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Filosofia del diritto - Kelsen - Lineamenti di dottrina pura del diritto, Appunti di Filosofia del Diritto

lineamenti dottrina pura del diritto

Tipologia: Appunti

2010/2011

In vendita dal 01/01/2011

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Scarica Filosofia del diritto - Kelsen - Lineamenti di dottrina pura del diritto e più Appunti in PDF di Filosofia del Diritto solo su Docsity! LINEAMENTI DI DOTTRINA PURA DEL DIRITTI – Hans Kelsen Prefazione dell’autore Cos’è la DOTTRINA PURA? La dottrina pura è una dottrina depurata da ogni ideologia politica e da ogni elemento scientifico naturalistico, una dottrina giuridica, cosciente del suo carattere particolare dovuto all’autonomia del suo oggetto. Lo scopo dell’autore è stato quello di elevare la giurisprudenza, che palesemente ed occultamente si dissolveva quasi del tutto nel ragionamento polico-giuridico, all’altezza di una scienza autentica, di una scienza dello spirito. Si trattava di sviluppare le sue tendenze dirette non alla creazione, ma esclusivamente alla conoscenza del diritto, e di avvicinare il più possibile i suoi risultati all’ideale della scienza: oggettività ed esattezza. Una peculiarità di tale dottrina pura del diritto è la sua coerenza interna. Inoltre non c’è in genere nessun indirizzo politico a cui la dottrina pura del diritto non sia stata ancora sospettata d’appartenere. In questo senso è necessario il paragone con la scienza della natura, se infatti quest’ultima è riuscita così bene a conquistare la sua indipendenza dalla politica, ciò fu dovuto al fatto che esisteva un interesse sociale molto forte per questa sua vittoria: l’interesse per il progresso della tecnica che può essere garantito solo dalla libera ricerca. Relativamente alle scienze sociali, si manca ancora di una forza sociale che possa reagire contro l’interesse strapotente che, tanto coloro che si mantengono al potere, quanto coloro che vi aspirano hanno per la teoria che soddisfa i loro desideri, cioè per un’ideologia sociale. Inoltre l’ideale di una scienza oggettiva del diritto e dello Stato ha la prospettiva di essere riconosciuto universalmente solo in un periodo di equilibrio sociale. Le principali critiche a tale teoria riguardano la convinzione di alcuni che essa sia completamente priva di contenuto, un mero gioco di concetti vuoti, altri invece ammoniscono che a causa delle sue tendenze sovversive il suo contenuto importa un serio pericolo per lo stato esistente e per il suo diritto. Una delle obiezioni che più frequentemente si sollevano contro la teoria pura del diritto è che questa, liberandosi totalmente da ogni elemento politico, si allontana alche dalla vita palpitante e diventa perciò scientificamente priva di valore. Diritto e Natura LA PUREZZA La dottrina pura del diritto è una teoria del diritto positivo, non di un particolare ordinamento giuridico. È una teoria generale del diritto, non interpretazione di norme giuridiche particolari, statali o internazionali. La dottrina pura del diritto ha come obbiettivo solo e semplicemente la conoscenza del suo oggetto, è scienza del diritto, non politica del diritto. È improntata a liberare il diritto da tutti gli elementi che le sono estranei, infatti, in modo del tutto acritico, nel corso della storia la giurisprudenza si è mescolata con la psicologia e la biologia, con l’etica e la teologia. FATTO NATURALE E SIGNIFICATO Il diritto è un fenomeno sociale, la società è però un oggetto completamente diverso dalla natura, perché è una connessione di elementi del tutto diversa. Il diritto deve essere allora distaccato il più chiaramente possibile dalla natura. Questo è però difficile per il fatto che il diritto sta nel campo della natura e abbia un esistenza, pare, del tutto naturalistica. Se si analizza cioè qualsiasi fatto considerato diritto si possono distinguere due elementi: - ACCADIMENTO ESTERIORE. Atto sensibilmente percepibile il quale procede nello spazio e nel tempo, per lo più un comportamento umano; - SIGNIFICATO. Uno specifico significato quasi immanente o aderente a quest’atto o accadimento. AUTOQUALIFICAZIONE DEL MATERIALE SOCIALE (IL SIGNIFICATO SOGGETTIVO E OGGETTIVO) L’uomo che agisce annette infatti al suo stesso atto un significato determinato che si esprime in un modo qualsiasi e che viene inteso da coloro cui l’atto è rivolto. La conoscenza relativa al diritto trova una autoqualificazione del materiale che precede la qualificazione che deve effettuare la scienza giuridica. Da ciò si evince la necessità di distinguere il significato soggetti da quello oggettivo di un atto: - SIGNIFICATO SOGGETTIVO. Connotazione personale data all’atto dal soggetto che lo pone in essere; - SIGNIFICATO OGGETTIVO. Significato che un atto assume all’interno del sistema di tutti gli atti giuridici, cioè nel sistema del diritto. NORMA COME SCHEMA QUALIFICATIVO L’accadimento esteriore è un fatti sensibilmente percepibile perché si svolge nel tempo e nello spazio, è un frammento di natura che, come tale, è determinato secondo la legge di casualità. Ciò che trasforma questo atto in un fatto giuridico è il senso oggettivo che è unito a quest’atto: il suo significato. Il fatto in questione ottiene infatti il suo senso specificatamente giuridico, il suo particolare significato giuridico, per mezzo di una norma che nel suo contenuto vi si riferisce e gli impartisce il significato giuridico di modo che l’atto possa essere qualificato secondo questa norma. La norma funziona così come schema qualificativo, essa viene prodotta da un atto giuridico che da parte sua riceve di nuovo il suo significato da un’altra norma. In altre parole il fatto che questi fatti abbiano questo “significato” vuol dire soltanto che tali fatti nella loro totalità corrispondono a determinate disposizioni della costituzione; che il contenuto di un avvenimento effettivo coincide cioè col contenuto di una norma in qualsiasi modo presupposta. NORMA COME ATTO E STRUTTURA QUALIFICATIVA La norma, come specifica struttura qualificata, è qualcosa di diverso dall’atto psichico col quale essa è voluta o rappresentata. La dottrina pura del diritto non si rivolge né ai processi spirituali né ai fatti fisici quando cerca di conoscere le norme e di comprendere giuridicamente una cosa qualsiasi. Comprendere qualcosa giuridicamente non può significare altro che comprendere qualcosa come diritto. Infatti il diritto è una norma; ma la norma è una categoria che non trova applicazione nel campo della natura. Quando certi atti naturali vengono qualificati come processi giuridici, ciò non significa altro che è loro attribuito un valore da norme il cui contenuto sta in una determinata corrispondenza con l’avvenimento effettivo. L’attività del giudice non si esaurisce quindi per nulla in un atto conoscitivo; questo è soltanto la preparazione di un atto volitivo per mezzo del quale vien posta la norma individuale della sentenza. VALIDITA’ E SFERA DI VALIDITA’ DELLA NORMA Con “validità della norma” non si vuole indicare altro che la sua esistenza specifica, il modo particolare con cui si presenta a differenza dell’essere della realtà naturale che procede nello spazio e nel tempo. Il contenuto possibile della norma è lo stesso contenuto possibile sue ragioni fondanti nel volere e non nel conoscere, nasce quindi da interesse diverso da quello della verità. Il concetto del diritto e la dottrina della produzione giuridica DOTTRINA DEL DIRITTO NATURALE E POSITIVISMO GIURIDICO La teoria giuridico tradizionale sta ancora oggi sotto l’influsso del giusnaturalismo conservatore che opera con un concetto trascendente di diritto. Questo corrisponde totalmente al carattere metafisico fondamentale che aveva la filosofia durante il predominio della dottrina del diritto naturale, cioè in un periodo che coincide politicamente con lo sviluppo dello stato di polizia della monarchia assoluta. Non si presuppone più il diritto come categoria eterna e assoluta; si riconosce che il suo contenuto è sottoposto a un mutamento storico e che, come diritto positivo, è un fenomeno condizionato da circostanze di tempo e spazio. Sebbene si sia energicamente accentuata la distinzione tra la giustizia e il diritto, entrambi i termini rimangono uniti e collegati. Si insegna che l’ordinamento Statale positivo, per essere “diritto”, deve partecipare in certo qual modo alla giustizia (dottrina del minimo etico), sia che esso debba realizzare un minimo etico, sia che esso debba costituire un tentativo d’esser diritto giusto. Il diritto positivo deve corrispondere all’idea di diritto (nel senso di giustizia). IL DOVER ESSERE COME CATEGORIA DEL DIRITTO a. Il dover essere come idea trascendente. Il diritto positivo viene compreso o sussunto nel concetto della norma o del dover essere. Se il diritto al pari della morale viene considerato come norma, e se il senso della norma giuridica, come quello della norma morale, viene espresso in un “dover essere”, una parte del valore assoluto che è proprio della morale rimane allora aderente al concetto della norma giuridica e al dover essere giuridico. b. Il dover essere come categoria trascendentale (universale). La dottrina pura del diritto cerca di distinguere totalmente il concetto di norma giuridica da quello di norma morale da cui è sorto e assicura l’autonomia del diritto anche di fronte alla legge morale. Questo avviene facendo in modo che la norma giuridica venga intesa non come imperativo al pari della norma morale, bensì come giudizio ipotetico che esprime il rapporto specifico di un fatto condizionante con una conseguenza condizionata . La norma giuridica diventa la proposizione giuridica che esprime la forza fondamentale della legge. La legge giuridica connette la condizione con la conseguenza del diritto (conseguenza dell’illecito), tale conseguenza del diritto (o della violazione del diritto) è imputata alla condizione giuridica (il delitto comporta una punizione  sarà punito a causa di un delitto). Il rapporto tra pena e delitto (esecuzione e illecito) non ha un significato causale, ma normativo: l’espressione di tale rapporto, designato come imputazione, non è altro che il “dover essere” con cui la dottrina pura del diritto rappresenta il diritto positivo; così come la necessità è l’espressione della legge di casualità. TENDENZE IDEOLOGICHE Tendono a esaltare o criticare la realtà. Hanno ragioni fondati nel volere e non nel conoscere, il loro scopo è diverso da quello di scoprire la verità. TEORIA PURA DEL DIRITTO Ha come obbiettivo al comprensione del diritto mediante l’analisi della sua struttura. Ha come obbiettivo il conoscere, È corretto dire che: Il DOVER ESSERE è quindi espressione del senso di norma giuridica/morale. Ciò comporta l’istaurarsi di un collante inscindibile tra diritto e morale. Se si dice: quando avviene una così detta illegalità (condizione) “deve” subentrare la conseguenza dell’illegalità(conseguenza), allora questo “dovere”, come categoria del diritto, significa soltanto il senso specifico con cui condizione e conseguenza vengono insieme collegate nella proposizione giuridica. Questa categoria ha un carattere puramente formale e con ciò si distingue in linea di principio dall’idea trascendente del diritto. Essa rimane applicabile qualunque sia il contenuto dei fatti così collegati e qualunque sia la specie degli atti da concepirsi come diritto. c. Il ritorno al diritto naturale e alla metafisica. La teoria giuridica tradizionale, dopo le scosse sociali della guerra mondiale, sta per tornare su tutta la linea alla teoria del diritto naturale, allo stesso modo che anche la filosofia tradizionale trovasi ora in pieno ritorno verso la metafisica prekantiana. La teoria pura del diritto trova una forte opposizione negli epigoni che rinnegano la filosofia trascendentale di Kant e il positivismo giuridico per il fatto che trae le conseguenze ultime dalla teoria giuridica e dalla filosofia originariamente positivistica e antideologica del XIX secolo. IL DIRITTO COME NORMA COATTIVA La teoria del diritto nel XIX secolo è stata in genere concorde nel ritenere che la norma giuridica fosse una norma coattiva intesa come una norma che stabilisce una coazione e che, appunto per questo, si distingue dalle altre norme. La dottrina pura del diritto sostiene che in una proposizione giuridica, a una determinata condizione è unito come conseguenza l’elemento coattivo dello Stato, cioè la pena, l’esecuzione forzata civile e amministrativa e che, solo per questo, il fatto condizionante viene qualificato come illecito e quello condizionato come conseguenza dell’illecito. IL CONCETTO DI ILLECITO L’intenzione del legislatore, la circostanza che un fatto non sia gradito all’autorità legislativa, che sia antisociale come imprecisamente si suol dire, non costituiscono elementi essenziali per la determinazione del concetto di illecito. Illecito è quel determinato comportamento dell’uomo, che nella posizione giuridica viene posto come condizione, per cui si rivolge contro di esso l’atto coattivo posto nella proposizione stessa come conseguenza. Se la conseguenza dell’illecito è riferita a una persona diversa da quella che lo ha commesso, ciò avviene sempre