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Antropologia culturale, Dispense di Antropologia

Antropologia culturale e uno dei suoi elementi cardine

Tipologia: Dispense

2021/2022

Caricato il 13/04/2024

marco-pizzolo-1
marco-pizzolo-1 🇮🇹

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Anteprima parziale del testo

Scarica Antropologia culturale e più Dispense in PDF di Antropologia solo su Docsity! Capitolo nono Natura Il critico letterario palestinese Edward W. Said, il cui lavoro si concentrava sul colonialismo e l’impero, era un grande appassionato e uno zelante studioso della musica classica occidentale. Fu dai suoi studi musicali che sviluppò lo stile divenuto il marchio di fabbrica della sua opera: la «lettura contrappuntistica» 1. Nella teoria musicale, il moto contrappuntistico si basa sulla relazione e connessione tra diverse linee melodiche. Esse sono ben distinte tra loro, e possono essere suonate separatamente, ma prese insieme possono diventare qualcosa di piú della somma delle loro parti. Per Said, la migliore critica letteraria deve produrre qualcosa di simile, qualcosa che non può essere ridotto a un’unica linea melodica o a una sola voce (un vero pericolo, sosteneva, se si legge per esempio la narrativa occidentale ambientata nell’età dei grandi imperi). Nelle pagine del presente volume, «cultura» e «natura» possono essere viste come le linee melodiche dell’antropologia, il cui moto contrappuntistico conferisce alla disciplina il suo carattere distinto. A dire il vero, gran parte di ciò che abbiamo analizzato pone soprattutto l’accento sulla cultura, mentre la natura è presente come una sorta di costante ronzio di fondo. Tale norma è venuta a cadere in alcune occasioni, dalla trattazione del sangue alle piú recenti discussioni sulla ragione. In alcuni degli esempi, in altre parole, la natura sembra sollevare la testa – brutta o meno – e affermarsi. Il sangue non è solo una sostanza come tante altre. Le leggi della chimica, della biologia e della fisica hanno la loro importanza; i bidoni di benzina «vuoti» sono pericolosi, il cancro alla tiroide è mortale e gli uomini bororo non possono volare. Potrebbe sembrare che, per molti antropologi, la natura sia una linea melodica alquanto sinistra, qualcosa che essi si sforzano di far tacere piú che possono. Figure come Ruth Benedict, Clifford Geertz e Marshall Sahlins sono acclamate per la loro appassionata difesa delle specificità culturali, sociali e storiche e per aver riconosciuto fino a che punto la realtà non sia qualcosa a cui potremo mai avere un accesso non mediato. In tutti i casi in cui questa passione è stata guidata da posizioni politiche, soprattutto da ciò che una volta Sahlins definí l’«uso e abuso della biologia» 2, il momento piú serio è stato quando Ruth Benedict, Franz Boas e colleghi hanno affrontato la scienza fallace della razza. Vale anche la pena di notare che, mentre gli antropologi hanno un intero cassetto pieno di definizioni di cultura, lo stesso non si può dire per la natura. Non ricordo che nei miei corsi universitari mi sia mai stata offerta una definizione di natura – definizione per altro difficile da trovare anche nella letteratura oggi esistente. Dove appaiono tali definizioni, esse sono spesso formulate rispetto alla cultura e, in alcuni casi, perfino in termini culturali (la costruzione della natura, il suo carattere discorsivo e cosí via). A quanto sembra, la situazione è cosí chiara che la piú grande associazione professionale di antropologi ha recentemente escluso la «natura» da un elenco di oltre 100 parole chiave. Nel 2011, in occasione delle assemblee dell’American Anthropological Association, i relatori che volevano registrare i loro contributi erano tenuti a usare questo glossario controllato di termini per classificare i loro interessi, per cui, chiaramente, non si aveva nemmeno il permesso di inserire la natura tra gli argomenti di una ricerca 3. Attivismo, Africa, Confini, Ceramica, Educazione, Evoluzione… la lista continua, ma non compare la Natura. Si è tentati di dire che l’assenza della natura sia il sintomo di un certo disprezzo antropologico, però questo non sarebbe del tutto preciso. Non dobbiamo dimenticare che Boas iniziò la sua carriera di strutturale cerca di estrapolare delle leggi generali 4. Se passerete a leggere qualsiasi testo di antropologia strutturale, vi sembrerà molto diverso dalla maggior parte degli altri studi antropologici. Probabilmente, non presenterà molti