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Biomateriali, Appunti di Biomateriali

Biomateriali Politecnico di Milano

Tipologia: Appunti

2015/2016
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Caricato il 03/07/2016

michotb
michotb 🇮🇹

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Scarica Biomateriali e più Appunti in PDF di Biomateriali solo su Docsity!   1     BIOMATERIALI POLIMERI 1. PROPRIETÀ E CARATTERIZZAZIONE POLIMERI Partiamo innanzitutto dando la definizione di biomateriale: “materiale applicato in un dispositivo che deve interagire con tessuto biologico (anche prove in vitro)”. A partire dalle unità monomeriche ci sono due modi per ottenere i polimeri: POLICONDESAZIONE, POLIADDIZIONE. La differenza fra i due processi sussiste nel fatto che, nella policondensazione si perde un sottoprodotto (in genere acqua ma in certi casi anche acido cloridrico HCl), mentre nella poliaddizione ciò non avviene, in quanto consiste nella rottura di legami doppi o tripli per farli diventare singoli. Tra i poliaddotti più importanti abbiamo: • PE (polietilene) e suoi derivati: LDPE, LLDPE, HDPE, UHMWPE • PP (polipropilene), PVC (polivinilcloruro), PST (polistirene), PAN (poliacrilonitrile), PVA (polivinilalcol), PVP (polivinilpirrolidone) • ACRLICI o RESINE ACRILICHE I primi due fanno parte delle famiglie dei vinilici. La formula polimerica delle resine è riportata qui a fianco:. In base alla natura del radicale R abbiamo un tipo diverso di polimero: • R=H abbiamo i poliacrliati • R= 3CH (gruppo metilico) abbiamo i polimetacrilati • R=R’= 3CH abbiamo i polimetilmetacrilati (PMMA) • R= 3CH e R’= OHCH2 abbiamo il poli-idrossietilmetacrilato (PHEMA) Per quanto riguarda i policondensati i più importanti che annotiamo sono: • POLIESTERI (dialcol+diacidi): Polietilene teleftelato (PET), acido polilattico (PLA), acido poliglicolico (PGA) • POLIAMMIDI (ammine+acidi, legame tipo peptidico): Nylon, Kevlar • SILICONI (silicio e ossigeno alternati in catena, coi gruppi radicalici sul silicio): PDMS   2     • POLICARBONATI • POLIURETANI (diisocinato + gruppo carbonato di dialcol) questi non producono sotto prodotto. I polimeri si sviluppano in catene, queste catene sono di quattro tipi: • LINEARE • RAMIFICATO: c’è una catena principale dalla quale ramificano catene • RETICOLATA: non c’è una catena principale, non ha senso di parlare di peso molecolare, né di sua distribuzione • DENDRITICA: struttura ad albero che si sviluppa da un “centro” Abbiamo due tipi di polimeri: OMOPOLIMERI, costituiti da un solo monomero, COPOLIMERI, costituiti da monomeri diversi. I polimeri reticolati possono essere presenti in due modi: LOOSE NETWORK con pochi ponti, ovvero rete molto “libera”, e quindi più flessibile; IRREGULAR NETWORK con molti ponti, struttura più reticolata e molto legata, che porta più rigidità. I copolimeri si presentano in 5 gruppi diversi: 1) ALTERNATI: monomeri si alternano 2) A BLOCCHI: i monomeri si alternano a blocchi ovvero in sequenze di monomeri uguali 3) CASUALI: i monomeri si dispongono casualmente lungo la catena principale 4) AD INNESTO: catena principale costituita da un tipo di monomero e le ramificazione dall’altro 5) AD INNESTO RETICOLATO: costituito come una sorta di tabella dove le “righe” sono costituite da un monomero, e le “colonne” costituite dall’altro monomero   5     Un comportamento fragile si ha per polimeri molto reticolati che si trovano sotto la Tg. Per via delle loro proprietà il passaggio da un comportamento meccanico all’altro dipende dalla temperatura. In questo grafico si possono notare diverse cose: 1) Primo tratto che rappresenta la fase di elasticità 2) Parte che rappresenta il fatto che è avvenuta (in un punto) la strizione nel tratto utile del polimero 3) Orientamento delle fibre e qui sempre più punti del tratto utile si strizionano, fino a che tutto il tratto utile si è strizionato. Piccola nota: il provino non si striziona solo attorno al punto di rottura. 4) Dopo che tutte le catene si sono allineate arriva la rottura dei legami covalenti. Questa rappresenta la fase in cui il polimero oppone maggiore rigidezza. La rigidezza aumenta con l’aumentare del numero dei legami covalenti fra le catene. Se diminuiamo la temperatura il polimero assume un comportamento più fragile, stesso effetto lo   6     otteniamo con l’aumento della velocità di deformazione; Questo perché? Semplicemente perché non diamo il tempo alle fibre di riallinearsi. Per i polimeri è utile definire la RESILIENZA: massima energia assorbita nel tratto elastico (minore della tenacità, in quanto essere l’energia assorbita fino a rottura). Andiamo a vedere come caratterizzare la viscoelasticità; questa viene caratterizzata come isteresi meccanica, specialmente negli elastomeri. L’isteresi non è altro che l’energia dissipata per attrito fra le catene nel ritorno di scarico, mentre cerca di ritornare a deformazione nulla. Delle volte il processo di recupero della deformazione è talmente lento che non si torna a deformazione nulla, e quindi si crea una deformazione residua. In questo caso facendo per più cicli prove di carico e scarico la deformazione residua si accumulerà, e il provino si avvicinerà a rottura. Bisogna dunque vedere la variazione dell’isteresi durante questo procedimento, oltre alla deformazione residua e la sua variabilità. Si è visto che applicando deformazioni lente, si è favorita la rottura di tipo duttile. Alla base della rottura fragile c’è la genesi dei CRAZE, che sono regioni del materiale in cui le macromolecole/catene iniziano ad allungarsi col carico e ad sfilacciarsi, causando la formazione di una cricca nel punto di origine. Nella rottura duttile questi craze non si formano, le catene si allungano e si deformano e basta. Per valutare la resilienza del materiale si eseguono le PROVE DI RESISTENZA ALL’URTO, queste prove consistono nel far sbattere e far rimbalzare sul provino un maglio. Facendo la differenza dell’energia potenziale del maglio otteniamo la resilienza del materiale. Facendo diverse prove sul polimero a diverse temperature, notiamo che la resilienza varia, o meglio sotto la Tg il provino è molto meno resiliente a quando è sopra.   7     Passiamo ora al comportamento a fatica. I polimeri quando sottoposti a test a fatica hanno comportamento molto particolare, in quanto il polimero cede quasi sempre per effetto termico, o meglio la rottura a fatica (a differenza di metalli e ceramici) è indotta sia da fattori meccanica (formazione ed espansione cricca), sia da fattori termici, causati dal calore dissipato dal polimero durante la prova che ha causato un rammollimento, quindi indebolimento, del polimero. I polimeri vengono sottoposti anche a prove di creep (carico costante) e rilassamento (deformazione costante); entrambe le prove sono seguite da prove di recupero, atto a vedere come i polimeri recuperano la loro deformazione dopo la prova. Altra caratterizzazione è quella della DUREZZA, cioè la resistenza alla deformazione plastica della superfice del materiale. Per i polimeri si utilizzano due durezze: BRINELL e SHORE (termoplastici più flessibili). Ci sono due test relativi alla resistenza shore: SHORE A (elastomeri e gomme, ovvero i più flessibili) e SHORE D (plastiche elastomeriche più rigide) Altre proprietà dei polimeri: 1) Ottimi isolanti termici ed elettrici 2) Bassa densità/peso specifico perché sono composti solo da elementi con basso numero atomico 3) Attorno a temperature nell’intorno dei 250°-300°C subiscono rammollimento e decomposizione; proprio per questa loro caratteristica si evita il loro utilizzo in applicazioni ad alte temperature 4) Basso attrito e ottima resistenza e bassa velocità ad abrasione e ad usura; alcuni di essi vengono utilizzati come lubrificanti solidi per ridurre attrito in interfacce protesiche. Sono in grado di assorbire shock e vibrazioni, e lavorano con basse dispersioni di energia. Da questo punto di vista i migliori sono UHMWPE e PTFE (detti autolubricanti); ci sono anche: nylon e resine acriliche La conducibilità termica è una proprietà che i materiali hanno in base alla natura dei loro legami, quindi i polimeri essendo costituiti da legami covalenti sono isolanti, mentre i metalli (per legame metallico che ora non sto a spiegare) sono altamente conduttivi, i ceramici invece hanno comportamento variabile. Stesso discorso lo si fa anche per la conducibilità elettrica, in particolare i polimeri conducono mille volte meno rispetto a metalli e ceramici. L’aspetto isolante dei polimeri   10     La sterilizzazione in autoclave (calore umido) è la più rischiosa in quando combina gli effetti dovuti dal calore, e gli effetti dell’ossidazione dovuti dal vapore acqueo, inoltre se si supera la temperatura di transizione vetrosa le proprietà meccaniche del polimero calano notevolmente. • La sterilizzazione con ossido di etilene avvengono 3 fenomeni dovuti alla sua reattività: alchilazione dei gruppi amminici degli acidi nucleici, che comporta la morte dei batteri sul materiale • Reazioni varie che portano alla degradazione del materiale • Intrappolamento dell’ossido di etilene che può causare una degradazione a posteriori e rende necessaria una degassazione La sterilizzazione coi raggi gamma causa si una morte dei batteri, ma contemporaneamente causa una rottura delle catene e una reticolazione del polimero (cambiamento struttura polimero). Se prevale il fenomeno della reticolazione avviene un miglioramento di certe proprietà meccaniche: resistenza al creep e resistenza al calore, per contro però c’è un aumento della rigidezza e della fragilità, il peso molecolare aumenta proporzionalmente alla dose di radiazione, e la struttura tende ad avere un ordine anche in 3D. Se invece prevale la biodegradazione per scissione, abbiamo un calo del peso molecolare direttamente proporzionale alla dose di radiazione. Quando immettiamo un dispositivo all’interno di un organismo, si creano degli effetti sia sul dispositivo sia sull’organismo. EFFETTI DISPOSITIVO SULL’ORGANISMO: • LOCALI: 1) Coagulazione, emolisi, effetti infiammatori 2) Effetti citotossici ed emotossici 3) Infezione 4) Carcinogenesi • SISTEMICI E LONTANI: a) Formazione di emboli b) Trasporto di materiali (detriti) che possono accumularsi eccessivamente da qualche parte c) Effetti allergici, in genere sul sistema immunitario EFFETTI DELL’OSPITE SULL’ORGANISMO: • FISICO-MECCANICI 1) Usura 2) Fatica 3) Corrosione 4) Ossidazione e fessurizzazione superficiale 5) Degradazione e dissoluzione   11     • BIOLOGICI a) Adsorbimento di sostanze e di tessuti b) Degradazione enzimatica c) Calcificazione • MISTI I. Fessurizzazione dovuta a “stress ambientale” I fattori che determinano le proprietà meccaniche sono: • Peso molecolare • Ramificazione/reticolazione • Cristallinità • Additivi (plasticizzanti, antiossidanti, riempitivi) • Processi di lavorazione • Storia termica La prova classica per valutare le proprietà meccaniche è la prova a trazione solita. Le fasi dell’esperimento sono: 1) Svolgimento catene 2) Scorrimento catene (primi due bassa energia richiesta) 3) Stiro dei legami, allungamnto delle catene (alta energia richiesta) 4) Rottura catene I vari grafici rappresentano: a) Polimeri rigidi con rottura fragile (PS, PMMA) b) Polimeri rigidi con rottura duttile (PMMA tenacizzato) c) Polimeri duttili con stiro esteso (PE) d) Polimeri a comportamento elastomerico (LDPE) I polimeri termoplastici a differenza dei termoindurenti, possono scendere o superare la transizione vetrosa infinite volte reversibilmente. La trazione serve anche a dare anisotropia alle fibre, questo per far sì che nella direzione di   12     applicazione del carico il polimero opponga maggiore resistenza. Piccola note: il termine termoindurente viene usato come sinonimo di reticolato. Visto che il copro umano si trova a una temperatura diversa da quella delle prove meccaniche, e visto anche che la temperatura di transizione vetrosa non è detto che sia compresa fra le due, si fanno prove a trazione a diverse temperature. Queste prove si fanno mediante CELLE TERMOSTATATE (molto importante è la velocità di prova). Con la stessa macchina di prova si possono fare prove non solo sul semplice materiale, ma anche sui dispositivi, ad esempio fili di sutura, nello specifico la norma riguarda il test di un condotto tubolare. I risultati del test sono riportati qui di seguito Altro esempio particolare di prova a trazione riguarda quello i catateri venosi centrati (CVC), che serve a fornire farmaci in continuazione per tempi lunghi. I CVC hanno al capo estremo un piccolo serbatoio in cui iniettare il farmaco attraverso una finiestrella in silicone. Un problema del CVC è l’ingiallimento del connettore che lega il serbatoio al catetere (causato da degradazione superficiale) che provoca un cambiamento delle proprietà meccaniche, e per verificare l’entità della degradazione si fa una prova a trazione e si valuta al tenuta del CVC. Dopo la prova se si rompe prima il connettore, o si stacca dal serbatoio, vuol dire che le proprietà meccaniche i sono compromesse. Oltre al comportamento a trazione bisogna valutare anche il comportamento a compressione, in quanto potrebbe non essere simmetrico a quello a trazione. Le prove a compressione possono essere eseguite in ambiente umido, mediante utilizzo di celle termostatate riempite d’acqua o al più di soluzione saline, perché il siero bovino o i fluidi di coltura potrebbero corrodere gli afferraggi. Nella prova a compressione ci interessa valutare comportamento a fatica, modulo elastico, tensione   15     Se invece guardiamo l’andamento di δtan con la temperatura otteniamo il seguente grafico Vediamo che: • Picco in corrispondenza di Tg • Dopo fase di discesa risale verso la regione liquida, in quanto polimero diventa tutto liquido • Nel tratto iniziale è quasi zero, poiché il comportamento prima di Tg è poco viscoelastico. Le misura di DMA può avere degli artefatti: 1) Transizione a 100°C: che può essere dovuta al fatto che il polimero ha assorbito acqua. Questo si può evitare con un trattamento termico 2) Picco di E’ prima di Tg: può nascere da tensioni residue di lavorazione 3) Usando delle miscele: la Tg dei componenti creano picchi diversi che ci dicono quanto influenzano i componenti su E’ e E’’ e/o quanto siano in percentuale 4) Usando compolimeri: - Copolimeri a blocchi o a innesto o miscele insolubili: scende E’ ad ogni diversa Tg dei componenti - Copolimeri random o miscele solubili: c’è un'unica transizione che sta fra quelle dei componenti In prove di DMA si fanno anche prove creep-recovery, che danno un impulso rettangolare di sforzo e mostrano la deformazione sia prima che dopo il rilascio dello sforzo. Tipicamente più il materiale è viscoelastico, più la deformazione aumenterà con andamento lineare. Se fossimo in caso totalmente viscoso l’aumento sarebbe perfettamente lineare. Dopo che viene tolto il carico si guarda come viene recuperata la deformazione, ovvero si guarda la recovery. Quanto più il materiale è viscoso tanta più deformazione sarà recuperata.   