e soltanto col presupposto che, tra le due persone, sussista un rapporto qualsiasi ammesso dal legislatore, sia esso reale o fittizio (responsabilità per gli illeciti commessi da altri). Fra il soggetto reale del fatto antigiuridico e l’oggetto della conseguenza di questo fatto esiste sempre un’identità fisica o giuridica. La dottrina pura del diritto respinge l’idea per la concezione per cui l’uomo, con l’illecito, verrebbe a infrangere o a violare il diritto. Essa dimostra che il diritto non può essere infranto o violato dall’illecito perché è anzi soltanto a mezzo suo che il diritto raggiunge la propria essenziale funzione. Tramite l’illecito si conferma l’esistenza del diritto, che consiste nella sua validità, nella doverosità dell’atto coattivo come conseguenza dell’illecito giuridico. IL DIRITTO COME TECNICA SOCIALE a. L’efficacia dell’ordinamento giuridico Se il diritto non è altro che un elemento coattivo esterno, esso si sarà allora concepito soltanto come una specifica tecnica sociale: si raggiungerà o si cercherà così di raggiungere lo stato sociale desiderato collegando al comportamento umano, che Quindi: un comportamento umano vale come illecito solo se l’ordinamento giuridico reagisce a questo comportamento come un atto coattivo. ATTO ILLECITO  condizione ATTO COATTIVO STATALE  conseguenza dell’atto illecito rappresenta l’opposto contraddittorio di questo stato sociale, un atto coattivo come conseguenza, cioè la privazione coattiva di un bene (vità, libertà, beni economici). Evidentemente, con ciò, l’ordinamento giuridico parte dal presupposto che gli uomini, il cui comportamento è regolato dal diritto, considerino tale atto coattivo come un male dal evitare. Con la rappresentazione di tale male minacciato nel caso di un determinato comportamento, l’ordinamento giuridico ha pertanto il fine di indurre gli uomini a seguire un comportamento contrario (efficacia dell’ordinamento giuridico). Soltanto l’uomo dotato di volontà e ragione può essere indotto dalla rappresentazione di una norma a un comportamento conforme alla norma, è per tale ragione che i così detti eventi, appaiono nel contenuto delle norme giuridiche soltanto in connessione essenziale col comportamento umano come una sua condizione o una sua conseguenza (tali eventi sono cioè influenzati e influenzano il comportamento umano). b. La norma secondaria Viene detta norma secondaria la norma che ordina il comportamento che evita la sanzione. La norma che determina la condotta che evita la coazione (condotta che l’ordinamento giuridico ha come scopo) ha il significato di norma giuridica soltanto quando si presuppone che con essa si debba esprimere in forma abbreviata ciò che solo la proposizione giuridica enuncia in modo corretto e completo (norma giuridica in forma primaria). Viene detta norma giuridica in forma primaria la proposizione giuridica che enuncia che alla condizione della condotta contraria debba seguire un atto coattivo come conseguenza. Il fatto illecito non è in contraddizione con la norma secondaria. Ciò perché tale contraddizione può verificarsi soltanto tra due condizioni di “dover essere” o tra due si “essere”, mai tra una proposizione che esprime un “dover essere” (norma secondaria) e un “essere” (illecito). L’opposizione in cui entra un fatto con una norma che comanda il contrario non può essere qualificata come una antitesi logica, ma piuttosto come un’antitesi teologica. c. Motivi dell’obbedienza al diritto È difficile giudicare se il comportamento umano conforme all’ordinamento giuridico sia davvero l’effetto della rappresentazione che suscita la minaccia dell’atto coattivo. Infatti è concorde affermare che non è sempre il timore della pena ciò che provoca una concordanza fra diritto e realtà, talvolta tale conformità può essere dovuta a ragioni di carattere religioso, costume sociale (ecc…). Questa relazione di conformità in cui viene a trovarsi il comportamento effettivo degli uomini con l’ordinamento giuridico, non deve essere necessariamente condotta alla sua efficacia, ma particolarmente a quella delle ideologie la cui funzione esige o provoca questa conformità. Il diritto non è quindi caratterizzato come un fine, ma come un mezzo specifico; esso è un meccanismo coattivo a cui, in sé e per sé non corrisponde nessun valore politico o etico, un meccanismo coattivo il cui valore dipende piuttosto dallo scopo che lo trascende in quanto mezzo. Indubbiamente il diritto è riconosciuto come storicamente condizionato e in tal modo viene rilevato l’ultimo nesso che esiste fra la tecnica sociale di un ordinamento coattivo e una situazione sociale che si sostiene per mezzo di questo. La dottrina pura del diritto considera l’ordinamento giuridico nell’autonomia normativa propria della sua struttura e non già relativamente a questo scopo e quindi come possibile causa di un determinato effetto, dato che la relazione di mezzo a fine è soltanto un caso particolare del rapporto causale. LA NEGAZIONE DEL DOVER ESSERE Si considera il diritto, cioè gli atti che pongono il diritto in essere, esclusivamente come mezzo per provocare un determinato comportamento degli uomini, ai quali si rivolgono dell’ordinamento giuridico trovi un ostacolo insormontabile. Il concetto di un diritto soggettivo diverso dal diritto oggettivo e indipendente di fronte a questo diventa tanto più importante quanto più si riconosce l’ordinamento giuridico che garantisce l’istituzione della proprietà privata come un ordinamento mutevole e costantemente variabile, creato dall’arbitrio umano e non fondato sulla volontà eterna della divinità, sulla ragione, o sulla natura; e soprattutto quando la produzione di questo ordinamento avviene con un procedimento democratico. L’obbiettivo, se così può essere definito, è proteggere l’istituzione della proprietà privata da una soppressione da parte dell’ordinamento giuridico. Non è difficile comprendere perché l’ideologia del diritto soggettivo si unisca al valore etico della libertà individuale, della personalità autonoma, quando si pensa che in questa libertà è sempre inclusa la proprietà. IL CONCETTO DEL RAPPORTO GIURIDICO Si rimane nell’orientamento di questa ideologia quando si considera il rapporto tra diritto e società e specialmente quello fra diritto ed economia come un rapporto tra forma e contenuto, e quando si interpreta il rapporto giuridico come una relazione che si trova nella materia sociale, come una “relazione di vita” che attinge dal diritto soltanto la sua determinazione esteriore. Si tratta di un indirizzo della giurisprudenza tradizionale che si atteggia a “sociologia”, il quale in verità, con questa concezione, segue soltanto le tendenze giusnaturalistiche. E si orienta nella stessa direzione di quella del dualismo di diritto oggettivo e soggettivo anche la distinzione tra rapporti giuridici personali(rapporti di credito, rapporto fra soggetti) e reali(rapporto fra persona e cosa). Il rapporto di diritto reale per eccellenza è la proprietà, definita come il dominio esclusivo di una persona su una cosa e appunto per ciò è distinta dai diritti di credito che costituiscono soltanto dei rapporti giuridici personali. Anche questa differenza, così importante per la sistematica del diritto civile, ha un evidente carattere ideologico. Se la si conserva (malgrado l’obiezione sempre risorgente che il dominio giuridico di una persona sopra una cosa non consisterebbe altro che in un determinato rapporto giuridico del soggetto verso altri soggetti, cioè nell’obbligo fatto a questi di non ledere il proprietario nella sua possibilità di disporre di una cosa e nella possibilità di escludere tutti gli altri dal godimento della cosa), questo è evidentemente dovuto al fatto che la definizione della proprietà, come rapporto tra persone e cose, nasconde la sua decisiva funzione economico-sociale: una funzione che viene indicata dalla teoria socialista come “sfruttamento”, una funzione che consiste proprio nel rapporto del proprietario con tutti gli altri soggetti che sono esclusi dall’uso della sua cosa e che sono obbligati dal diritto oggettivo a rispettare l’esclusivo potere di disporre spettante al proprietario. IL CONCETTO DELL’OBBLIGO GIURIDICO L’obbligo giuridico è la seconda forma del diritto soggettivo. La teoria generale del diritto sostiene che l’obbligo non sia affatto un concetto giuridico e che esistano soltanto degli obblighi morali in quanto nel diritto ci sono unicamente diritti soggettivi e non obblighi giuridici. La funzione fondamentale di un ordinamento, e più ancora di un ordinamento coattivo come il diritto, non può essere altro che il vincolo normativo degli individui ad esso Il diritto soggettivo è la proprietà privata e si sostiene che ha origine logica e temporale antecedente rispetto al diritto oggettivo, posto in essere da un ordinamento giuridico. In tale modo si eleva a livello superiore l’istituto della proprietà privata, che non può perciò essere abolito dall’ordinamento. L’ordinamento che non garantisce la proprietà privata non è un ordinamento giuridico. La distinzione tra rapporto giuridico personale e reale è in realtà solo apparente. Consideriamo il diritto di proprietà. Tale differenziazione tra rapporto giuridico personale e reale: - Sussiste nel momento in cui si considera la funzione economica sociale della proprietà, cioè il godimento assoluto di un bene mediante l’esclusione delle ingerenze altrui. - Non sussiste se si considera che il dominio giuridico di una persona consiste in un rapporto giuridico del soggetto verso gli altri, cioè nella possibilità del proprietario di escludere gli altri dal godimento del medesimo bene e di disporne completamente. sottoposti. E questo vincolo normativo non può essere diversamente indicato che con la parola obbligo. Quindi: L’obbligo giuridico è il vincolo normativo degli individui sottoposti a un certo ordinamento giuridico. LA RIDUZIONE DEL DIRITTO SOGGETTIVO A DIRITTO OGGETTIVO a. La norma giuridica come obbligo giuridico. La dottrina pura del diritto riconosce nell’obbligo giuridico soltanto la norma giuridica nel suo rapporto col comportamento concreto di un determinato individuo da essa stabilito, cioè di una norma giuridica individualizzata; con ciò essa emancipa completamente il concetto dell’obbligo giuridico da quello dell’obbligo morale interpretandolo nel seguente modo: “un uomo è obbligato giuridicamente a un determinato comportamento in quanto l’opposto di questo comportamento è posto nella norma giuridica come condizione d’un atto coattivo qualificato come conseguenza dell’illecito”. Se l’atto coattivo si rivolge verso un uomo diverso da quello che ha posto in essere il comportamento condizione per l’atto coattivo, si può parlare di responsabilità, e quindi differenziare i concetti di obbligo e di responsabilità in modo che quest’ultima si presenti come una specie particolare d’obbligo. Con ciò si riconosce che l’obbligo giuridico è la sola essenziale funzione del diritto oggettivo. Ogni proposizione giuridica deve necessariamente stabilire un obbligo ma può altresì stabilire una autorizzazione. b. La norma giuridica come autorizzazione. Una autorizzazione si ha quando, fra le condizioni della conseguenza dell’illecito, si include una manifestazione di volontà da parte di chi è leso nei suoi interessi; manifestazione di volontà che deve presentarsi nella forma dell’azione privata o pubblica. Soltanto in rapporto all’illecito la norma giuridica si individualizza come autorizzazione e diventa diritto soggettivo, cioè diritto di un soggetto per cui essa si pone a disposizione di questo per far valere i suoi interessi. L’autorizzazione è solitamente soltanto una forma del contenuto del diritto soggettivo, una tecnica speciale di cui il diritto può, ma non ha però la necessità di servirsi. La dottrina pura del diritto, con questa concezione della natura di ciò che si chiama diritto in senso soggettivo, supera completamente il dualismo di diritto soggettivo e oggettivo. Il diritto soggettivo non è diverso da quello oggettivo; è il diritto oggettivo stesso, soltanto in quanto si rivolge contro un soggetto concreto (obbligo) oppure si mette a disposizione di questo (autorizzazione) in forza della conseguenza giuridica da esso stabilita. c. L’autorizzazione come partecipazione alla creazione del diritto. Se si riconosce che l’essenza del diritto soggettivo nel senso di autorizzazione consiste nel fatto di assumere la manifestazione di volontà dell’interessato diretta alla conseguenza dell’illecito (cioè la sua azione pubblica o privata) come parte costitutiva essenziale nel processo con cui è prodotta la norma individuale della sentenza giudiziaria, la quale collega a un fatto illecito concreto una concreta conseguenza, allora la concessione di un diritto soggettivo significa l’ammissione alla partecipazione nella creazione del diritto. Nella categoria del diritto soggettivo rientrano anche i così detti diritti politici. Essi si definiscono di solito come la facoltà di influire sulla formazione della volontà dello stato, cioè di partecipare direttamente o indirettamente alla creazione dell’ordinamento giuridico in cui si esprime la volontà dello stato. La partecipazione alla legislazione