personaggi pittoreschi e pieni di vigore: il capo Chiweshe, per esempio, o Janet, l’infermiera del reparto maternità della cittadina di Scunthorpe; quasi senz’altro, conterrà molte informazioni enciclopediche, per esempio sulle tassonomie popolari dei marsupiali nell’Australasia; potrebbe benissimo essere incentrato sui miti – che sono stati fonte di vivo interesse per gli strutturalisti, poiché, sostengono, rendono manifesti i meccanismi di molte «infrastrutture inconsce»; se cosí è, non aspettatevi una bella fiaba dei fratelli Grimm: aspettatevi se mai una dissezione chirurgica. Lo stesso Lévi-Strauss non è un narratore di fiabe, e il punto non è quello di godersi una favola meravigliosa, ma capire come il mito, scomposto nelle sue parti costituenti, ci dica qualcosa sia sul sistema della cultura da cui è tratto sia, ancor piú, sul funzionamento della mente. In effetti, tutti questi elementi saranno usati per sostenere la tesi di Lévi-Strauss sulle strutture universali di pensiero, cognizione e classificazione. Potrebbe forse sembrare un affronto alla grandezza di Lévi-Strauss il fatto di rivolgersi a qualcun altro nel tentativo di riassumere cosa sia lo strutturalismo. Dal fatto poi che tale sintesi sia stata scritta piú di un secolo prima che Lévi-Strauss definisse la sua posizione potrebbe perfino trasparire l’intenzione di voler aggiungere un insulto all’offesa. Eppure, non sono certo io il primo a farlo, visto che è lo stesso Lévi-Strauss a porre questa citazione del filosofo August Comte come epigrafe al suo breve saggio Totemism (Il totemismo oggi). Comte scrive: «Le leggi logiche, che governano in ultima analisi il mondo intellettuale, sono – per loro natura – essenzialmente invariabili e comuni, non solo in tutti i tempi e luoghi, ma anche per qualsiasi soggetto, senza alcuna distinzione, perfino tra quelli che chiamiamo reali e chimerici; esse si osservano, in fondo, anche nei sogni…» 5. La frase di Comte riassume quasi alla perfezione lo strutturalismo. Che si tratti di un essere umano «primitivo» o «civilizzato», di un Bororo o di un cittadino britannico, di uno sciamano o di un uomo di scienza, a livello di struttura mentale o di capacità cognitiva non esiste alcuna differenza. Ciò che l’antropologia deve fare è vagliare tutte le diversità di rilievo e le divisioni apparentemente incommensurabili tra le culture al fine di scoprire gli elementi universali della condizione umana. In La pensée sauvage (Il pensiero selvaggio), uno dei suoi libri piú famosi, Lévi-Strauss espone diffusamente la propria tesi. «Il pensiero selvaggio è logico, nello stesso senso e nello stesso modo del nostro», conclude l’autore dopo 280 e piú pagine di analisi riguardanti un po’ tutto, dalla classificazione dell’Artemisia nelle Americhe ai necronimici (che identificano una persona in rapporto a un parente morto) dei Penan del Borneo, fino alle competenze e all’approccio del moderno ingegnere alla filosofia di Jean-Paul Sartre 6. Lévi-Strauss è una delle rare figure dell’antropologia che possa considerarsi un naturalista sui generis. Egli non sminuí né abbandonò mai l’dea dell’importanza delle differenze culturali, intendendole però all’interno di un registro piú basilare di cognizione e pensiero. Maurice Bloch ha riconosciuto in Lévi-Strauss «il primo antropologo moderno a considerare seriamente la necessità di studiare appieno le implicazioni dei meccanismi mentali» 7. Il primo antropologo moderno e non certo l’ultimo, anche se l’interesse per la mente, almeno nel senso inteso da Bloch, ha innescato all’interno dell’antropologia solo delle ricerche di minore portata. Buona parte di tali studi, inoltre, sono stati condotti in rapporto alla scienza cognitiva, un campo che – forse sorprendentemente – Lévi-Strauss coltivò poco. Per Bloch, divenuto uno dei massimi esponenti dell’antropologia cognitiva, questa mancanza di coinvolgimento nella scienza della cognizione ha indebolito fortemente la disciplina antropologica, rendendo sempre piú difficile riconoscere la collocazione del genere umano all’interno della storia naturale. Per molti antropologi, tuttavia, il punto d’arresto è rappresentato dal fatto che il richiamo al naturalismo si è sempre presentato raramente. L’evoluzionismo sociale, nonostante la sua prepotenza, produsse ben poco a cui si possa riconoscere un valore duraturo. Parimenti, il lavoro di Lévi-Strauss non ha dimostrato per molti antropologi una vera capacità di resistenza, almeno in termini assoluti. Pur non