16     Altra prova è la Stress relaxation/recovery, basata sul rilassamento. Il comportamento elastico puro è proporzionale, quello viscoso è derivativo, quello viscoelastico è nel mezzo. È meglio usare la DMA per caratterizzare strutture tubolari (per protesi vascolari), perché: a) I polimeri naturali potrebbero non reggere grossi carichi, e quindi è necessario usare prove più sensibili b) Con la DMA si possono analizzare provini molto piccoli, come potrebbero essere le protesi vascolari Con questo tipo di caratterizzazione si possono fare delle prove a trazione assiale e circonferenziale. Gli input che vengono dati alla macchina di prova sono • Temperatura di ambiente simil-fisiologico • Precarico (se serve) per poter compoensare artefatti e imperfiezioni dello strumento • È indifferente che ci sia in input una rampa di σ o ε Sulle stesse strutture tubolari si possono effettuare anche delle prove cicliche, e in questo caso le condizioni in vivo sono ancora più essenziali. La prova consiste nel caricare il provino e poi scaricarlo fino a uno sforzo non nullo per un certo numero di cicli, con temperatura di applicazione costante a 37°C. In prove di questo tipo si possono valutare il livello di isteresi viscoelastico dell’oggetto, anche in funzione del numero di cicli, e allo stesso modo si possono verificare come le deformazioni residue si accumulino ciclo dopo ciclo (come nel caso del PTFE).   17     2. IDROGELI Caratterizzazione di idrogeli o materiali a moduli bassi: si possono fare prove di compressione (sicuramente non di trazione) e di taglio. La prova di compressione si può fare in rampa di frequenze, o di deformazione (con velocità di applicazione crescente) o di sforzo, in creep recovery, in stress relaxation /recovery e in prova di carico e scarico per l’isteresi. In ogni caso questi materiali sono provati umidi/rigonfiati a temperature diverse da 37°C, o in ogni caso in condizioni, durante la prova, che garantiscano l’idratazione del campione, cosicché la disadratazione non vada a falsare i risultati della prova. Considero prova in rampa di frequenze, come input oltre alla temperatura e al fluido (da usare per garantire idratazione, e al massimo deve essere soluzione salina e non siero bovino, perché quest’ultimo causerebbe corrosione della mia macchina di prova) uso anche tra 0.5 e 10 Hz e ripeto l’applicazione del carico per un numero sufficiente di cicli. Alle alte frequenze si ha un minor contributo viscoso perché non si dà tempo alle fibre di allinearsi. Se invece faccio una prova in rampa di sforzo o di deformazione, il discorso che riguarda la temperatura ambiente e il fluido da usare è lo stesso, ma mi si pone il problema di scegliere lo sforzo o la deformazione massima compatibile con la salute della macchina, e volendo anche per una questione di precarico, il quale deve essere piccolo, e inoltre deve essere piccola anche l’ampiezza della finestra di applicazione del carico in ogni singolo ciclo. Anche in questo caso si possono fare delle prove di isteresi con più cicli. Nelle prove di creep e rilassamento e recovery, ma in questo caso il problema che si pone è quello di determinare la forza da applicare come costante, e il suo tempo di applicazione, e anche il tempo di durata dei cicli (in modo da far si che la recovery vada a regime nel periodo). Ad esempio su più cicli e su questi materiali l’andamento di creep/recovery può essere sempre meno viscoso ciclo dopo ciclo (sempre meno creep, sempre più recovery) con recupero di più deformazione: questo può essere dovuto a un tempo di ciclo troppo corto perché le molecole si riarrangino a dovere nella posizione di partenza REOLOGIA: serve per la valutazione della viscosità del materiali, importante sia per capire la proprietà dell’applicazione, sia per la lavorazione (materiali più o meno viscosi sono più o meno adatti “a questo o quel” processo di lavorazione). Nella prova di reologia si fanno delle prove di taglio in cui contano γγτ !,, , dove τ dipende dalla macchina e γγ !, dal processo.   20     3) PARALLEL PLATE H RK =γ , 3 2 R K πσ = è da utilizzare se non si può utilizzare la cone and plate. Si può impostare il gap (300µ m-3mm). Si possono analizzare campioni molto viscosi o con grande particolato (fino a 300µ m,1/10 del gap massimo). c) VANTAGGI: a) Gap selezionabile b) Preparazione più semplice del campione c) Viscosità misurabile > 10mPas d) SVANTAGGI: a) Turbolenze a γ! alti Il reometro può fare prove: - DI FLUSSO: determino la viscosità con rampe di stress rate (γ! ) o di temperatura le sue modalità sono: 1) γ! costante: misura l’andamento di η imponendo γ! costante 2) Rampa di γ! o τ : serve a misurare la pseudoplasticità, lo stress-thickening e il limite di scorrimento 3) Rampa di γ! in regime stazionario 4) Rampa di temperature (γ! costante): la rampa deve essere adeguata alla capacità termica del campione; serve a trovare ( )Tη - DI SOLLECITAZIONE OSCILLATORIA: determino G’ e G’’ e la loro dipendenza con rampe di temperatura, frequenza, ampiezza, le modalità sono: 1) Time sweep 2) σ sweep o ε sweep 3) Frequency sweep 4) Temperature sweep - IN TRANSITORIO: creep/recovery e stress-relaxation/recovery, ossia determino proprietà termo-dipendenti, le modalità sono: 1) Stress relaxation 2) Creep recovery   21     In modalità oscillatoria si da un input in σ o ε oscillatorio e si valuta l’output in σ o ε in termini di sfasamento, ampiezza e livello di distorsione (variazione della forma d’onda). Lo sfasamento è tra 0° e 90° (limite corrispondente a fluidi newtoniani). La risposta è quindi divisa in una componente in fase (componente solido-elastica) e in una componente sfasata (componente fluido- viscosa). Si trovano quindi G’, G’’, G*, δtan e come viscosità viene misurata la viscosità complessiva ω η * * G= . Questi test sono effettuati con oscillazioni piccole, in modo da poter considerare il comportamento viscoso, come approssimativamente lineare. C’è inoltre un range di deformazione, detto ZONA VISCOELASTICA LINEARE (LVR), all’interno del quale G’ e G’’ sono costanti, non dipendono dall’ampiezza dell’oscillazione: il test deve essere eseguito all’interno della LVR. La determinazione della LVR consente anche di stabilire il limite di applicazione del materiale le performance migliori del prodotto che ne deriva. In particolare εσ − ad ampiezze crescenti, con frequenza e temperature costanti. Lo stesso test può essere fatto per completezza. Nel time sweep viene invece mantenuto tutto costante nella forzante σ o ε (ampiezza,frequenza, temperatura……) e si valutano la stabilità e la reticolazione del materiale e la capacità di evaporazione di eventuali solventi. Si può ricavare anche il gel point del materiale. Nel frequency sweep invece la sollecitazione è sinusoidale in rampa di frequenze (con ampiezze e temperature costanti). Si misura la dipendenza spettrale della viscosità e si analizza la struttura del gel (materiale con G’>G’’, per ogni frequenza). Col test oscillatorio in rampa di temperatura (con solo T variabile in continua o a scalino) guardiamo invece nei solidi la Tg e le transizioni termiche varie, studiamo la reticolazione e vediamo la dipendenza della viscoelasticità della temperatura (ottenendo grafici G’/T e G’’/T). Nei test stress relaxation viene imposta una deformazione costante e valutata la rampa di rilassamento. Nei test di creep viene imposta forza costante e valutata la deformazione e il tempo di recovery in un singolo periodo.   22     3. TECNOPOLIMERI Sono polimeri che, se termoplastici, possiedono caratteristiche strettamente polimeriche (bassa densità, facilità di lavorazione) caratteristiche metalliche o ceramiche (resistenza meccanica, resistenza ad alte temperature alte per i polimeri). Sono polimeri creati per poter sostituire i materiali metallici, o ceramici, in alcune applicazioni. Vediamo ora come potrebbero essere usati in ambito biomedico: 1) POLIAMMIDI: le cui proprietà sono: a) Resistenza ad attrito e ad usura anche a T elevate b) Applicazione tra -43°C e 480°C c) Buona stabilità idrolitica d) Buona resistenza meccanica e rigidità Gli impieghi sono: a) Parti di strumentazione b) Applicazioni ortopediche, nel caso delle poliammidi “Ultem” che però sono ancora in fase di studio 2) POLISOLFONI: contengono gruppo 2SO− e strutture aromatiche nella catena principale intervallati da ossigeni (legami etere). Le proprietà sono: a) Termoplastici rigidi, tanto più sono aromatici e tanti più gruppi di biossido di zolfo sono presenti, in quanto questi creano ingombro che rende più difficile lo scorrimento fra le catene. Aumenta anche la rigidezza b) Tenacità che deriva dai legami etere Gli impieghi di questi polimeri sono diversi: a) Strumentazione varia b) Impugnature dei ferri del dentista c) Strumenti di endoscopia d) Membrane di ossigenatori e dializzatori e) Protesi d’anca, placche e chiodi endomidollari. Sono utilizzati assieme a fibra di carbonio   25     4. MATERIALI COMPOSITI Il materiale composito è un materiale con otteniamo tramite unione di 2 materiali non miscibili fra loro e tipicamente di proprietà opposte/in reciproca compensazione, è quindi un sistema multifase, con una fase discontinua (FIBRA), e una continua (MATRICE) che al suo interno tiene assieme al suo interno i pezzi di fase discontinua. In genere questi materiali fondono buona meccanica e leggerezza. Analizziamo i vantaggi e gli svantaggi di questi materiali. 1) VANTAGGI: • Basso peso specifico/densità • Basso coefficiente di espansione termica • Aumentate caratteristiche meccaniche 2) SVANTAGGI: • Alti costi • Difficoltà di produzione • Difficoltà di immagazzinamento: alcune matrici sono termoindurenti che potrebbero mutare, reticolando prima che io li utilizzi, e cioè quando sono in magazzino • Difficoltà di riproduzione: è difficile produrli perché non si riesce a disperdere la fibra nella matrice allo stesso modo, cosa che non permette di garantire che il materiale abbia sempre le stesse caratteristiche (cosa fondamentale in ambito biomedico). Bisogna quindi preoccuparsi di trovare processi produttivi affidabili, ma che sono complessi e costosi Le proprietà dei compositi dipendono dalle proprietà dei componenti, dal loro rapporto in volume, dalla geometria del composito (in particolare delle fibre) e dalla natura dell’interfaccia fra i componenti, che deve essere un legame molto forte. Le proprietà variano molto anche solo cambiando l’orientamento e la composizione del riempitivo, dando molte possibilità di ingegnerizzazione e adattamento del materiale alle tante applicazioni. La matrice da continuità e trasmette omogeneamente la sollecitazione in tutto il volume e al riempitivo. Mantiene anche la disposizione del riempitivo e lo protegge da danni superficiali. Le fibre devono dare rigidezza, resistenza e tenacità al composito. L’interfaccia deve trasferire i carichi tra fibra e matrice, e inoltre deve essere chimicamente e fisicamente stabile durante l’applicazione e l’esercizio. Se il contatto diretto fibra matrice non sarebbe abbastanza saldo, si usano fibre rivestite che creano un’interfaccia migliore. Le fibre sono lunghe o corte o intrecciate. Se il riempitivo è particellare bisogna guardare la disposizione, le dimensione, e la distribuzione delle dimensioni. Le fibre di carbonio (CF) hanno un coefficiente di espansione termica negativo. Tuttavia costano molto, e si allungano poco, il che lo rende difficile da lavorare. Sono però poco dense in rapporto alla loro rigidezza e resistenza termica. Vediamo il processo di formazione delle fibre di carbonio: 1) Fibra di PAN 2) Stabilizzazione a 200-280°C 3) Carbonizzazione a 1000-1500°C 4) Grafitizzazione a 1800°C   26     Ottengo così fibre alto modulo. I WHISKERS sono filamenti perfettamente monocristallini di ceramiche, simili a filamenti di HA dell’osso. Costano molto. Perdono meno resistenza meccanica al variare delle temperatura. I compositi hanno buone proprietà meccaniche, ma non si riesce a dare una buona dispersione delle fibre whiskers nelle matrici. Le matrici polimeriche termoindurenti hanno buona resistenza chimica, stabilità dimensionale e resistenza delle caratteristiche meccaniche al variare della temperatura, ma sono rigide, fragili, non riciclabili ed è difficile conservarle in magazzino perché potrebbero rieticolare in maniera imprevedibile. Se termoplastiche non hanno stabilità dimensionale, sono più tenaci e più facili da lavorare delle termoindurenti e sono per lo più tecnopolimeri. Si pensa di usare sempre di più i compositi perché devono avere più proprietà diverse, come i tessuti biologici, cosa che un materiale singolo non fa. I tessuti biologici sono compositi a loro volta. Per ora gli unici compositi usati sono le resine dentali, gli