giudiziaria. Unrat, ovvero spazzatura, è il nomignolo che è stato dato da sempre per generazioni di allievi al professor Raat, un docente di discipline umanistiche che, indotto dalla scoperta di alcune poesie d’amore verso una canzonettista, trovate casualmente nel quaderno di un suo allievo, Unrat va alla ricerca del locale, appunto Der blaue Engel, dove si esibisce l’attrice Rosa, per cogliere sul fatto i suoi allievi e poterli denunciare al preside. La ricerca della punizione induce però Unrat a tornare quotidianamente nel locale, fino a essere coinvolto nei raggiri, ma anche nell’affiorare di un sentimento per l’attrice. Il tiranno quindi, lo strenuo sostenitore di una morale rigida e ostinato persecutore dei suoi allievi, è destinato a perdersi in un degrado inarrestabile, fino all’inevitabile arresto suo e dell’attrice proprio in seguito alla denuncia dell’allievo. In Professor Unrat è di nuovo protagonista un luogo, la scuola, che più volte si ritrova nella letteratura tedesca del primo ‘900. Accanto a ciò, anche un altro luogo svolge nel romanzo un ruolo centrale: il cabaret, anch’esso protagonista della letteratura tedesca d’avanguardia. Alla base della denuncia sociale del romanzo vi è in primo luogo un effetto di smascheramento, attraverso il quale il tiranno del liceo di provincia si rivela pervaso da pulsioni nascoste e l’ordine stabilito si mostra come una semplice convenzione. Anche in questo caso, come in quello di Schnitzler, sembra delinearsi una convergenza tra capacità di introspezione psicologica e opera letteraria, anche se l’autore non ebbe rapporti diretti con Freud; è infatti soprattutto Nietzsche, più volte presente indirettamente nel romanzo (sia nella caratterizzazione di Unrat che in quella dello studente che denuncia il professore) a ispirare con la sua indagine di una genealogia dei valori morali questo effetto di smascheramento. Questo romanzo mette così in luce un’altra fondamentale categoria stilistica del primo ‘900 in Germania: quella del grottesco. In particolar modo è il protagonista, in ogni suo aspetto, una deformata caricatura di personaggi tipizzati, tratti dall’osservazione della realtà contemporanea allo scrittore. Il grottesco provoca un effetto di dilatazione, creato da una raffigurazione deformante della realtà data e di quanto normalmente osservato. L’ingigantimento dei fenomeni rappresentati, il venir meno delle proporzioni consuete, è uno degli aspetti fondamentali del grottesco, che è stato inoltre un fenomeno fondamentale dell’espressionismo e del dadaismo; esso non si fonda sulla semplice rivelazione dell’assurdità, ma invita a guardare alla realtà oltre le norme consuete e a rendere problematica la normalità quotidiana; attraverso la deformazione degli oggetti rappresentati, induce allo stupore o allo spavento, provocando quindi il riso, come anche il disgusto. Il romanzo più noto e significativo di Heinrich Mann, Der Untertan (Il suddito), venne concluso dallo scrittore nel 1914 ma riuscì a essere pubblicato solo nel 1918 grazie all’eliminazione della censura seguita alla fine dell’impero guglielmino. Al centro del romanzo c’è Heißling, del quale l’opera, attraverso una parodia del Bildungsroman, ricostruisce le diverse tappe della vita, dalla scuola all’università fino al matrimonio e al successo. Egli è il modello del perfetto suddito, imbevuto di nazionalismo e di servilismo verso ogni forma di potere, e nello stesso tempo tirannico verso ogni sottoposto o ogni familiare; in questo autoritarismo verso il debole egli riversa la sua fragilità interiore e la sua limitatezza intellettuale. Lo stile rapido e telegrafico, talvolta simile allo slogan, rende a volte faticoso il romanzo, in quanto esso resta in contrasto con l’ampiezza della narrazione. Successivamente l’autore pubblicò nel 1915 sulla rivista “Die weißen Blätter” uno dei suoi saggi principali, Zola, che determinò una rottura col fratello Thomas. Per molti versi quella dell’autore era una personalità opposta a quella del fratello per concezione letteraria, per modo di scrivere, per opinioni politiche. A lui lo legavano i dubbi nutriti nei confronti di tradizioni che, durante il Secondo Reich, avevano perso del tutto il loro senso, mentre a dividerlo da lui era una diversa valutazione del significato politico della letteratura. Alle Betrachtungen eines Unpolitischen che Thomas pubblicò nel 1917 in polemica con il saggio del fratello, Heinrich aveva contrapposto col suo saggio la figura di Emile Zola, che gli dà il titolo. Heinrich Mann, nel delineare nello scrittore francese il modello dello scrittore attivamente impegnato nella società, intendeva criticare soprattutto gli scrittori e gli intellettuali tedeschi, e in primis suo fratello, che continuavano a sostenere l’entrata della Germania in guerra e la sua posizione nel corso del conflitto. Heinrich desiderava ergersi a paladino della verità e della giustizia, del diritto e dello spirito. Come letterato della civilizzazione, Heinrich venne presentato dal fratello, senza mai essere espressamente citato, nelle Considerazioni di un impolitico. Il problema della democratizzazione della società tedesca alla conclusione dell’impero guglielmino e della funzione che in essa potevano svolgere gli scrittori e gli intellettuali rimase una questione di grande complessità. Heinrich, nel corso della Repubblica weimariana assunse un ruolo di primo piano, evidenziato dalla partecipazione, e poi dalla presidenza, della sezione letteraria dell’Accademia prussiana delle arti. Nel 1933 fu costretto all’esilio, che trascorse in Francia; l’amore per la cultura francese traspare ancora nei due romanzi storici La giovinezza del re Enrico IV e La maturità del re Enrico IV. Nel 1940 lo scrittore si trasferì negli Stati Uniti e quimorì nel 1950, senza riuscire a ritornare in Germania, dove nella Repubblica democratica gli era stata offerta la presidenza della nuova Accademia delle arti. Prima della sua morte, l’autore compose ancora altre opere, tra cui il romanzo Empfang bei der Welt (Ricevimento nella buona società), una sorta di compendio dei suoi romanzi giovanili sulla società borghese, un’opera grottesca su quella “gente per bene” che aveva già ritratto con tanto sarcasmo nel primo romanzo. In tal modo si chiuse il cerchio della sua produzione artistica. Thomas Mann. Il primo libro pubblicato da Thomas Mann (1875-1955) fu una scelta di racconti uscita nel 1898. La novella che dà il titolo alla raccolta, Der kleine Herr Friedemann contiene già alcuni tratti basilari della narrativa manniana: l’apparente, fredda riservatezza dell’osservatore analitico, l’attenzione minuziosa ai dettagli, il determinismo nel ritrarre i personaggi, soprattutto in considerazione della loro provenienza sociale, come anche, e soprattutto, l’inclinazione dell’autore a universalizzare i destini degli uomini, ricavandone esempi di contraddizioni tipiche della natura umana. Per questa via prende forma l’antitesi fra il cittadino medio, individuo “normale”, uomo felice e di successo, e gli altri, le persone “problematiche” che percepiscono un doloroso dissidio interiore, causato da certe particolarità psichiche o fisiche che le separano dalla vita normale: questa fluisce dinanzi ai loro occhi estranea e gelida, restando, pur tuttavia, oggetto del loro desiderio. Il gobbo Friedemann, figlio di una rispettata famiglia patrizia, è un esempio di persona estranea alla vita: respinto dalla donna amata, subisce un crollo psicologico e soccombe. Thomas aveva una particolare predilezione per il dio Ermes. Questa figura della mitologia greca trova, sotto molteplici forme, una ricorrente rappresentazione nei suoi racconti e romanzi. Nell’immaginario greco antico Ermes assolveva a una vasta gamma di incarichi: messaggero degli dèi, protettore dei commercianti, come anche guida delle anime degli Inferi; in tale veste egli accompagna i viaggi da un mondo a un altro, mette l’uno in relazione con l’altro, è un mediatore. Quello della mediazione, della sintesi tra poli opposti è un tema al quale Mann rimane profondamente interessato per tutta la vita. Nella sua visione del mondo è intrisa di tesi e antitesi, di polarizzazioni culturali. Questa forma del pensiero riappare nelle sue opere in molte varianti di contrasti: tra Nord e Sud, tra Oriente e Occidente, tra cultura e civilizzazione, tra spirito e arte, tra borghese e artista. In questa “strategia di polarità” spetta una funzione importante anche ai una fonte indispensabile per la comprensione dell’estetica manniana: a differenza delle sue posizioni politiche, quelle estetiche rimarranno le stesse già analizzate a fondo nelle Considerazioni. La polarizzazione delle Considerazioni è quella tra “cultura” e “civilizzazione”, tra i valori della Germania e della Francia, tra una impoliticità come espressione dello spirito germanico e un atteggiamento politico dell’Occidente sulla scia degli ideali della Rivoluzione francese. Se da un lato l’autore sembra difendere la cultura in lotta contro la civilizzazione, dall’altro anche quest’ultima risulta essere una dimensione non del tutto alinea all’autore. L’importanza dei diversi punti di vista non risiede nei loro contenuti, bensì nella forma; la dinamica del gioco che contrappone una all’altra senza che mai nessuna prenda il sopravvento. Questo atteggiamento ludico rappresenta una dimensione fondamentale dell’artista e dell’arte, e se l’atteggiamento politico costringe a una presa di posizione ben precisa, quello dell’esteta è libero da tali costrizioni, poiché assenza di costrizioni e sperimentazione di prospettive sono condizioni indispensabili affinché l’opera d’arte si compia. Questa sinfonia dei diversi punti di vista è una delle tecniche su cui si basa la composizione del romanzo La montagna incantata, la cui stesura viene portata a termine nel 1924. Il titolo inusuale allude al luogo in cui è ambientato il romanzo: un sanatorio svizzero, in cui i malati di tubercolosi conducono un’esistenza che li estranea dalle abitudini della vita attiva. A poco a poco perdono il senso del tempo, cadono in uno stato di indifferenza. Il protagonista, un giovane ingegnere, è una figura a cui calza a pennello il titolo del romanzo di Musil: un “uomo senza qualità”. Al contrario della maggior parte degli altri pazienti, si immerge nell’ambiente che lo circonda spinto da una vera sete di conoscenza: osserva infatti la realtà con lo sguardo acuto di chi la valuta criticamente. Il protagonista non intorpidisce nel lungo riposo prescrittogli dai medici, anzi, in lui si risvegliano interrogativi di cui, in precedenza, non aveva neppure sospettato l’esistenza. Il mondo della Montagna incantata è un sanatorio in cui si riflette la patologia della società: esso, infatti, rappresenta la metafora centrale del romanzo. Davanti ai nostri occhi, dunque, si dispiega il quadro di un’epoca e di una società, raffigurato dal punto di vista della malattia. Quando lascerà il sanatorio, avrà assimilato nozioni proprie delle correnti intellettuali dell’Europa borghese al tempo della prima guerra mondiale. Alla fine il protagonista fa ritorno a casa, a un’esistenza che, nel 1914, più che vita significava morte. L’amara ironia dell’epilogo risiede proprio in questo trasferirsi dell’eroe da un luogo di morte all’altro: da un’istituzione in cui la morte è resa confortevole a un mondo in guerra, teatro della terribile morte di milioni di uomini. Si percepisce subito la modernità del romanzo, individuabile nella scarsità dell’azione a favore di lunghi passi riflessivi e saggistici, nella distanza ironica del narratore nei confronti delle figure. L’estetismo descritto nelle Considerazioni diventa il principio sotteso all’impianto del romanzo, che