avendo rivali quanto a erudizione, la sua opera presenta nondimeno frequenti momenti in cui sembrano avere luogo dei balzi di fede o dei giochi di prestigio: le interpretazioni del mito, per esempio, risultano alquanto difficili da giustificare. Per la maggior parte degli antropologi, una questione ancora piú seria riguarda la misura in cui lo strutturalismo sembra erodere la possibilità che l’azione dell’uomo realizzi un genuino cambiamento all’interno di un sistema dato. Questa è la sfida che si erano posti Marshall Sahlins e Pierre Bourdieu: rimaneggiare lo strutturalismo affinché tenesse conto della storia e dell’azione umana – di qualcosa cioè di effettivamente strutturato ma in grado di accogliere cambiamenti. In seguito vorrei prendere in considerazione alcuni lavori di antropologia cognitiva, come anche un altro modo in cui gli antropologi stanno tentando oggi di riconciliare l’attenzione verso la cultura con l’attenzione verso la natura. Prima di passare a questo argomento, tuttavia, ritengo utile esaminare ulteriormente perché alla natura venga dato cosí poco credito. Limiti della natura? Alla maggioranza delle persone, nella maggior parte delle epoche e dei luoghi, i confini tra natura e cultura, ammesso che esistano, appaiono confusi, nella migliore delle ipotesi. In molti luoghi, poi, essi non entrano nemmeno in gioco. Questo è uno dei punti fondamentali dello studio sulla Melanesia di Marilyn Strathern. I gruppi sociali della Melanesia non pensano come gli occidentali. Tra realtà «non siamo mai stati moderni». In un libro di modeste dimensioni, pubblicato nel 1991, Latour riuscí a scuotere le scienze umane come raramente accade. Nous n’avons jamais été modernes (Non siamo mai stati moderni) è quasi un sermone – un ammonimento rivolto a «noi» – sui difetti, e sull’ipocrisia dell’Occidente. Spaziando dalla storia della scienza agli studi antropologici in Amazzonia, dai cambiamenti climatici (che facevano già titolo nel 1991) alla caduta del Muro di Berlino, Latour individua i vari modi in cui, a partire dal XVII secolo, l’esistenza umana cominciò a essere definita dalla rottura con il passato da parte dell’uomo – con la tradizione in patria e con altre modalità all’estero. Nella storia di tale rottura, Dio muore (o viene almeno depennato), nasce la scienza e prende piede la politica democratica. Emerge un nuovo ordine mondiale, in cui le strade fangose e caotiche del passato – e altre non occidentali – vengono abbandonate in nome di un approccio razionale e ragionevole al rapporto tra natura e cultura. Senza dubbio, si tratta di un rapporto in cui ciascuna delle due parti mantiene il proprio decoro evitando di ricadere nell’altra e rendendo difficile distinguerle. Dopo tutto, è ciò in cui i nostri antenati fallirono, come del resto continua a fare buona parte del mondo. È una storia che amiamo raccontarci, sostiene Latour, ma che non corrisponde a verità. Non siamo mai riusciti realmente a tenere distinte e pure la natura e la cultura, né abbiamo mai ceduto completamente al magico fascino delle rassicurazioni della scienza. La cerimonia d’insediamento del presidente degli Stati Uniti si colloca ai vertici della moderna ritualità, attingendo alle ricche tradizioni della democrazia liberale e ai valori dell’Illuminismo – tranne il fatto che essa rimane legata allo stesso potere magico delle parole che potremmo aspettarci di trovare in un rito induista. Gli affari sono affari, non dimentichiamolo; non c’è niente di personale. Peccato che le cose non stiano in questo modo: non siamo affatto capaci a tenere separati gli affari dai nostri legami umani. Un regalo è un regalo e le merci sono merci: sono cose molto diverse. In verità, sappiamo che non è affatto cosí. Facciamo ancora un esempio, direi rilevante, che ci riporta ai rapporti tra umani e non umani: il caso degli animali domestici. Amiamo tenere degli animali da compagnia, e sappiamo che si tratta di animali; eppure, non occorre essere un antropologo o un etologo di provata esperienza per sapere che molti proprietari di animali domestici – forse perfino la maggior parte di loro, e di certo quelli piú coscienziosi e gentili – trattano i loro animali in modo assolutamente umano: danno loro un nome, gli parlano, li fotografano, comprano cose per loro (giocattoli, cappottini, assicurazioni), li adorano alla follia e, quando giunge il momento, piangono disperati la loro scomparsa. Ci sono persone, la maggior parte delle quali vedi caso non possiede