altri sono invece in fase preclinica o ancora sotto studio. Le fibre di carbonio sono dei ceramici, e non sono troppo biocompatibili ne molto biodegradabili. Come matrici polimeriche per biomateriali compositi si potrebbe usare: • Tecnopolimeri/superpolimeri in ortopedia • Siliconi, idrogeli e poliuretani, flessibili e biocompatibili, per rigenerazione e riparazione tessuti molli • Polimeri biodegradabilie, per compositi biodegradabili Possibili impeghi sono: - Resine odontoiatriche: resine acriliche con particelle di ceramica (silice,quarzo) che vengono fatte indurire in vari modi (luce, calore, clinica a T ambiente) - Mezzi di osteosintesi: si potrebbero fare in compositi polimerici, per avere meno rigidezza e quindi meno stress shilding (compositi CF/resina epossidica meno biocompatibili delle placche di 316L) - Steli protesi d’anca: sono allo studio diverse soluzioni con compositi polimero/CF - Gabbiette spinali in composito PEEK/CF: comunque radiopache ma meno rigide di quelle in titanio, con vantaggi per lo stress shielding e la simulazione del processo di guarnigione ossea - Viti e perni per osso in PEEK/CF: hanno proprietà simi a quelle in titanio e Co-Cr - Protesi d’anca in PEEK/CF: vengono fatte con lo stampaggio a iniezione, sono radiopache e si vedono anche in risonanza magnetica. La rigidezza è più meno quella dell’osso. Prevengono stress shielding. Il PEEK con 30% di CF è usato da poco anche in inserti di acetabolo. In PEEK è stato fatte anche un rivestimento laterale dello stelo, fatto di Co-Cr o titanio, proprio perché ha rigidezza simile a quella dell’osso I compositi biodegradabili sono fatti da una matrice in PLA o PGA e un riempitivo in fibre di carbonio (impianti parzialmente riassorbibili per situazioni a basso carico) o in calcio-fosfati. Il primo ha dato problemi sia di infiammazione, sia di danneggiamento meccanico di tessuti, poiché le CF sono molto rigide, i secondi sono ancora in fase di studio. Un possibile impianto biodegradabile è rete in composito di tessuto in PLA/collo di fibrina, che fa da scaffold, per creare un graft che ricostruisca i vasi sanguigni, oppure un composito collagene/nanotubi in carbonio per ricostruire il sistema nervoso periferico.   27     Vediamo ora come si progettano i materiali compositi. Se consideriamo un composito a strati, se le fibre negli strati sono orientate nello stesso modo, e se il legame tra gli strati è stabile in assoluto (ipotesi semplificativa), avremo una fortissima anisotropia, quindi in direzione trasversale avremo un punto debole, dal punto di vista meccanico, lasciato in balia di carichi trasversali. Possiamo applicare lo sforzo sia longitudinalmente alla direzione delle fibre, e in questo caso siamo in ISODEFORMAZIONE, sia trasversalmente alle fibre, ISOSFORZO. 1) ISODEFORMAZIONE ffmmcc fmc cfm AAA A F FFF σσσ σ εεε +=→ ⎪⎭ ⎪ ⎬ ⎫ = += == mfffmmcf c f m c m VVVVV A A V A A −=→+=⇒== 1, σσσ ffmmcffmmc fcm VEVEEVEVEE E +=→+=→ ⎭ ⎬ ⎫ === = εεε εεεε εσ 2) ISOSFORZO fmmf mf c mf fmmf cm m f f c mmffcmfc cmp EVEV EE E EE EVEV EE V E V E E E VV + =→ + =→+=→ ⎪ ⎪ ⎪ ⎭ ⎪⎪ ⎪ ⎬ ⎫ =→= +=→+= == 1σσσ σ εεσ εεεεεε σσσ   30     a) Alta deformabilità (200-800%) b) Flessibilità e leggerezza c) Bassi costi e lavorazione facile d) Risposta a memoria di forma ottimizzabile e) Hanno una possibilità ancora di maggiore di variare le loro proprietà f) Sono biocompatibili e si possono fare sia bioinerti che biodegradabili Ø SVANTAGGI: a) Sono applicabili sotto sforzi ridotti b) Ritornano alla loro forma permanente lentamente c) Non hanno memoria di forma per molti cicli di deformazione Molti dei polimeri che vengono studiati oggi come SMP hanno una microstruttura con dei domini “hard”, più densi e inerti, che collegano fra loro domini “soft”, sensibili a carichi e alla struttura. Sono più o meno tutti reticolati. Il meccanismo della memoria di forma è il seguente: 1) Il polimero nella forma T> transT , è nella forma permanente 2) Se viene deformato e portato a T< transT rimane in quella forma (senza raffreddamento si ha ritorno elastico) 3) Riscaldandolo facendolo tornare nuovamente a T> transT ritorna alla forma permannte I domini “soft” sono quelli che determinano il cambiamento della forma, mentre i domini “hard” li tengono ancorati assieme, in modo da fungere da punto di riferimento per la memoria di forma. Questo meccanismo, se basato su variazioni di temperature imposte direttamente, è detto TERMAL-RESPONSIVE. Come transT si può sfruttare la gT , infatti se deformo un polimero gommoso e lo raffreddo diventa vetroso e gli blocco la forma. La Tg può variare a seconda della composizione; il caso più eclatante è quello del poliuretano a memoria di forma (SMPu), che in base ai gruppi R, R’, R* e alle loro combinazioni possono avere le caratteristiche più disparate. 5.1. CARATTERIZZAZIONE SMP Non è semplice, in quanto bisogna vedere: il comportamento termomeccanico, cinetica del ritorno di forma, quali stimoli servono e che intensità. Le prove meccaniche si possono fare con: 1) TRAZIONE MONOASSIALE   31     2) FLESSIONE A 3 PUNTI 3) TRAVE INCASTRATA ORIZZONTALE Per descrivere il fenomeno nel tempo, e cioè vedere la cinetica del recupero in base alla temperatura, si possono fare: I. PROVE ISOTERME: dopo la deformazione e il congelamento si dà un τ costante, e si vede in quanto recupera la deformazione. Questo lo si fa variando di volta in volta la T II. PROVE DI RECUPERO: sempre dopo deformazione e congelamento, si dà una rampa di temperature, e si vede a quale temperatura il recupero aumenta bruscamente nel tempo, per vedere la transT III. FREE STRAIN CONDITION: si osserva come ε dipenda dal tempo e/o T durante il recupero di forma, su campioni non sollecitati meccanicamente IV. FIXED STRAIN CONDITION: si applica una ε costante a un campione “congelato” e variando la T si vede come lo sforzo nel campione dipenda da T Il comportamento a memoria di forma deve essere sempre studiato in test a sollecitazione ciclica, che comprenda più cicli di deformazione, congelamento e ritorno. I grafici 3D sono del tipo:   32     In 2D in invece vediamo Le quantità definite per la memoria di forma sono: v rR : % di forma recuperata, indice di quanta deformazione residua si accumula ciclo dopo ciclo: 100 )1( )( )( −− − = N N NR pm pm r εε εε v totrR , : % di recupero della deformazione, cioè la % di forma recuperata dopo N cicli: 100 )( )(, m pm totr N NR ε εε − =       v fR : % di stabilità di deformazione, cioè la % di deformazione che rimane dopo il raffreddamento e lo scarico, dopo N cilci m u f NR ε ε )( = v fT : temperatura di recupero a cui si è recuperata metà della deformazione imposta Le proprietà degli SMP sono molteplici, e in base a ciascuna si trovano diverse applicazioni, attuali o ancora sotto studio. Ø Rigidezza (E(T)): ago per prelievo di sangue Ø Capacità di manovra di forma Ø Capacità di smorzamento Ø Permeabilità a gas Ø Espansione volumetrica Ø Forza di recupero Ø Indice di rifrazione Ø Costante dialettrica Ad esempio è interessante usare gli SMP per la permeabilità dei fluidi. Essa aumenta con la temperatura poiché a T basse sono poco permeabili, poiché la loro struttura è bloccata, mentre a T alte sono più mobili e sono più permeabili. Esiste anche un effetto di memoria di forma guidato dalla luce (PHOTO-RESPONSIVE), e uno basato sul campo magnetico (MAGNETIC-RESPONSIVE).   35     6. POLIMERI BIODEGRADABILI Il requisito fondamentale è che si degradino velocemente (e quindi deliberatamente), e producano residui di degradazione non tossici. La degradazione porta il vantaggio di non dover espiantare e, se programmata ad hoc, riduce nel tempo gli effetti di stress-shielding in applicazioni di carico. Inoltre una sostanza degradabile che contiene molecole bioattive (farmaci) le può rilasciare durante la degradazione. La degradazione è sempre per idrolisi e può essere diretta o mediata da enzimi. I prodotti di scarto vengono chiaramente smaltiti per vie metaboliche. I polimeri bioriassorbibili possono essere realizzati in modo che siano fatti da sostanze presenti nel metabolismo umano legati da legami facilmentre idrolizzabili. Possibili applicazioni: § FERITE a) Fili di sutura b) Graffette, clips c) Adesivi, membrane a rilascio graduato per WOUND HEALING § ORTOPEDIA a) Pins, viti e placche (anche per maxillofacciale) b) Mezzi di osteosintesi c) Legamenti § DENTALE a) Membrane per rigenerare l’osso b) Riempitivi § CARDIOVASCOLARE a) Stent § SISTEMI PER DRUG DELIVERY O CELL DELIVERY § SCAFFOLD PER INGEGNERIA TISSUTALE I mezzi di osteosintesi e gli stent sarebbero fatti in modo da degradarsi nel tempo giusto perché l’osso o il vaso di recuperino le proprietà meccaniche, per avere sempre meno stress shielding nel tempo. I polimeri più utilizzati sono PGA e PLA. Il PGA si degrada molto velocemente e il PLA molto lentamente, quindi i loro copolimeri possono avere tempi di degradazione intermedi. Per il drug-delivery il vantaggio è che si può programmare la degradazione in modo che il rilascio parti su un livello costante nel tempo o intermedio fra la dose minima efficace e la dose tossica (con l’approccio tradizionale a dosi periodiche si va avanti e indietro sopra la tossica e sotto la minima). Piccola nota gli scaffold servono ad ospitare in vitro cellule del paziente, che poi diventa un costrutto da reimpiantare. I requisiti che i polimeri biodegradabili devono avere sono: Ø Non devono generare eccessiva infiammazione o effetti tossici Ø I prodotti di degradazione non devono essere tossici Ø Il tempo di degradazione deve bilanciarsi con il processo di guarigione da supportare   36     Ø Adeguate proprietà meccaniche, che devono variare durante la degradazione in modo compatibile col tempo di processo di guarigione Ø Facilità di lavorazione Ø Resistenza alla sterilizzazione Ø Adeguata SHELF-LIFE: deve rimanere integro abbastanza a lungo fino all’impianto In base a tutte queste caratteristiche la progettazione di questo tipo di polimeri deve essere estremamente accurata. Per progettare un polimero biodegradabile bisogna progettare molto bene la stessa polimerizzazione (reagenti di partenza, loro quantità, resa del processo di polimerizzazione), ma anche la lavorazione (bisogna avere chiaro come cambiano le proprietà fisiche rispetto al materiale), e bisogna conoscere molto bene i modi e i tempi della degradazione del materiale in vivo. La degradazione passa per 4 fasi: - Assorbimento d’acqua da parte del polimero - Perdita delle proprietà meccaniche d’origine, dovuta alla sola presenza d’acqua - Inizio idrolisi, con rottura di catene e perdita di peso molecolare - Col proseguire dell’idrolisi si staccano dei residui e si ha anche perdita di massa, con ulteriore perdita di proprietà meccaniche L’idrolisi non va confusa con l’erosione, che è la perdita di massa per cause esclusivamente fisiche, né con la dissoluzione, che è la perdita di massa data dal fatto che il materiale è solubile in acqua e diventa un comune soluto. Il meccanismo di degradazione può essere idrolitico (più per i polimeri sintetici) o enzimatico (più per quelli naturali), ma in genere è molto complesso, poiché intervengono due meccanismi di base a varie proprietà dei materiali (struttura, conformazione, configurazione, idrofilicità……). La degradazione si può concretizzare come un’erosione superficiale (perdita di massa e di volume) o come un’erosione di massa (perdita di massa e densità, volume costante). La prima è più desiderabile per il rilascio di farmaci. I polimeri biodegradabili possono essere di due tipi: 1) SINTETICI: • Esteri alifatici: PLA e simili, PGA e simili, Polidrossibuterati, policoprolattone, polidiossanone • Polianidridi • Polifosfazeni • Poliortoesteri • Policianoacrilati 2) NATURALI: • Polisaccaridi: cellulosa e acido ialuronico • Proteine: collagene, fibrina, fibroina… Quelli sintetici hanno alcuni vantaggio: progettabilità, uniformità delle proprietà, non danno problemi di rigetto, sono molto disponibili e più lavorabili di quelli naturali. La caratteristica che tutti i polimeri biodegradabili hanno, è che sono tutti facilmente idrolizzabili, perché polari   37     Il 90% dei polimeri biodegradabili in commercio sono PLA, PGA e loro copolimeri. I loro residui di degradazione sono acido lattico e glicolico, che il corpo produce di suo e metabolizza nel ciclo di Krebs, trasformandoli in acqua e anidride carbonica, e poi espellendoni via reni e polmoni. Poiché acido lattico e glicolico sono aromatici, per polarizzarli bisogna fare una reazione di apertura ad anello, che usa come iniziatore una molecola organica del tipo OHR − . Le scelte del gruppo R e della quantità di iniziatore e monomero influenzano il peso molecolare e le proprietà del polimero. Il legame avviene per attacco di un legame OC = del monomero da parte dell’OH dell’iniziatore, usando però l’aiuto di catalizzatori e/o calore. Gli iniziatori sono: • Etanolo ed alcoli vari • Dialcoli • PEG e mPEG • Idrossiacidi (fra cui lo stesso acido glicolico). L’acido D-lattico forma un polimero amorfo, l’ L-lattico un polimero semicristallino. L’acido lattico ha un carbonio chirale (legato a 4 gruppi diversi) perciò può essere D o L, così come il PLA che ne deriva. Questo cambia molto le proprietà dei materiali. I polimeri della classe di PGA e PLA, cioè i poli-α -idrossiacidi, sono più spesso soggetti a erosione di massa: il peso molecolare inizia a calare dopo un giorno (PGA, PLA), o dopo una settimana (PLLA), ma non c’è perdita di massa finché i prodotti di degradazione non diventano così piccoli, che fuoriescono dalla massa del polimero e sciogliersi nell’ambiente biologico. La degradazione aumenta con l’abbassamento del pH: se i prodotti acidi della degradazione non vengono allontanati dal sito, la degradazione aumenta di intensità in modo incontrollabile, causando più di un’acidificazione locale, che porta a infiammazione cronica e necrosi dei