da parte dei cittadini sottoposti alle leggi costituisce il carattere essenziale della forma di stato democratico, che ti distingue da quello autocratico che esclude i sudditi da ogni partecipazione alla formazione della volontà statale. La legislazione democratica può essere realizzata direttamente per mezzo del popolo, può essere realizzata direttamente per mezzo del popolo, cioè per mezzo dei cittadini sottoposti alle norme, e a ciò corrisponde, nella così detta democrazia diretta, il diritto soggettivo dell’individuo di partecipazione all’assemblea popolare legislativa con voce e voto. La legislazione compete anche al popolo solo indirettamente, quando viene esercitata da un parlamento eletto dal popolo. In questo caso il processo di formazione della volontà statale si divide in due fasi, la prima è l’elezione del parlamento e votazione delle leggi per mezzo dei deputati. Conformemente a ciò vi è un rapporto diritto soggettivo degli elettori, il così detto diritto elettorale; vi è inoltre un diritto soggettivo degli eletti che sono proporzionalmente pochi, il diritto alla qualità di membro del parlamento, il diritto di avere in esso voce e voto. Se tali diritti vengono caratterizzati dal fatto che concedono all’autorizzato una partecipazione alla formazione della volontà statale, ne segue che il diritto soggettivo privato è anche un diritto politico, perché anche questo fa partecipare l’autorizzato alla formazione della volontà dello stato. L’autorizzazione politica nel più stretto senso della parola garantisce la partecipazione alla produzione della norma generale; l’autorizzazione di diritto privato garantisce la partecipazione alla produzione della norma individuale. Se si considera il diritto soggettivo come una particolare struttura della funzione creatrice del diritto, allora scompare completamente ogni antitesi fra diritto oggettivo e soggettivo; e si mostra allora con chiarezza il carattere primario dell’obbligo giuridico (funzione della norma) di fronte al carattere secondario dell’autorizzazione. LA DISSOLUZIONE DEL CONCETTO DI PERSONA “Persona è un espressione unitaria personificante d’un gruppo di obblighi e di autorizzazioni giuridiche, cioè di un complesso di nome”. a. La persona “fisica”. La “persona fisica” non è l’uomo come sostiene la dottrina tradizionale. L’uomo non è un concetto giuridico, ma un concetto biologico-psicologico, non esprime nessuna unità data per il diritto o per la conoscenza del diritto, perché il diritto non comprende l’uomo nella sua totalità con tutte le sue funzioni spirituali e corporali, ma qualifica come obblighi o autorizzazioni soltanto atti umani ben determinati. L’uomo non appartiene alla comunità costituita dall’ordinamento giuridico come un tutto, ma vi appartiene soltanto con alcune delle sue particolari azioni od omissioni, in quanto queste sono appunto regolate da norme dell’ordinamento della comunità. È necessari distinguere il concetto scientifico naturalistico dell’uomo dal concetto giuridico di persona. Il concetto giuridico di persona o di soggetto del diritto esprime solo l’unità di una pluralità di obblighi e di autorizzazioni, cioè l’unità d’una pluralità di norme che stabiliscono obblighi e autorizzazioni (realtà naturale). La persona fisica, corrispondente all’uomo singolo è la personificazione, cioè l’espressione unitaria personificata, delle norme che regolano il comportamento di un uomo, essa è “ciò che porta” tutti questi obblighi e autorizzazioni, è cioè il punti comune di imputazione delle fattispecie della condotta umana regolate come obblighi e autorizzazioni, è analogamente il punto centrale di quell’ordinamento parziale le cui norme stabiliscono questi obblighi e queste autorizzazioni e la cui individualizzazione risulta dal riferimento al comportamento di uno stesso uomo (rappresentazione ausiliare della conoscenza giuridica). Che l’uomo sia o abbia personalità giuridica non significa sostanzialmente altro che certe sue azioni od omissioni costituiscono in una o altra forma il contenuto di norme giuridiche. In base alla distinzione rigorosamente mantenuta fra uomo e persona è quindi inesatto dire che il diritto obbliga e autorizza le persone. Quelli che sono obbligati o autorizzati solo gli uomini. È il comportamento umano che costituisce il contenuto delle norme giuridiche e anche il contenuto degli obblighi e delle La norma giuridica può apparire come: - Autorizzazione di diritto privato, istituzione di un ordinamento giuridico capitalista - Autorizzazione politica, istituzione di un ordinamento giuridico democratico. ordinamento dipende solo dal fatto che la sua validità possa essere ricondotta alla norma fondamentale che costituisce questo ordinamento. Secondo la specie della norma fondamentale, cioè secondo la natura del superiore principio di validità, si possono distinguere due diverse specie di ordinamenti (sistemi normativi): - Norme della morale; - Norme giuridiche. Le norme di una delle due specie sono “valide”, cioè il comportamento umano da esse determinato è da considerarsi dovuto, in forza del loro contenuto, perché il loro contenuto ha una qualità immediatamente evidente che gli attribuisce validità (norme della morale appartengono a questa specie). Le numerose norme di una morale sono già contenute nella norma fondamentale, così come appunto il particolare è contenuto nell’universale, e che perciò tutte le norme morali particolari possono essere tratte dalla norma fondamentale universale a mezzo di un procedimento logico, cioè mediante una deduzione dall’universale al particolare. La norma universale ha qui un carattere statico-materiale. ORDINAMENTO GIURIDICO COME CONCATENAZIONE PRODUTTIVA Le norme giuridiche non sono valide in forza del loro contenuto, infatti qualsiasi contenuto può essere diritto. Una norma vale come norma giuridica solo e soltanto perché si presenta in un modo particolarmente stabilito, è stata prodotta secondo una regola del tutto determinata, è stata posta secondo un metodo specifico. Il diritto vale soltanto come diritto positivo, cioè come diritto posto. In questa necessità di essere posto e nell’indipendenza implicita della sua validità di fronte alla morale e ai sistemi normativi della medesima specie, consiste la positività del diritto; in ciò consiste la differenza essenziale tra diritto positivo e diritto naturale. La norma fondamentale di un ordinamento giuridico positivo invece non è altro che la regola fondamentale della produzione del diritto, il punto di partenza di un procedimento; ha un carattere dinamico-formale. Le singole norme del sistema giuridico devono essere prodotte da un particolare atto che le pone, atto non di pensiero, ma di volontà. La posizione di norme giuridiche ha luogo in diverse forme: - Per mezzo della consuetudine; si configura come un caso speciale di posizione del diritto. - Col procedimento della legislazione quando si tratta di norme generali; - Con atti di giurisdizione e di negozi giuridici quando si parla di norme individuali; la formulazione schematica della norma fondamentale di un ordinamento giuridico (statale particolare) è la seguente: “ la coazione deve essere posta nelle condizioni e nel modo che è stato determinato dal primo costituente o dagli organi da lui delegati”. IL SIGNIFICATO DELLA NORMA FONDAMENTALE La dottrina pura del diritto si vale di questa norma fondamentale come di un fondamento ipotetico. Se si parte dal presupposto che tale norma sia valida, è valido anche l’ordinamento giuridico che su di essa si fonda. La norma fondamentale attribuisce all’atto del primo legislatore e di qui a tutti gli atti dell’ordinamento giuridico che poggiano su di questo, il significato del dover essere, quello specifico significato per il quale nella proposizione giuridica la condizione è legata alla conseguenza del diritto. Nella norma fondamentale, in ultima istanza, trova la sua base il significato normativo di tutti i fatti che costituiscono l’ordinamento giuridico. Essa è soltanto l’espressione del presupposto necessario per comprendere positivisticamente il materiale giuridico. Essa non vale come norma giuridica positiva, perché non è prodotta nel corso del procedimento del diritto; essa non è posta, ma è presupposta come condizione di ogni posizione del diritto, di ogni procedimento giuridico positivo. Con la teoria della norma fondamentale, la dottrina pura del diritto tenta di rilevare, attraverso all’analisi dei procedimenti effettivi, le condizioni logico-trascendentali del metodo della conoscenza giuridica positiva. LA NORMA FONDAMENTALE DELL’ORDINAMENTO GIURIDICO DI UN SINGOLO STATO a. Il contenuto della norma fondamentale Il contenuto della norma fondamentale riposa sopra quegli elementi di fatto che hanno prodotto l’ordinamento a cui corrisponde, fino a un certo grado (non è cioè pretesa una corrispondenza totale e perfetta), il comportamento effettivo di quegli uomini ai quali si riferisce l’ordinamento stesso. Non c’è nessun bisogno infatti di ordinare ciò che, secondo quanto generalmente si ritiene, deve avvenire per necessità naturale. Se si trattasse di fondare un ordinamento sociale, a cui corrispondesse sempre e in tutte le circostanze l’effettivo comportamento degli uomini, tale ordinamento sarebbe inutile e privo di senso. La validità di un ordinamento giuridico, che regola il comportamento di determinati uomini, si trova in un sicuro rapporto di dipendenza col fatto che il comportamento reale di questi uomini corrisponde all’ordinamento giuridico o anche, come si suol dire, alla sua efficacia. b. Validità e efficacia dell’ordinamento giuridico (diritto e forza). La considerazione di questo rapporto di dipendenza può facilmente indurre a identificare la validità dell’ordinamento giuridico con la sua efficacia, cioè col fatto che il comportamento degli uomini a cui l’ordinamento giuridico si riferisce corrisponde a tale ordinamento fino a un certo grado (tale corrispondenza parziale è detta efficacia). Se si sostiene che la validità, cioè la specifica esistenza del diritto, è una qualche realtà naturale, non si è in grado di intendere il senso particolare con cui il diritto si rivolge alla realtà e appunto per questo si pone di fronte alla realtà, la quale solo in quanto non è identica alla validità del diritto può trovarsi in corrispondenza o in contrasto con questo. Il diritto non può invece esistere senza fora, in tale concezione il diritto è un ordinamento (o organizzazione) della forza. c. Il diritto internazionale e la norma fondamentale del singolo ordinamento giuridico statale. L’ordinamento internazionale dà legittimità ad un potere che si stabilisce di fatto e delega così l’ordinamento coattivo istituito da questo potere in quella sfera in cui è realmente efficace. Questo principio dell’effettività, che è un principio giuridico di diritto internazionale, funge come norma fondamentale dei diversi ordinamenti giuridici dei singoli stati: la costituzione del legislatore che è primo storicamente è valida soltanto in base al presupposto che sia efficace, cioè che l’ordinamento che si sviluppa secondo le sue proprie determinazioni si accordi in generale con la realtà corrispondente. Se però la norma che sta alla base degli ordinamenti giuridici dei singoli stati è riconosciuta come norma giuridica positiva, allora non si può più parlare di una norma fondamentale nel senso di norma non posta ma soltanto presupposta, ma soltanto di una norma come base del diritto internazionale. Il principio di effettività, che è proprio del diritto internazionale, può valere soltanto come norma fondamentale relativa agli ordinamenti giuridici dei singoli stati. d. Validità ed efficacia della singola norma giuridica. La validità di un ordinamento giuridico come totalità non è lesa dal fatto che a una singola norma giuridica di questo sistema manchi l’efficacia. Questa norma rimane valida perché e in quanto si trova inserita nella concatenazione produttiva di un ordinamento valido. Il principio di diritto internazionale della effettività si riferisce immediatamente solo alla prima costituzione del singolo ordinamento giuridico statale. L’ordinamento giuridico dello stato singolo può erigere il principio dell’effettività, in una certa qual misura e per il proprio campo, a principio giuridico positivo e così può far dipendere la validità delle singole norme dalla loro efficacia. LA COSTRUZIONE A GRADI DELL’ORDINAMENTO GIURIDICO a. La costituzione. Il diritto regola la sua propria produzione, in quanto una norma giuridica regola il procedimento con cui un’altra norma giuridica viene prodotta, e regola anche in grado diverso il contenuto della norma che deve essere prodotta. Dato che per il carattere dinamico del diritto una norma vale perché e in quanto è stata prodotta in una forma determinata, determinata cioè da un’altra norma, quest’ultima rappresenta il fondamento di validità della prima. La norma che determina la produzione è la più alta e quella prodotta nella forma stabilita è la più bassa. L’ordinamento giuridico non è pertanto un sistema di norme giuridiche di egual gerarchia, la sua unità è data concatenazione risultante dal fatto che la produzione e quindi la validità dell’una risale all’altra la cui produzione è a sua volta determinata da un’altra, un regresso che sbocca infine nella norma fondamentale. La costituzione a gradi dell’ordinamento giuridico può forse essere rappresentata schematicamente nel modo seguente: 1. Norma fondamentale 2. Costituzione. Ne senso materiale della parola, la cui funzione essenziale consiste nel regolare gli organi e il procedimento generale della produzione giuridica, cioè della legislazione. 