sul piano del contenuto si manifesta nell’atteggiamento che caratterizza il protagonista. Questo sperimentare diversi punti di vista riguarda non solo il protagonista Castorp, ma anche il lettore stesso, quando assiste alle battaglie ideologiche tra due personaggi antitetici, senza che il confronto venga mai risolto a favore dell’uno e dell’altro. Il tema dell’educazione del protagonista avvicina La montagna incantata al romanzo di formazione, ma la distanza ironica che separa il narratore dalle sue figure è riscontrabile nell’autore che si allontana dai generi letterari tradizionali, che risultano praticabili solo in chiave parodistica. L’esito del percorso di Castorp rimane aperto: il narratore non è onnisciente e non è in grado di dare indicazioni circa il futuro del protagonista. Il rapporto di Mann con i diversi generi della tradizione letteraria non è però caratterizzato solo da quella ironia che gli consente di riproporre questi generi in chiave moderna, ma dal suo estetismo, che rimane il motore della tecnica di montaggio portata qui a suprema maestria: La montagna incantata si presenta, fin dal titolo, come fiaba artistica, un genere creato da quella tradizione letteraria tedesca a cui Mann si sentiva legato: il romanticismo. La scissione tra una dimensione del meraviglioso (la montagna incantata, per l’appunto) e una dimensione della realtà è un elemento romantico e, al contempo, spie dell’estetismo dell’autore che accosta e fonda i più diversi elementi, stili e generi della tradizione letteraria, creando qualcosa di nuovo e irriducibile a univoche definizioni: in questo risiede la modernità del protagonista. Un titolo dall’assonanza fiabesca si ritrova anche nel raccontoMario und der Zauberer (Mario e il mago, 1930), ma il racconto ha ben poco di una fiaba: ambientato nell’Italia del ventennio fascista, l’opera non descrive solo un Paese profondamente cambiato dal regime, ma anche la dinamica che intercorre tra ilmago Cipolla e il suo pubblico durante uno spettacolo serale. L’ipnosi con cui egli lo soggioga e lo priva della libera volontà, costringendolo a quella propria, funge dametafora di un regime totalitario già al potere in Italia e in procinto di assurgervi in Germania. Al di là della sua dimensione politica, il racconto rappresenta, ancora una volta, due posizioni antitetiche. Due sono i maghi, due gli artisti, due i protagonisti: Cipolla e l’io narrante. Come in Der Tod in Venedig, la situazione narrativa è complessa; se però nella novella veneziana è il protagonista a diventare, a tratti, il narratore, ora è il narratore a diventare, a tratti, il protagonista. Di nuovo, il gioco con protagonista e narratore: di nuovo un racconto di riflessione estetica. L’arte di Cipolla è costrizione, è il contrario di quell’arte che si esprime nel gioco delle diverse prospettive evocata nelle Considerazioni; è insomma, politica. L’antagonista del mago Cipolla è il narratore. Un’arte che mira al controllo totale dell’individuo può essere percepita dal narratore solo come agli estremi antipodi della propria estetica. Dal 1906 fino al 1942, Mann si impegnò nella stesura del suo opus magnum, la tetralogia biblica Joseph und seine Brüder suddivisa in Le storie di Giacobbe, Il giovane Giuseppe, Giuseppe in Egitto e Giuseppe il nutritore. Nella storia della sua pubblicazione si rispecchiano le vicende politiche che accompagnano la stesura del romanzo e lo influenzano. I primi due volumi vengono pubblicati ancora in Germania, come sempre presso l’editore Fischer di Berlino, il terzo esce a Vienna e il quarto a Stoccolma. Ma lo stesso Mann è costretto all’esilio, trascorso dapprima in Svizzera, poi negli Stati Uniti. Solo tre anni prima della morte, l’autore tornerà in Europa, scegliendo la neutrale Svizzera piuttosto che l’una o l’altra parte di una Germania divisa. La scelta di porre al centro della propria attività un romanzo di matrice ebraico-biblica proprio in quel periodo storico non è casuale. Il confronto con il fascismo e la presa di distanza da esso risiede però anche nell’impiego del mito. Ai tentativi di stampo reazionario di riattivare il mito nella sua potenzialità irrazionale, Mann oppone un nuovo utilizzo del mito che designa con la formula “mito e psicologia”. Il secondo elemento del binomio indica un approccio analizzante al mito, grazie al quale esso può essere letto e decodificato. Ciò implica un rapporto libero e, nel caso di Mann, anche ludico, con il mito. Sul piano della rappresentazione letteraria questo atteggiamento disinvolto si manifesta nella combinazione di più diversi miti, approccio che raggiunge i risultati più significativi nella fisionomia del protagonista Giuseppe: egli sa, a differenza dei fratelli, di far parte di un mito. Il suo percorso è caratterizzato dalla consapevolezza che lo preserva dal soccombere all’irrazionalità del mito: egli recita la propria parte, sapendo però che sta recitando e mantiene perciò sempre una distanza critica. Il romanzo descrive un movimento teologico ascendente. È la linea che porta da una fase evolutiva inferiore a quella superiore, da una originaria fase matriarcale a quella successiva patriarcale. Il mediatore è Giuseppe, il cui carattere di artista emerge dalla sua posizione intermedia tra un polo e l’altro. Il lavoro alla tetralogia biblica venne interrotto dalla stesura di un romanzo: con Lotte in Weimar tornava il tema dell’identità culturale tedesca, nonché di quella dello stesso autore. In un momento storico in cui la Germania stava per soccombere alle barbarie nazista, Mann evocava con il classicismo di Weimar e il suo rappresentante, Goethe, ilmomento culminante della cultura tedesca. Il romanzo era, ancora una volta, una riflessione estetica di estrema complessità. Già il titolo, infatti, accosta una figura letteraria, Lotte, oggetto della passione di Werther, a un lungo reale. Il modello di Lotte, Charlotte Kestner nata Buff, torna dopo anni a Weimar per rivedere l’autore che l’ha resa immortale trasformandola in finzione letteraria. Un aspetto di grande modernità è il rapporto tra l’autore e il modello delle figure da lui create; il tema del rischio, dunque, di ridurre a mero materiale per fini letterari l’essere reale di una persona. Se il Giuseppe e Lotte in Weimar riflettevano solo indirettamente gli eventi storici del periodo relativo alla loro stesura, il romanzo Doktor Faustus (1947) si confrontava direttamente con la catastrofe tedesca. Lo scopo è quello di giungere alla rappresentazione letteraria di ciò che rappresentabile forse non è: la genesi del nazismo, che appare come frutto apocalittico di una caratteristica predisposizione specifica della cultura tedesca. Non è dunque casuale che l’autore ricorra a una figura emblematica della tradizione popolare, ovvero quel Dottor Faustus che è il protagonista dell’omonimo libro popolare apparso nel 1587. È questo personaggio, e non il Faust goethiano, a fare da modello al protagonista del romanzo, il compositore Adrian Leverkühn. Ad essere ripresi sono i due elementi centrali della leggenda faustiana: il patto col diavolo e il peccato di superbia, che si manifesta in una curiosità peccaminosa mirante al superamento dei propri limiti e a conoscenza sempre più vaste. Adrian è un’artista, e il problema dei limiti e del loro superamento gli si pone su un piano estetico, ed è proprio un fine artistico, infatti, quello per cui vende la propria anima al diavolo: la realizzazione di un’opera musicale del tutto nuova. Come il diavolo di Goethe, anche quello manniano appare in chiave psicologica come scissione dell’io del protagonista. Come Giuseppe, anche Adrian assume un ruolo mitologico, cammina sulle tracce mitiche di Faust. Ma il percorso di Adrian si rivela essere una regressione. A differenza di Giuseppe, consapevole di recitare un ruolo mitologico, rendendo possibile una sempre crescente individualizzazione, l’identificazione di Adrian con Faust è proporzionale al progredire della sua malattia mentale. È errato leggere le opere precedenti di Musil come preparazione del suo grande romanzo; ma indubbiamente una concezione sperimentale della letteratura, fondata su un dialogo costante tra arte e scienza, costituisce una caratteristica strutturale di queste opere. Per comprendere le due novelle di Incontri del 1911, Il compimento dell’amore e La tentazione della silenziosa Veronica, è utile considerare la teoria dell’appercezione, che lo scrittore sviluppa in alcuni frammenti in preparazione alle novelle; questa teoria sviluppa la distinzione tra pensieri vivi e pensieri morti, con la quale si concludeva il Törless. Musil distingue infatti la percezione della realtà e del mondo, quella che produce i pensieri morti, da una percezione più profonda della propria identità, nella quale il rapporto tra il fattore intellettuale e quello emozionale viene alterato; da questa alterazione deriva un’immagine più interiore e carica di sentimento del mondo, quella dimensione dei pensieri vivi già precedentemente indagata. Nel Compimento dell’amore il tema del racconto non è rappresentato dal tradimento della protagonista con un funzionario incontrato casualmente durante un viaggio, ma proprio dalla ricerca di un significato più alto del sentimento di amore. La protagonista vive, infatti, quasi nel sogno del compimento “di un grande e puro amore”. Thomas, il protagonista dei Fanatici, presenta affinità con Ulrich, l’uomo senza qualità; eppure, le due opere sembrano muoversi in dimensioni diverse. Nell’Uomo senza qualità, uno dei romanzi più significativi del nostro secolo, immenso affresco della cultura tardoborghese, Musil sembra aver scoperto l’ironia come strumento per indagare l’equilibrio tra fattore intellettuale e fattore emozionale della percezione; tale equilibrio produce così il presagio di una dimensione più alta della vita, che deve però essere ricercata attraverso la contemplazione ironica e distaccata delle mille sfaccettature del mondo quotidiano. In tal modo la scoperta dell’ironia si collega a un radicamento nella storia e nella complessità della società: questo radicamento nella storia è la conseguenza più evidente che il primo conflitto mondiale ha prodotto sull’opera musiliana. Questo confronto con la storia e con la realtà del dopoguerra emerge con chiarezza nei due grandi saggi Spirito ed esperienza e L’Europa abbandonata a se stessa ovvero viaggio di palo in frasca, dove Musil constata la casualità che domina la storia universale, lamalleabilità del carattere umano, pronto a cadere dalle altezze dei più alti valoro religiosi, etici e culturali ai delitti più efferati, che la guerra mondiale ha reso esperienza quotidiana. Ad avviso dello scrittore, “l’esperienza della guerra ha messo sotto gli occhi di tutti che l’uomo si spinge facilmente sino all’estremo, e torna indietro, senza cambiare natura. L’uomo muta, ma non muta se stesso”. Questa trasformazione interiore riconduce all’equilibrio tra fattore razione e fattore emozionale della percezione, ovvero a quel rapporto che ora Musil definisce come relazione tra lo stato razioide e lo stato non razioide, sulla quale si fonda ogni esperienza dell’uomo. Ricreare questa relazione tra i due stati significa definire un nuovo ordine dei valori artistici, etici e religiosi. È necessario così, secondo Musil, superare ogni contrapposizione tra il pensiero scientifico e le pretese dell’anima, che contraddistingue la crisi culturale della modernità, giungendo alla determinazione di una “direzione nella quale impegnarsi”, ovvero di un “nuovo modo di utilizzare tanto la scienza quanto la poesia”. La complessità di questo progetto estetico è testimoniata dal lungo processo compositivo, dal quale scaturì il suo romanzo principale, processo