tessuti circostanti. Il PLA è più idrofobico del PGA e quindi resiste di più all’idrolisi. Il PLLA ha una Tg di 60-65°C e una Tm di circa 179°C, e altamente cristallino (circa 37%), ha una degradazione molto lenta (2-5 anni). Se facciamo un copolimero PDLA-PLLA possiamo ingegnerizzare tutte queste proprietà e   40     7) Metodo e condizioni di lavoro 8) Metodo di sterilizzazione 9) Trattamenti termici subiti 10) Metodi di conservazione per-impianto 11) Sito di impianto e condizioni fisiologiche paziente 12) Fattori fisico chimici (forma e dimensioni) FATTORI ACCELERANTI: 1) Presenza di catene idrofiliche 2) Gruppi terminali idrofilici 3) Gruppi facilmente idrolizzabili 4) Porosità 5) Amorfismo 6) Ridotto dimensioni 7) Temperature alte METODI DI LAVORAZIONE: 1) Solution casting 2) Phase separation 3) Foaming 4) Injection molding: stampaggio a iniezione 5) Estrusione 6) Pressatura a caldo 7) Filatura di fibre (fiber spinning) 8) Lavorazione alle macchine utensili (machining) Nella lavorazione bisogna seguire delle precauzioni. Quelle principali sono: a) Il polimero deve rimanere il più possibile anidro prima dell’impianto, se no si degrada già durante la lavorazione (specia a temperature), e poi in magazzino b) Bisogna evitare stress residui, perché tendono ad abbassare l’effettiva temperatura di transizione vetrosa (per il PGA e il PLA da 45°-60°C, anche fino a 37°C o meno) c) Bisogna stare attenti a fenomeni che cambiano la cristallinità (quencing cala, annealing aumenta, in quanto la degradazione le catene si allungano e uniscono), e che quindi cambiano molto tutte le proprietà. d) Bisogna stare attenti agli sforzi di taglio e alle alte temperature che si generano nello stampaggio a iniezione e nell’estrusione. Questi fattori possono causare degradazione del polimero, che può essere acuita in presenza di attivi o di umidità. e) Bisogna fare attenzione anche alla sterilizzazione. Non dobbiamo farla in autoclave; se usiamo dei gas questi possono agire da plasticizzanti e ridurre la Tg; se invece usiamo raggi γ questi possono ridurre il peso molecolare. f) Bisogna sempre stare attenti all’umidità che intacca i valori di: Tg, cristallinità, solidificazione e sterilizzazione   41     grafico peso molecolare/contenuto d’acqua del PLLA con curve dopo tempo. Per polimeri a Tg bassa, bisogna stare attenti ai fenomeni di rilassamento (se amorfi), alla temperatura di lavorazione/prova/conservazione/applicazione e alle condizioni ambientali durante trasporto, immagazzinamento ed essicamento. Il quencing è un trattamento che si può fare per evitare ricristallizzazioni indesiderate (annealing) durante la degradazione o il lungo riscaldamento. Poiché la fase amorfa degrada prima, all’inizio della degradazione ci sarà un aumento di cristallinità. Un processo di solidificazione difettoso accelera la degradazione: tipicamente più è alta la pressione di consolidamento, migliore è la solidificazione, poiché se essa non dovesse essere abbastanza alta si genererebbero eccessive porosità (che chiaramente favoriscono la degradazione) Altre cose a cui bisogna fare attenzione sono: Ø ORIENTAMENTO DELLE CATENE: Certe lavorazioni, come lo stampaggio a iniezione, ne danno una preferenziale Ø CAMBIAMENTI DI FORMA: Sopra la Tg si cambia la forma per rilassamento, o se no per delaminazione Ø PRESENZA DI RIEMPITIVI: Possono abbassare il peso molecolare nella lavorazione da fuso Ø RILASSAMENTO DURANTE LA DEGRADAZIONE   42     7. POLIURETANI, SILICONI E SIBS Si fanno in copolimeri a blocchi, con blocchi da 100-1000 monomeri, in modo da avere bilanciamento di proprietà opposte (tenero/rigido, conduttore/isolante, idrofobico/idrofilico). Sono tutti termoplastici quindi non hanno reticolazioni e sono lavorabili all’infinito (SPU). Notazione PTS=poliuretani termoplastici a segmenti. Nei poliuretani si scelgono bene i gruppi sostituenti 321 ,, RRR per avere diverse proprietà. Bisogna fare in modo da usare segmenti soft a Tg<37°C e segmenti hard a Tg>37°C. Hanno comportamento simile alle gomme vulcanizzate, ma senza reticolazione. Per aumentare la “sofficità” o aumentiamo il peso molecolare dei macrodioli usati, o ne aumento la frazione in volume. Coi segmenti hard, che comunque avranno peso molecolare più basso, possiamo solo aumentare la dose relativa per aumentare la rigidezza del materiale.   45     I macrodioli sono per lo più: poliestere-dioli, polietere-dioli, policarbonato-dioli. In base ai macrodioli vengono nominate le varie classi dei PTS. Il diisocinato può essere in forma aromatica o alifatica; se in forma aromatica ha proprietà meccaniche migliori, ma può essere più dannoso per la salute. Gli estensori di catena possono essere o butandiolo ( OHCHCHCHCHOH −−−−− 3333 ) o etildiammina ( 2222 NHCHCHNH −−− ). Andiamo a vedere le singole classi: a) POLIESTERE-URETANI: il legame tipico nei segmenti soft è il legame estere. Sono stati i primi ad essere utilizzati, ma, a causa della loro elevata idrolisi in ambiente di utilizzo, sono caduti in disuso. Oggi vengono utilizzate per formare poliuretani biodegradabili (scegliendo bene i reagenti) b) POLIETERE-URETANI: il legame tipico dei segmenti soft è il legame etere. Sono venuti tutti dopo i poliesteri- uretani, sono stabili all’idrolisi ma soggetti a degradazione ossidativa, ma solo in condizioni critiche (sforzi residui superficiali, scarso spessore, alti sforzi di esercizio). I fenomeni a cui vanno incontro sono: • SURFACE CRACKING: fessurazione superficiale dovuta a carichi di ciclo • METAL ION OXIDATION: fenomeno di ossidazione in presenza di ioni metallici, contribuisce al surface cracking e al crazing • ENVIORMENTAL STRESS CRACKING: fessurazione e cracking dovuti a stress e attacco da parte di enzimi, ioni e radicali portati da macrofagi c) POLICARBONATO-URETANI: il legame tipico fra i segmenti soft è il legame carbonato. Sono stabili all’idrolisi e all’ossidazione, anche se in seguito a uno studio si è visto che sono attaccabili dagli enzimi. Sono venuti in sostituzione dei polietere-uretani, e sono soggetti comunque a un surface- cracking significativo in tempi brevi. Il modo per migliorare le proprietà di questi polimeri è la copolimerizzazione fra poliuretani e siliconi (convenzionali), in modo da portare agli uni quello che manca agli altri e viceversa, ovvero: Ø Ai poliuretani la biostabilità, maggiore idrofobicità, resistenza all’abrasione, maggiore stabilità termica e tromboresistenza dei siliconi   46     Ø Ai siliconi la processabilità da termoplastici, la solubilità, la maggiore tenacità e resistenza alla lavorazione dei poliuretani. I copolimeri che vengono generati sono detti PU-siliconi o Pur-Sil, e si possono ottenere anche utilizzando un macrodiolo siliconico durante la formazione dei poliuretani, cioè del tipo: All’aumentare del contenuto di silicone cala la resistenza (a trazione, ma anche quella generale), e aumentano biostabilità e costo: bisogna mettere il giusto quantitativo di silicone che mi permetta di ottimizzare questi tre fattori. Inoltre aggiungendo silicone la tenacità varia e il diagramma εσ − si accorcia con l’aumentare del contenuto di silicone. L’aumento del silicone aumenta la stabilità idrolitica, in particolare se si trova sulla superfice del pezzo; si può capire facilmente che questi polimeri sono molto buoni come rivestimenti esterni. Se noi volessimo avere un poliuretano biodegradabile basta semplicemente utilizzare un macrodiolo biodegradabile, un diisocianato alifatico e come estensore di catena una molecola a basso peso molecolare, come lo stesso butandiolo Parliamo ora degli ELASTOMERI TERMOPLASTICI BIOSTABILI. Poiché i poliuretani da soli mostrano una rapida degradazione, e i copolimeri Pur-Sil diventano difficili da ottimizzare senza incappare in costi elevati, si è reso necessario trovare nuovi copolimeri da impianto, per applicazioni a carico prolungato (ad esempio stent o stent-graft). Una possibile risposta è stata trovata nei SIBS (copolimeri a blocchi di stirene, isobutilene stirene); sono elastomeri con proprietà simili ai poliuretani e alle gomme siliconiche, stabili all’ossidazione e all’idrolisi e inoltre sono anche altamente emocompatibili e biocompatibili. L’ipotesi che stava alla base della ricerca che ha portato alla scoperta dei SIBS si sviluppa in 2 punti principali: 1) L’assenza di legami estere, ammide, etere, uretano o altri legami che subiscono ossidazione, idrolisi o attacco enzimatico, garantisce la stabilità lungo termine di un impianto polimerico in vivo 2) Legami multipli in catena e cross-link di reticolazione ci suggeriscono che i polimeri con carboni terziari o secondari in quantità, come PE o PP, sono da evitare perché tendono a formare per questo radicali liberi che portano a infrangimento e formazione di cricche Per questo si è pensato di creare un polimero che alternasse carboni secondari e quternari in catena, e con solo carboni primari nei gruppi laterali. Questa ipotesi si è rivelata corretta e si è creato un polimero della seguente struttura:   47     Questo polimero è proprio il SIBS ed è fatto a blocchi. In genere nelle applicazione biomediche 5.005.0 ÷= +mn n . La ricerca era partita era partita dal polisobuitilene (PIB) per passare alla gomma solubile. Il SIBS si può avere sia in soluzione sia in massa. La polimerizzazione è ionica, cioè a iniziatore ionico e crea una struttura macro con domini hard e soft che fa del SIBS un polimero termoplastico a separazione di fase. Il peso molecolare del SIBS è controllato dal rapporto monomero/iniziatore, la sua rigidiezza invece dalla quantità di stirene (gruppo aromatico che quindi rende più difficile lo scorrimento delle catene). La quantità di stirene fa aumentare anche la durezza (Shore A e Shore D). La stabilità ossidativa è ottima. È stato dimostrato con un test di “cottura” in acido nitrico in ebollizione per 30 minuti, e pochi altri polimeri hanno passato il test allo stesso modo. Il SIBS è solubile in diversi solventi non polari, il che lo rende apprezzabile nei rivestimenti SOLVENT CASTING e SPRAY COATING, portando a formare film superficiali molto resistenti. Vediamo adesso altri aspetti dei SIBS: 1) PROBLEMI: Ø Solventi organici lo portano a più stress cracking Ø Creep Ø Minore resistenza a trazione rispetto ai poliuretani (le catene essendo non polari non hanno legami a idrogeno) Ø No sterilizzazione EtO, perché poco permeabili ai gas Ø No sterilizzazione ai raggiγ , perché danneggiano eccessivamente la struttura Ø Costi di sintesi e di purificazione relativamente alti 2) ASPETTI COMUNI A PTS E GOMME: Ø Ottima resistenza a fatica flessionale Ø Buona biocompatibilità ed emocompatibilità Ø Stabilità chimica e strutturale in ambiente fisiologico 3) APPLICAZIONI Ø Drenaggio di glaucomi Ø Stent-grafts Ø DES (stent medicati) Ø Valvole biomorfe sintetiche In particolare, i tubi in SIBS per drenaggio di glaucomi mostrano risposta minima da parte dell’organismo (incapsulamento), non collabiscono sotto la pressione intraoculare fino a 6 mesi dall’impianto e, cosa più importante non causano generazione di vasi o strati di collagene massicci. Inoltre questi tubi in SIBS sono 5 volte più sottili che in silicone, proprio per via delle sue qualità. Per quanto riguarda gli stent-graft, li si può rivestire in SIBS ottenendo un rivestimento microporoso molto emo- e biocompatibile: in particolare non c’è alterazione dello stent (fessurazione) ne biodegradazione del rivestimento; il peso molecolare del SIBS non varia in 1 anno; non c’è eccessiva presenza polimorfonucleati (macrofagi), addirittura meno del caso dei   50     Ø PRO: - Possono rilevare la sensibilità del materiale e il suo livello di tossicità in modo chiaro - Le condizioni sperimentali sono standardizzabili - I saggi sono veloci e costano poso Ø CONTRO - Si potrebbe trascurare una pericolosità più alta del reale, perché nelle colture non ci sono meccanismi che portano via le tossine - Otteniamo una risposta semplicistica, negli organismi “veri” c’è una risposta più complessa (ad esempio infiammatoria) 8.2. TEST IN VIVO Anch’essi regolati dalla ISO 10993. Si dividono in TEST NON FUNZIONALI, in cui viene impiantato il materiale (direttamente o indirettamente) in animali di piccola taglia, e TEST FUNZIONALI, in cui si impianta il dispositivo in animali di taglia più grande. I primi test sono relativamente veloci e hanno pochi animali di riferimento, mentre i secondi sono più lenti e complessi, e senza un animale di riferimento. I test non funzionali sono: v SENSIBILIZZAZIONE DI BÜHLER: Usato per dispositivi che vanno a contatto con la pelle. Viene messa la pelle a contatto col materiale per una prima volta, poi dopo due settimane si fa un’applicazione scatenante e si vede la risposta v SENSIBILIZZAZIONE MGNUSON KLIGMAN: Si usa per dispositivi che vanno a contatto con zone diverse dalla pelle, e si basa sul concetto della cavia con fluidi in cui è nato il materiale, per iniezione. È uguale a quello sopra e ci sono livelli di risposta in ordine crescente di gravità v IRRITAZIONE: Si applicano garze imbevute di un estratto del materiale in soluzione fisiologica, a livello cutaneo o oculare (per avere risposte rapide) su conigli. Si tengono un po’ e poi si guarda la risposta a intervalli regolari (1, 24, 28, 72 ore). Sia le garze che il materiale sono sterili. C’è anche una risposta indicizzata in 4 livelli di generalità in base all’indice di irritazione primaria v TEST DI IMPIANTO: Si impianta un pezzo sterile di materiale per un po’ (circa 12 settimane), poi si analizzano materiale e tessuti circostanti dopo l’espianto. Si usano coniglio o altri animali piccoli. Si impianta anche un campione di controllo negativo per confronto. I campioni di tessuti sono fissati in farmalina, quindi disidratati, inclusi in paraffina, sezionati, posti nel vetrino, reidratati e colorati per l’analisi istologica (con più colori in base a quello che voglio mettere in evidenza). Vediamo anche qui i pro e i contro dei test in vivo: § PRO: • Completezza delle informazioni sulla reazione   51     • Condizioni più simili a quelle dell’uomo • Si può valutare la funzionalità del dispositivo § CONTRO: • Più difficoltà nel controllare i parametri clinico-fisici • Variabilità tra animali, e quindi minore standardizzabilità e ripetibilità • Problemi etici e normativi. Questo implica che ci vuole molto a pianificare gli esperimenti e a rendicontarli Se si passano i test in vitro, si passa ai test non funzionali in vivo, quindi a quelli funzionali. L’ultimo test è la prova sull’uomo: i TRIALS CLINICI. Sono indispensabili, ma ci vuole molto tempo a farli perché sono complessi, mancano i volontari, costano molto e servono molte persone, ma tuttavia vanno fatti. Si calcola che dall’origine dell’idea alla commercializzazione passino in media 15 anni. Si possono anche fare (e se ne fanno molti) TEST EX-VIVO, cioè analisi di dispositivi andati incontro a fallimento ed espiantati assieme a tessuti circostanti, per quanto possibile. In questo modo si impara molto sia sul dispositivo in sé e sulle interazioni con l’organismo, ma sono analisi a posteriori e non sappiamo con che sicurezza applicarle su prodotti nuovi. 