animali (mi riferisco soprattutto ai cani, che rappresentano senza dubbio il migliore animale da compagnia del mondo occidentale), che giudicano questo modo di trattare le bestie per quello che è: una flagrante violazione della separazione esistente tra natura e cultura. Per loro si tratta di effusioni irrazionali che andrebbero rivolte a esseri umani (con dispendio di affetto, denaro, tempo e vita sociale) e sono invece incanalate verso esseri non umani. Eppure, anche se queste teste quadrate si dimostrano convenientemente moderne quando si tratta di cani, capita spesso che esse deludano le richieste della modernità in altri campi (magari non hanno fiducia nei dottori, oppure pregano i santi, o detestano volare perché sembra loro una cosa cosí «innaturale», oppure mangiano la carne di animali che loro stessi uccidono, anziché comprarla, come dovrebbero, già confezionata in tagli oppure macinata e opportunamente avvolta in fogli di polietilene). Talvolta, non è in una presunta retroguardia della modernità che troviamo sottoposta alle maggiori pressioni la demarcazione tra natura e cultura, bensí nella sua avanguardia. Non essere del tutto moderni è una conclusione scontata se siete un cattolico o vi rammendate i calzini o avete un’attività di famiglia. La cosa tuttavia riguarda anche i medici e i filosofi morali, come ben sappiamo da uno studio antropologico sulla donazione degli organi. Con in mente la morte. Margaret Lock è un medico antropologo della McGill University di Montréal. Ha iniziato la sua specializzazione studiando la medicina tradizionale in Giappone. Il suo interesse per la donazione degli organi è sorto successivamente, legato non tanto a ciò che accadeva negli Stati Uniti e in Canada quanto alla varietà di dibattiti che circondavano l’argomento 8. La differenza era che in Canada e negli Stati Uniti non esisteva quasi nessun dibattito tout court, soprattutto riguardo alla condizione sempre piú riscontrata, grazie ai progressi della tecnologia medica, di pazienti affetti da «morte cerebrale». In stato di morte cerebrale, ai pazienti possono essere espiantati i loro organi sani, dato che in tale condizione patologica le funzioni dell’organismo non vengono interrotte. In Giappone, al contrario, la Lock rilevò non solo una forte resistenza alla donazione degli organi, ma anche il fatto che molti, tra cui medici ed esperti di questioni etiche, rifiutavano di accettare che la morte di un essere umano fosse determinata in rapporto alle sue capacità mentali. Nel Nord America, scrive Margaret Lock, il successo delle donazioni di organi e l’accettazione della morte cerebrale sembrano derivare da un tentativo di considerare l’espianto come l’ultimo dono: il «dono della vita» a. Benché tale linguaggio attinga ai concetti di carità cristiana e a tradizioni sacrificali, esso è reso possibile anche dal passaggio, avvenuto agli inizi dell’età moderna, dalla morte come materia religiosa alla morte come materia della medicina. Oggi, per esempio, vale la pena ricordare che, per quanto concerne lo stato (americano, canadese o, perché no, britannico), il decesso viene stabilito dal medico, non dal prete. È il medico, o l’istituzione sanitaria, a essere investito sia dell’autorità legale sia del dovere di dichiarare l’avvenuta morte di una persona. Naturalmente, i sacerdoti, intesa come qualcosa che avviene in un momento scisso da tutto il resto o dipendente dalla condizione binaria vivo/morto: la morte è un processo. La maggior parte dei giapponesi, inoltre, non privilegia la facoltà cognitiva come sede della personalità; il corpo svolge esattamente la medesima funzione. Legata a tutto questo vi è l’idea che l’individuo non è autonomo, ma appartiene a un tutto ben piú vasto rappresentato dalla famiglia. Le famiglie giapponesi, e perfino singoli individui all’interno di esse, non sono inclini ad accettare la morte come qualcosa di atomistico o avulso dalla collettività. Infine, benché la professione medica goda di un ottimo status e abbia avuto un eccellente sviluppo, la scienza della medicina non possiede quell’aria di prestigio e autorevolezza che ha in Nord America. La morte non ha subito un pieno processo di medicalizzazione, né il corpo è stato altrettanto naturalizzato. Tutto questo rende difficile pensare a un cuore, a un fegato o a un rene come a qualcosa di molto simile a un comune «oggetto». La Lock ha perfino rilevato che alcuni professionisti della medicina minimizzano il diritto di fare affermazioni del