nel quale si può isolare una data, il 1926, quando Musil annunciò la conclusione del suo romanzo, con il titolo di La sorella gemella. Tal romanzo non apparve mai, e solo nel 1930 venne pubblicato L’uomo senza qualità e la conclusione del romanzo, con l’incontro della sorella gemella del protagonista, veniva rinviata al secondo volume dell’opera. Nel primo volume del romanzo vi è il confronto del protagonista con la realtà storica. L’Uomo senza qualità rappresenta una delle massime espressioni artistiche del ‘900. Per non smarrirsi nella vastità dei suoi temi, è consigliabile avvicinarsi ai primi 19 capitoli del romanzo, raccolti insieme in Eine Art Einleitung (Una specie di introduzione), dalla quale, aggiunge Musil nel titolo del primo capitolo, “non si ricava nulla”. Ritorna in questa precisazione ironica quel carattere fondamentale della sua narrativa, ovvero la scarsa considerazione delle circostanze esteriori al fine di concentrare tutta la sua attenzione sulle motivazioni più profonde dell’accadere. Tale carattere riconduce alla categoria fondamentale sulla quale viene costruito il romanzo, ovvero quel “senso della possibilità” che viene teorizzato nel quarto capitolo “come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe essere”. La possibilità è anteriore al costruirsi della realtà, include quindi in sé un carattere dinamico di trasformazione; essa pertanto considera il mondo come un campo di energie in continuo mutamento, come un insieme di correlazioni che mettono in contatto fenomeni diversi. Le categorie tradizionali della narrazione, come la determinazione del tempo, del luogo e dell’identità dei protagonisti vengono messe in discussione, de-costruite attraverso una considerazione ironica. I meccanismi tradizionali del racconto devono essere smontati, e la narrazione si interseca con la riflessione sulle possibilità stesse del raccontare; per questo lo scrittore rifiuta di considerare la sua opera come un romanzo storico e la definisce con la categoria del “saggismo”, nella quale questo carattere processuale del romanzo e questo rapporto tra narrazione e riflessione viene definito con precisione. Il “senso della possibilità” costituisce la categoria fondamentale di tutte le concezioni sostenute dal protagonista, in primo luogo del suo essere un “uomo senza qualità”. La prima definizione di questa Eingenschaftlosigkeit (essere senza qualità) viene data nel capitolo 17 da un amico del protagonista: l’uomo senza qualità gli appare come il tipico prodotto della modernità, di una società di massa dominata da un forte processo di estraniazione, così che tutti gli uomini sembrano interscambiabili e aver smarrito una propria specifica identità personale. Questa definizione è naturalmente ironica: la Eigenschaftlosigkeit è per il protagonista, Ulrich, una conseguenza diretta della possibilità, del considerare le qualità del proprio carattere come dinamiche, come momenti di uno sviluppo. Il punto di partenza storico dell’Uomo senza qualità appare il passaggio dall’ordinato progresso della borghesia del secondo ‘800 a una nuova “rivoluzione intellettuale”, tipica della cultura di fine secolo. Le generose aspettative del fine secolo si sono però esaurite per un verso nello scoppio della prima guerra mondiale (il romanzo di Musil si svolge prima del 1914 ed è una rappresentazione di come la società europea andasse con leggerezza incontro all’abisso della guerra) per l’altro nell’emergere di una società di massa, che ha inglobato in sé ogni manifestazione della vita culturale. Il rapporto tra Ulrich e Agathe, la sorella gemella, è al centro del secondo volume dell’Uomo senza qualità, apparso nel 1933 e alla cui continuazione lo scrittore lavorò fino alla sua morte nel 1942 a Ginevra, dove si era rifugiato dopo il 1938 e dopo l’annessione dell’Austria alla Germania nazista. Il materiale postumo che accompagna la stesura del romanzo testimonia la profondità del tentativo compiuto da Musil di giungere a una sintesi spirituale nuova, e di definire un rapporto tra arte, scienza e filosofia. Franz Kafka. A metà degli anni 20, Döblin scrisse in un appunto che la letteratura tedesca contemporanea possedeva un autore annoverabile tra le personalità in assoluto più interessanti della storia della prosa narrativa. Questo scrittore era Franz Kafka (1883-1924). Nato a Praga (la Praga prebellica era allora parte della monarchia austroungarica) da una famiglia di origine ebraica, in cui si parlava tedesco, compì studi giuridici e fu impiegato nella città natale presso una compagnia di assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro. Nell’ottobre del 1915, su un’importante rivista dell’espressionismo letterario, “Die weißen Blätter”, venne pubblicato un ampio racconto di un giovane scrittore, Franz Kafka, scritto tra il 1912 e il 1913. Si tratta di Die Verwandlung, uno dei racconti più significativi e famosi dello scrittore praghese. Nonostante l’esitazione a pubblicare i suoi testi che giudicava in genere non riusciti, una stima generalizzata circonda il giovane scrittore nei circoli letterari praghesi del tempo e in genere nella società letteraria tedesca di allora. L’autore, inoltre, era allora ben lontano dall’immaginare che i suoi testi avrebbero acquistato un significato superiore al valore regionale e sarebbero assurti a testimonianza universale della letteratura del nostro tempo. L’originalità del racconto è indubbia: una mattina, Gregor Samsa, un commesso viaggiatore, svegliandosi, si ritrova trasformato in “un enorme insetto immondo”. La suametamorfosi è destinata ad essere irreversibile: l’insetto è destinato a essere eliminato dai suoi stessi congiunti, costretti dalla trasformazione del protagonista a vivere sempre maggiori ristrettezze economiche. Lamorte dell’insetto, dunque, riesce a liberare i genitori e la sorella dall’assunzione di difficili decisioni rispetto al suo destino, così che possono essere ristabilite all’interno della famiglia condizioni normali di vita, che ora, dopo la morte di Gregor, si aprono a nuove speranze e prospettive. La chiarezza della prosa kafkiana contrasta con l’apparente oscurità del racconto, per orientarsi nella quale si è spesso indotti a ritrovare nella narrazione alcuni aspetti della biografia dell’autore. Un confronto tra il racconto e una delle testimonianze autobiografiche lasciate dallo scrittore, la lettera al padre, scritta nel 1919 senza però mai essere inviata al destinatario, può fornire alcune indicazioni per accostarsi al racconto: nella lettera veniva ricordato un insulto frequente sulla bocca del padre, rivolto a uno dei rari amici dello scrittore, confrontato a “un insetto ripugnante”. La paura sempre nutrita verso la figura paterna e verso il suo autoritarismo, creò nello scrittore un senso di profonda insicurezza esistenziale, sempre accompagnato dalla sensazione di una colpa insuperabile. Nella Metamorfosi questa separazione tra la famiglia e il protagonista viene materializzata proprio attraverso l’improvvisa trasformazione di Gregor Samsa in un gigantesco e deforme insetto. conquiste recenti della tecnica è il resoconto di un viaggio negli Stati Uniti pubblicato tra il 1911 e il 1912 dallo scrittore Arthur Holitscher sulla rivista “Die neue Rundschau”. L’analisi della modernità va di pari passo con lo smarrimento di identità del protagonista, il quale resta invischiato in avventure con figure grottesche e ai margini della società. L’oscillazione tra un profondo senso di colpa individuale e una raffigurazione della modernità, che caratterizza questo primo tentativo di romanzo compiuto da Kafka, è un indizio della sua complessa formazione culturale. La tradizione ebraica esercitò senz’altro un influsso profondo sull’universo culturale dello scrittore, e sicuramente l’opera kafkiana è difficilmente concepibile al di fuori dell’ambiente dell’intellettualità ebrea praghese all’inizio del ‘900. Il rapporto di Kafka con l’ebraismo si approfondì nel 1911 con l’amicizia con l’attore Löwy, organizzatore di un teatro in lingua jiddish per la cui affermazione lo scrittore si attivò di persona. Attraverso Löwy, Kafka ebbe modo di ritrovare le lontane origini della propria religiosità ebraica, restituite all’autenticità del loro primitivo messaggio, così fu indotto ad approfondire la propria conoscenza dell’ebraismo. Nello stesso tempo rimase però sempre viva nello scrittore la consapevolezza di una lontananza da quelle origini, di una difficoltà di piena identificazione con quelle radici lontane. La letteratura, quindi, doveva svolgere per lo scrittore una funzione sostitutiva rispetto all’esperienza religiosa, liberando la sua soggettività e lasciandola sconfinare in un regno di possibilità e di immaginazioni. La realtà di invenzione di Kafka è alogica, eppure giunge sotto le spoglie della logica e della naturalezza, tanto più che in essa vengono simulati i dettagli del mondo concreto in una maniera così precisa da destare l’impressione della familiarità. Le figure umane sembrano comportarsi in modo normale, ma le loro reazioni sono simili alle movenze di marionette; affrontano le situazioni in cui vengono a trovarsi senza chiederne i motivi e le cause. Uno dei contrassegni più evidenti di simile prosa è la struttura del paradosso. Vi vengono rappresentate situazioni assurde, come se fossero assolutamente razionali e quotidiane: questo mondo stravolto porta il marchio della realtà universale. La lingua di Kafka, al pari di un tratto di pennello gelido e preciso, è pacata, priva di passioni, oggettivistica, non metaforica, letteralmente priva di colori, come un film in bianco e nero. Il romanzo più noto di Kafka, Der Prozess, l’unico che, pur non portato a termine dallo scrittore, mostra un inizio e una conclusione; nel penultimo capitolo, un predicatore, rivolto al protagonista del romanzo, caduto senza aver commesso alcuna colpa nella rete di un tribunale, racconta la parabola di un uomo che vuole entrare “nella legge”, ma ciò gli viene impedito dal guardiano. In questa attesa egli consuma gran parte della sua vita, finché, dopo moltissimo tempo, trova la forza di porre al guardiano la sua ultima domanda e apprende in tal modo, sul punto di morire, che quella porta era destinata solo a lui. Il colloquio successivo tra il predicatore e il protagonista esamina le possibilità di interpretazione della parabola, centrate sull’ipotesi del protagonista circa il possibile inganno subito da parte del guardiano. Il predicatore, che si oppone a questa ipotesi, deduce la necessità dell’apparente menzogna del guardiano: “non è tutto vero, mentre invece si deve credere che tutto sia necessario”. La reazione del protagonista è significativa nell’osservare quanta malinconia sia implicita in tale conclusione, perché in tal modo lamenzogna, insita nel processo subito dal protagonista, apparirebbe come l’unica norma universalmente valida. Nel Processo ritroviamo a un livello più alto temi e procedure già analizzati nel caso dellaMetamorfosi: vi è innanzitutto un continuomutamento delle prospettive, attraverso il quale dalla vita quotidiana del protagonista, un procuratore di banca, si passa all’interno del misterioso tribunale, dove si celebra l’enigmatico processo contraddistinto da continui rinvii, attese e da giudici che restano invisibili. Questo mutamento delle prospettive, ruota attorno a due dimensioni: quella psicologica, dell’assunzione da parte del protagonista di una colpa indefinita ma destinata a trascinarsi lungo tutta la sua esistenza, e quella di un fittizio ordine giuridico, nel quale vengono sublimati i conflitti interiori del protagonista stesso. Anche il Processo, come la Metamorfosi, è la narrazione di un’autocondanna: la letteratura si configura come la sperimentazione di questa assunzione di colpevolezza portata ai suoi estremi. Ma accanto a questa sperimentazione di un’autocondanna, la letteratura si trasforma in un atto d’accusa verso quel mondo, dove l’unica forma universale è unamenzogna generalizzata, contro cui solo l’opera letteraria riesce a contrapporre quelle obiezioni, che il protagonista del romanzo avrebbe voluto formulare prima di morire. Nelle raccolte di racconti, curate dallo stesso scrittore o successivamente riordinate da Max Brod, come Ein Landarzt e Beim Bau der chinesischen Mauer questa concezione della letteratura sostenuta da Kafka riesce a realizzarsi in numerose variazioni, nella conformazione delle situazioni sempre imprevedibili, con le quali lo scrittore proiettò la sua interiorità e le domande mai risolte di una complessa situazione esistenziale. 