9. APPLICAZIONI CARDIOVASCOLARI 9.1. PROTESI CARDIOVASCOLARI Prima di parlare delle protesi vascolari facciamo un breve ripasso dell’anatomia di vene ed arterie. 1) ARTERIE: Costituite dalle 3 TONACHE: INTIMA, MEDIA e AVVENTIZIA; non sono presenti vesciche, e nelle loro pareti sono presenti muscoli orientati secondo la circonferenza, che danno origine a deformazioni circonferenziali 2) VENE: Costituite da valvole a nido di rondine, e da 2 tonache. La tonaca media è il muscolo liscio, l’avventizia è costituita da fibroblasti e l’intima da cellule endoteliali.   52     Le patologie che colpiscono i vasi arteriosi sono 2: a) STENOSI: Restringimento del lume vascolare a causa di un trombo o di una placca aterosclerotica, che può portare ad ischemia d’organo, che diventa infarto se si trova nelle coronarie b) ANEURISMA: La parete vascolare si indebolisce e il vaso si allarga in maniera anomala o rompersi causando emorragia interna. Questa patologia non si può diagnosticare a priori e può essere fulminante. Per affrontare queste patologie si possono fare due tipi di interventi: 1) BYPASS della zona stenotica, con una protesi vascolare, ed è il metodo più invasivo. Per questo intervento si usano o protesi biologiche o sintetiche 2) ANGIOPLASTICA ENDOLUMINARE (palloncino) 3) STENT (più palloncino) Gli ultimi due interventi sono meno invasivi, in quanto utilizzano solo un catetere guida. Le protesi vascolari sono dette anche GRAFT VASCOLARI e servono a bypassare le stenosi o ad “ingabbiare” gli aneurismi per evitare che si rompano. Queste protesi possono essere di piccolo calibro (diametro minore di 6 mm) o di medio/grande calibro (diametro maggiore di 7 mm). Le caratteristiche meccaniche richieste sono: complianza, permeabilità all’acqua e porosità (favorire la colonizzazione cellulare e allo stesso tempo sfavorire il passaggio d’acqua), resistenza alla trazione specialmente a quella radiale e circonferenziale, resistenza allo scoppio (alta pressione interna senza rompersi) e durata (maggiore dell’aspettativa di vita del paziente). L’impianto della protesi non deve causare reazioni a cui il paziente non riesca a far fronte. Ci sono 3 fattori determinanti per la protesi: 1) LEGATI AL PAZIENTE: sito d’impianto, gravita e decorso della patologia, presenza di altre patologie (batteri, tumori, diabete, ipertensione…) 2) INTRINSECI: tipo di qualità del materiale, disegno tecnologico della protesi e lavorazioni 3) LEGATI ALL’INTERVENTO: problemi tecnici di inserimento del graft, ad esempio problemi su come devo suturarlo e quale sutura devo fare. Protesi di medio/largo calibro, per lo più, sono le protesi sostitutive dell’aorta e delle sue diramazioni. Questo tipo di protesi devono essere più resistenti possibili (la tombogenicità non ci interessa più di tanto, che è molto più pericolosa nei vasi di piccolo calibro in quanto il flusso di   55     sviluppare graft in siliconi (biostabili ed emocompatibili ma deboli) o poliuretani (compatibili, rigidezza meglio gestibile, resistenza a fatica, possibilità di fare PU porosi e di fare graft molto più complianti con svariate tecniche), o i loro copolimeri, più biostabili. Per avere superficie non trombogenica si può intervenire in diversi modi: Ø Aumentare la porosità così si forma più neointima, ma in realtà questa o non si forma o si forma eccessivamente attorno le anastomosi, e questo crea occlusione Ø Rivestimento interno inerte non poroso (carbonio turbostrato o biofunzionalizzazione) Ø Inseminazione della protesi (messa in coltura prima dell’impianto, va bene solo per applicazioni non trombogeniche) per avere endotelio naturale Quali sono le protesi più complianti? È difficili a dirsi, sta di fatto che i polimeri (tutti quelli uguali) partono con delle complianze al più della metà rispetto a quelle di arterie e vene, oltretutto molto non lineari. Chiaramente bisogna valutare resistenza assiale e circonferenziale. Altra cosa da sottolineare è che sono stati fatti progressi nella soluzione per l’antitrombosi: - POROSTIÀ: sviluppo di tecniche di precoagulazione - RIVESTIMENTI: sviluppo di rivestimenti con cellule di derivazione bovina o porcina (collagene, albumina, gelatina) o con idrogeli di sintesi, ma per ora i risultati sono stati scarsi. I graft bioriassorbibili invece seguono il principio della sincronizzazione fra riparazione e degradazione, ma c’è bisogno che le cellule circostanti siano pronte a riparare. Sono il PGA e il PLA, ma sono ancora in fase di ricerca per trovare le giuste cinetiche di degradazione e riparazione. L’ultima alternativa consiste nell’ingegneria tissutale , ed è ottima al posto dei vasi autologhi per i bypass delle coronariche. Il succo è prendere una protesi non trombogenica e riempirla con una parete di cellule endoteliali in coltura per aumentare le performance. 9.2. CUORE ARTIFICIALE All’interno dei costi in cardiochirurgia (per dispositivi, non prestazioni), il 21% va alle sole protesi valvolari cardiache. Come protesi si usa anche il peacemaker, il quale però ha delle problematiche: infezione, trombogenesi, formazione di cicatrici, perdita e rimozione degli elettrodi. I dispositivi di assistenza ventricolare (VAD), i più comuni sono chiaramente quelli per il cuore sinistro. Vi si fa ricorso per l’insufficienza di cuori trapiantabili a disposizione; l’uso dispositivi di assistenza può essere in atto per tempistiche molto varie. L’ECMO è la macchina per ossigenazione extracorporea (circolazione cardiopolmonare esterna). Si applica 4-5 giorni e serve a sostituire l’attività di cuore e polmoni durante le operazioni chirurgiche o in casi in cui sia necessario che si “rilassino”. È trattamento cardiovascolare estremo (con molte possibili complicanze) ed estremamente invasivo. I dispositivi di supporto cardiopolmonare “portatili” sono nati per sopperire alla scarsità di cuori donati da impiantare. Si sono rivelati molto efficaci nel ridurre la mortalità dei pazienti. Sono dispositivi che alleggeriscono cuore e polmone per permettergli di recuperare la loro funzionalità, così gradualmente cala l’uso dell’ECMO. Sono dispositivi molto complessi e variegati e che pongono vari problemi (chirurgici, medici, personali, economici, sul flusso continuo o pulsatile). Ci sono tanti modelli, e ciascuno disegnato per rispondere a diverse esigenze. Si distinguono per: • ASSISTENZA AI VENTRICOLI: monoventricolari o biventricolari   56     • POSIZIONE DI APPLICAZIONE: intracorporea o paracorporea • PROPRIETÀ DELLA POMPA - Flusso continuo o costante - Energia pneumatica o elettrochimica • DIMENSIONI Al di là del tipo, le principali componenti di questi dispositivi sono: canule di prelievo e di immissione (cioè i tubi che lo collegano alle camere del cuore), la pompa che collega le due canule, il sistema di alimentazione, il sistema di acquisizione dati e la console di controllo con monitor. Nell’immagine sono riportati due esempi L’ipotesi di costruire un cuore artificiale, ricostruito fedelmente “all’originale”, è stata abbandonata sia per lo scarso successo sia per la difficoltà. Da sottolineare che la sacca che contiene il sangue è spesso in poliuretano, con alta resistenza alla fatica (continue contrazioni) e con la superfice eparinizzata, cioè ricoperta di anticoagulante. L’eparina non è una proteina, è un glicosamminoglicano (polisaccaride con gruppi negativi), che si lega all’antitrombina III e ne potenzia l’attività. 9.3. STENT VASCOLARI Gli stent vascolari richiedono interventi meno invasivi e per questo sono i più utilizzati. Prima come alternativa agli stent veniva utilizzata l’angioplastica col palloncino. Quando la parete è danneggiata per qualche motivo si preferisce fare il bypass anziché utilizzare lo stent, questa scelta viene fatta perché c’è il rischio che la parete non regga la pressione di allargamento dello stent (ciò riguarda sia stenosi che aneurisma). I materiali col quale si possono realizzare gli stent sono diversi, ma tutti hanno le loro problematiche da risolvere: I. ACCIAO: tossicità al nichel II. NITINOL: tossicità al nichel, infiammazione, trombosi e possibile restenosi III. LEGHE CoCr: non provocano gravi trombosi ma costano un po’ di più IV. LEGHE DI TANTALIO: non si corrode, resiste poco, ha una maggiore % di ritorno elastico (recoling) post-inserzione; il problema è che costano molto V. LEGHE DI PLATINO-IRIDIO: costano anch’esse e per il resto hanno le stesse proprietà delle leghe di tantalio I BMS (bare metallic stent) hanno vari limiti:   57     • Causano trombosi e quindi costringono a prendere anticoagulanti per molto tempo • Il lume può ridursi dopo l’impianto • Può dare problemi in TC (tomografia computerizzata) e in risonanza Gli stent metallici rivestiti hanno le stesse proprietà dei BMS ma con proprietà di superfice molto migliori: meno rugosità (quindi meno trombogenicità), e altre. I rivestimenti in genere vengono fatti o in oro o ossido o nitruro di titano o carbonio turbostrato o addirittura cellule epiteliali (chiaramente non per interventi urgenti), che riducono molto il rischio di trombi e di iperplasia di neointima. Come altri rivestimenti si possono fare coating porosi, in poliuretano, oppure anche coating di origine naturale che sono biostabili o biodegradabili. Il rivestimento deve aderire allo stent e deve mantenere la sua integrità anche e soprattutto dopo essere stato alloggiato, anche perché se no aumenta la trombogenicità locale (per le cricche) e globale (per evitare detriti vaganti). I DES (drug eluting stent) hanno delle cavette nelle maglie dello stent dove viene posto il farmaco, oppure ce l’hanno inglobato nel coating polimerico. I faramci più utilizzati sono: eparina, sirolimus e paclitaxel (per evitare iperplasia intimale). Come polimeri per stent interi si possono usare: PET (non biodegradabile), PLLA o PLGA (biodegradabili). I poliuretani come coating hanno dato risultati contrastanti. Per il coating si cerca di utilizzare polimeri naturale; si stanno studiando polimeri a base fosofrilcolina (stent metallici, prevengono stenosi, cola trombogenicità, ottima bio- ed emocompatibilità in maiale), acido ialuronico (è un glicosamminoglicano, aumenta la resistenza alla trombosi e della aggregazione di proteine), e fibrina. Si è pensato di reticolare l’acido ialuronico con una immide per aumentare la stabilità nel tempo e l’antitrombogenicità, il che ha portato a riduzione rischi di iperplasia neointimale e di restenosi, ma rimane il problema della tossicità: rilascio di reagenti. La fibrina si deposita in film sullo stent, è biocompatibile, biodegradabile e ha proprietà eccellenti, ma non è ancora stata applicata. I polimeri biodegradabili rilasciano il farmaco per diffusione quindi bisogna guardare la diffusività. Il problema dei polimeri biodegrabili è che i residui monomerici sono acidi e vanno eliminati velocemente dal sangue, se no creano acidità locale e accelerano il processo di degradazione. Si era pensato di utilizzare, in alternativa, mono-particelle di fosfato di calcio; ma forse è ancora peggio. Il costo delle protesi è legato molto al costo dei trials clinici (l’azienda paga i costi dell’intervento), ad esempio il bypass è molto costoso, perché invasivo. C’è anche l’idea di utilizzare stent in polimero biostabile, che sono meno rigidi di quelli in metallo e quindi ci si chiedere se avranno le giuste caratteristiche metalliche per tenere aperti i vasi. Attualmente se ne stanno studiando diversi tipi: • PET tessuto “braided” per stent coronarici: emocompatibilità insufficente, buona permanenza in situ e pervietà, in uno studio sono stati ritrovati 2 stent nella biforcazione aortica • Stent metallico avvolto da una rete di PET, ma l’idea è stata abbandonata. Altra alternativa è quella di realizzare DES rivestiti con polimeri biodegradabili; sembrerebbero sicuri a lungo termine, ma bisogna avere la giusta cautela per quanto riguarda la risposta infiammatoria. I polimeri più comunemente studiati sono: PGA, PLA e i loro copolimeri (ad esempio PLGA). Possono essere completamente degradati e metabolizzati dal corpo umano. Molti di questi stent sono in fase di sperimentazione clinica. La degradazione dei polimeri è influenzata da pH, peso molecolare, cristallinità, rendendo il profilo di rilascio del farmaco più difficile da controllare. I prodotti acidi accumulati durante la degradazione del polimero possono portare a   60     1) A PALLA: affidabilità meccanica nel tempo (le migliori per questo) e scarso rigurgito statico ma rischio emolisi/perdita palla. Fatte nel seguente modo: a) Palla piena in stellite, poi in silicone b) Housing in stellite o titanio c) Anello di sutura in Dacron o Goretex 