3. Legge ordinaria e norme generali: la legislazione (p.to b). 4. Sentente giudiziali, atti amministrativi. Solitamente le norme costituzionali contengono dei principi a cui le leggi ordinarie devono conformarsi e a cui non possono derogare in ragione del fatto che la norma ordinaria non può derogare alla legge costituzionale che determina la sua produzione e il suo contenuto, perché quest’ultima può essere modificata o abrogata soltanto in base a condizioni che rendono ciò più difficile (es. art.138 Cost. procedimento aggravato). b. La legislazione; il concetto di fonte del diritto. Nel grado che segue la costituzione si trovano le norme generali prodotte nel corso del procedimento legislativo, la cui funzione non consiste soltanto nel determinare gli organi e il procedimento, ma anche e soprattutto il contenuto delle norme individuali. Alla legislazione spetta di determinare la produzione e il contenuto degli atti giurisdizionali e amministrativi. Il rapporto fra costituzione e legislazione è il medesimo di quello fra legge e giurisdizione o amministrazione; soltanto che il rapporto fra determinazione formale e materiale nel grado inferiore (momento formale>momento materiale) è diverso che nel grado superiore(momento formale=momento materiale). Nella struttura positiva degli ordinamenti giuridici dei singoli stati, il grado della produzione generale del diritto regolato dalla costituzione è spesso suddiviso a sua volta in due o più gradi. È necessario evidenziare la differenza tra legge e regolamento o decreto, che ha un particolare significato là dove la costituzione trasferisce fondamentalmente la produzione delle norme giuridiche generali a un parlamento eletto dal popolo, ma ammette l’esecuzione più particolareggiata delle leggi per mezzo di norme generali che siano emanate da determinati organi amministrativi, autorizzando così il governo a emanare al posto del parlamento tutte le norme necessarie o alcune norme generali. Le norme generali che non emanano da un parlamento ma da un’autorità amministrativa sono designate come regolamenti che eseguono le leggi o come decreti che vi suppliscono (decreti legislativi). Si parla di legge in senso formale distinta dalla legge in senso materiale, questa espressine indica ogni norma giuridica generale votata dal parlamento e pubblicata in un determinato modo secondo le prescrizioni tipiche della maggior parte delle costituzioni, oppure indica in generale ogni contenuto che si presenta in quella forma. Fonte del diritto significa in generale ogni norma giuridica, non solo quella generale, ma anche quella individuale in quanto da questa, come dal diritto oggettivo, sgorga il diritto in senso soggettivo, cioè un obbligo o un’autorizzazione. c. La giurisdizione. La norma generale che collega a un fatto astrattamente determinato una conseguenza pure astrattamente determinata ha bisogno di essere individualizzata per raggiungere il suo proprio significato. Si deve stabilire se esista in concreto un fatto che la norma L’interpretazione è un procedimento spirituale che accompagna il processo di produzione del diritto nel nuovo sviluppo da un grado superiore a uno inferiore regolato da quello superiore. L’interpretazione della legge deve rispondere alla domanda: “come dalla norma generale della legge nella sua applicazione a un fatto concreto si può estrarre la corrispondente norma individuale d’una sentenza o di un atto amministrativo?”. L’INDETERMINATEZZA RELATIVA DEL GRADO GIURIDICO INFERIORE IN RAPPORTO COL SUPERIORE Il rapporto fra un grado superiore e un grado inferiore dell’ordinamento giuridico, come fra costituzione e legge, o fra legge e sentenza, è un rapporto di determinazione o di vincolo. La norma di grado superiore regola l’atto con cui viene prodotta la norma di grado inferiore, essa determina non soltanto il procedimento in cui viene prodotta la norma più bassa, ma anche eventualmente il contenuto della norma da prodursi. Ma questa determinazione non è mai completa. La norma di grado superiore non può vincolare in tutti i sensi l’atto per mezzo del quale viene eseguita. Sempre deve rimanere un margine più o meno ampio di potere discrezionale in modo che la norma di grado superiore abbia sempre e soltanto il carattere di uno schema che deve essere riempito per mezzo di questo atto. L’INDETERMINATEZZA INTENZIONALE DEL GRADO INFERIORE Ogni atto giuridico con cui una norma viene eseguita è determinato da questa norma solo in una parte e nell’altra parte rimane indeterminato. L’indeterminatezza si può riferire tanto al fatto condizionante, quanto alla conseguenza condizionata. L’indeterminatezza può essere addirittura intenzionale, cioè essere nell’intenzione dell’organo che pone la norma più elevata. L’INDETERMINATEZZA NON INTENZIONALE DEL GRADO INFERIORE L’indeterminatezza dell’atto giuridico può essere anche la conseguenza non intenzionale della natura di quella norma che deve essere eseguita dall’atto in questione. L’ambiguità di una parola o di una serie di parole con cui si esprime una norma è la prima problematica. Il senso letterale della norma non è quindi chiaro; la stessa situazione si presenta quando colui che esegue la norma credi di poter supporre che tra l’espressione letterale della norma e la volontà del legislatore esista una discrepanza per cui rimane in dubbio in qual modo questa volontà debba essere determinata. Che la così detta volontà del legislatore o l’intenzione delle parti contraenti (negozio giuridico) non corrisponda alle parole che vengono espresse nella legge, oppure nel negozio giuridico, è una possibilità generalmente riconosciuta dalla giurisprudenza tradizionale. La discrepanza fra la volontà ed espressione può essere totale, ma anche solo parziale. L’indeterminatezza dell’atto giuridico che deve effettuarsi sulla base di una norma, può essere, infine, la conseguenza del fatto che due norme, che pretendono d’essere contemporaneamente valide, perché ad esempio sono contenute nella medesima legge, si contraddicono del tutto o parzialmente. LA NORMA COME UNO SCHEMA NEL QUALE SI VENGONO A TROVARE DIVERSE POSSIBILITA’ DI ESECUZIONE In tutti questi casi di determinatezza intenzionale o non intenzionale, si presentano parecchie possibilità di esecuzione. L’atto giuridico esecutivo può configurarsi in modo da corrispondere a uno o a un altro dei vari significati linguistici della norma giuridica; in modo da corrispondere, o alla volontà del legislatore che deve tradursi in una qualche forma, o all’espressione da lui scelta. La norma che deve essere eseguita, talvolta costituisce soltanto uno schema entro il quali si trovano molteplici possibilità di esecuzione e ogni atto che si mantiene entro questo schema e lo riempie in un senso possibile qualsiasi, è conforme alla norma. L’interpretazione della legge non deve condurre necessariamente a un’unica decisione come la sola esatta, bensì, possibilmente, a varie decisioni che hanno tutte il medesimo valore in quanto corrispondono alla norma da applicarsi anche se una soltanto tra esse, nell’atto della sentenza, diventa diritto positivo. Il fatto che una sentenza sia fondata sulla legge non significa altro che ci si attiene allo schema indicato dalla legge, non significa già che essa sia la norma individuale, bensì una qualsiasi fra le norme individuali che sono possibili entro lo schema della norma generale. I COSI’ DETTI METODI DI INTERPRETAZIONE Dal punto di vista del diritto positivo, non vi è invece un criterio in base al quale, nello schema della norma che deve essere applicata, una delle possibilità date possa essere preferita all’altra, precisamente non vi è alcun metodo che si possa designare come positivamente giuridico, secondo il quale, fra i vari significati verbali di una norma, si possa ravvisare soltanto uno di essi come “esatto”. Tutti i metodi di interpretazione sviluppati finora conducono sempre e soltanto a un risultato possibile, mai all’unico esatto. I mezzi comuni di interpretazione, cioè l’argumentum a contrario e l’analogia, siano del tutto privi di valore, risulta già sufficientemente dal fatto che entrambi conducono a risultati opposti e che non vi è nessun criterio per sapere quando si debba applicare l’uno e quando l’altro. Anche il principio della così detta valutazione degli interessi è soltanto una formulazione, non una soluzione di questo problema. La necessità di una interpretazione risulta quindi proprio dal fatto che la norma da applicarsi o il sistema delle norme lasci aperte varie possibilità; questa graduazione degli interessi è lasciata invece a un atto di produzione della norma, per esempio, alla sentenza del giudice. L’INTERPRETAZIONE COME ATTO DI CONOSCENZA O DI VOLONTA’ Il compito di estrarre dalla legge la sentenza giusta o l’atto amministrativo giusto è approssimativamente lo stesso di creare, nello schema della costituzioni, le leggi giuste. Lo stesso vale quando si estraggono dalla legge, per mezzo dell’interpretazione, sentenze giuste. La determinazione della norma individuale nel procedimento esecutivo della legge è una funzione della volontà in quanto con questa viene riempito lo schema della norma generale. L’ILLUSIONE DELLA CERTEZZA DEL DIRITTO La concezione per cui l’interpretazione sarebbe una conoscenza del diritto positivo è, come tale un procedimento per estrarre norme nuove da quelle già vigenti, costituisce il cd fondamento della “giurisprudenza dei concetti” che è anche respinta dalla dottrina pura del diritto. Questa non segue l’opinione per cui attraverso la conoscenza si possono creare norme nuove. È l’illusione della certezza del diritto che la teoria giuridica tradizionale coscientemente o incoscientemente si sforza di mantenere. IL PROBLEMA DELLE LACUNE All’interpretazione viene attribuita una funzione speciale, quella di colmare le lacune. Ogni lite consiste nel fatto che una parte solleva una pretesa contro un’altra e la decisione che la accoglie o la respinge dipende dal fatto che la legge, cioè una norma vigente e applicabile al caso concreto, stabilisca o meno l’asserito obbligo giuridico. Siccome non esiste una terza possibilità, una decisione è sempre possibile e precisamente sempre in base alla legge. L’ordinamento giuridico non contiene soltanto la proposizione per cui si è obbligati a un determinato comportamento ma anche la proposizione: “ si è liberi di fare o di non fare quello a cui non si è obbligati”. Se tuttavia in certi casi si parla di “lacuna”, questo non significa, come erroneamente significa dall’espressione, che per mancanza di una norma sia logicamente impossibile una decisione, ma soltanto che la decisione logicamente possibile, che approva o respinge, viene ritenuta come troppo inadatta allo scopo o come troppo ingiusta dall’organo chiamato alla decisione, cioè all’applicazione della legge; talmente inadatta allo scopo e talmente ingiusta da lasciar supporre che il legislatore non abbia pensato a questo caso e che avrebbe deciso diversamente da quanto dovrebbe aver deciso in base alla legge. La cd “lacuna” non è quindi altro che la differenza fra il diritto positivo e un ordinamento ritenuto migliore, più giusto, più esatto. Soltanto perché si paragona tale ordinamento al diritto positivo e si trovano quindi tale difetto (lacuna= differenza tra diritto positivo e diritto desiderato). L’interpretazione non ha qui il compito d’applicare la norma che deve essere interpretata, ma, al contrario, quello di eliminarla per mettere al suo posto una norma migliore, più giusta, più esatta, in breve, quella desiderata da colui che applica il diritto. Con l’apparenza di essere completata, la norma originaria, nell’applicazione, viene soppressa e sostituita da una nuova. Si tratta di una finzione di cui ci si serve specialmente quando la modificazione per legge delle norme generali è difficile o impossibile per un qualsiasi motivo. LE COSI’ DETTE LACUNE TECNICHE Dalle lacune propriamente dette, si distinguono talvolta le lacune tecniche, che sono considerate possibili e colmabili per via di interpretazione perfino da coloro che, da un punto di vista positivistico, negano l’esistenza di lacune vere e proprie. Esse hanno luogo quando il legislatore omette di regolare mediante norme una situazione che avrebbe dovuto regolare, insomma quando è in generale tecnicamente possibile applicare la legge. Con lacuna tecnica si intende invece o: 1. Quella lacuna nel senso originario della parola (differenza tra diritto positivo e diritto desiderato - es. effetti obbligatori della compravendita e soggetto responsabile per il perimento della cosa ante consegna); 2. Oppure quell’indeterminatezza che risulta dal carattere schematico della norma. Si ha solitamente quando una disposizione che è evidentemente ritenuta desiderabile da