7.Approfondimento e oltrepassamento dell’espressionismo Georg Trakl e Gottfried Benn approfondiscono quella ricerca di un nuovo linguaggio lirico, entrando in contatto con l’espressionismo. Nello stesso tempo, in entrambi i poeti si assiste a un processo di oltrepassamento della stessa poetica espressionista: nel caso di Trakl ciò è connesso all’originalità della sua opera e al suo isolamento intellettuale. Nel caso di Benn tale oltrepassamento, oltre che sul piano tematico e formale, è dovuto anche a semplici considerazioni di carattere cronologico, visto che la sua opera continuerà a svilupparsi fino agli anni 50 del ‘900 e si aprirà a nuove problematiche, e in particolare a una peculiare concezione della storia e del suo intrinseco rapporto con la forma artistica. In Trakl come in Benn è peraltro del tutto assente un carattere fondamentale dell’espressionismo, ovvero il pathos umanitario, la concezione dell’arte come appello e rivolta. Domina invece in entrambi un’estetica negativa, che si muove alla ricerca di una nuova dimensione dell’arte e della letteratura. I temi della decomposizione, l’esperienza del nichilismo antropologico come condizione della modernità occupano una posizione di primo piano nei due poeti. Centrale resta la sperimentazione del linguaggio lirico, la ricerca di un nuovo ritmo espressivo, la percezione dei limiti del linguaggio e nello stesso tempo delle sue ricchissimi potenzialità espressive. Georg Trakl. Alla fine del 1919 apparve, curata da Kurt Pinthus, la raccolta Menschheitsdämmerung. Symphonie jüngster Dichtung, destinata a divenire una delle testimonianze più significative dell’espressionismo letterario. L’antologia pubblicava tra l’altro dieci componimenti poetici del poeta austriaco Georg Trakl, deceduto nel novembre del 1914 in circostanze tragiche all’età di 27 anni; le sue poesie erano ripartite in tre delle quattro sezioni dell’antologia, ma nessuna delle poesie di Trakl venne pubblicata nella terza sezione dell’antologia Appello e rivolta, proprio perché nel poeta era del tutto assente uno dei tratti più tipici dell’espressionismo, ossia quello del pathos messianico fondato sull’abbraccio con un’umanità mitizzata. La poesia di Trakl che appariva per la prima volta nell’antologia di Pinthus era intitolata De profundis; fu composta dal poeta nell’ottobre del 1912 e subito dopo pubblicata nella rivista “Der Brenner”, curata dall’amico Ludwig von Ficker. In essa già emergono alcuni aspetti salienti della poetica di Trakl. La natura viene descritta attraverso alcuni elementi essenziali: la pioggia, l’albero e il vento, ricondotti a dei colori usati in modo non realistico, come il nero della pioggia. Nella spoglia tristezza di questa natura compare la figura enigmatica di un’orfana, che si colloca nei suoi tratti delicati in contrasto con la natura scarna. La sua figura si carica di significati simbolici, che rinviano a una dimensione religiosa e che sono spesso ricorrenti nella poesia: ella, infatti, è in attesa del suo sposo, ma un tale incontro non ha luogo, e la dolcezza della fanciulla è destinata alla morte e all’imputridirsi; questo tema della putredine è fondamentale in tutta la poesia di Trakl. A ritrovare il corpo morto sono dei pastori, e anche in questo motivo ritroviamo un’oscillazione, tipica del poeta, tra una connotazione realistica dell’ambientazione in una natura primordiale e la sua trasposizione verso una dimensione simbolica con chiare valenze religiose, tratte da una rielaborazione della tradizione neotestamentaria. In questo universo angosciante, l’io del poeta può solo ridursi a un’ombra, e l’io oscilla così tra la corruzione di ciò che si decompone e la polvere di stelle di una pallida dimensione trascendente. I componimenti di Trakl sfuggono quindi a ogni interpretazione univoca e si realizzano attraverso questo approfondimento del linguaggio e delle sue radici sonore: De profundis si articola in versi liberi e strofe di diversa lunghezza, nelle quali si alternano versi più lunghi e distesi con versi molto brevi. Per spiegare il carattere enigmatico della poesia di Trakl si è spesso ricorso alla sua biografia, anch’essa non di facile decifrazione. Egli era nato a Salisburgo nel 1887, quarto di sette fratelli. Sull’infanzia di Trakl vi sono testimonianze che affermano che soffrì di un’acuta ipersensibilità, che lo portava a estraniarsi dalla realtà e a rinchiudersi in un mondo personale di visioni spesso ossessive. Il rapporto con la scuola era destinato a peggiorare durante la frequenza del liceo, quando Trakl fu indotto a rinchiudersi ulteriormente in sé stesso dalle letture e dai primi esperimenti letterari. Lesse Nietzsche, Dostoevskij e molto altro, e l’eco di queste letture influenzò le sue composizioni poetiche. sparso, e una quiete più alta attraverso la quale tale dolore sovrumano può trovare espressione. Proprio immersa nella quiete di un bosco silenzioso appare l’ombra mitica della sorella, qui espressione simbolica di una superiore bellezza in grado di riscattare la morte, la quale saluta gli spettri dei caduti. Il tema della religiosità insita nella poesia di Trakl è stato più volte affrontato dagli interpreti; indubbiamente quella di Trakl fu una forma di religiosità non ortodossa, vissuta come orizzonte di un’angoscia esistenziale. Secondo un’affermazione che risale al poeta, proprio l’esperienza della sofferenza e della miseria umana avrebbe potuto fornire agli uomini la possibilità di “riconoscere il Signore Gesù Cristo”. Simboli della tradizione neotestamentaria, come il pane e il vino, sono non di rado presenti nella poesia di Trakl; in Grodek certamente non appare alcuna figura di Cristo, semmai è presente un dio irato animatore di conflitti e dolori. In ogni caso anche in Grodek, come in gran parte della produzione lirica di Trakl, l’evocazione del dolore non cela mai la possibilità di una sua trasfigurazione in una dimensione più alta, aperta alle infinite possibilità interpretative del linguaggio e dell’arte. Gottfried Benn. Tra gli autori che traslarono sul piano artistico le crisi di quel periodo, conservando per tutta la vita una visione coerente dell’espressionismo, Gottfried Benn è di certo la personalità più eminente.Medico specialista in malattie veneree e della pelle a Berlino, il poeta mantenne sempre separate la sfera privata e quella artistica, al punto che affermò di condurre una doppia vita (come recita il titolo della sua autobiografia Doppelleben, Doppia vita, 1950). Nella già ricordata antologia espressionista, Menschheitsdämmerung apparsa alla fine del 1919, vennero pubblicate anche otto delle liriche più significative di Gottfried Benn, in gran parte tratte dal ciclo diMorgue (Obitorio), che il poeta aveva pubblicato nel 1912. Al contrario di Trakl, Benn ebbe un ruolo più definito all’interno della letteratura espressionista: in Morgue la carica provocatoria verso i valori tradizionali era intenzionale e lo stesso tema della grande città e della trasformazione antropologica da essa causata era presente nelle liriche raccolte. L’ossessione poetica di Benn è la realtà osservata negli ospedali e negli obitori, una realtà che penetra nuda e brutale nei versi, senza essere filtrata da alcuna riflessione estetica tradizionale. Le immagini della putrefazione, della carne intaccata dal cancro e delle viscere sanguinanti si allineano le une alle altre senza alcun tipo di sentimentalismo. Le sue poesie sono la rappresentazione di una miseria priva di senso, sono testi di un’ “antipoesia” espressionista colma di disprezzo per le ipocrite norme sociali del bello. Altri temi della cultura del primo ‘900, come il contrasto tra arte-scienza, rappresentavano già inMorgue momenti centrali del discorso poetico di Benn. Le poesie raccolte inMorgue, infatti, raccolgono la trasposizione poetica dell’esperienza di Benn come medico in un grande ospedale di Berlino e il lavoro di dissezione anatomica, che egli aveva l’occasione di compiere a causa della sua professione; questa esperienza lavorativa permetteva di osservare attraverso la malattia, la degenerazione o la morte, alcuni aspetti della vita ai margini di una metropoli moderna. Nel 1912 Benn, nato a Mansfeld nel 1886, aveva 26 anni e da poco aveva concluso i suoi studi di medicina a Berlino, dopo aver abbandonato quelli di teologia ai quali era stato avviato dalla famiglia; il padre infatti era pastore protestante. Questo contrasto tra una coscienza religiosa ereditata e la formazione scientifica trova espressione in una delle poesie più significativa diMorgue, Requiem, selezionata per la sua rappresentatività inMenschheitsdämmerung. La poesia descrive la sala della dissezione anatomica di un ospedale, con due cadaveri dissezionati collocati sullo stesso tavolo; la descrizione si compie attraverso versi spezzati dove spesso manca il verbo. Il racconto dei corpi e del loro dissezionamento prende forma attraverso un montaggio di valenze simboliche, attraverso cui diviene percepibile la contiguità tra generazione e decomposizione, tra nascita e morte. L’accatastamento dei corpi nella sala anatomica non tiene conto delle differenze di sesso, e cadaveri di uomini e donne si trovano confusamente tra loro sovrapposti. La nudità dei corpi confusamente avvicinati è priva di ogni bellezza, e riconduce alle ferite non rimarginate che squarciano quei corpi macerati. Tale estetica negativa è ancor più evidenziata dalla raccolta di singoli organi umani, con la vicinanza di materia cerebrale e di apparati genitali: sembra che queste parti del corpo nella poesia tendano ad accoppiarsi tra loro in unioni del tutto improbabili. Così, prima di venire rinchiusi nelle loro bare, questi corpi dissezionati sembrano per un’ultima volta generare una nuova vita. Vi è dunque in Requiem, attraverso la rappresentazione dei corpi sezionati nella sala anatomica, non una descrizione realistica di quanto osservato, ma una sintesi quasi visionaria dell’intero ciclo vitale tra generazione, crescita e morte, ridotto in decomposizione. Questa estetica negativa raggiunge il suo apice nel ricollegarsi a motivi religiosi, evidenti fin dal suo stesso titolo; in particolare, la seconda delle tre strofe è emblematica di un capovolgimento di valori e gerarchie, così che la dimensione dello spirito e della sessualità si confondono tra loro. In tale estetica negativa è senz’altro presente una forte carica di provocazione, che testimonia una ricerca esistenziale tesa a ritrovare un fondamento di autenticità non menzognera. Requiem riassume molti dei temi di Morgue. Originale è D-Zug, dove si assiste alla rappresentazione poetica di un fenomeno nuovo della metropoli moderna, ovvero l’emergere del tempo libero, dei nuovi mezzi di trasporto e delle brevi vacanze di massa. Non vi è in questa poesia decomposizione, ma la sessualità viene ricondotta alla sua essenzialità di un