2) DISCO OSCILLANTE: fluidodinamica migliore di quelle a palla, meno trombogenicità ed emolisi, ma rumorose e facili da bloccare e da usurare a) Disco in delrin, CPy su grafite, CPy b) Housing in stellite o lega di titanio c) Anello di sutura in Dacron o Goretex 3) VALVOLA BILEAFLET: i materiali sono sempre gli stessi, cambia il design dove migliora la fluidodinamica , ma l’emolisi e la trombogenicità ancora meno probabili. In questo tipo di protesi anche l’anello può essere parzialmente rivestito in carbonio ULTI, nei lati più esposti al sangue (lo hanno fatto anche in quella a disco oscillante) Hanno fatto anche un modello con anello di sutura con inserti o rivestimenti in argento per allontanare i batteri e ridurre l’endocardite (che è una malattia che è diagnosticabile solo in maniera invasiva e imprevedibile). È stata ritirata perché l’argento potrebbe limitare lo sviluppo di adesione dei tessuti alla protesi gli housing hanno varie forme. Le cerniere della valvola bileaflet devono essere fatte in modo da poter far scorrere i perni dei leaflet all’interno, e rimuovere eventuali depositi; è molto importante che le dimensione siano curate con molta precisione e le superfici siano lucidate a specchio. Rivestimento fatto in CPy . I controlli di qualità si fanno sul rivestimento sono   61     1) METALLOGRAFIA: vanno a verificare la presenza di struttura granulare (isotropia, termicamente stabile) o colonnare (anisotropia, metastabile) e di inclusioni 2) TEST DI DUREZZA VICKERS: deve essere tra 230-400 VHN 3) TEST SUL CARICO FLESSIONALE A ROTTURA: deve essere fra 35-60 2mm kg L’immagine riporta produzione del carbonio ULTI: Il rivestimento fine in carbonio ULTI è usato per i tessuti per gli anelli di sutura, gli stessi anelli di sutura e gli housing metallici, ma anche per gomme siliconiche, PU, compositi… La sua peculiarità è che si deposita senza alterare le proprietà, in particolare, delle fibre di tessuto polimeriche dell’anello di sutura. I controlli di qualità su di esso sono principalmente test di forza di coesione del rivestimento (PULL TEST), in cui il rivestimento ULTI fatto su un substrato viene incollato a un afferraggio di una classica macchina di prova a trazione e poi sottoposto a trazione. Analizziamo valvole meccaniche e biologiche “sempre” dal punto di vista degli svantaggi e dei vantaggi: • MECCANICHE o VANTAGGI: durata anche illimitata § Durata anche illimitata o SVANTAGGI: § Richiedono terapia anticoagulante § Sono rumorose   62     § Rischiano di funzionare male, per formazione di coaguli o di pannus fibroso • BIOLOGICHE o VANTAGGI: § Non richiedono trattamento anticoagulante a vita § Non rumorose o SVANTAGGI § Durata limitata (15-20 anni) § Degradano col tempo Dopo tutta questa serie di soluzioni n’è stata trovata una ancor più innovativa: una valvola aortica depositata in modo mini-invasivo sfruttando uno stent a memoria di forma che la contiene e poi la fissa in situ con la dilatazione. È vista di buon occhio dai medici perché sarebbe l’unica valvola a impianto mininvasivo, che è ancora in fase preclinica. La valvola è in pericardio bovino. 10. BIOMATERIALI E OFTALMOLOGIA Come prima cosa andiamo a guardare la struttura antomica dell’occhio. L’occhio è composto da: 1) CORNEA: è la parte elastica, trasparente e incolore dell’occhio. Ha il compito di rinfrangere la luce. Garantisce il 75% del potere rifrattivo per focalizzare la luce sulla retina 2) PUPILLA 3) IRIDE 4) CRISTALLINO: è la lente che filtra e convoglia la luce che entra nell’occhio 5) RETINA: membrana che riveste interamente la parte posteriore dell’occhio. È costituita da milioni di elementi sensibili alla luce (FOTORECETTORI) che trasformano gli stimoli luminosi in impulsi elettrici 6) CORPO VITREO: sostanza gelatinosa trasparente che riempie la parte posteriore dell’occhio fra il cristallino e la retina 7) SCLERA: tessuto che fa da struttura e protezione dell’occhio 8) NERVO OTTICO: originario prolungamento delle cellule della retina, trasmette gli impulsi nervosi dall’occhio al cervello 9) CORPO CILIARE: comprende il muscolo ciliare, la cui contrazione consente al cristallino di “accomodare”, cioè mettere a fuoco   65     - Costruzione(tornire, stampate, centrifugate, combinate) - Modalità d’uso - Frequenza di ricambio (giornaliero, prolungato, continuo) - Geometria Ci sono due tipi di LaC: Ø RIGIDE: realizzate con materiali: § Gas-impermeabili • PMMA (Dk=0) o Stabilità dimensionale o Riproducibilità o Facilità di lavorazione sia per tornitura che per stampaggio o In pratica resta inalterato a contatto con numerosi composti chimici (eccetto solventi come acetone) § Gas-permeabili • CAB (Dk=4): derivato dall’esterificazione dei gruppi –OH della cellulosa con acido acetico (13%) eacido butirrico (37%) o Mantenimento buona bagnabilità o Contenuto di acqua pari al 2-3% o Ridotto Dk o Bassa resistenza all’abrasione o Ridotta stabilità dimensionale • Stirene (Dk=14): utilizzato per costruire lenti a contatto con potere elvato (peso ridotto) o Leggero o Indice rifrazione elevato (il più dei materiali utilizzati in contattologia) o Ridotto Dk o fragilità • Polisilossano metacrilato: copolimeri formati da 4 tipologie di reagenti: o Silossano metacrilato: aumenta valore Dk, flessibilità; diminuisce bagnabilità o Metil metacrilato: conferisce stabilità dimensionale, lavorabilità e durezza al materiale o Agente reticolante: generalmente ETILENGLICOL- DIMETACRILATO o Componente umettente: ottimizza bagnabilità, in genere viene usato l’ACIDO METACRILICO • Polisilossano metacrilato a base di fluoro o Fluoro silossano metacrliato o P-perfluoroetere Sono utilizzati principalmente in addizione ai copolimeri con silossano metacrilato per: o Aumentare la gas permeabilità o Aumentare la resistenza alla formazione di depositi   66     o Fornire un’eccellente stabilità dimensionale anche a spessori ridotti Ø MORBIDE: § Biopolimeri • Proteine • Polisaccaridi § Elastomeri (silicone) § Idrogel • Alto contenuto di acqua o Non ionico o Ionico • Basso contenuto di acqua o Non ionico o Ionico A loro volta le LaC morbide e rigide possono essere classificare come: CORNEALI, SCLERALI, SEMISCLERALI. L’aumento del valore di Dk ha permesso di ridurre i problemi legati all’ipossia e all’ipercapnia (aumento 2CO ), ma questo ha comportato un aumento della danneggiabilità dei materiali in fase di lavorazione. La presenza di gruppi silossanici, per aumentare Dk, rende il materiale meno bagnabile; bisogna aggiungere monomeri idrofilici che però comporta un aumento di cariche negative sulla superfice. Quest’ultime tendono a formare legami forti con le proteine lacrimali (cariche positivamente), come il lizosoma. Inoltre la lavorazione può causare una perdita di omogeneità del materiale. I parametri della lente di potere elevato tendono a variare a seconda dello stato di idratazione. L’evoluzione delle lenti a contatto a portato alla realizzazione di lenti a contatto morbide per uso prolungato. Queste lenti sono realizzate da copolimeri complessi, a fasi separate, di cui una è permeabile all’ossigeno e una all’acqua, utili per produrre lenti in grado di muoversi adeguatamente sull’occhio. Sono previsti eventuali trattamenti con plasma (miscela metano/aria) per aumentare l’idrofilicità della superfice.   67     Questa immagine rappresenta un esempio di copolimero complesso. Altra lente molto interessante è la LENTE INTRAOCULARE (IOL): lente che viene inserita sotto la superfice corneale. È costituita da materiale biocompatibile e può essere considerata una lente a contatto permanente all’interno dell’occhio. L’intervento di impianto di una IOL viene effettuato senza rimuovere tessuto corneale. Sulla cornea viene effettuata una piccolissima incisione attraverso la quale la lente viene inserita all’interno dell’occhio e posizionata nello spazio prestabilito, che dipende dal tipo di lente impiantata. Permette una efficace convergenza dei raggi luminosi provenienti dalla cornea e facilitarne la messa a fuoco ottimale sulla superficie della retina, in particolare nella fovea centralis. Affinché riesca nel suo scopo la lente deve essere trasparente. Le zone cristalline delle fibre lenticolari hanno interazioni ravvicinate tra di loro e sono responsabili del mantenimento della trasparenza del cristallino. Le IOL vengono impiantate in caso di cataratta, la quale causa una significativa opacizzazione del cristallino. Il materiale più indicato nelle IOL è il PMMA per via della sua trasparenza e indice di rarefazione. Il PMMA ha un problema di idrofobocità che causa un’adesione indesiderata con cellule dell’endotelio, cellule infiammatorie nell’umor acquo inficiando la trasparenza. Il PMMA viene trattato sia strutturalmente, UV protection e CM (compression moulding), sia superficialmente, heparin modification, passivazione superficiale e plasma treated. Oltre al PMMA è possibile utilizzare anche IDROGEL: a. VANTAGGI i. Chimici: resistenza alla degradazione ossidativa da UV ii. Microbiologici: sterilizzazione in autoclave (no rischi residui da EtO) iii. Biologici: ottima biocompatibilità iv. Clinici: minimo danno endoteliale v. Meccanici: resistenza danni da YAG lase b. SVANTAGGI: i. Distorsione ottica: causa di astigmatismo irregolare ii. Disolcazione della IOL Oltre agli ultimi due materiali citati, altri materiali utilizzati sono: 1. SILICONE a. Monopezzo b. A tre pezzi i. VANTAGGI: - Chimici: materiale di facile lavorazione a costi più bassi del PMMA - Microbiologici: sterilizzazione in autoclave (no rischi residui di EtO) - Biologici: buona biocompatibilità - Clinici: minimo danno endoteliale ii. SVANTAGGI:   70     TRAPIANTO DA DONATORI se l’area colpita è il 35-10%. Spesso il graft viene “meshed”, cioè si praticano piccole incisioni lineari in modo che il tessuto possa espandersi e ci sia drenaggio di fluidi, ma con rigenerazione lenta e disomogenea. Se l’area danneggiata è maggiore del 50% è difficile ricorrere all’autograft, quindi si ricorre ad: v Allograft (innesti da cadavere) v Xenograft (innesti da animali) Presentano problemi di conservazione e immungenicità e in più possono essere applicati solo temporaneamente, e prima o poi andranno sostituiti in pelle autologa. I rivestimenti o innesti materiale (SKIN REPLACEMENT o anche SR) non esistono ancora in forma “perfetta”, perché devono rispettare moltissimi requisiti teorici: § Costo contenuto § Possibilità di conservazione e/o immagazzinamento § Non antigenico § Flessibile § Impedisce perdite di fluidi (acqua) § Barriera verso i batteri § Cresce con l’individuo § Si applica con una sola operazione § Non diventa ipertrofico In realtà le richieste sono più “larghe” ma necessarie, cioè del tipo: § Adesione dal sito da guarire § Porosità tale da permettere la diffusione dei prodotti di scarto e fluidi in eccesso § Prevenzione disidratazione, ma lasciano comunque evaporare un po’ d’acqua per evitare distacco per delaminazione § Proprietà meccaniche simili alla pelle nativa § Capacità di promuovere rigenerazione epidermica e dermica § Capacità di ostacolare l’infezione § Capacità di degradarsi seguendo la rigenerazione § Approprieta bagnabilità Per quanto riguarda la bagnabilità e adesione lo skin replacement deve mantenere umida la ferita e aderire su tutta la sua area, in quanto se sono presenti piccole tasche d’aria, in queste si forma essudato infiammatorio e proliferano batteri. L’adesione è necessaria anche per evitare la proliferazione del tessuto di granulazione (da evitare perché genera rigenerazione ipertrofica). Sforzi di taglio o movimenti del graft possono distruggere l’interfaccia, e provocare modifiche nell’idratazione: edema o disidratazione. Materiali idrofilici con le corrette proprietà meccaniche ed energia superficiale soddisfano i requisiti di bagnabilità e adesione. Per quanto riguarda la porosità, deve garantire la giusta permeabilità per evitar accumuli e disidratazione allo stesso tempo, ma anche la migrazione cellulare, in modo tale da poter essere degradato o inglobato o vascolarizzato o colonizzato durante l’applicazione. È importante anche lo spessore: elevati spessori comportano irrigidimento e non adesione, inoltre ostacolano la diffusione delle sostanze nutritive per le cellule (scarsa vascolarizzazione). Un graft troppo sottile va incontro a deformazioni di taglio e lacerazioni. Lo spessore limite che permette la diffusione di nutrienti alle cellule è:   71     0 2 Dc rlS = dove: 1) r: velocità di utilizzo delle sostanze nutritive ( 3 sec cm moli ⋅ ) 2) l: distanza che permette la ntrizione diffusionale 3) D: diffusività della sotanza nutritiva all’interno della membrana idratata ( sec 2cm ) 4) 0c : concentrazione di tale sostanza ( 3cm moli ) Il numeratore rappresenta il termine dei reazione per l’utilizzo della sostanza nutritiva, mentre il denominatore può essere considerata la componente diffusiva. • ⇒>>1S le cellule consumano più di un quanto può essere fornito per diffusione • ⇒<<1S la diffusione è maggiore della quantità consumata • ⇒≈1S situazione di equilibrio; è la situazione ottimale Proprietà meccaniche richieste a un SR: o Flessibilità: permette i movimenti del tessuto sottostante, mantenendo il contatto con esso o Durabilità e facilità di manipolazione (senza lacerarsi) o Saturabilità o Altre proprietà importanti: resistenza a sforzi di taglio e a scollamento Gli SR possono essere: • NON BIODEGRADABILI: possono essere impermeabili alle cellule, caso in cui potrebbe essere un’applicazione temporanea di una maglia che stimola la crescita e poi va rimossa, oppure può avere lo strato interno biodegradabile ma va comunque rimosso • BIODEGRADABILI: è importante che la sua degradazione segua la velocità di rigenerazione cellulare (cioè che i due tempi siano circa uguali), in modo da lasciare la ferita non troppo scoperta né troppo coperta dopo lungo tempo. È necessario inserire delle cellule nel graft, poiché