genere. Un medico le disse: «Non penso che riusciamo a capire esattamente che cosa avvenga nel cervello al momento della sua morte, e, per come la vedo io, una morte che può essere rilevata soltanto da un medico non è una morte» 9. Come abbiamo visto parlando delle nuove tecnologie riproduttive nel caso del Libano (nel capitolo V), bastano un respiratore, una scodella di ghiaccio, e una sala operatoria a sollevare questioni fondamentali sul confine tra natura e cultura, tra vita e morte. La stessa idea del «cadavere vivente» è un perfetto esempio del perché non siamo mai stati moderni, come direbbe Latour. L’idea suonerebbe a molti come un ossimoro: un corpo morto che non è morto (Latour lo definisce un «ibrido»). Non appena abbiamo la chiara comprensione di qualcosa di naturale e privo di qualsiasi ambiguità biologica come la «morte», ecco che in tale comprensione avvengono immediatamente dei cambiamenti. La morte, pertanto, non è piú ciò che era, e i progressi della tecnologia scientifica, cosí come nuovi argomenti in campo etico, si offrono per garantirne nel lungo periodo una reinvenzione e ridefinizione. Visto attraverso le lenti del progresso della medicina, «è improbabile che riusciremo mai a stabilire una linea di demarcazione tra natura e cultura» 10. Scienza/fiction. Un’altra ragione per cui gli antropologi si sono rivelati scettici sul valore della natura è data dalla misura in cui certi studiosi si prendono delle libertà in virtú dell’autorità scientifica loro attribuita. Gli uomini di scienza sono tenuti senza dubbio in grande considerazione. Secondo un sondaggio condotto nel 2015 nel Regno Unito, la professione «medica» risultava quella piú apprezzata; lo scienziato si collocava al quarto posto, dopo l’insegnante e il giudice (al quinto posto si piazzava il parrucchiere!) 11. Da una ricerca analoga svolta negli Stati Uniti risultò che infermieri, farmacisti e medici occupavano le prime tre posizioni, seguiti dagli insegnanti di scuola superiore 12. Se consideriamo che medici, infermieri e farmacisti hanno una preparazione in biologia, chimica e farmacologia, appare evidente che la scienza rappresenta un ambito straordinario, ricco di valore e virtú. In alcuni momenti mi sono riferito all’antropologia come a una scienza, quale in effetti essa è. Si tratta però di una scienza sociale, non di una scienza naturale (talora la si definisce una «scienza molle», per distinguerla dalla «scienza dura»). Questo le conferisce un minore valore sociale e, poiché il suo argomento di studio è legato alla cultura e alla società, è vista necessariamente come una disciplina soggettiva e interpretativa o, come minimo, non oggettiva quanto le scienze naturali o la «scienza dura». Oggigiorno, in realtà, molti antropologi sociali non considerano per nulla ciò che fanno come un’attività scientifica; molti si sentono piú a loro agio tra i filosofi e gli storici che tra i biologi o i geologi. Già nel 1950, E. E. Evans-Pritchard aveva criticato l’idea dell’antropologia come scienza, avanzando invece come modello la storia. Abbiamo già accennato ad alcune delle critiche rivolte da figure come Boas al modello dell’evoluzionismo sociale, da lui ritenuto «cattiva scienza». Le sue qualità negative erano: 1) l’errata analisi della cultura umana come un corpo umano; 2) la caparbia glorificazione, talora perfino fonte di imbarazzo, della scienza come suprema risposta a ogni cosa. Gli evoluzionisti sociali si sforzavano di infilare dei pioli quadrati in buchi rotondi, per altro con scarsa coscienza critica. Né Boas né Malinowski abbandonarono il modello scientifico in sé, anzi, il secondo levò lodi tanto smaccate a tale metodo quanto Tylor o Herbert Spencer. Nel corso del XX secolo, tuttavia, gli antropologi si resero sempre piú conto che le pretese di obiettività scientifica dovevano essere almeno limitate. In certi casi, tali pretese risultavano perfino pura presunzione, dato che nessuna conoscenza – riguardante i meccanismi del corpo, del mondo o del cosmo – era esente dal dato culturale. Ora, non c’è dubbio che se di questi tempi parlate con molti fisici, difficilmente descriveranno il loro lavoro in termini di «oggettività». Molti di loro, in tal senso, hanno rinunciato in varia misura al concetto di realtà. In modo analogo, ingegneri strutturali, chimici, genetisti e sicuramente molti altri uomini di scienza sono spesso consapevoli del fatto che il loro lavoro non si realizza in un vuoto culturale, o che la conoscenza assoluta