incontro insieme tanto primordiale nella sua fisicità quanto raffinato nell’evocazione di sensazioni e profumi lontani ed esotici. Le liriche diMorgue sono spesso percorse da quella ricerca, talvolta indotta dall’assunzione di droghe, di una nuova fioritura prima del dissolvimento, la quale rigenera la vita dell’individuo attraverso quello che il poeta definisce una Nervenmythe, un mito prodotto da un’intensificazione della vita nervosa e intriso delle nevrosi della modernità. La lirica O Nacht testimonia questa ricerca, accompagnata da un’altra forma di dissoluzione dell’individualità: il traboccamento esistenziale al quale Benn aspira tende a ricreare un nuovo Ichgefühl, un nuovo sentimento dell’individualità, fatto di frammenti tenuti insieme da quel “fermaglio” al quale è ormai ridotto l’io. L’originalità della poesia di Benn nell’espressionismo è proprio in questa capacità di generare le visioni cosmiche, mediante questa forma di dissoluzione intellettualistica. Nella lirica degli anni ‘20 le premesse poste inMorgue si affiancano a uno sperimentalismo formale inesauribile. Le contaminazioni della prima raccolta poetica si affiancano a composizioni diverse, in cui la parola è ridotta a puro fatto sonoro, a elemento decontestualizzato e ritessuto in un insieme straniante che restituisce un’immagine frammentata della realtà. I corpi in putrefazione diMorgue sono diventati l’espressione allegorica di una realtà anch’essa in putrefazione, le cui residue parti dotate di senso si riconoscono a stento. In questo riconoscimento del nulla come contenuto ultimo di ogni realtà umana risiede il senso del rifiuto benniano della storia come matrice di valori. Ma dalla stessa radice scaturisce anche il significato del lavoro di Benn sui miti dell’antichità che caratterizza una raccolta come Trunkene Flut (Flutto ebbro). L’uomo dell’età moderna riconosce la nullità dei miti, che però continuano a essere associabili alle parole. La poesia benniana degli anni 20, 30 e anche 40 rappresenta una specie di esaltazione del dilettantismo decadente. Non poche poesie e prose benniane danno voce a questo pessimismo storico che perviene a un radicale nichilismo; basti pensare a un saggio come Sul tema storia dove si legge “è impossibile immaginare una specie animale in cui ci sia tanto disordine e assurdità, una specie simile sarebbe da un pezzo scomparsa dalla fauna”. Per Benn la storia è il luogo della violenza e dell’insensatezza, e ritiene che la vita trovi giustificazione solamente in quanto fenomeno artistico; pertanto riconosce come unica trascendenza possibile l’atto della creazione artistica. Nell’arte (nei versi perfetti e nella bellezza della musica) è racchiusa l’eternità, sono ingeniti un senso e un messaggio che riescono ad arrestare il tempo; tutto il resto è casuale. Al cospetto di simili considerazioni, che appartengono al Benn degli anni 40, il momentaneo avvicinamento al nazismo tra il 1933 e il 1935 appare solo come un equivoco, come il disperato tentativo di immaginare una radicale inversione di rotta della storia. Al cospetto del nulla che avvolge l’uomo resta, unica certezza, la forza creativa dell’io poetico, la capacità di plasmare parole che nell’esprimere la vuota nullità del mondo affermano però la verità assoluta della loro perfezione formale. La parola, che descrive il disfacimento dei corpi in Requiem, o che assembla i frammenti sparsi della storia, è sempre una misura formale perfetta. 8.Nuove forme della letteratura austriaca Attraverso le opere di Joseph Roth e Hermann Broch vengono analizzati gli sviluppi che la letteratura austriaca ha nel corso del primo ‘900 e nuovi aspetti del romanzo di lingua tedesca in questo periodo. L’opera di Roth si concentra soprattutto sul ricordo del grande l’esito di una ricerca formale a sé stante, ma come lo strumento che consente alla conoscenza di non abbandonare la sfera esistenziale e di continuare l’indagine sul significato dell’amore, sul senso della vita e sul mistero della morte. La prima fase del curriculum vitae di Broch sembra destinarlo a una perfetta integrazione con il mondo borghese. Nato nel 1886 da un’agiata famiglia ebraica e laureatosi in ingegneria, prosegue l’attività paterna nell’ambito dell’industria tessile. La svolta avviene nel 1927, anno in cui l’autore decide di dedicarsi esclusivamente alla scrittura. L’attività letteraria di Broch precedente a questa svolta si riduce a Eine methodologische Novelle del 1918: l’aspetto più interessante di questo primo tentativo letterario consiste nel fatto che l’intento programmatico, sottolineato già nel titolo, è il vero motivo che spinge l’autore alla composizione. Broch procederà sempre, affidandosi al metodo sperimentale, a costruire le trame come esperimento e personaggi come automi per dimostrare la fondatezza delle sue tesi. Il protagonista della novella, il professor Zaccaria, è vittima della disgregazione del sistema dei valori e rappresenta già il prototipo di tutti i successivi antieroi brochiani. Zaccaria, infatti, ha scelto di dedicarsi alla matematica solo per ottenere mediante il superamento dell’esame di abilitazione all’insegnamento un lasciapassare per il quieto vivere borghese. Sarà l’esperienza amorosa a renderlo consapevole del fallimento a cui sono soggetti coloro che rifiutano di accettare il carattere unitario della realtà. Quando la sua amante gli rinfaccia di amare solo il suo corpo, Zaccaria comprende che il rimprovero è giusto ma, incapace anche solo di immagine per l’amore terreno una dimensione trascendente in cui sensi e sentimenti si fondano, intravede come unica soluzione possibile al suo problema quella del suicidio di coppia. Broch non stabilisce una gerarchia tra spirito romantico e spirito scientifico, ma li condanna entrambi per denunciare l’errore dell’uomo moderno che si affida a sistemi di valori parziali e non assoluti. Dal punto di vista formale la Methodologische Novelle sostiene la necessità che l’opera narrativa riprenda le tecniche della composizione musicale. La musica, a differenza della logica, parla un linguaggio che, pur essendo razionale, è comprensibile alla sfera della volontà, del desiderio e dei sentimenti: perciò è il medium più adeguato per esprimere quel sistema di valori assoluti attorno a cui ruota l’opera di Broch, che fallisce nel tentativo di ricostruire questa totalità infranta, ma trova il suo punto di forza nel renderne tangibile l’assenza nel fragore delle voci che si sovrappongono senza fondersi in una melodia. Ha esordito come scrittore con la trilogia Die Schlafwandler (I sonnambuli) a cui si dedicò dal 1929 al 1932. L’autore ha adeguato di volta in volta l’organizzazione stilistica dei singoli romanzi alle correnti letterarie in voga nel periodo in cui si svolge l’azione, muovendosi dalla narrativa tradizionale fino agli esperimenti modernisti. Il primo romanzo, Pasenow oder die Romantik è ambientato nella Berlino del 1888 e narra le vicende di un giovane, destinato dalle sue origini alla carriera militare e al matrimonio combinato con una ricca aristocratica. Pur avvertendo che l’uniforme è solo una maschera e presagendo che l’amore potrebbe configurarsi come unione mistica, il tenente Pasenow sceglierà infine la carriera militare perché la tradizione gli garantisce la possibilità di continuare a sognare e perciò a vivere mentre smascherare il carattere illusorio della realtà implicherebbe la necessità di confrontarsi con il vuoto di valori. Il sonnambulismo dei personaggi di Broch è dunque da intendersi come una diagnosi della condizione dell’uomo moderno, che di fronte al bagliore di una rivelazione volge nuovamente lo sguardo verso i valori imposti dal sistema in cui è collocato, perché sa che ad attenderlo al risveglio non ci sarebbe la realtà, ma solo il nulla. L’antitesi di Pasenow è costituita da Bertrand che, abbandonando l’esercito per dedicarsi all’attività commerciale, accetta di sfidare il vuoto di valori, ma va incontro al fallimento, finendo col suicidarsi. La seconda parte della trilogia Esch oder die Anarchie è ambientata in Renania nel 1903 e vede come protagonista un piccolo contabile che tenta di emendare il mondo da quelle ingiustizie che gli appaiono come errori di calcolo nel libro mastro della realtà. Il termine anarchia, è stato scelto da Broch per descrivere l’essenza della personalità di Esch, la cui condizione di sonnambulo si manifesta nell’incapacità di distinguere tra valori etici e pulsioni. Anche nel finale del secondo capitolo della trilogia si arriva a una soluzione regressiva: Esch, incapace di un intervento sulla realtà che lo circonda, sposerà una vedova per trovare scampo nel benessere economico a quelle inquietudini che avrebbero potuto condurlo al risveglio. Rispetto alle due opere del ciclo, che presentano uno svolgimento lineare, Hugenau oder die Sachlichkeit segna una rottura anche sul piano formale. La formula “romanzo polistorico”, scelta dallo stesso Broch per definire la sua opera, non si riferisce alla diversa ambientazione spaziale o cronologica delle parti della trilogia, ma tenta di descrivere l’aspetto più innovativo della poetica di Broch, la complessità di una struttura che mira a eliminare la successione cronologica per ricostruire l’unità infranta nella dimensione del simultaneo o, se si preferisce, dell’eterno. Nella terza parte della trilogia, Hugenau, intento a compiere la sua ascesa sociale, avverte che il cristianesimo rappresenta l’antitesi dei suoi princìpi. Essendo quest’ultimi completamente avulsi dalla morale, Hugenau si propone come uomo libero dai valori, ma la sua libertà è solo il correlato di una fase storica; e infatti la vicenda si svolge nel 1918, negli ultimi mesi di quel conflitto mondiale che, nonostante tutto, avrebbe dovuto costituire lo spartiacque tra i precedenti sistemi di valori e un’auspicata rinascita. Analizzando lo stile di pensiero delle epoche passate, Broch arriva alla conclusione che la radice dei mali della modernità sia da ricercarsi nel passaggio dal Medioevo al Rinascimento, quando la certezza nell’esistenza di Dio viene sostituita dal metodo scientifico che, con il suo amore per la ricerca, sembra preferire il dubbio della verità. Tuttavia, forse per Broch era necessario risalire ancora più indietro e l’unica vera antitesi al moderno era rappresentata dall’ebraismo, da cui lo stesso cristianesimo si era sviluppato mediante una scissione. Successivamente, Broch si dedicò alla riscrittura di un suo precedente testo nato come copione cinematografico: Die unbekannte Grösse, (L’incognita, 1934). A causa della sua origine, il romanzo si configura come eccezione nel corpus delle opere di Broch per la sua linearità e perciò consente di mettere a fuoco il nucleo della sua poetica: il confronto tra razionalità e misticismo. Protagonista è un giovane matematico che, a differenza di Zaccaria, crede che la sua disciplina abbia generato dei princìpi applicabili anche alla vita. Confrontandosi con esperienze legate al binomio di eros e thànatos, dovrà infine accorgersi di quanto fragile fosse la sua fede nella razionalità del reale. L’antitesi tra mythos e logos sarà il tema principale anche del successivo progetto di Broch, quel Bergroman (Romanzo della montagna) che lo accompagnerà fino alla morte e verrà pubblicato postumo. Al centro della trama, da leggersi anche come parabola sull’ascesa di Hitler, vi è uno straniero che, servendosi della leggenda dell’oro sepolto nelle viscere della montagna, diventa dittatore di un piccolo villaggio austriaco, mentre la precedente guida della comunità muore. Il capolavoro di Broch è Der Tod des Virgil del 1945. Dal punto di vista biografico, l’esperienza di una breve prigionia nelle carceri naziste del 1938 