chi sostiene che esiste una lacuna, ma che in nessun modo deve essere sottintesa per rendere applicabile la legge (es. viene stabilito che un organo sia creato per via elettiva ma non si regola il procedimento elettorale). LA TEORIA DELLE LACUNE DEL LEGISLATORE Sebbene teoricamente le lacune della legge non esistano, il legislatore, indotto da una falsa teoria può presupporre l’esistenza di lacune. Un buon legislatore non può rinunciare alla correzione della legge necessaria in certe circostanze, perché fin da principio deve fare i conti con i fatti che non ha preveduto e non può neppure prevedere, perché le sue norme generali possono essere applicate soltanto ai casi medi. Non gli rimano altro che lasciare la decisione a colui che applica il diritto; a rischio inevitabile che questi, come il legislatore delegato, deliberi anche nei casi in cui il legislatore originario voleva che fosse applicata la sua legge. Con ciò si pone in dubbio il principio per il quale l’esecuzione deve essere conforme alla legge, e quindi il principio della validità delle norme generali che debbono essere applicate dai tribunali o dalle autorità amministrative; e si minaccia di spostare il centro di gravità della produzione del diritto dal creatore delle norme generali a colui che applica il diritto al caso individuale. Colui che applica il diritto deve pensare che gli è permesso di non applicare la legge soltanto nei casi in cui non può essere applicata, perché essa stessa non ha nessuna possibilità di applicazione (finzione della lacuna, serve per far si che il giudice applichi la legge secondo la volontà del legislatore). Colui che applica il diritto solo nel caso di una fortissima divergenza tra la legge e la propria coscienza giuridica, gli sembri che esista una lacuna reale, cioè un caso che il legislatore stesso non ha voluto regolare e che la legge perciò non ha regolato. La così detta lacuna della legge è una formula tipicamente ideologica. I metodi della produzione del diritto FORMA DEL DIRITTO E FORMA DELLO STATO La dottrina della costruzione a gradi dell’ordinamento giuridico considera il diritto nel suo movimento, nel processo della sua autoproduzione che continuamente si rinnova (teoria dinamica del diritto) al contrario di quanto accade nella teoria statica del diritto che, senza considerare la sua produzione cerca di concepire solo il diritto come un ordinamento già prodotto, nella sua validità e nel suo proprio ambito di validità. Al centro del problema di Nelle comunità giuridiche primitive anteriori allo stato la produzione di norme giuridiche generali veniva affidata al mezzo della consuetudine. La determinazione del fatto illecito, così come la realizzazione della conseguenza dell’illecito, è affidata a quelle stesse persone i cui interessi sono stati lesi. Nel compiere questi fatti i membri della comunità agiscono come organi dell’ordinamento giuridico e della comunità da questo costituita, agiscono cioè in quanto sono autorizzati a ciò dall’ordinamento giuridico. Solo perché, in forza di tale autorizzazione, questi atti coattivi possono essere imputati alla comunità, e per mezzo di essi è la comunità che reagisce contro l’illecito. Solo attraverso una lunga evoluzione si formano degli organi centrali come risultato del processo della divisione del lavoro sociale. Fintanto che al di sopra dell’ordinamento giuridico statale non vi è nessun ordinamento superiore, è lo stato stesso il più elevato di tutti, l’ordinamento o la comunità giuridica sovrana. L’ordinamento coattivo statale restringe di fatto la sua validità entro uno spazio e ad oggetti determinati. Tale ordinamento ha la capacità, non limitata da nessun ordinamento giuridico superiore, di estendere la sua validità, tanto dal punto di vista territoriale, quanto da quello materiale. Appena si eleva però sull’ordinamento giuridico dello stato singolo l’ordinamento giuridico internazionale, non si può più concepire lo stato come ordinamento giuridico sovrano, ma soltanto come un ordinamento relativamente elevato. Per mancanza sufficiente di accentramento l’ordinamento internazionale non può pretendere che la comunità soprastatale sia uno stato, come non lo è neppure la comunità giuridica prestatale. b. Lo stato come problema di imputazione giuridica Un’azione umana è un atto dello stato solo in quanto è qualificata come tale da una norma giuridica. Si pone la questione del perché una determinata azione umana (=ogni atto dello stato) non sia imputata all’uomo stesso che la compie, ma a un soggetto pensato dietro di lui. Lo stato, come soggetto degli atti statali, cioè lo stato come persona, non è altra cosa che la personificazione di questo ordinamento che, come ordinamento giuridico, è precisamente quell’ordinamento coattivo nella cui forza solo può essere concepito lo stato. L’imputazione alla persona dello stato trasforma il fatto imputato in atto dello stato e qualifica l’individuo che compie il fatto come organo dello stato. La persona giuridica dello stato è l’espressione dell’unità di un ordinamento giuridico, un punto di imputazione che lo spirito conoscitivo dell’uomo incline all’intuizione è troppo facilmente indotto a ipotizzare, a supporre come tale per rappresentarsi lo stato al di là dell’ordinamento giuridico come essere diverso da questo. c. Lo stato come meccanismo di organi burocratici. Non appena l’ordinamento giuridico ha superato il primitivo stato di completo decentramento, per la produzione e l’esecuzione delle norme giuridiche e specialmente per l’esecuzione degli atti coattivi, degli organi che funzionano secondo la divisione del lavoro, si eleva nettamente sulla massa dei membri dello stato, cioè di coloro che sono sottoposti alle norme, un gruppo di individui che sono qualificati come organi in modo specifico. All’essenza di questo accentramento corrisponde il fatto che la funzione degli organi agenti secondo la divisione del lavoro di regola sia regolata come obbligo giuridico, cioè sia sanzionata da una specifica conseguenza dell’illecito, da una sanzione, disciplinare, e che la funzione diventi a poco a poco professionale e remunerabile. L’organo dello stato diventa un funzionario dello stato, questo sviluppo è legato al passaggio dall’economia naturale alla monetaria, presuppone la formazione del fisco pubblico, cioè di un patrimonio centrale la cui produzione e il cui impiego, il cui accrescimento e la cui diminuzione, sono regolati in modo speciale e per mezzo del quale sono remunerati gli organi burocratici dello stato così come sono pagate le spese relative alla loro attività. Dallo stato rappresentato da questi organi burocratici parte quella attività già designata come amministrazione diretta dello stato, come perseguimento diretto del fine dello stato. L’evoluzione dallo stato “giurisdizionale” allo stato “amministrativo” si collega al meccanismo formato dagli organi burocratici dello stato. Stato amministrativo è quello stato in cui organi burocratici perseguono direttamente il fine dello stato in quanto pongono direttamente in essere lo stato sociale desiderato, mentre gli organi reagiscono contro di questi nel caso di un comportamento contrastante. Lo stato come meccanismo coattivo comprende lo stato come meccanismo amministrativo. Il privato che funge come elettore del parlamento, così come chi è eletto e come il parlamento formato dagli eletti, sono considerati “organi dello stato” sebbene manchi loro la qualifica specifica di funzionari. È evidente che sono considerati tali in quanto esercitano una funzione giuridica. Lo stato è considerato quindi come insieme di organi burocratici. Dal punto di vista di un’analisi strutturale esatta, il concetto di organo dello stato come persona-organo deve essere sostituito con quello di funzione-organo. Se si sostituisce però l’organo dello stato con la funzione dello stato, lo stato allora si presenta come un sistema di funzioni giuridicamente ben determinate. Questo stato è un complesso di situazioni di fatto qualificate giuridicamente in un determinato modo, è in ultima analisi il sistema delle norme giuridiche che qualificano queste situazioni di fatto: un ordinamento giuridico parziale più o meno arbitrariamente staccato dalla totalità dell’ordinamento giuridico statale. d. La dottrina dello stato come dottrina di diritto. La tesi che lo stato sia un ordinamento giuridico trova la sua conferma anche del fatto che i problemi che tradizionalmente si presentano dal punto di vista della teoria generale dello stato, si presentano come problemi di teoria del diritto, come problemi della validità e della produzione dell’ordinamento giuridico. Quelli che si chiamano “elementi” dello stato, la sovranità, il territorio, il popolo, non sono altro che questa validità dell’ordinamento statale in sé così come la sfera di validità spaziale e personale di questo ordinamento. La dottrina dei tre poteri o funzioni dello stato mostra come suo proprio oggetto i diversi gradi di produzione dell’ordinamento giuridico. Gli organi dello stato possono essere compresi soltanto come fatti di produzione e di esecuzione giuridica e le forme dello stato non sono altro che metodi di produzione dell’ordinamento giuridico che si chiama simbolicamente “volontà dello stato”. e. La forza dello stato come efficacia dell’ordinamento giuridico. Si può comprendere nell’efficacia dell’ordinamento giuridico tutto ciò che si suole designare come “forza dello stato” o lo stato come “forza”. Tutte le manifestazioni esterne, in cui si vuole ravvisare la forza dello stato, sono di per sé oggetti inanimati. Si trasformano in strumenti della forza dello stato soltanto quando gli uomini si servono di essi nel senso di un determinato ordinamento, soltanto quando questi uomini sono determinati dalla rappresentazione di questo ordinamento e dalla credenza di dover agire conformemente ad esso. Se si riconosce tutto ciò, il dualismo fra stato e diritto si dissolve. L’ideologia politica dello stato di diritto appare soltanto come un derivato e un surrogato dell’ideologia teologico-religiosa che concorda con essa in tutti i punti essenziali. Il tentativo di legittimare lo stato come stato di diritto si rivela completamente sterile, perché ogni stato è necessariamente uno stato di diritto in quanto si intenda per stato di diritto uno stato che ha un ordinamento giuridico. Ogni stato è soltanto un ordinamento giuridico. Dal punto di vista di un positivismo giuridico conseguente, tanto il diritto quanto lo stato non possono essere conosciuti in modo diverso che come un ordinamento coattivo della condotta umana sul cui valore morale o di giustizia non si esprime alcun giudizio f. La dissoluzione dell’ideologia della legittimazione. Questa risoluzione critico-metodologica del dualismo fra stato e diritto è nello stesso tempo la negazione totale della tanto diffusa ideologia della legittimazione. Se la dottrina pura del diritto si rifiuta di legittimare lo stato per mezzo del diritto, essa non fa ciò perché considera impossibile ogni legittimazione dello stato, ma soltanto perché nega che la scienza giuridica sia in grado di dare una giustificazione dello stato a mezzo del diritto. Ed essa afferma particolarmente che non può essere compito della scienza del diritto quello di dare una qualsiasi giustificazione. Giustificazione significa giudizio di valore e i giudizi di valore, per il loro carattere soggettivo, spettano all’etica e alla politica, non già alla conoscenza oggettiva. Stato e diritto internazionale L’ASSENZA DEL DIRITTO INTERNAZIONALE a. I gradi del diritto internazionale; la sua norma fondamentale. Il diritto internazionale si compone di norme che originariamente furono prodotte per regolare le relazioni fra gli stati, o dalla consuetudine, o da atti degli stati, cioè degli organi competenti secondo gli ordinamenti giuridici dei singoli stati. Le norme del diritto internazionali generale sono tali in quanto attribuiscono obblighi e autorizzazioni a tutti gli stati. “Pacta sunt servanda” (Grozio) è una norma che autorizza i soggetti della comunità internazionale a regolare per mezzo di patti il loro comportamento, cioè il comportamento dei loro organi e dei loro sudditi. Il diritto internazionale convenzionale oggi vigente ha soltanto carattere particolare. Le sue norme non vigono per tutti gli stati, ma soltanto per due stati o per un gruppo più o meno grande di stati. Esse costituiscno soltanto delle comunità parziali. Gerarchicamente troviamo quindi al vertice l’ordinamento internazionale consuetudinario generale, seguito dal diritto internazionale convenzionale particolare. La funzione del tribunale internazione, organo produttivo di diritto internazionale, poggia a sua volta su di un trattato di diritto internazionale, cioè su di una norma cha appartiene al secondo grado del diritto internazionale. Dato che quest’ultimo poggia su di una norma del diritto internazionale consuetudinario formatasi attraverso i comportamenti reciproci degli stati. Il fatto che il diritto internazionale consuetudinario generale per la sua origine sia più recente degli ordinamenti giuridici dei singoli stati non impedisce che questi trovino in quelli il fondamento della loro validità. b. Il