la velocità di migrazione delle cellule in senso parallelo alla ferita è troppo bassa per coprire tutta la ferita in tempi accettabili Gli SR possono contenere cellule in moda da sostituire l’ epidermide, il derma o entrambi o SOSTITUTI DELL’EPIDERMIDE: si usa una pellicola si PU o silicone su cui si coltiva pre-impianto i cheratociti, fino a formare un costrutto a strati paralleli da impiantare dopo aver ricostruito un po’ il derma; poi aspettando il giusto tempo, lo strato di supporto viene   72     espulso. I prodotti di questo tipo includono sempre cheratinociti autologhi, ma in alcuni casi manca lo scaffold biodegradabile in acido ialuronico esterificato, colla di fibrina o silicone. o SOSTITUTI DEL DERMA: si usano matrici di origine naturale sintetica o semi-sintetica inseminate con fibroblasti sia autologhi che allogenici. Per esempio impianto permanente possiamo trovare graft non inseminati in derma devitalizzato umano e bovino o anche in sottomucosa suina; oppure per impianto temporaneo o semi-permanente graft non inseminati in collagene suino o bovino oppure composti collagene suino o bovino/polimero sintetico (silicone); oppure graft, inseminati con fibroblasti autologhi o allogenici, sempre temporanei o semipermanenti, in polimero biodegradabile (derivati acido ialuronico, PGA, PLLA) o collagene bovino unito a silicone o nylon. o SOSTITUTI FULL-THICKNESS: sostituti di derma ed epidermide. Sono in sostanza impianti di epidermide più derma ricavati da uno scaffold in collagene bovino o polimero biodegradabile in cui avviene la coltivazione di cheratinociti e/o fibroblasti, allogenici entrambi (si userebbero anche cellule autologhe, ma solo in pazienti non urgenti). In questo senso si hanno impianti sia temporanei sia permanenti, con matrici varie (pelle di cadavere, collagene bovino, acido ialuronico esterificato. Per il futuro si punta alla ricostruzione totale: infatti non è possibile, in nessun caso citato finora, ricreare, ad esempio, i follicoli piliferi e le ghiandole sudoripare o sebacee, e neanche i nervi sono del tutto ricostruibili 12. BIOMATERIALI E CHIRURGIA RICOSTRUTTIVA Le protesi mammarie sono tra i dispositivi medici impiantabili maggiormente utilizzati, di cui l’80% sono impianti a scopo cosmetico e il restante 20% per ricostruzione post mastectomia (casistica a livello mondiale). I costi delle protesi sono variabili, questa variabilità dipende non tanto dall’approccio di impianto ma dalla tipologia della protesi. In un tumore vengono danneggiati anche i tessuti limitrofi alla zona affetta da tumore, quindi non si può pensare di impiantare la protesi direttamente. La ricostruzione della mammella è procedura che avviene in due stadi:   75     Queste portesi vengono inserite in sede senza soluzione di riempimento, successivamente vengono riempite fino al volume finale tramite valvola. Queste protesi hanno il vantaggio che in un primo tempo possono essere utilizzate come espansore e poi come protesi definitiva. Dal punto di vista estetico non hanno le caratteristiche (forma e consistenza) della mammella naturale. Inizialmente si erano riscontrati dei problemi di diminuzione di volume a causa di perdite nella valvola di riempimento; si è migliorato il design della valvola, tutt’ora però presentano le seguenti problematiche: Ø Perdita di volume circa del 4-8% Ø Vita media minore se paragonate alle protesi in silicone Ø Formazione di pieghe sul guscio a causa dei movimenti della soluzione salina (riferito all’aspetto estetico della protesi) Un tipo di protesi molto utilizzata è quella in silicone, la quale ha avuto tre step evolutivi (ricordare che il guscio esterno è sempre in silicone): 1. Guscio esterno spesso con superfice liscia + gel viscoso + rinforzo in Dacron: aveva il problema della contrattura capsulare e per questo abbandonate 2. Guscio esterno sottile con superfice texturizzata + gel meno viscoso: anche queste abbandonate per un problema di fragilità strutturale 3. Guscio a multistrati + rivestimento anti-bleeding + gel coesivo (alto grado di reticolazione che ha un elevato grado di coesione): nonostante sia sottoposto a gravità e a forze esterne, il gel, mantiene la sua forma più regolare e senza pieghe. Questo comporta i seguenti vantaggi: - Minore bleeding/migrazione del gel, grazie al guscio a multistrati. - Minor incidenza contrattura capsulare - Vita media più alta di tutti gli impianti Per un certo periodo sono state ritirate dal mercato perché si pensava che fossero la causa di importanti risposte infiammatorie. Però successivamente si è provato che non era vero e quindi si è deciso di reimmetterle nel mercato. Confrontiamo le protesi in silicone con quelle in soluzione salina: § SILICONE: o Inserimento con incisione più estesa o Vita media più alta o Meno pieghe o Maggior mantenimento di forma o Risultato più naturale   76     o Più costose § SOLUZIONE SALINA: o Inserimento con incisione limitata o Rottura più frequente o Rimozione e sostituzione più agevoli o Più economiche Ultimo tipo di protesi mammaria utilizzato, che andiamo a vedere, è quello a doppio lume: costituite da doppio guscio che separa un “nucleo” interno da uno strato esterno. Anche questo tipo di protesi si è evoluto col tempo (2 step evolutivi): 1) Nucleo interno in gel di silicone e strato esterno in soluzione salina 2) Posizione invertita per ottenere morfologia più naturale ed evitare problemi di riduzione di volume La soluzione salina viene inserita dopo l’impianto tramite port. Queste sono protesi molto costose. Per limitare la formazione di capsula fibrotica si deve rendere il più irregolare possibile la superfice della protesi. Questo lo si fa con un processo industriale: TEXTURIZZAZIONE. Questo processo inizialmente consisteva in un coating con poliuretano, che all’inizio prometteva bene perché aveva ridotto l’incidenza di formazione di capsula fibrotica del 30%, ma rilasciavano una sostanza cancerogena: toluoene-isocianato che suscitava una risposta infiammatoria non fisiologica. Oggi si ottengono strutture a pori aperti utilizzando bombardamento con cristalli di sale. Per la scelta della protesi si guardano le 4 caratteristiche principali: volume, proiezione, altezza, larghezza o base. Chiaramente prima che il chirurgo possa prenda una decisione su che tipo di impianto utilizzare si consulta con la paziente. Prima dell’impianto si prendono le misure del paziente per avere il DISEGNO PREOPERATORIO. Le complicazioni che si possono avere con questo tipo di protesi sono di tre tipi: v BREVE TERMINE o Ematoma o Infezione sito di impianto v MEDIO TERMINE o Dolore prolungato nel sito di impianto o Rottura del guscio: porta esposizione a riempitivo o Bleeding di riempimento: essudazione di macromolecole di silicone, migrazione del gel, risposta infiammatoria non fisiologica. o Migrazione del gel (anche oltre la capsula fibrotica)   77     o Perdita di sensibilità al sito di impianto o Movimento dell’impianto v LUNGO TERMINE o Contrattura capsulare: La contrattura capsulare è causata dalla formazione di una capsula attorno al sito di impianto (risposta fisiologica). La zona quindi si contrae formando una massa sferica dura, che porta a un indurimento moderato poi a dolore e infine distorsione estetica del sito di impianto. Si cerca di trovare la correlazione fra l’infezione e la contrattura, e si è trovato che trattando previamente la protesi con una terapia antibiotica, l’incidenza della contrattura capsulare è calata del 50%. Il seguente grafico mostra l’effetto capsulare in funzione della contrattura o Infezione: principalmente dovuta a colonizzazione staphylococcus. C’è maggior rischio di infezione per pazienti sottoposte a radioterapia. o Calcificazione: dovuta a deposizione di calcio ed è diagnosticabile tramite mammografia. La rottura dell’impianto causa fuoriuscita del riempimento, e quindi bisogna sostituire l’impianto. Può essere dovuta a: Ø Contrattura capsulare Ø Protesi con superfice liscia o di vecchia generazione Ø Errore del chirurgo in fase di impianto L’invecchiamento della protesi causa perdita di consistenza, pessimo risultato estetico e calcificazione. Il silicone può causare reazioni indesiderate sull’organismo quali: infiammazione cronica o modificazione non fisiologica di cellule e tessuti. I maggiori casi di fallimento si hanno in seguito a impianti per mastectomia: si espianta la protesi entro i primi 10 anni dall’impianto: Ø 20% per mastectomia addittiva Ø 50% per mastectomia ricostruttiva   80     v TIPO DI INFEZIONE: che possono essere di due tipi o A breve termine: che si manifesta nel momento dell’impianto o A lungo termine: causata da virulenza durante operazione chirurgica, o da contatto con sangue proveniente da fonti esterne. Si può generare senza che ci siano batteri nel sangue, ma possono provenire da altri organi. L’infezione dei batteri sui biomateriale avviene nei seguenti stadi: Assorbimento dei batteri nei primi secondi Adsorbimento irreversibile: lodiventa dopo pochi miunuti: o Prima fase: istantanea. Interazione fisico-chimica fra batterio e materiale (attrazione, adsorbimento e adesione alla superfice). Si generano legami di Van der Waals e anche interazioni idrofibiche ed elettrostatiche: si generano delle interazioni fra i recettori del batterio e il materiale. È presente anche chemiotassi. Avviene anche un’interazione molecolare e cellulare (fase 1b): § Adsorbite proteine e biomolecole sulla superfice del materiale § Sulla superfice dei batteri si depositano proteine o Seconda fase: produzione del biofilm e i batteri si accumulano in cluster e si creano numerose interazioni batteri batteri. o Terza fase: il cluster diventa instabile e inizia a perdere pezzi, e ci si ritrova ad avere batteri, agglomerati di batteri e sostanze prodotte dai batteri in giro per il sangue Crescita e divisione dei batteri dopo qualche giorno: qui iniziano a sviluppare forme di difesa Produzione di exopolimeri (SLIME) e biofilm di produzione: i batteri proliferano e si accumulano in cluster multi strato che generano interazioni multicellulari. In questa fase i batteri diventano anche più resistenti ad antibiotici e quindi è necessario rimuovere l’impianto. Adesione di altri organismi sui biofilm QUORUM SIGNALS: molecola segnale di comunicazione fra i batteri, che provoca un aumento della virulenza. Se avviene questa comunicazione è quasi inevitabile che si formi biofilm. Il caso più frequente di infiammazione è quello della cornea, causata dalle lenti a contatto. Le infezioni del sangue causano all’anno 12-25% dei morti.   81     Una volta una volta che si è formato il biofilm l’antibiotico non ha più effetto e quindi è necessario rimuovere il dispositivo. Il nostro organismo normalmente elimina i batteri mediante fagocitosi, mediante riconoscimento e adesione alla membrana batterica di anticorpi e molecole del complemento (opsonizzazione). Se il battere aderisce al substrato non avviene opsonizzazione, gli slime impediscono che ci sia opsonizzazione. I batteri producono lipopolisaccaridi che sono endotossine che inibiscono il richiamo dei fagociti per chemiotassi. I batteri sono in grado di pordurre super antigeni che impediscono la produzione di anticorpi. Con i quorum signals riescono a richiamare altri batteri e distruggere i macrofagi. Se ci sono cellule sane sul dispositivo impediscono al batterio di aderire. Possiamo intervenire sul quorum signal e anche sul metabolismo dei batteri: ci quindi diverse vie su cui intervenire per combattere le infezioni. U’ altro approccio per combattere questo tipo problema è quello di utilizzare antibiotico. Però ci sono delle controindicazioni nell’utilizzo di antibiotici: • Riduce il metabolismo delle cellule • Limita il trasferimento di massa e quindi il trasporto di sostanze • Altera/cambia il fenotipo dello slime e quindi ad un certo punto gli antibiotici non sono più efficaci Ci sono delle superfici non fouling (che non si sporcano) che non fanno aderire cellule e batteri. Ci sono dei modi per rendere non adesive le superfici, per esempio quello del deposito del plasma Mediante risonanza plasmonica di superfice si misura l’adesione di una proteina sulla superfice, in questo caso albumina di siero bovino. Viene fatta passare soluzione sulla superfice, a un certo tempo viene inserita la proteina, albumina di siero bovino, e si nota un aumento della sensibilizzazione della proteina nelle superfici non trattate, quelle trattate invece sono molto meno sensibili; infine si fa il lavaggio e quella trattata si lava facilmente mentre quella non trattata risulta essere danneggiata. Superfici non adesive si possono creare con materiali della famiglia dei glyme, che sono idrofobici e appunto non permettono adesione da parte dei microrgnanismi. Questi materiali devono essere trattati con dei gas. Altra tecnica (di non fouling) se è quella di creare un rivestimento polimerico zwitterionico per polimerizzazione a catena di monomeri acrilici sulla superfice che vogliamo modificare. I due composti più importanti sono. pSBMA e pCBMA. Per verificare l’adesione delle cellule si utilizza lo stesso metodo di prima.   