fu sicuramente determinante, perché stimolò in Broch una riflessione sulla catabasi alla morte. La trama dell’opera coincide con il monologo interiore che accompagna Virgilio nelle ultime 18 ore di vita, dopo lo sbarco a Brindisi, ma la stessa tecnica del flusso di coscienza vanifica questa indicazione cronologica e nell’agonia del poeta convergono i ricordi del passato nella speranza che la morte conferisca loro un senso. Il poeta, nel tentativo di giustificare la propria vita e la propria opera, è costretto a cimentarsi con il compito di costruire una cosmogonia. A sostegno di ciò Virgilio mobilita tutto un arsenale di stili, di generi letterari, di simboli e di citazioni che lo avvicinano alla meta e, proprio per questo, lo rendono consapevole della sua irraggiungibilità. Virgilio e il suo alter ego Broch sembrano dunque condividere con Benn il presupposto secondo cui un cosmo armonico si dia nelle epoche di crisi quali la modernità solo come esito di un’operazione cosmetica. È innegabile che La morte di Virgilio presenti affinità con un’operazione cosmetica tesa a mascherare il vuoto di valori con l’illusione della pienezza. Infatti, il romanzo è un ipertesto sottoposto a una procedura di compressione affinché il maggior numero possibile di piani semantici, simboli e citazioni possano intersecarsi in ogni pagina. La poetica romantica della semiosi infinita viene elevata da Broch, che costruisce una catena di simboli in modo tale che ogni anello sia il punto di fuga verso nuovi significati. Mediante questa tecnica narrativa Broch, alla ricerca come Virgilio di un valore assoluto, vuole sottolineare proprio l’inadeguatezza del linguaggio poetico. L’illusione della pienezza è il medium scelto dall’autore per risvegliare la percezione di quel vuoto che potrà essere riempito solo dopo essere stato riconosciuto in quanto tale. Il motivo del conflitto dell’intellettuale con il potere è sicuramente un tema rilevante, ma è subordinato alla riflessione poetologica. Al centro del romanzo sta la seguente domanda: l’opera di tutta una vita, il grande poema epico su Enea, deve essere conservata, secondo il volere dell’imperatore, oppure data alle fiamme? Il dialogo tra Virgilio e Augusto è uno dei rari passi che consente di cogliere le posizioni dei personaggi: da una parte abbiamo l’imperatore che vuole salvare l’Eneide per legittimare il suo potere e dall’altra il poeta che vuole distruggere il manoscritto per impedirne una strumentalizzazione politica. Il ruolo della letteratura nelle epoche di crisi è dunque quello di farsi guida per l’oltrepassamento di un limite, mostrando con il proprio fallimento la necessità di un rinnovamento. L’attività saggistica di Broch durante l’esilio in America fu ispirata dall’esigenza di far luce sulle dinamiche che avevano reso possibile l’ascesa del nazismo. Questo filone della sua produzione fu accorpato in una raccolta postuma per cui fu il curatore a scegliere il titolo diMassenpsychologie. Broch ora applica le categorie della psicoanalisi per spiegare ricoverato in una casa di cura mentale. Fra il 1903 e 1904 Hesse pubblicò a puntate sulla “neue Rundschau” il suo romanzo Peter Camenzind. Autobiografico, incentrato sul tema della realizzazione e del distacco dalle relazioni e dai vincoli imposti, quest’opera rappresentò il primo vero successo dello scrittore svevo. Nel 1911 egli decise di partire per l’Oriente insieme ad un amico. Dopo aver visitato la Malesia, Singapore e Sumatra, ne racconta le impressioni nel volume intitolato Aus Indien, Aufzeichnungen von einer indischen Reise dato alle stampe nel 1913. La vera scoperta fu rappresentata dalla dimensione culturale di quei popoli, nei quali Hesse finì per vagheggiare il proprio ideale di comunità da proporre a un’Europa disgregata, su cui incombevano le minacce delle guerre, dei nazionalismi, della perdita di unità morale e spirituale. Ad aggravare lo stato di prostrazione morale in lui fu lo scoppio della guerra, a cui corrisponde l’appello redatto nel 1914, dal titolo Oh Freunde, nicht diese Töne! (Oh amici, non usate questi toni!) dagli accenti universalisti che gli costarono l’accusa di tradimento, con cui intendeva diffondere un’intesa al di sopra delle divisioni culturali, una condizione ai suoi occhi per una futura pacifica convivenza dello spirito europeo. D’altro lato Hesse aveva mostrato un’attitudine ambivalenti nei confronti della guerra: si era presentato all’inizio come volontario e, anche se dichiarato inabile al servizio, si adoperò per tutta la durata del conflitto a sostegno dei soldati feriti per fini di aiuto. Nel 1916, una grave crisi nervosa colpisce Hesse. È in quest’epoca che si registra uno dei momenti più tormentati nell’esistenza di Hesse. Nel 1919, Hesse si trasferì nella Svizzera italiana, dove diede l’avvio all’attività di pittore e da cui avrebbe visto la luce il corpus maggiore della sua opera letteraria. Nell’anno seguente apparvero i romanzi brevi Klein und Wagner ed ebbe inizio l’amicizia con Hugo Ball. Siddharta, eine indische Dichtung (Siddharta, un poema indiano) fu pubblicato nel 1922, allorché Hesse decide di assumere la cittadinanza svizzera e di divorziare dalla prima moglie. Nel 1947, Hesse ricevette il premio Nobel per la letteratura. Volendo individuare la cifra unificante della sua opera, essa risiede nella ricercata conciliazione di pietismo e buddismo, conciliazione che lo condusse verso una visione religiosa universale. Il pensiero di Hesse è contraddistinto da un lato da un forte istinto della vita, e dall’altro da uno spirito interiore il cui culto lo pose in contrasto con il primo. Questo contrasto indusse lo scrittore a una scissione irrisolta, e da più parti trasfigurata nell’opera letteraria nella dilacerazione dei personaggi, combattuti e assillati da opposti impulsi. Al contempo, molti dei personaggi della narrativa hessiana sono atti a far trasparire i segni inconfondibili dell’autore, ad esempio con le simbologie dei nomi (Hermann-Hermine- Harry Haller), ma ciò non significa che l’opera di Hesse sia autobiografica, bensì che la sua scrittura nasce da un esercizio di verità, nel tentativo di identificare conoscenza ed esistenza. L’alternanza di ascesi e vitalismo è fondamentale dell’opera di Hesse e nello stesso tempo rappresenta una risoluzione delle antinomie. Questa dicotomia appare reiterata nella sua opera, come in Siddharta del 1922, così che, da un iniziale realismo borghese, Hesse finì per addentrarsi in una trascrizione mitico-simbolica dell’avventura spirituale, resa con il procedimento dei Kunstmärchen romantico (il più idoneo a tradurre in linguaggio poetico le corrispondenze fra mondo esteriore e mondo interiore) per giungere mediante il poema indiano Siddharta a un apologo della rinuncia totale del reale, vista come mezzo per la conquista dell’individualità poetica. La figura paterna appare in Hesse quasi kafkianamente sempre in controluce nei suoi romanzi, dai primi autobiografici fino a Demian, 1919 (il personaggio di Demian è di fatto una costruzione simbolica: erede di un patrimonio di pensiero che condanna la moderna civiltà, egli sostiene un ritorno alle origini della vita); fu proprio questo romanzo a segnare la fase di maturazione mediana dopo i primi lavori biografici. Con Der Steppenwolf, opera fra le più emblematiche dello scrittore, Hesse condusse lo sviluppo dei suoi contrasti a esiti affini alle tendenze della moderna generazione, fino a farne rispecchiare i protagonisti nella nevrosi e nella malattia di un’epoca. Le annotazioni della figura centrale, uno scrittore che riversa sulla carta tutto il suo disgusto per le menzogne della società borghese sono una critica veemente contro la civiltà moderna. Il protagonista, Harry Haller è il personaggio scisso per eccellenza dell’opera hessiana, nella sua duplice natura umana e bestiale, contrasto che lo porterà alle soglie del suicidio, fin quando, nell’incontro con altri 2 personaggi, non gli verrà svelato un mondo di piacere, comprensibile attraverso la contemplazione dei contraddittori aspetti dell’io, che si coniuga alla ricerca dell’interiorità. Il successo di quest’opera, come quello di Siddharta, anche al di fuori dei confini europei fa sì che si possa parlare del loro autore sia nei termini di fenomeno mondiale che in quelli di un “classico” della letteratura di tutti i tempi. L’esplosione della moda di Hesse negli Stati Uniti alla fine degli anni Sessanta è spiegabile proprio con un impulso culturale e sociale nuovo: la protesta contro l’ordine borghese della civiltà moderna e il disprezzo per la superficialità del mondo borghese, proprio come accade nel protagonista del Lupo della steppa. L’opera tarda amplifica lametafora del viaggio, esplicitata nell’esperienza dellaWanderung, come deviazione dalla norma, che evidenzia il conflitto interiore di chi è portato a divenire personalità e a trascendere i valori borghesi, a costo di un immane sacrificio e dolore. La stessa opera tarda presenta forti punti di contatto con il Goethe delWilhelm Meister, evidenti nell’opera senile del Giuoco delle perle di vetro, romanzo pedagogico di chiara appartenenza alla tradizione del Bildungsroman. In quest’opera di Hesse traspare la purezza del suo itinerario esistenziale e della sua vicenda interiore. Alfred Döblin. Alfred Döblin (1878-1957) nacque in una famiglia piccolo borghese di origine ebraica; crebbe a Berlino, città che impresse un segno indelebile alla sua prosa. Dal 1911 esercitò la professione di psichiatra (uno dei tanti medici tra gli scrittori del XX secolo), ma nel 1933 dovette abbandonare poiché le persecuzioni razziali e politiche lo costrinsero all’esilio. L’autobiografia di Döblin rappresenta una chiave di lettura fondamentale della vicenda professionale e di quella personale di Döblin. È là che si riscontra come nei tipi umani antitetici del medico e del poeta fossero celati i segni delle due attitudini dello scrittore, la somma, mai divenuta omogenea unità, di due caratteristiche. Tuttavia Döblin preferì celare la maggior parte dei dettagli più significativi della sua vita dietro allusioni letterarie piuttosto che in precise registrazioni dei propri stati d’animo. La vicenda familiare, l’abbandono della famiglia da parte del padre, il domicilio nel quartiere popolare berlinese di Friedrichshain, il severo regime di vita: tutti questi avvenimenti segnarono profondamente il carattere del giovane Döblin. L’esperienza della metropoli favorì lo sviluppo della personalità di Döblin; tale fase si evidenziò proprio alla soglia del secolo, quando lo scrittore fu messo a confronto con il fenomeno della modernità nella metropoli Berlino; il risultato più evidente del rapporto con la realtà della grande città furono gli incontri con Walden, curatore della rivista “Der Sturm” e con il quale iniziò un sodalizio intellettuale durato quasi due decenni e la composizione del romanzo “metropolitano” per eccellenza Berlin Alexanderplatz, al quale si deve senz’altro la notorietà di Döblin al grande pubblico fino ad oggi. I precoci inizi dell’attività letterarie dell’autore si collocano sotto il segno di un egocentrismo estetizzante e decadente, ben lontano da quello che fu il gesto espressionista della sua opera. Del 1902, anche se pubblicato solo nel 1912 in “Der Sturm”, fu il romanzo La cortina nera, dal sottotitolo Romanzo della parole a caso, dove Döblin metteva a frutto le sue concezioni psicologiche, applicandole a personaggi preda di un istinto autodistruttivo connotato sessualmente. Nel 1912 Döblin venne per la prima volta in contatto con il movimento dei futuristi italiani e la rivista “Der Sturm” pubblicò nello stesso anno il primo e il secondoManifesto del futurismo di Marinetti. La prima