diritto internazionale come ordinamento giuridico-primitivo. Il diritto internazionale presenta il medesimo carattere del diritto di uno stato particolare. È un ordinamento coattivo. La proposizione giuridica di diritto internazionale, così come la proposizione giuridica dell’ordinamento di uno stato particolare, è il legame fra un fatto (ritenuto dannoso per la comunità) considerato come condizione e un atto coattivo considerato come conseguenza. Le specifiche conseguenze della violazione del diritto internazionale sono la rappresaglia e la guerra. L’ordinamento giuridico internazionale è tuttavia un ordinamento giuridico primitivo, nell’intera comunità internazionale si manifesta infatti un forte decentramento. Manca qui ancora un organo per la produzione e l’esecuzione delle norme giuridiche il quale funzioni secondo la divisione del lavoro. La formazione delle norme generali si effettua per via consuetudinaria o per mezzo dei trattati, e cioè attraverso i membri della comunità giuridica stessa e non attraverso un particolare organo legislativo. Lo stato che si considera leso nei suoi interessi è quello stesso stato che deve decidere se si trova dinanzi a un illecito di cui sia responsabile un altro stato. La tecnica dell’autodifesa domina quindi in questo ordinamento, come pure vi domina il principio della responsabilità collettiva e indiretta, non già della responsabilità individuale e diretta. La conseguenza dell’illecito non si dirige contro la persona che, fungendo come organo dello stato particolare, abbia causato il fatto illecito per dolo o per colpa, ma si dirige contro la persona che, fungendo come organo dello stato particolare, abbia causato il fatto illecito per dolo e per colpa, ma si dirige contro altri che in nessun modo hanno partecipato a questo fatto e che non erano neppure in grado di opporvisi. Rappresaglia e guerra non colpiscono gli organi dello stato che hanno violato il diritto internazionale con la loro azione od omissione imputabile allo stato, ma colpiscono invece le masse di uomini (popolo-esercito). giuridico più elevato nella sfera sociale. Il diritto internazionale che vale soltanto in quanto uno stato lo riconosce per sé obbligatorio non appare soltanto secondo questa concezione come un ordinamento superstatale, ma come una parte costitutiva e liberamente accolta dell’ordinamento giuridico del proprio stato, come “diritto statale esterno”, cioè come il complesso di quelle norme dell’ordinamento giuridico statale che regolano il comportamento con gli altri stati e che vengono fatte proprie per via del “riconoscimento”. Riconosce Che gestisce i rapporti Con… La teoria del riconoscimento stabilisce un nesso di delegazione fra l’ordinamento giuridico statale, che costituisce il punto di partenza della costruzione, e tutti gli altri ordinamenti giuridici degli stati singoli. Questa unità è ricostituita sulla base del primato dell’ordinamento giuridico del singolo stato. Per la necessità di concepire come norme giuridiche valide, non solo l’ordinamento giuridico del proprio stato, ma anche di altri ordinamenti, e in particolare anche il diritto internazionale, la costruzione dualistica è spinta a sopprimere se stessa attraverso la teoria del riconoscimento che le è indispensabile. Nelle conseguenze vi è l’intenzione politica del mantenimento dell’idea di sovranità dello stato, dell’idea che lo stato rappresenta la comunità giuridica assolutamente suprema. La sovranità di uno stato, in questo suo significato originario, è infatti incompatibile con la sovranità di un altro stato. Il dogma della sovranità dello stato, col conseguente primato dell’ordinamento giuridico del proprio stato, corrisponde completamente a una concezione soggettivistica che nelle sue ultime conseguenze cade nel solipsismo e che vuoi concepire l’individuo particolare, cioè l’io, come centro del mondo e quindi il mondo soltanto come volontà e rappresentazione dell’io. Al radicale soggettivismo dello stato si oppone il primato dell’ordinamento giuridico internazionale, come espressione di una concezione specificamente oggettivistica del mondo e del diritto. e. La negazione del diritto internazionale. Il soggettivismo che per concepire il mondo parte dal proprio io e che, sebbene estenda questo io su tutto l’universo, non può raggiungere un mondo oggettivo al di sopra dell’io sovrano, è incapace di concepire un altro soggetto come un essere della stessa natura del proprio io, un non-io che si presenta con eguale pretesa di sovranità. Tale è pure la costruzione monistica, in cui finisce di cadere il dualismo con la sua teoria del riconoscimento a causa della tendenza di conservare il dogma della sovranità: cioè il primato dell’ordinamento giuridico del proprio stato è totalmente incompatibile con la rappresentazione di una pluralità di stati delimitati giuridicamente e reciprocamente nel loro rispettivo ambito di validità. Così, il primato dell’ordinamento giuridico del proprio stato è totalmente incompatibile con la rappresentazione di una pluralità di stati delimitati giuridicamente e reciprocamente nel loro rispettivo ambito di validità. Così il primato dell’ordinamento giuridico del proprio stato significa non solo la negazione della sovranità di tutti gli altri stati e quindi della loro esistenza giuridica, ma significa anche la negazione del diritto internazionale. Questo diritto deve necessariamente subire un cambiamento completo della sua propria natura. Le norme che regolano il comportamento del proprio stato verso l’esterno, cioè il diritto internazionale che diventa diritto statale esterno, trovano il fondamento della loro validità nella costituzione dello stato che ha accolto e fatto PROPRIO STATO ORDINAMEN TO INTERNAZIO ALTRI STATI proprio il diritto internazionale. La loro validità in ultima istanza può essere annullata secondo le regole di questa costruzione a causa di un cambiamento della costruzione stessa. La teoria del primato dell’ordinamento giuridico del proprio stato ritorna nelle sue ultime conseguenze al punto di partenza originario: è soltanto l’ordinamento giuridico del proprio stato ciò che si ammette come diritto valido. f. La risoluzione della “contraddizione” fra diritto internazionale e diritto dello stato singolo. Nella finzione per cui la validità del diritto internazionale poggia su di un riconoscimento da parte del singolo stato risiede già il superamento dell’obiezione principale che viene rivolta contro una costruzione monistica delle relazioni fra il diritto internazionale e il diritto del singolo stato, cioè dell’obiezione basata sulla possibilità di una contraddizione irrisolvibile fra i due diritti. Come potrebbe essere possibile tale contraddizione se è la stessa “volontà” quella che riconosce il diritto internazionale e che si presenta come ordinamento giuridico dello stato particolare. Peraltro il fatto designato come contraddizione fra diritto internazionale è diritto del singolo stato non ha nulla a che fare con una contraddizione logica. È solo un caso speciale del conflitto già prima esaminato fra una norma di grado superiore e una di grado inferiore. Già anteriormente si è spiegato che “antinormatività” di una norma non indica una contraddizione logica fra norma superiore e inferiore, ma soltanto l’annullabilità della norma inferiore o la punibilità d’un organismo responsabile. L’atto opposto, o la posizione di una norma statale di contenuto opposto, è la condizione a cui il diritto internazionale collega la sua sanzione specifica, la conseguenza dell’illecito consistente nella rappresaglia o nella guerra. La norma dell’ordinamento giuridico dello stato singolo prodotta “violando” il diritto internazionale rimane valida, a dir vero, anche dal punto di vista del diritto internazionale. Questo infatti non prevede nessun procedimento in cui possa essere annullata la norma dell’ordinamento giuridico statale “contraria al diritto internazionale”. Una tale possibilità, è data solo nel campo del diritto internazionale particolare. La determinazione del contenuto dell’ordinamento giuridico del singolo stato per mezzo del diritto internazionale risulta del tutto simile alla determinazione del contenuto delle leggi future per mezzo di una costituzione che non istituisca nessuna giurisdizione costituzionale in senso alternativo. La sua qualificazione risulta esclusivamente dal fatto che la posizione di tali norme è qualificata, senza pregiudizio della loro validità, come fatto illecito. Si può affermare l’unità del diritto internazionale e del diritto dello stato singolo. g. Il primato dell’ordinamento giuridico internazionale. Questa unità non si verifica solo nel senso negativo della mancanza di contraddizione logica fra i due complessi normativi ma anche in senso positivo. Ciò avviene quando si ammette che gli stati o, per non fare delle personificazioni, gli ordinamenti giuridici dei singoli stati, siano fra loro coordinati e siano giuridicamente e reciprocamente delimitati nella loro sfera di validità e in particolar modo in quella territoriale. Ciò invero è possibile soltanto quando si presuppone che esista sopra gli ordinamenti giuridici dei singoli stati un ordinamento giuridico che li coordini e che delimiti reciprocamente il loro ambito di validità, un ordinamento che non può essere altro che l’ordinamento internazionale. Sono infatti le norme del diritto internazionale positivo quelle che compiono questa funzione. Il principio dell’effettività, che è una proposizione giuridica fondamentale del diritto internazionale positivo, nell’applicazione agli ordinamenti giuridici dei singoli stata indica una delegazione da parte del diritto internazionale. Se l’istituzione di un potere capace di porre norme, il cui ordinamento è di efficacia durevole in un ambito determinato, rappresenta dal punto di vista del diritto positivo un’autorità che pone il diritto, ciò è dovuto al fatto che questa qualità gli è conferita dal diritto internazionale o anche dal fatto che questo lo autorizza a porre il diritto. Con ciò il diritto internazionale determina allo stesso tempo l’ambito di validità spaziale e temporale dell’ordinamento giuridico del singolo stato così costituito. Il territorio del singolo stato, cioè l’ambito di validità dell’ordinamento giuridico del singolo stato, si estende fin dove questo ordinamento è efficace secondo il diritto internazionale. E il diritto internazionale garantisce questo ambito di validità territoriale in quanto collega la sua specifica conseguenza dell’illecito a una violazione in questa sfera posta sotto la sua protezione. L’ordinamento giuridico del singolo stato deve porre i suoi specifici atti coattivi solo nella sfera di validità che gli è concessa dal diritto internazionale, in questo modo diventa giuridicamente possibile la contiguità spaziale di una pluralità di stati, cioè di una pluralità di ordinamenti coattivi. Ma dal diritto internazionale non viene determinato soltanto la contiguità nello spazio ma anche la successione nel tempo. I limiti di tempo entro cui vige l’ordinamento giuridico statale si regolano sul principio giuridico dell’effettività. Dato che le sue norme, specialmente quelle prodotte da trattati internazionali, possono comprendere tutti gli oggetti possibili e quindi anche quelli che finora sono stati regolati dagli ordinamenti giuridici statali, il diritto internazionale delimita la loro sfera materiale di validità. Dato che le norme prodotte dall’ordinamento internazionale, specialmente tramite trattati, possono comprendere tutti gli oggetti possibili e quindi anche quelli che finora sono stati regolati dagli ordinamenti giuridici statali, il diritto internazionale delimita la loro sfera materiale di validità. Gli stati mantengono infatti questa competenza solo fintanto che il diritto internazionale non si impadronisce di un oggetto e lo sottrae così alla libera regolamentazione dell’ordinamento giuridico dello stato singolo. Questo non ha più la “competenza della competenza” se si presuppone il diritto internazionale come diritto super-statale. h. Lo stato come organo della comunità giuridica internazionale. Lo stato è un ordinamento giuridico parziale derivato immediatamente dal diritto internazionale, è un ordinamento relativamente accentrato con una sfera di validità territoriale e temporale delimitata dal punto di vista del diritto internazionale e con una pretesa di totalità rispetto all’ambito materiale di validità, ristretta solo dalla riserva del diritto internazionale. Lo stato può essere designato come organo della comunità giuridica internazionale. Questo modo di vedere è di particolare importanza per la produzione pattizia del diritto internazionale che costituisce l’unica via per la quale si può modificare o perfezionare il diritto internazionale vigente. Tali autori infatti fingono che la produzione consuetudinaria del diritto, dalla quale viene creato soprattutto il diritto internazionale generale, sia un patto tacito. Per mezzo della norma dell’ordinamento giuridico di un singolo stato o, usando un’espressione figurata, per mezzo della volontà di un singolo stato, un altro stato non può essere obbligato o autorizzato, cioè non possono essere obbligati o