fluisce semplicemente all’esterno e brilla luminosa. Oltre tutto, non conosco nessun antropologo che sia anche luddista, che ritenga la penicillina un «fatto sociale» o una «costruzione culturale», o che assista un malato di Ebola senza adeguate protezioni, che non apprezzi il valore e la comodità di un congelatore e dei viaggi aerei, oppure, a tale proposito, che non consideri con preoccupazione quanto la scienza climatica ci dice sugli effetti che congelatori e viaggi in aereo hanno sull’ambiente. Nondimeno, l’autorevolezza sociale della scienza può creare dei punti ciechi, delle caratterizzazioni bizzarre e, talvolta, delle tesi assolutamente fantasiose su argomenti importanti come la biologia, la Uomini in missione. «Il fatto che simili stereotipi compaiano in forma scritta a livello di cellule rappresenta un’abile mossa per farli sembrare cosí naturali da non poter subire alterazioni» 15. Le cellule, tuttavia, si sono rivelate le protagoniste del XX secolo. Ormai abbiamo raggiunto livelli ben piú microscopici. L’intero impianto logico di quanto descrive Emily Martin è stato recentemente trasferito ai geni, e quasi non ce ne siamo accorti. I geni sono noi. La genetica è divenuta un aspetto assolutamente centrale del progetto antropologico, in special modo negli svariati ambiti in cui operano gli antropologi sociali e fisici: dibattiti sulla razza, distribuzione tra la popolazione di determinati disturbi ereditari (come l’anemia falciforme), sviluppo demografico e perfino uno studio condotto nella Repubblica democratica del Congo sugli effetti che lo stress della guerra causa nell’espressione genica delle donne in gravidanza 16. Per alcuni autori, tuttavia, tra cui un certo numero di psicologi evolutivi di tutto rispetto e loro sostenitori, la genetica è divenuta simile a un sistema crittografico segreto, in grado di dare finalmente un senso ai misteri non solo della struttura dell’essere umano ma anche del suo comportamento. Se capiamo i geni, capiamo l’uomo. Dalla natura trae origine la cultura. Nel 2005, l’antropologa Susan McKinnon condusse un’analisi esaustiva di questa svolta verso la genetica come chiave per accedere a ogni conoscenza. Come dimostra la studiosa, tale mutamento finisce per dirci di piú sulle posizioni culturali e ideologiche degli autori che sul genoma umano 17. La McKinnon definisce tale approccio «genetica neoliberista», vale a dire che il quadro della natura umana da essa offerto ricorda in modo sorprendente sia la visione del mondo di Milton Friedman e Margaret Thatcher sia ciò che spinge l’uomo a farsi attore della realtà economica. L’elemento piú impressionante, tuttavia, è che gli psicologi evolutivi che dipingono tale quadro del comportamento umano si muovono liberamente tra il presente e la preistoria, dipingendo con la stessa pennellata l’uomo medio dell’America contemporanea e un cacciatore di 200 000 anni fa, quando, durante il Pleistocene, comparve per la prima volta l’homo sapiens. In base a tale impostazione, quello che conta veramente è l’individuo, mentre la società e la storia risultano elementi secondari. La libertà e la possibilità di scelta sono viste positivamente; il controllo e la regolamentazione in modo negativo. L’interesse personale e la volontà di massimizzare i profitti o i privilegi della posizione sociale sono virtú che guidano ogni nostro processo decisionale. A innescare e mantenere viva questa tendenza sono appunto gli ultimi elementi: l’interesse personale e la massimizzazione dei profitti. Come sottolinea la McKinnon, l’impegno comune che si ravvisa in tale approccio è una particolare interpretazione dell’impulso sessuale e, con esso, dei ruoli di genere, matrimonio e famiglia. La parentela è tutta incentrata sulla genetica. All’interno di tale cornice, uomini e donne cercano entrambi di «massimizzare» le rispettive posizioni, il che si riduce poi alla procreazione. L’idea, cioè, è che uomini e donne abbiano sviluppato (o piuttosto programmato attraverso il codice genetico) determinati «meccanismi preferenziali» nella scelta del compagno/compagna. Si dice che gli uomini siano alla ricerca di femmine giovani, di bell’aspetto e attraenti b. Delle donne si dice invece che posseggano ciò che questi psicologi evolutivi definiscono l’«interruttore Madonna/puttana». Fondamentalmente, gli uomini desiderano sposare una Madonna e fare, a latere, un sacco di sesso con un buon numero di puttane. Cosí facendo, avrebbero la possibilità di assicurare continuità al