pubblicazione di Döblin fu tuttavia un’opera teatrale, il dramma in un atto Lydia und Mexchen del 1906, debutto assai singolare per un autore ancora oggi considerato lo scrittore narrativo per eccellenza del ‘900 in Germania. Il dramma era tuttavia rivelatore di alcune tendenze sperimentali dell’autore, che solo più tardi si manifestarono in tutto il loro vigore. La qualità grottesca stabiliva una linea di continuità con le produzioni precedenti. Del 1906 è il primo tentativo di Döblin di avvicinarsi sul piano teorico alla letteratura, grazie al saggio pubblicato nel 1910 in “Der Sturm”, dal titolo Dialoghi con Calipso. Sulla musica, che rapporta la musica alla letteratura e appare esemplare per la concezione letteraria del giovane autore. Il trattato dimostra la funzionalità reciproca di musica e scrittura. L’aspetto formale dell’integrazione di consecutività e contemporaneità veniva risolto proprio attraverso l’esempio musicale, come si trovava realizzato attraverso la tecnica del romanzo polistorico in Broch. La stessa contrapposizione di forma aperta e forma chiusa, enunciata nel saggio, mostrava la predilezione di Döblin per il processo creativo di tipo libero e associativo, di cui si avrà la testimonianza più compiuta nel romanzo “sinfonico” del 1929, Berlin Alexanderplatz. È con la raccolta Die Ermordung einer Butterblume (L’assassinio di un ranuncolo) che l’autore divenne uno dei rappresentanti più qualificati della narrativa espressionista. Ciò era dovuto allo stile antirazionalistico delle novelle, alla frammentazione dell’io, caratteristiche che anticipavano tematiche dello scrittore maturo. La novella che dava il titolo all’opera si prestava più delle altre a caratterizzare una prosa “psicologica” al limite del surreale, in cui erano evidenti gli studi psichiatrici dell’autore; l’irrazionale e l’inconscio psichico avevano il sopravvento. tecnica della simultaneità e rifiutò l’accusa secondo la quale egli si sarebbe ispirato allo scrittore irlandese nelle composizione del romanzo. Al tempo dell’uscita dell’opera di Joyce, infatti, già più di un quarto di Berlin Alexanderplatz era stato composto e lo scrittore ammise che le sue fonti di ispirazione erano state l’espressionismo e il dadaismo. Tuttavia è innegabile che l’Ulysses sia stato fonte indiretta di ispirazione, nell’uso del monologo interiore, nella tecnica del reportage e del montaggio attraverso l’uso di un collage di articoli giornalistici, testi pubblicitari, impressione metropolitane, previsioni meteorologiche e testi di canzoni. Nel romanzo di Döblin l’esperienza della metropoli è dunque un tutt’uno con quella del personaggio protagonista, così che la città è un luogo demoniaco, in cui il singolo esiste solo quanto massa e dove egli è costretto a una battaglia per la propria esistenza. Il percorso di Franz nella metropoli Berlino è descritto attraverso il suo proposito di mettersi sulla buona strada, tale percorso viene seguito dall’alto da un narratore che commenta in maniera ironica gli avvenimenti, secondo l’assunto delMitsprechen des Autors. Il romanzo tedesco non aveva ancora conosciuto un’approfondita rappresentazione artistica dei bassifondi metropolitani, della vita dei ladri, dei truffatori e delle prostitute. Tale mondo è l’ambiente vitale dell’eroe del romanzo, un uomo che tenta di tirarsi fuori dalla delinquenza, ma che non trovando alcun appoggio nella società finisce sempre per riscivolarvi dentro. La volontà didattica insita nel romanzo e nel protagonista sono evidenti, tanto da far pensare a quest’ultimo come a un vero e proprio Jedermann del suo secolo e a far rassomigliare il romanzo all’opera teatrale di Brecht Un uomo è un uomo, appunto per il potere rappresentativo racchiuso nel personaggio. All’ultima caduta di Franz questi viene arrestato e, a seguito di una lunga fase di malattie, viene introdotto in un manicomio dove ha un incontro con la morte, attraverso cui giunge alla consapevolezza delle proprie responsabilità. Mediante questa presa di coscienza il vecchio Franz “muore” e un nuovo Franz può giungere a una nuova vita. Le teorie della prima fase di riflessione di Döblin rimasero solo accennate in Berlin Alexanderplatz, in quanto l’eroe riacquistava lentamente un ruolo conforme alla tradizione; al contrario, le tradizionali caratteristiche del Bildungsroman apparivano ben riconoscibili: la solitudine del protagonista, la didattica della storia e lo sviluppo della figura centrale. La dimensione epica della rappresentazione era colta nella biografia del protagonista, nell’accettazione del proprio destino, che stava per una totalità di destini-vittima: il destino del singolo veniva dunque rapportato al tutto che ci circonda. La città era un organismo vivente, di cui Biberkopf era solo uno strumento di introspezione. L’uscita dalla scena letteraria dell’autore nel 1933 coincise con la dissoluzione della sezione letteraria dell’Accademia e con la cacciata del suo presidente Heinrich Mann, di cui Döblin prese le difese. Il 28 febbraio dello stesso anno, Döblin lasciava Berlino per rifugiarsi in Svizzera. Nello stato d’animo di estremo timore per la propria sorte e quella della famiglia, lo scrittore, come egli stesso in seguito documentò nella sua opera-diario Viaggi del destino, giunse a una crisi. La fase successiva al ritorno in Germania a guerra terminata apparì sotto il segno di un’incomunicabilità con la nuova realtà post bellica. Le vicende legate alle difficoltà di pubblicazione, come di Hamlet, acuite dall’incapacità dello scrittore di porsi in rapporto proficuo con l’ambiente letterario, si protrassero fino all’anno della sua scomparsa. Bertolt Brecht. Il passaggio dall’espressionismo alle nuove tendenze degli anni 20 si compie nel modo più chiaro, e nelle opere di uno dei massimi drammaturghi del nostro secolo. Bertolt Brecht (1898-1956), nato da una famiglia della borghesia di Augusta, guardò sin dall’inizio al dramma espressionista con una certa diffidenza. Anche i restanti drammi giovanili (come Baal, 1922) furono ideati in contrapposizione con l’espressionismo; in essi non viene posta in risalto la spiritualità, ma la nuda sensualità passionale dei personaggi che, nel disprezzo delle menzogne della società borghese, conducono una vita quasi animalesca. Il mondo dei vagabondi e dei piccoli borghesi corrotti che si aggirano nelle birrerie e nelle strade di periferia, costituisce la provincia drammatica in cui nascono gli antieroi brechtiani, i quali, come il poeta Baal, voltano le spalle alla società poiché sono profondamente convinti dell’insensatezza della vita nella civiltà moderna. Mentre l’ “uomo nuovo” espressionista è l’incarnazione di una spinta ideale, i personaggi giovanili di Brecht rappresentano il nichilismo di un’esistenza vegetativa. I lavori teatrali scritti dopo il trasferimento a Berlino, dove l’autore riuscì presto ad assicurarsi un proprio pubblico come scrittore e regista, significarono il distacco definitivo dall’espressionismo. La critica vede nel Brecht di tale periodo un protagonista della Neue Sachlichkeit, ma non è del tutto giusto: in questa fase di ripensamento stilistico, egli sperimentò principi drammaturgici che a poco a poco dovevano allontanarlo quasi completamente dai normali criteri della rappresentazione realistica. Brecht ravvisa ora nell’eroe del teatro tradizionale il relitto di un individualismo borghese che, in un’epoca di violenti rivolgimenti sociali e di guerre, si rivela solo mera ideologia. Nel drammaMann ist Mann, 1926, rappresenta il singolo come una cosa soggetta a manipolazioni, come una marionetta intercambiabile, identificando nel dramma, privo di qualsiasi elemento psicologico, la forma teatrale rispondente alle sue esigenze. Il testo Die Dreigroschenoper era stato composto con un lavoro molto intenso dei due autori, e una prima edizione a stampa si ebbe solo nel 1931. Fin dall’inizio, L'opera da tre soldi si rivelò uno dei più grandi successi teatrali della Repubblica di Weimar: le rappresentazioni furono destinate a diventare alla fine del 1932 10.000 in tutti i teatri d’Europa con traduzioni in diciotto lingue, alle quali si accompagna anche una trasposizione cinematografica. La “dimensione Baal”, ovvero quel radicale individualismo in perenne conflitto con un ordine sociale ben definito, che avevano caratterizzato il primo dramma del giovane Brecht, scritto nel 1919 a soli 21 anni, per quanto superata attraverso una più approfondita analisi delle contraddizioni sociali e della funzione dialettica del teatro nel denunciarle, agisce in questo nuovo testo brechtiano come una linfa nel determinare la carica provocatoria dei personaggi principali e in genere della trama del testo. Il rapporto con il marxismo e l’elaborazione di una concezione dialettica della funzione del teatro, che si era già venuta delineando con Mann ist Mann del 1926, determinano il rafforzamento di una vena ironica e parodistica, in modo da fondersi con la trama del testo e i personaggi, senza porre in primo piano la funzione puramente didattica del testo teatrale. La nuova pratica teatrale teorizzata con il passaggio a un “teatro epico”, che riprendeva quanto già anticipato dal Erwin Piscator con la sua concezione di un “teatro politico”, riusciva a sottolineare il carattere innovativo del testo e a essere percepita dal pubblico come un ampliamento della gamma espressiva del teatro tradizionale: l’esecuzione delle canzoni veniva sottolineata dai cambi di scena e di luce, la piccola orchestra, restava sempre visibile sullo sfondo del palcoscenico, i titoli delle scene venivano proiettati su alcune superfici, gli spettatori potevano osservare i cambi di scena e i preparativi dell’orchestra. Secondo il drammaturgo la produzione teatrale doveva trasformare il pubblico in un “tecnico”, capace di osservare con distacco critico quanto rappresentato sulla scena. Il pubblico doveva essere invitato a riflettere sulle connessioni tra i diversi elementi della rappresentazione e a esercitarsi a elaborare una visione complessa della vita e del mondo. Il cinema e la radio non erano direttamente presenti nel palcoscenico dell’Opera da tre soldi, ma le proiezioni, l’illuminazione, il modo in cui testo e musica interagivano tra loro riuscirono ad ampliare le forme espressive del teatro tradizionale e a svilupparne le capacità di far concorrenza con i nuovi media presso i gusti del pubblico. Nell’Opera da tre soldi, e in genere nel teatro brechtiano non vi è mai un astratto messaggio ideologico, quasi preconfezionato, che viene tradotto e trasfuso; al contrario, il messaggio ideologico è il risultato di un lavoro collettivo che deve essere verificato direttamente sulla scena. Il “messaggio” di quest’opera può essere così schematizzato: ilmondo borghese non è nella sua essenza diverso dal mondo di ladri e delinquenti rappresentato nel testo; anzi, le banche non rappresentano altro che un perfezionamento di quelle tecniche di appropriazione o depredamento, che la malavita usa a uno stadio ancora artigianale. Questa schematizzazione mostra una caratteristica significativa del testo brechtiano, ovvero la sua specifica capacità di un efficace smascheramento ironico: due mondi, quello borghese e quello della malavita, vengono messi a confronto e i loro meccanismi si illuminano così a vicenda. A questo processo di smascheramento contribuisce la sapiente intertestualità, con la quale viene costruito il testo: Brecht riadatta The Beggar’s Opera (L’opera del mendicante), scritta nel 1728 da John Gay che vi aveva satireggiato la corruzione e gli intrighi politici dell’Inghilterra del tempo, per mostrare la negatività della società borghese; trasportò dunque l’azione nel periodo vittoriano, in un