autorizzati gli organi e i sudditi di un altro stato. Se gli stati sono nel loro ordine eguali, lo stato può obbligare o autorizzare soltanto i suoi sudditi. La competenza di uno stato non si estende più in là dell’ambito di validità dell’ordinamento giuridico statale. Anche due singoli stati uniti insieme da una delegazione d’un ordinamento superiore non sono in grado di produrre norme che valgano per il diritto di entrambi gli stati. Soltanto dal punto di vista del diritto internazionale generale può essere compresa teoreticamente la produzione di norme di diritto internazionale; è infatti il diritto internazionale generale che regola tale produzione giuridica quando qualifica il trattato statale come metodo di produzione del diritto, cioè obbliga gli stati a comportarsi secondo il ORDINAMENTO ORDINAMENTO STATALE ORDINAMENTO STATALE ORDINAMENTO STATALE La giurisprudenza considera il diritto come un sistema di norme valide. Non può prescindere dal concetto di validità come concetto diverso da quello di efficacia, se desidera presentare il senso specifico del “dover essere” con cui le norme giuridiche applicano agli individui la cui condotta esse regolano. È questo “dover essere” quello con cui si esprime il concetto di validità come distinto da quello di efficacia. Le norme per mezzo delle quali gli individui sono obbligati o autorizzati emanano soltanto dall’autorità creatrice di diritto. È della massima importanza distinguere chiaramente fra le norme giuridiche che costituiscono l’oggetto della giurisprudenza e le proposizioni della giurisprudenza che descrivono questo oggetto. Fra la regola giuridica e la legge della natura esiste soltanto un’analogia. La differenza consiste nel modo con cui la condizione e la conseguenza sono collegate. La legge della natura afferma che quando avviene un fatto (causa) segue un altro fatto (l’effetto). La regola giuridica, usando il termine in un senso descrittivo, dice che se un individuo si comporta in un certo modo, un altro individuo deve comportarsi in un determinato modo. La differenza tra la scienza naturale e la giurisprudenza non sta nella struttura logica delle proposizioni che descrivono l’oggetto, ma piuttosto nell’oggetto stesso e quindi nel significato della descrizione. La scienza naturale descrive il suo oggetto con proposizioni di “essere”, la giurisprudenza descrive il suo oggetto, il diritto, con proposizioni di “dover essere”. Questa specie di giurisprudenza deve essere chiaramente distinta da quell’altra che può essere chiamata sociologia. Quest’ultima cerca di descrivere i fenomeni giuridici, non con proposizioni che stabiliscono come gli uomini debbano comportarsi in determinate condizioni, ma con proposizioni che dicono come essi si comportano effettivamente. L’oggetto della giurisprudenza sociologica non consiste nelle norme giuridiche, nel loro significato specifico di “affermazioni di dover essere”, ma nel comportamento giuridico degli uomini. Si deve evitare la confusione della conoscenza diretta a un “dovere essere”giuridico con la conoscenza diretta a un “essere reale”. La giurisprudenza normativa si riferisce alla validità del diritto, la giurisprudenza sociologica alla sua efficacia. La sociologia del diritto non può tracciare una linea fra il suo oggetto, il diritto, e gli altri fenomeni sociali; non può definire il suo oggetto specifico come distinto dall’oggetto della sociologia generale, la società, senza presupporre con ciò il concetto del diritto quale è definito dalla giurisprudenza normativa. Diritto in senso sociologico è il comportamento effettivo che è indicato dalla norma giuridica come condizione o conseguenza. Il sociologo non considera questo comportamento come fa il giurista, cioè come il contenuto di una norma, ma lo considera come un fenomeno esistente nella realtà naturale, cioè in un nesso causale. Il sociologo ricerca le sue cause e i suoi effetti. La norma giuridica come espressione di un “dover essere” non è per lui, come per il giurista, l’oggetto della sua conoscenza; per il sociologo è un principio di selezione. Il significato delle proposizioni della giurisprudenza sociologica è completamente diverso da quello delle proposizioni della giurisprudenza normativa. Quest’ultima stabilisce come i tribunali debbano decidere in base alla norme del diritto vigente, la prima determina come decidono o come presumibilmente decideranno. L’analisi ideologico-critica dell’idea di giustizia costituisce uno dei compiti più importanti e promettenti della sociologia giuridica. IL CONCETTO DI NORMA La dottrina pura del diritto si limita alla conoscenza del diritto positivo, il suo orientamento è in gran parte uguale a quello della così detta giurisprudenza analitica che ha la sua classica esposizione nell’opera di Austin. Quest’ultimo definisce il diritto come “regola” e la regola come “comando”. Un comando è l’espressione della volontà di un individuo diretta alla condotta di un altro individuo, quindi esso consta di due elementi, un desiderio diretto verso la condotta di un altro e l’espressione di questo desiderio in una o altra forma. Vi è un comando solo in quanto entrambi gli elementi, la volontà e la sua espressione, si trovano presenti. Se qualcuno mi dà un comando, e prima di eseguirlo ho sufficienti ragioni per ritenere che questo non costituisca più la volontà, allora non sarà più un comando, anche se sussisterà l’espressione della sua volontà. Ma un comando di quelli chiamati “vincolanti” si dice che persiste anche se la volontà, cioè il fenomeno psichico, è venuto meno. Tuttavia, per essere più precisi, possiamo dire che ciò che persiste il realtà non è il comando, ma il mio obbligo. Un comando, d’altra parte, è essenzialmente una volontà e la sua espressione. Per questa ragione, le regole giuridiche, non sono secondo Austin comandi. Il comportamento umano è sancito, regolato o prescritto per mezzo di una regola giuridica senza nessun atto psichico di volontà. Il diritto potrebbe essere denominato un comando “privato di contenuto psicologico”. Qui risiede l’importanza del “dover essere, qui si rileva la necessità del concetto di norma. Una norma è la regola che stabilisce che un individuo deve comportarsi in un certo modo, ma non afferma che tale comportamento costituirà la volontà effettiva di qualcuno. L’ELEMENTO DELLA COAZIONE D’accordo con le affermazioni della giurisprudenza analitica, la dottrina pura del diritto considera l’elemento coattivo come un elemento essenziale del diritto. Austin e i suoi continuatori considerano il diritto come suscettibile di coazione o come una regola attuata coattivamente da una determinata autorità. Con ciò vuol dire che l’ordinamento giuridico comanda agli uomini di agire in un certo modo e costringe gli uomini ad obbedire in modo specifico ai comandi dell’ordinamento giuridico. I mezzi specifici con cui il diritto costringe gli individui a obbedire consistono nell’infliggere un male chiamato sanzione nel caso di disobbedienza (la paura della sanzione è quindi una coazione psichica). Dal punto di vista strettamente analitico questa formulazione non è corretta. I motivi del comportamento conforme a legge infatti vanno oltre al contenuto dell’ordinamento giuridico (ex. Valori morali, religiosi…). Fra le condizioni a cui il diritto ricollega la sanzione come conseguenza, l’illecito è d’importanza decisiva. L’illecito è il comportamento dell’individuo contro cui si dirige la sanzione ed è la condotta opposta a quella che il diritto prescrive. Il diritto non è una regola attuata coattivamente da un’autorità determinata, ma piuttosto una norma che stabilisce come sanzione una specifica misura coattiva. Il diritto è l’istituzione di una misura coattiva, di una sanzione, per quella condotta chiamata “illegale”, cioè per un illecito; e questa condotta ha il carattere di illecito perché, e solo perché, è condizione della sanzione. La funzione della norma giuridica consiste nel collegare la sanzione come conseguenza a certe condizioni fra le quali l’illecito ha una parte preponderante. Considerata dal punto di vista sociologico la caratteristica essenziale del diritto consiste nel fatto che esso cerca di ottenere la condotta contraria, socialmente desiderata, agendo contro la condotta contraria, socialmente indesiderata, contro l’illecito, con una sanzione che l’individuo colpito considererà come un male. La giurisprudenza analitica (Austin) prende in considerazione soltanto il contenuto dell’ordinamento giuridico e quindi soltanto la connessione fra trasgressione e sanzione. La dottrina pura del diritto si avvicina a una conclusione evidente soltanto quando formula la norma giuridica come un giudizio ipotetico nel quale l’illecito si presenta come una condizione essenziale e la sanzione come la sua conseguenza. Il senso col quale la condizione e la conseguenza si trovano collegate nella norma giuridica è quello del “dover essere”. Questo concetto della norma giuridica è concetto fondamentale della giurisprudenza normativa. L’OBBLIGO GIURIDICO Secondo la giurisprudenza analitica l’obbligo è la base del diritto. Il dire che un individuo è giuridicamente obbligato a osservare una certa condotta significa che una norma giuridica prevede una sanzione per la condotta contraria, cioè per un illecito. Se la sanzione è diretta soltanto contro il trasgressore si tratta allora di un caso di responsabilità individuale. Se la sanzione è diretta contro i membri del suo gruppo si ha un caso di responsabilità collettiva. Questa è la vendetta di sangue, la vendetta del diritto primitivo. Questo è ancora oggi il modo di agire del diritto internazionale, le cui sanzioni (guerre e rappresaglie) sono dirette contro lo stato considerato come una entità, quindi, praticamente, contro i cittadini dello stato i cui organi hanno violato il diritto. Il fatto che la sanzione possa essere diretta contro individui che non siano il trasgressore stesso rende necessario fare una differenza tra obbligo e responsabilità. La responsabilità grava sull’individuo contro il quale è diretta la sanzione, l’obbligo grava sul trasgressore potenziale che può col suo comportamento commettere l’illecito. Austin parte dal presupposto che la sanzione è sempre diretta contro l’individuo che commette l’illecito e non tiene conto dei casi in cui la sanzione non è diretta contro il trasgressore, ma contro un altro che si trova in un determinato rapporto con questo. Per questa ragione egli non vede la differenza che esiste tra “essere obbligato a osservare un certo comportamento” ed “essere responsabile per un certo comportamento”. Cosa avviene quando non l’individuo trasgressore ma un altro è sottoposto alla sanzione? In questo caso – secondo Austin – la norma giuridica non avrebbe stabilito nessun obbligo. Austin non accetta il concetto di responsabilità a differenza della dottrina pura del diritto. IL DIRITTO SOGGETTIVO Ogni vero diritto che non costituisce una semplice libertà negativa da un obbligo, consiste in un obbligo di un altro o di molti altri (ex. Hai diritto di respirare, libertà positiva  gli altri sono obbligati a non impedirti di respirare). “Diritto soggettivo” in questo senso è un “obbligo relativo”. L’affermazione di Austin è appropriata: <<… il termine diritto soggettivo e il termine obbligo relativo esprimono la stessa nozione considerata da aspetti differenti>>. Questo diritto esiste quando a un individuo viene concessa dall’ordinamento giuridico la possibilità di rendere effettivo l’obbligo di un altro ricorrendo a un giudizio e facendo quindi intervenire la sanzione stabilita nel caso di violazione. La dottrina pura del diritto limita il concetto di diritto soggettivo a questa situazione. LA DOTTRINA STATICA E QUELLA DINAMICA DEL DIRITTO: LA GERARCHIA DELLE NORME La giurisprudenza analitica considera il diritto come un sistema di regole complete e pronte per essere applicate senza considerare il loro processo di formazione. È una teoria statica del diritto. La dottrina pura del diritto riconosce che uno studio della statica del diritto debba esser completato da uno studio della sua dinamica, del processo della sua creazione. Questa necessità esiste, perché il diritto, a differenza di ogni altro sistema di norme, regola la sua creazione. Il procedimento con cui si crea una norma giuridica è regolato da un’altra norma giuridica. Di solito, precisamente, altre norme determinano non soltanto il processo di creazione, ma anche, in maggiore o minore misura, il contenuto della norma che deve essere creata. Così una costituzione regola allo stesso tempo il procedimento di creazione delle leggi e contiene disposizioni il più delle volte negative che riguardano il loro contenuto. La differenza tra norme giuridiche che determinano il modo di creazione di altre norme giuridiche e quelle che determinano il loro contenuto viene espressa nella terminologia anglo-americana con la distinzione fra diritto formale (adjective) e sostanziale (substantive). Il rapporto che esiste tra una norma che regola la creazione o il contenuto di un’altra norma e la norma creata può essere rappresentato con una figura spaziale. La prima è la norma “superiore”, la seconda è la norma “inferiore”. Se si considera