loro patrimonio genetico (cioè la famiglia) e soddisfare al tempo stesso il bisogno innato di diffondere il piú possibile il loro seme (la presenza e disponibilità di puttane appare tuttavia curiosa, dato che si pensa che le donne vogliano limitare il loro «investimento riproduttivo» soltanto a uno di questi ambiziosi uomini alfa. Se ne deduce pertanto che esse non possono essere portatrici di un gene della prostituzione, che risulterebbe maladattivo, per cui tutte le puttane avrebbero dovuto certamente estinguersi nei 200 000 anni trascorsi!) Oltre a determinati «interruttori» catalogati senza dubbio in base a storiche tipologie caratteriali cristiane e medievali, questi psicologi evolutivi sostengono altresí l’esistenza di geni ultra-specifici, o almeno cosí sembra. Sulle basi di ciò che sappiamo della genetica, essi riconoscono infatti l’impossibilità di individuare precisi legami tra geni e determinati comportamenti umani, tratti della personalità o inclinazioni personali. Poi, però, proseguono attenendosi esattamente a tali fantasie, che includerebbero il gene della fedeltà, quello dell’altruismo, della passione per i club, della predisposizione ad aiutare i parenti, non parliamo poi del gene che ha portato un bambino a uccidere la sorellina appena nata, e ancora, di un gene della vergogna, un gene dell’orgoglio, fino ad arrivare al mio gene favorito: quello della contabilità fraudolenta 18! La McKinnon fornisce decine di esempi tratti dai dati etnografici per obiettare a ogni singola storia in questo ambito – a ogni contabilità fraudolenta, potremmo dire. Alcuni esempi sono tratti da casi che anche noi abbiamo considerato, tra cui i Chewong, gli Iñupiaq e gli abitanti delle isole Trobriand. La McKinnon rileva, per esempio, che Malinowski sembra non aver individuato l’«interruttore Madonna/puttana» tra gli abitanti delle isole Trobriand: uomini e donne risultano infatti abbastanza aperti nei loro rapporti e incontri sessuali; le donne delle Trobriand non rientrano nelle categorie di Madonna o puttana. Questo linguaggio cosí carico di valenze, che alcuni psicologi evolutivi vogliono iscrivere nel genoma stesso, era semplicemente irrilevante nelle isole Trobriand, sia per gli uomini sia per le donne. In breve, però, il punto è che questo approccio alla genetica è semplicemente l’ultimo della ricerca di una storia naturale dell’umanità, semplice e universale. chi e che cosa siamo è legato a che cosa facciamo e a quali relazioni sociali siamo in grado di sviluppare c. I Vezo non sono Vezo perché tali sono nati: sono Vezo perché agiscono in un modo ben preciso. Per essere un Vezo, si devono fare cose da Vezo, la maggior parte delle quali ruota attorno alla famiglia, alla pesca e al mare. Questo approccio performativo e socialmente orientato all’identità è cosí forte che i Vezo sostengono addirittura che se una donna incinta intrattiene una buona amicizia nel corso della gravidanza, il bambino, crescendo, assomiglierà a quell’amica/amico. Gli esperimenti cognitivi, tuttavia, non sembravano concordare con questo resoconto etnografico. Sembra che i Vezo sappiano perfettamente che certi «fatti della biologia» influiscono in modo importante in termini di ereditarietà intergenerazionale. Negli esempi ipotetici presentati nei test, gli adulti Vezo fornirono una chiara indicazione di sapere benissimo che un bambino ricavava il suo «modello» (come lo chiamavano) dai genitori biologici. In altre parole, riconoscevano che la genetica e gli aspetti fondamentali di «ciò che siamo» non sono costrutti sociali né dipendono da atti performativi. Ciò che i tre ricercatori rilevarono, tuttavia, fu anche una sistematica negazione di tale consapevolezza da parte dei Vezo quando il discorso riguardava la propria vita. Nelle loro comunità, un’eccessiva enfasi sulla correlazione biologica era considerata antisociale e possessiva; urtava contro il valore fondamentale della vita della comunità, cioè avere il maggior numero possibile di relazioni (cioè «parentele»). La Astuti e i suoi colleghi hanno scoperto che i Vezo «non badano a ciò che noi sappiamo che loro sanno» 21. Per Rita Astuti e i suoi collaboratori, questi risultati sollevavano un punto importante, vale a dire che gli antropologi che non prendono seriamente ciò che possono arrivare a comprendere circa la cognizione e lo sviluppo concettuale non fanno che darsi la zappa sui piedi. Se lo scopo dell’antropologia è capire il punto di vista dell’indigeno, a tale obiettivo non