momento di ascesa del capitalismo, proprio come rispecchiamento ironico della società borghese. Proprio attraverso i richiami intertestuali, il processo di smascheramento acquista densità e consistenza. La trama dell’Opera da tre soldi è la seguente: Polly, la figlia di Peachum, ha sposato Macheath contro la volontà dei genitori. Peachum, per provocare il divorzio della figlia, denuncia alla polizia Macheath, che viene imprigionato e condannato. Tutta l’azione si svolge a Londra durante la cerimonia di incoronazione della nuova regina, che concederà la grazia a Macheath ormai portato al patibolo; l’esibizione di un happy end vuole marcare l’artificiosità dell’apparato teatrale e spingere alla riflessione sulla distanza tra realtà sociale e finzione teatrale. anni 30 dove, invece della provocazione antiborghese, esse distillano pensieri politici legati al frangente storico specifico. Nel Galileo i presupposti del teatro epico vengono utilizzati per una rappresentazione della realtà storica, nella quale Galilei si muove per difendere la propria libertà di ricerca dell’autorità della Chiesa; lo scienziato italiano viene interpretato come l’alfiere di un’epoca dove la conoscenza scientifica permette una nuova utilizzazione delle forze produttive e nello stesso tempo mette in discussione l’autorità stabilita. L’abiura di Galilei, se da un lato permette allo scienziato di proseguire le sue ricerche, nello stesso tempo svuota la sua conoscenza della sua forza di trasformazione sociale e provoca un contrasto tra nuove acquisizioni della scienza e loro applicazioni nella società. Galilei, con la sua gioia di conoscere, è anche il rappresentante convinto di quella idea di una “grande produzione” che non coinvolgesse solo le acquisizioni tecnologiche, ma fosse anche in grado di inventare una nuova umanità, capace di assimilare la scienza come piacere della conoscenza, un piacere fatto di benessere. A questa “grande produzione”, la produzione letteraria di Brecht continuò a mirare in sempre nuove forme e configurazioni. Ernst Jünger. Il tentativo di chiarire il significato degli scritti weimariani di Ernst Jünger (1895-1998) all’interno dello sperimentalismo proprio della klassische Moderne riconduce alla loro relazione con quel fenomeno intellettuale che va sotto il nome di “rivoluzione conservatrice”. Questa relazione consente sia una ricostruzione diacronica delle varie fasi del “nazionalismo metapolitico” dell’autore, sia una più accurata illustrazione della parallela evoluzione della sua concezione della tecnica. Alla luce di questi fattori il carattere avanguardistico e moderno dell’opera del giovane Jünger, con la sua volontà di conciliare mezzi rivoluzionari e fini conservatori, segnala in quale misura i tempi nuovi siano percepiti dall’artista come un’inaudita accelerazione della storia. Questo rende più evidente l’incapacità da parte del modello identificativo borghese imperniato sulla sicurezza, di sopperire ai sintomi di una perdita di senso complessiva del reale e quindi di una “decentralizzazione” del soggetto rispetto al mondo. La crescente “coscienza disincantata”, indotta da un senso di estraneità rispetto alla realtà, conduce lo scrittore tedesco all’elaborazione di una “rivoluzione estetica permanente” dai tratti futuristici, quale espressione dello stadio provvisorio di una realtà in continuo divenire. Dopo la brillante carriera militare come volontario, che aveva condotto Jünger a divenire, da semplice recluta, comandante di truppa d’assalto sul fronte occidentale nel corso della prima guerra mondiale, il suo esordio come scrittore si compie nel clima weimariano. Esso si contraddistingue per un’interrotta elaborazione letteraria dell’esperienza centrale del conflitto, individuata da subito quale “forma” perenne della dimensione umana e insieme come pietra miliare del processo storico del primo ‘900: “La guerra è madre di tutte le cose”. Questa rielaborazione si sviluppa attraverso il diario di guerra Nelle tempeste d’acciaio, 1920, il saggio La lotta come esperienza interiore 1922, e l’incompiuto romanzo autobiografico Sturm 1923, Il boschetto 125 del 1925 e Fuoco e sangue dello stesso anno. La brutale oggettività delle descrizioni belliche in prima persona nello scritto iniziale, Nelle tempeste d’acciaio ha contribuito a determinare l’ambito degli ammiratori della sua opera in merito al valore da attribuire allo “stile documentario” quasi neusachlich della sua scrittura, inquadrato all’interno di una “estetica dell’orrore”. Con questa formula ci si riferisce a quella prospettiva della percezione di una precisione matematica con cui prima si registra e poi viene illustrata la psicologia del soldato di fronte agli orrori bellici. Essi sono inquadrati all’interno di un’accurata “meccanica dell’interiorità” che ha il suo punto di riferimento nel presente, la cui evidenza viene ritradotta con un’immediatezza brutale. In tal modo, la prima produzione di Jünger assume una valenza esemplare di quell’atteggiamento estetico “sperimentale” proprio della modernità letteraria. Tale cruda oggettività ha però spesso ostacolato l’individuazione di quello sdoppiamento del volontario Jünger, in quanto soggetto attivo e osservatore, che genera una contrapposizione tra piano descrittivo e interpretativo degli eventi bellici narrati nel testo. Ciò rivela dunque l’elaborazione in una forma letteraria di quei quattordici taccuini di guerra originari che il tenente Jünger aveva compilato al fronte nel corso del conflitto. Quei taccuini, oltre a contenere fedeli annotazioni, rappresentavano infatti anche una sorta di modello suscettibile di infinite variazioni e rielaborazioni. Tutto ciò spiega le ragioni per le quali questa prima opera presenti una chiara ricapitolazione e tematizzazione degli stessi avvenimenti in un insieme coerente. La loro disposizione cronologica e la tipizzazione in capitoli mira a farne paradigmi dell’imbarbarimento delle varie forme di guerra: dalla monotonia della guerra di posizione si passa all’assalto, fino allo scontro a campo aperto. In tutta la prima opera di Jünger si ha un’interpretazione a posteriori dell’immane evento bellico, che intende convertire la sconfitta tedesca in una possibilità di riplasmazione del reale, nel gesto di riappropriazione della storia e di un suo trascendimento. Lo scrittore, inoltre, parte dal presupposto che il senso della guerra sia già contenuto in essa, ossia in quella dinamica annientatrice che egli non vuole ripudiare. Per questo è necessario che l’individuo contemporaneo assuma il gelido razionalismo a propria “forma” di vita interiore, sola via per “immunizzarsi” dall’esperienza del dolore in battaglia. La concezione della guerra come Urphenomen (fenomeno originario) antecedente la civilizzazione viene radicalizzata nel successivo saggio, La lotta come esperienza interiore (1922). La guerra come confronto tra volontà di potenze contrapposte evolve qui in un principio permanente di lotta, in una forma del divenire che valica il campo di battaglia per irrompere nella società weimariana. In secondo luogo, l’autore resta incapace di definire il senso della disponibilità al sacrificio da parte della nuova “razza” del guerriero- martire qui delineata, con il risultato che il fine della lotta viene subordinato al mezzo: “La cosa fondamentale non è per cosa combattiamo, bensì come combattiamo”. Un’affermazione che va letta alla luce del tratto utopico della successiva fase “neonazionalista” di Jünger. Ciò che infatti gli interessa realmente è cogliere il manifestarsi di segni rivelatori del sorgere di una rivoluzione “epocale”, il cui compimento sarà rappresentato dall’avvento di un’era affatto nuova: quella del lavoro. Nel successivo romanzo incompiuto, Sturm (1923), pubblicato a puntate per una rivista, la struttura narrativa dello scritto presenta un triplice livello: quello del narratore vero e proprio, vicino alla prospettiva narrativa del personaggio centrale Sturm, quello dei tre protagonisti, nonché letterati, principali, e infine quello delle figure tratteggiate nelle tre novelle narrate da Sturm. Il comune interesse letterario attorno a cui si cimenta l’amicizia tra i tre letterati genere frequenti scambi di idee sul Bello; essi costituiscono una sorta di cornice esterna del romanzo, al cui interno s’inserisce la letture di tre componimenti novellistici da parte di Sturm, soldato e artista. Un interessante stratagemma che segue il modello del romanzo nel romanzo. L’evento guerresco, oltre a essere registrato dalla sensibilità dei protagonisti, viene trasfigurato attraverso le creature uscite dalla loro penna in una moltitudine di sensazioni erotiche. I tre protagonisti e, a un secondo livello, i tre personaggi a loro volta abbozzati nelle novelle di Sturm si presentano quali perfetti epigoni della gioventù tedesca fin de siècle che vuole rivivere il conflitto come un intensificarsi della vita, come ampliamento della sensazione partendo dalla coscienza moderna che quel potenziamento dell’uomo è dilatato all’infinito proprio dalla tecnica. È esattamente su questo punto che si concentra la questione principale del testo: l’attivismo dei protagonisti e dei personaggi da loro creati rappresenta il tentativo di risolvere la tipica aporia jungeriana tra la realtà concreta della battaglia e la sua trasfigurazione estetica in chiave eroica. L’incapacità di superare l’esperienza guerresca costringe così Sturm a tirare la conclusione fallimentare sia della sua vita attiva sia di quella contemplativa: “in fondo ciascuno vive la propria guerra”. Viene così riproposto dall’autore l’estraniamento dell’artista rispetto alla modernità. Il 1923 è l’anno della crisi personale del reduce Jünger. L’autore, non accontentandosi più di una soluzione solamente letteraria del proprio disagio, proietta nelle possibilità propagandistiche offerte dall’azione politica la sua necessità di forma, ordine e autorità. Nel 1923 si compie anche la svolta “neonazionalista”: essa si delinea attraverso prese di contatto con quelle che erano delle piccole cerchie di cospiratori contro la Repubblica weimariana, ancora prive di un reale influsso politico sulla massa degli elettori. In questo periodo Jünger vede sempre più la “guerra” come una sorta di “fenomenologia della modernità”. Ciò risulta nelle ultime due ricostruzioni dell’esperienza bellica in una forma diaristica: Il boschetto 125 e Fuoco e sangue, entrambe del 1925, la cui collocazione spazio-temporale è data dalla ricostruzione in medias res dell’ultima fase della grande guerra, che ha come teatro il fronte occidentale tra Francia settentrionale e Fiandre. Dal punto di vista contenutistico, Il boschetto 125 contiene approfondimenti di natura tattico- militare, collegati a un trasferimento dell’esperienza bellica nella società weimariana postbellica. Il boschetto 125 evidenzia la tendenza a far dipendere il senso della guerra dalla responsabilità cui è chiamata la gioventù futura. L’autore traspone la guerra su un piano superiore e punta a ribaltare di segno la sconfitta bellica, inserendo la prova di valore della gioventù tedesca entro il quadro ben più ampio di scopi futuri. Rispetto al Boschetto 125, Fuoco e sangue presenta solo in misura minima indagini della guerra in chiave ideologica. Il testo perde inoltre le stesse caratteristiche formali della annotazioni belliche quotidiane proprie del diario di guerra e si concentra solo sul piano della riflessione, così che la domanda centrale sul senso del conflitto si risolve così: il senso della guerra sta nella guerra stessa, come espressione di una necessità insita nella storia e in una volontà ultima che tutta la pervade. 57 58
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