l’ordinamento giuridico dal punto di vista dinamico, questo appare come una gerarchia nella quale le norme della costituzione formano il grado più alto. In questo senso funzionale, “costituzione” significa il complesso di quelle norme che determinano la creazione e occasionalmente in certa misura il contenuto delle norme giuridiche generali, che a loro volta regolano le norme individuali. Si tratta di un complesso di norme che regola in primo luogo gli organi e il procedimento della legislazione e che include anche la norma per la quale la consuetudine è riconosciuta come fonte del diritto. Nella norma superiore si trova la ragione della validità dell’inferiore; una norma giuridica è valida perché creata nel modo prescritto da un’altra norma. Questo è il principio di validità caratteristico del diritto positivo. L’unità dell’ordinamento giuridico si attiene a questa concatenazione. La norma dalla quale la costituzione deriva la propria il diritto internazionale non si applichi agli individui, bensì che, se obbliga gli individui, come ogni altro diritto, li obbliga però indirettamente, per mezzo degli ordinamenti giuridici statali. Il diritto internazionale determina direttamente soltanto un comportamento e lascia all’ordinamento giuridico statale la determinazione dell’individuo il cui comportamento costituisce il contenuto dell’obbligo internazionale. Un principio di diritto internazionale riconosciuto, formulato nel modo corrente, può essere così indicato: quando in qualche luogo e in qualche forma si stabilisce un potere che sia capace di assicurare obbedienza permanente al suo proprio ordinamento coattivo da parte degli individui la cui condotta è regolata appunto da tale ordinamento, allora la comunità costituita da questo ordinamento coattivo è uno stato nel senso del diritto internazionale. La sfera nella quale questo ordinamento coattivo è perfettamente effettivo è il territorio dello stato; gli individui che vivono in quel territorio costituiscono il popolo dello stato nel senso del diritto internazionale positivo (principio di effettività). In base a questo principio giuridico, il diritto internazionale determina le sfere di validità territoriale e personale degli ordinamenti giuridici statali, sfere che tutti gli stati sono obbligati a rispettare. In base a questo si determina anche la validità degli ordinamenti statali. Tali ordinamenti sono validi nel senso del diritto internazionale perché e in quanto soddisfano i requisiti della effettività. Siccome gli ordinamenti giuridici statali trovano la ragione della loro validità nell’ordinamento giuridico internazionale, che determina contemporaneamente la loro sfera di validità, l’ordinamento giuridico internazionale deve esser superiore a tutti gli ordinamenti statali e forma così, insieme a questi, un sistema giuridico uniforme e universale. Il compito della giurisprudenza è quello di comprendere tutto il diritto umano in un sistema di norme. Casualità e imputazione NATURA E SOCIETA’ NATURA SOCIETA’ Scienze naturali scienze sociali La natura, secondo una delle tante definizioni, è un particolare ordinamento di cose, o sistema di elementi, connessi l’un l’altro come causa ed effetto, vale a dire secondo il così detto principio specifico della “casualità”. Se esiste una scienza sociale diversa dalla scienza naturale, questa dovrà pure descrivere il proprio oggetto in base a un principio diverso da quello della causalità. La società è un ordinamento della condotta umana. Il comportamento umano è concepito come determinato dalla legge di causalità, una scienza che riguarda il reciproco comportamento degli uomini, e che per questa ragione è classificata come una scienza sociale, non è sostanzialmente diversa dalla fisica o dalla biologia. LA STRUTTURA DELLA REGOLA GIURIDICA Principio diverso da quello della casualità si applica nelle regole con le quali la giurisprudenza descrive il diritto, sia il diritto in generale, sia un ordinamento giuridico concreto, come il diritto particolare di uno stato determinato o il diritto internazionale. Più generalmente si può dire: se un illecito è stato commesso, deve esser applicata una sanzione. Così come avviene nella legge di natura, così anche la regola giuridica collega reciprocamente fra loro due elementi. Ma la connessione descritta nella regola giuridica ha un significato totalmente diverso da quello della causalità. La connessione tra causa ed effetto è indipendente dall’atto di un essere umano o superumano. La connessione tra un OGGETT illecito e la sanzione giuridica è stabilita da un atto, o da atti umani, da un atto che produce diritto, cioè da un atto il significato del quale è una norma. Se noi presupponiamo una norma che prescriva o autorizzi un determinato comportamento umano, noi possiamo qualificare il comportamento che è conforme alla norma come corretto, e il comportamento che non è conforme a quella norma come non corretto. Se queste asserzioni sono giudizi di valore, la norma presupposta costituisce il valore. Soltanto la proposizione, il cui scopo è di indicare il comportamento che è o non è conforme alla norma presupposta è un giudizio di valore; non lo è invece la proposizione che afferma che un concreto comportamento cade o non cade nella definizione. La norma non è una definizione, è parte del contenuto di una definizione, la definizione di un comportamento corretto o non corretto. Definizione indica atto di conoscenza. Gli atti che hanno per oggetto una norma non sono atti di conoscenza; sono atti di volontà. La funzione della scienza del diritto è conoscere e descrivere il diritto. IL PRINCIPIO DELL’IMPUTAZIONE Poiché la connessione tra illecito e sanzione è stabilita da atti che indicano una prescrizione oppure una autorizzazione, o, ciò è lo stesso, una norma, la scienza del diritto descrive i suoi oggetti con delle proposizioni in cui l’illecito è connesso alla sanzione per mezzo della copula “dover essere”. Questa connessione viene detta imputazione. Questo termine è la traduzione di zurechnung. Quando detto termine è riferito a un soggetto sta a indicare che quel soggetto è responsabile, gli si può quindi applicare la sanzione se commette un illecito. Se un individuo è invece considerato irresponsabile, ciò sta ad indicare che non può essergli applicata la sanzione se commette un illecito. L’idea dell’imputazione come connessione specifica dell’illecito colla sanzione è implicita nel giudizio, proprio della scienza giuridica, per cui un individuo è o non è legalmente responsabile del suo comportamento. La sanzione è imputata all’illecito, non è l’effetto dell’illecito (infatti la sua applicazione dipende dalla responsabilità o meno dell’artefice dell’illecito). L’INTERPRETAZIONE SOCIO-NORMATIVA DELLA NATURA NEI POPOLI PRIMITIVI L’imputazione che indica la connessione tra condizione e conseguenza nella regola giuridica deve essere distinta dall’attribuzione ad una persona giuridica di un atto compiuto da un individuo, attribuzione che viene chiamata anch’essa talvolta imputazione. La vendetta nella società primitiva era fondata sulla base della norma della retribuzione. Questa comprende tanto il castigo quanto la ricompensa. La condizione e la conseguenza sono collegate, non dal principio di causalità, ma da quello di imputazione. Se un fatto avviene, l’uomo primitivo non si chiede: “qual è la causa di questo?” ma piuttosto “ chi ne è responsabile?”. Non è questa una interpretazione causale, ma una interpretazione normativa della natura, e, poiché la norma della retribuzione che determina le relazioni reciproche degli uomini è uno specifico principio sociale, noi possiam chiamare quest’interpretazione una interpretazione socio-normativa della natura. L’essenza dell’animismo è un’interpretazione personalistica e cioè socio-normativa della natura, un’interpretazione non in base al principio di causalità ma in base a quello dell’imputazione. Il dualismo della natura come ordinamento causale e della società come ordinamento normativo, il dualismo cioè fra due diverse maniere di collegare fra loro diversi elementi, è estraneo alla mentalità primitiva. Il fatto che questo dualismo esista nel pensiero dell’uomo civile è il risultato del fatto che si è stabilità la differenza tra l’uomo e gli altri esseri, tra le persone e le cose, e si è distinta la spiegazione causale delle relazioni tra le cose dalla interpretazione normativa delle relazioni tra le persone. Esprimendoci in modo alquanto paradossale possiamo dire che in principio, durante il periodo animistico dell’umanità, esisteva soltanto la società (come ordinamento normativo); e la natura (come ordinamento causale) fu creata dalla scienza soltanto dopo l’emancipazione dall’animismo. Lo strumento di questa emancipazione è stato il principio di causalità. L’ORIGINE DEL PRINCIPIO DI CASUALITA’ DELLA NORMA DELLA RETRIBUZIONE È probabile che il principio di causalità abbia la sua origine nella norma della retribuzione. Questa è il risultato di una trasformazione del principio di imputazione per la quale nella norma della retribuzione il comportamento ingiusto è collegato con la punizione, e il comportamento giusto con la ricompensa. È sommamente caratteristico il fatto che la parola greca “causa” originariamente significhi colpa; la causa è responsabile dell’effetto, l’effetto è imputato alla causa, proprio come la punizione è imputata al delitto. ERACLITO: “il sole non oltrepasserà il cammino che gli è imposto; se lo farà, le Erinni, le ancelle della giustizia, lo scopriranno”. Il passo decisivo in questa transizione da una interpretazione normativa a una interpretazione causale della natura, dalla imputazione alla causalità, è costituito dal fatto che l’uomo si rende conto che le relazioni tra le cose, a differenza delle relazioni tra le persone, sono indipendenti da ogni volontà umana o sovrumana, o, ciò che è lo stesso, non sono determinate da norme, e cioè il fatto che il comportamento delle cose non è prescritto o permesso da una volontà umana. L’APPLICAZIONE DEL PRINCIPIO DI CASUALITA’ NELLE SCIENZE DEL COMPORTAMENTO UMANO Il principio di causalità è applicabile anche al comportamento umano. Se si chiama scienza sociale ogni scienza che si occupa del comportamento umano, queste scienze saranno scienze sociali, come la fisica, la biologia, la fisiologia. La differenza tra queste scienze, e quelle naturali che non si riferiscono al comportamento umano, è soltanto una differenza del grado di precisione, non una differenza di principio. Una differenza di questo genere esiste soltanto tra le scienze naturali e le sciente che interpretano le relazioni umane non secondo il principio di causalità, ma secondo il principio di imputazione, scienze che si occupano del comportamento umano, non come effettivamente si manifesta secondo il principio di causa ed effetto nella sfera della realtà, ma come dovrebbe manifestarsi in base a una determinazione normativa, cioè nella sfera dei valori. Tra le scienze sociali normative ricordiamo l’etica, la teologia e la giurisprudenza. Non sono “scienze normative” nel senso di prescrivere o autorizzare un particolare comportamento umano; come scienze, esse non prescrivono né autorizzano, non emanano norme di comportamento sociale, ma descrivono le norme e le relazioni sociali stabilite da tali norme. La società, nel senso di queste scienze normative, è un ordinamento normativo; l’uomo appartiene a questa società solo in quanto il suo comportamento è determinato dalle norme di un ordinamento morale, religioso, giuridico. Se un ordinamento , e specialmente un ordinamento giuridico, è nel complesso efficace, certamente possiamo enunciare la seguente proposizione: se la condizione stabilita nella norma sociale si realizza effettivamente, la conseguenza che in conformità alla norma sociale dovrebbe aver luogo, probabilmente avrà luogo nel caso di un ordinamento giuridico efficace: se un illecito è commesso, probabilmente avrà luogo la sanzione. Le scienze sociali normative si interessano non del nesso causale, ma del nesso imputativo che unisce gli elementi dei loro propri oggetti. PRIMA DIFFERENZA TRA IL PRINCIPIO DI CASUALITA’ E QUELLO D’IMPUTAZIONE La differenza tra causalità e imputazione è che la relazione tra la condizione che nella legge di natura è presentata come causa, e la conseguenza che è presentata come effetto, è indipendente da ogni atto umano o sovrumano, mentre la relazione tra la condizione e la conseguenza che si trova nella legge morale, religiosa o giuridica, è stabilita da atti di esseri umani e sovrumani; è appunto quello specifico carattere della connessione fra condizione e conseguenza che viene espresso dal termine “dover essere”. SECONDA DIFFERENZA TRA IL PRINCIPIO DI CASUALITA’ E QUELLO D’IMPUTAZIONE Un’altra differenza fra causalità e imputazione è che ogni causa concreta deve essere considerata come l’effetto di un’altra causa e ogni effetto concreto come la sua causa di un altro effetto. Ogni evento concreto è l’intersezione di un numero infinito di serie causali. La condizione a cui è imputata la conseguenza non è necessariamente conseguenza imputabile a un'altra condizione.
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