contribuisce forse soltanto una qualche conoscenza dei vincoli che limitano lo sviluppo concettuale? Chiaramente, essi non tolgono alcun significato alla cultura, dal momento che i Vezo li «scavalcano». Al contrario, quindi, potrebbero in definitiva suggerire perfino quanto la cultura e i valori siano significativi per la nostra personalità. La stessa Ruth Benedict potrebbe essere incoraggiata da questa recente ricerca. Dopo tutto, il suo esempio di adozione «interrazziale» affronta sostanzialmente lo stesso problema: che cos’è che ci rende ciò che siamo? Eppure, ciò che il caso dei Vezo sembra indicare non è l’esistenza di un modello culturale fortemente strutturato e rigidamente prescritto. Esso indica al contrario che potrebbe esserci qualcosa di ben saldo dentro di noi che ci permette di riconoscere i «fatti della vita», ma che è chiaramente subdeterminato e dipendente dalle elaborazioni culturali. Un altro ottimo esempio che funge da ponte tra l’impostazione delle storie naturali e quella delle scienze sociali deriva dall’antropologia dell’etica 22. Si tratta di un sottocampo di studi che ha conosciuto una certa crescita negli ultimi anni, con una serie di contributi da cui traspare una seria attenzione all’opera di Aristotele, Immanuel Kant, Michel Foucault e altri esponenti della grande tradizione filosofica. In questo ambito, la ricerca si è concentrata praticamente su tutto, dai progetti etici altamente elaborati di soggetti religiosi – come abbiamo visto con gli esempi dei richiedenti della fatwa al Cairo e dei pentecostali in Papua Nuova Guinea – alle eterne battaglie dei tossicodipendenti fino all’«etica ordinaria» della vita di tutti i giorni. La maggior parte dei lavori riflette l’accento posto dall’antropologia sulle questioni riguardanti le costruzioni sociali e culturali. Nel suo recente libro Ethical Life: Its Natural and Social Histories, l’antropologo Webb Keane, uno dei piú apprezzati antropologi culturali di oggi, mette in discussione la capacità effettiva di tale impostazione socioculturale, tanto piú che l’etica è uno degli ambiti di ricerca piú importanti nel settore della psicologia e dello sviluppo evolutivo. Buona parte di quest’opera ha un orientamento piú naturalistico e si rivolge all’annosa questione se i nostri valori morali e il nostro ragionamento etico siano innati. Keane non rifiuta l’importanza della storia sociale e del contesto culturale. Lungi da questo. Entrambi rimangono elementi centrali nella sua esposizione, e l’autore dedica parecchio tempo a osservare in che modo i progetti etici vengano a svilupparsi in contesti tanto diversi come il Vietnam rivoluzionario, il movimento della religiosità islamica al Cairo e le campagne di sensibilizzazione delle femministe in Occidente. Keane segue inoltre con estrema attenzione la dimensione etica delle interazioni personali, cioè come gli scambi interpersonali nelle situazioni quotidiane e ordinarie possano rivelare qualcosa sugli interessi e i valori delle persone. Le regole d’inferenza che seguiamo durante una conversazione, gli scambi che abbiamo su Facebook e la frustrazione che proviamo dopo essere stati corretti da un barista di Starbucks per l’uso scorretto del vocabolario per ordinare un caffè (ristretto, lungo, grande, venti, con latte scremato…) possiedono tutti una valenza etica e si possono studiare opportunamente con i metodi antropologici dell’osservazione e dell’analisi sociolinguistica. Keane si dedica tuttavia anche alla psicologia e allo sviluppo evolutivo, in quanto tali aree di ricerca possono dirci parecchio su alcune delle componenti fondamentali di ogni vita etica. Lo studio include l’importanza del gioco, dell’empatia e dell’altruismo, il momento in cui i bambini iniziano a fare distinzioni tra loro e gli altri, quello in cui i bambini cominciano a riconoscere l’esistenza di altre menti e la capacità di assumere una prospettiva in terza persona. L’evidenza sembra indicare che i bambini non hanno bisogno di imparare a essere empatici, che sviluppano la propensione a cooperare e a condividere anche quando non è in gioco alcun interesse personale e che apprezzano il senso di giustizia. Storia famigliare, istruzione e altri modi di socializzazione non sono pre-condizioni per l’espressione di tali forme di conoscenza intuitiva. Al tempo stesso, come avverte Keane, questo non rende tali azioni o reazioni «etiche» in se stesse. Anziché considerarle come intuizioni
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