82     Posso realizzare dispositivi con materiali a rilascio controllato di sostanza: antibiotico, argento monovalente, ossido nitrico; alternativa è quella di legare la superfice con antibiotico o sale di ammonio quaternario. Per regolare il rilascio del farmaco possiamo utilizzare una barriera di PEU o pBMA. Se viene rilasciato l’antibiotico in tempi controllati si evita che si crei un alone di influenza batterica. Un ulteriore barriera alla diffusione del farmaco è data dal deposito di batteri morti sul dispositivo. Per migliorare il test di valutazione di adesione superficiale si fa in modo di avere un fluido in movimento attraverso due piastre parallele. Attualmente stanno venendo fuori nuove alternative come: o Inibizione del segnale di Quorum: si inganna il batterio. Gli facciamo vedere dei segnali che lo spingano a non formare il biofilm. Utilizzo polimero (poli-aspirina) che si degrada e produce acido salicidico che mi genera segnali artificiali che spingono i batteri a non essere virulenti. L’utilizzo di questo polimero è ancora in fase di studio o Sostituisco il ferro dell’organismo con Gallio (ione approvato per FDA e utilizzato per trattare ipercalcimia) e Zinco per rompere il biofilm o Miglioramento della risposta immunitaria: riesco ad aumentare capacità fagocitica dei macrofagi usando molecole che imitano gli anticorpi e le molecole del complemento (complessivamente detto “opsonine”) Non si può dire che la causa dell’infezione non è a causa di sbagliata sterilizzazione, perché attualmente i DM sono tutti sterilizzati nella maniera migliore possibile. Le cause di infezione sono da ricercare altrove. Per prevenire all’infezione ci sono differenti tecnologie (queste tecniche sono già commerciali): 1) Utilizzo polimeri con proprietà repellenti ma attualmente non ci sono prodotti 2) Modificare massa del polimero 3) Modificare le proprietà superficiali del polimero Le ultime due causano rilascio di agenti antimicrobiotici e quindi devo utilizzare antibiotici e antisettici. Ci sono strategie che non considerano l’argento (abbastanza poche) e quelle che lo considerano. strategie che non considerano l’aergento: • Cloruro di benzammonio più eparina • Cloruro di benzammonio inserito in matrice idrofilica • Miscela di antibiotici Tutti e tre sono applicati nei poliuretani e nei CVC. Per via delle sue proprietà antisettiche, le sue differenti forme attive, il suo spettro ampio (efficace su gram negativi e positivi, muffe e biofilm), bassa tossicità e la sua bassa resistenza si è deciso di fare trattamenti a base di argento: modifica IBAD. Le strategie antibatteriche sono: • Argento in matrice idofilica di polimero: rivestimento per ustioni, strumenti di urologia • Ioni di argento: device medicali • Solo argento: rivestimenti ustioni • Impianto ioni argento: poliuretani e CVC Questo processo si basa su due operazioni distinte:   85     § Ionizzazione DNA: § Inibizione metabilismo e riproduzione microrganismi Le radiazioni utilizzate sono (le prime due più utilizzate in processi industriali): § Raggi γ (sono onde elettromagnetiche, con lunghezza d’onda circa uguale a quella dei raggi X, e radiattivi): i prodotti confezionati vengono posti su un nastro trasportatore che li porta a un labirinto di parreti schermate. Vengono sottoposti a radiazione in camera di sterilizzazione (si raggiungono dosi di kGy25 ). La capacità di penetrazione della radiazione è uniforme e molto elevata perché dotate di particelle a carica neutra. Dopo la sterilizzazione vengono fatti passare attraverso un secondo labirinto a pareti schermate prima di uscire dalla camera di sterilizzazione. Dopo la sterilizzazione i prodotti sono subito utilizzabili. Per valutare l’uniformità della distribuzione dell’energia vengono utilizzati dosimetri § Fascio elettronico: elettroni accelerati e dotati di una notevole energia (5-10 MeV). Si utilizzano acceleratori di particelle. La penetrazione del materiale dipende dall’energia dell’elettrone (circa 0.5cm per ogni MeV in un materiale con densità di 1 3cm g ). Gli elettroni accelerati vengono fatti convergere magneticamente in un fascio, cosicché viene fatta una scansione ad alta frequenza lungo la larghezza del nastro trasportatore. La dose assorbita oltre che all’energia degli elettroni dipende anche dal tempo di esposizione. Ha un minor poter penetrante dei raggi γ e minore omogeneità di distribuzione. Il massimo spessore dell’oggetto da sterilizzare deve essere circa di 5 cm. Il vantaggio rispetto ai raggi γ è che la dose di radiazione può essere somministrata molto velocemente (minuti contro ore) e questo fa si che ci sia minore effetto ossidativo perché l’ossigeno ha minor tempo per diffondere nel dispositivo Il grafico rappresenta la distribuzione di assorbimento di energia per un materiale con densità costante e tempo di esposizione prefissato § Raggi x: sistema ibrido fra raggi γ e fascio elettronico. Anch’esso utilizza elettroni accelerati e dotati di una notevole energia (5 MeV) incidenti su target ad alto Z (ad esempio tungsteno) per generare raggi X. Potere penetrazione e omogeneità simile ai raggi γ o Radiazioni non ionizzanti o Filtrazione   86     Ø MEZZI CHIMICI: o EtO (ossido di etilene): anche in questo caso bisogna seguire norme di sicurezza in quanto l’ossido di etilene a temperatura e pressione ambiente è tossico, carcinogeno e esplosivo, inoltre è inodore e incolore. Bisogna evitare condizioni/parametri di sterilizzazione tali da causare esplosioni. Bisogna fare aerazione alla fine del processo e utilizzare diluenti e azoto per eliminare la presenza di ossigeno. L’odore di ETOX può essere percepito a concentrazioni maggiori di 700ppm ma la dose tossica è maggiore di 1 ppm. L’ossido di etilene inattiva tutti i tipi di microrganismi, incluse spore di batteri e virus, mediante ALCHILAZIONE dei gruppi funzionali di proeteine strutturali ed enzimatiche di costituienti acidi nucleici e microrganismi. I dispositivi vengono opportunamente confezionati, posti in camera di sterilizzazione ed esposti a EtO. La concentrazione di EtO è di 700-800 mg/l, l’umidità relativa del 40-60% , temperatura di 30°C (ciclo a freddo) o 60°C (ciclo a caldo), il tempo di contatto dall’ora e mezza alle 12 ore, la pressione è variabile in base alla concentrazione di EtO. La ventilazione è adeguata e viene forzata a temperature tra i 50°C e i 60°C. più alta sarà la dose di ossido di etilene ci sarà bisogno di meìinor tempo di esposizione. o Gas plasma L’ EtO e le radiazioni ionizzanti sono i mezzi più diffusi in ambito industriale. Se usano radiazioni ionizzanti bisogna fare molta attenzione in quanto la dose utilizzata per la sterilizzazione è kGy358÷ e la dose letale per l’uomo è di kGy01.0 . Quindi per garantire la sicurezza agli operatori è necessario utilizzare un’apposita schermatura. Dato che il passaggio delle radiazioni in aria può produrre ozono ed è necessario l’utilizzo di ventilazione e sistemi di controllo del livello di ozono. Gli effetti delle sterilizzazione con radiazioni ionizzanti sono: Degradazione idrolitica/ossidazione e reticolazione per materiali polimerici che porta alla rottura dei legami C-C e quindi alla formazione di radicali molecolari reattivi. Questo comporta a una variazione delle proprietà meccaniche fisiche e chimiche importante. Se predomina la reticolazione abbiamo un aumento del peso molecolare (proporzionale alla dose), mentre invece se prevale la degradazione cala il peso molecolare, quindi le proprietà meccaniche, a causa di rotture casuali delle catene. Ci possono essere effetti secondari dovuti alla temperatura o all’umidità o all’ossigeno. I materiali che non sono inerti alle radiazioni sono: v PE: reticolazione v PTFE, PP: degradazione v PMMA: gli elettroni a bassa energia possono rimanere “intrappolati” nella struttura del materiali e questo può provocare ingiallimento v Polimeri biodegradabili: calo peso molecolare in funzione della radiazione Gli effetti della sterilizzazione con EtO: Reazione chimica con alcuni gruppi presenti nel materiali EtO intrappolato nella struttura del materiali che può causare un possibile rilascio nel sito d’impianto e quindi reazioni tossiche in tessuti biologici Effetti secondari dovuti dalla temperatura del processo, umidità e pressione del processo. Questi effetti possono causare delle problematiche per i materiali biodegradabili, PMMA, PS, PAN Altri processi di sterilizzazione sono:   87     o Sterilizzazione con calore: problemi con calore e umidità o Sterilizzazione con plasma e 22OH : meccanismo ossidativo che può danneggiare il materiale perché lo espone a ossidazione, e inoltre l’acqua ossigenata intrappolata nel materiale può causare effetto tossico. Poco diffusa in ambito industriale. Il sistema di confezionamento deve mantenere la sterilità per tutta la shelf-life del dispositivo. Per sterilizzazione con radiazione è preferibile usare confezionamento traspirante in quanto alcuni materiali potrebbero generare gas, che magari non sono tossici ma hanno odore sgradevole, che prima dell’impianto non è una cosa molto gradevole. Chiudiamo il discorso sulla sterilizzazione (E ANCHE LA PARTE DI BIOMATERIALI!!!!!!) con tre esempi applicativi: Ø STERILIZZAZIONE STENT: vengono sterilizzati con ossido di etilene così non ho degradazione del materiale. Lo stent viene posizionato sul pallone per angioplastica. Sia lo stent che il pallone vengono confezionati e la confezione viene posizionata in camera di sterilizzazione. Viene fatto un precondizionamento per garantire che il prodotto sia a temperatura e umidità controllate ed omogenee. Alla fine della sterilizzazione viene rimosso l’ EtO e vengono fatti lavaggi con aria (post condizionamento) Ø STERILIZZAZIONE PROTESI MAMMARIE: fatta a calore. i vantaggi sono: o Mantenimento consistenza: non si formano bolle d’aria visibili o Sicurezza: eliminati problemi legati all’uso di EtO Ø STERILIZZAZIONE LENTI A CONTATTO: molti metodi utilizzati a seconda del tipo di lenti. Il primo approvato da FDA è la sterilizzazione per calore (riscaldamento a 80°C per 10 min), però ci sono problemi legati a colorazione irritazione e perdita delle proprietà ottiche. Può essere fatta una sterilizzazione con agenti chimici.   90     2. MATERIALI PER PROTESI ORTOPEDICHE Le protesi ortopediche di maggiore interesse sono quelle di anca e ginocchio, quest’ultima in costante ascesa per l’aumento del peso medio. La protesi d’anca è costituita da: • Coppa acetabolare che include il cotile/inserto • Metal back/guscio La protesi di ginocchio invece è costituita da due parti metalliche che includono un inserto in plastica. Per questa protesi non vengono utilizzate ceramiche in quanto non abbastanza tenaci da resistere alla complessità dei movimenti del ginocchio. Altre protesi ortopediche realizzate sono: o Caviglia o Polso o Spalla o Gomito Le protesi ortopediche possono essere cementate e non cementate. Le protesizzazione di anca e ginocchio ha un’elevata probabilità di successo, ma a causa di fattori esterni alla protesi necessitano di una revisione, dopo 12-15 anni, se cementate dopo 7-10 anni. Le testine della protesi d’anca sono realizzate o in ceramica (allumina) o metallo (CoCr, Ti6Al4V); gli inserti in UHMWPE o ceramica (una volta anche in metallo); i metal back sono in CoCr o Ti6Al4V. Per l’acquisto l’ASL fa una base d’asta a cui è possibile acquistare ogni prodotto e poi le aziende si adattano. Le protesi di ginocchio costano di più perché nel pacchetto è inclusa uno strumentario più complesso. A un materiali per steli e mezzi di osteosintesi è chiesto: 1) ALTA RESISTENZA: uno stelo (ancor di più una placca) è più piccolo e sottile dell’osso a cui si associa, di conseguenza serve un materiale 5 volte più resistente dell’osso per lo stelo, mentre per un mezzo di osteosintesi circa 7 volte di più. Tipicamente deve essere Mpay 650>σ per le protesi e Mpay 900>σ per le placche 2) ADEGUATA RIGIDEZZA (FLESSIONALE): dipende sia da E che dal momento d’inerzia. Deve essere 4-6 volte quella dell’osso per un metallo da stelo, 20-30 volte per un metallo da placca À 3) RESISTENZA A FATICA E TENACITÀ SUPERIORI A QUELLE DELL’OSSO: poiché l’osso si rigenera e richiude le cricche e resiste moltissimo a fatica ( mMpaKIC 30> ) 4) RESISTENZA ALLA CORROSIONE: sia generalizzata che localizzata 5) BICOMOPATIBILITÀ: a. Non tossicità   91     b. Non allergenicità I materiali che riescono ad avere queste caratteristiche con buoni compromessi sono i metalli. Se lo stelo è rigido, il carico si trasferisce dallo stelo all’osso solo dove esso è meno rigido, e quindi in posizione distale, perciò in posizione prossimale il carico rimane sullo stelo, questo implica stress shielding e riassorbimento in protesi non cementate, che a sua volta causa mobilizzazione e fatica nel tratto distale dello stelo. Per evitare questo, nelle protesi non cementate, deve essere poco rigido e con dimensioni anatomiche contenute rispetto alla taglia (meno momento d’inerzia) e possibilmente con rivestimenti che aiutino l’osteointegrazione in zona prossimale, per avere uno scarico di sforzi più uniforme. Per avere bassa rigidezza è preferibile usare una lega di titanio (E=110GPa). Nelle protesi cementate c’è il problema opposto: se lo stelo è poco rigido si scarica sul cemento, il che porta a rottura per fatica del cemento e alla mobilizzazione dello stelo. In questo senso si sono rivelati migliori gli steli in CoCrMo, anche perché le leghe di titanio risentono di più del fretting. Il titanio potrebbe andare bene se ci fanno steli anche poco più grandi ( 4rI ∝ , rigidezza flessionale 4rI ∝∝ ), tuttavia i micromovimenti nell’incastro nel cemento possono, prima che causare fretting, danneggiare il film di ossido di titanio sulla superfice dello stelo, che è poco duro e poco resistente, il che porta a migrazione di detriti e problemi di disgregazione del cemento. Oltre all’alto momento d’inerzia e la rigidezza (meglio leghe di cobalto, E=230GPa), servirebbe una superfice liscia che aiuti l’adesione col cemento ed eviti anche fenomeni di fatica e fretting, facendo sì che all’interfaccia stelo/cemento vi siano sforzi di compressione e non di taglio. I problemi tipici dei metalli sono ossidazione e corrosione, acutizzati nell’ambiente biologico umano. La corrosione consiste nel discioglimento del metallo, a cui segue un processo di riduzione, tipicamente dell’ossigeno: −+ +→ zeMeMe Z , −− →++ OHeOHO 22 2 1 22 La corrosione però può avvenire solo se la “mobilità” elettrochimica del metallo è inferiore a quella dell’ambiente biologico, cioè se il suo potenziale di ossidazione ( OSSE ) è minore del potenziale di riduzione dell’ambiente biologico ( RIDE ), che ne rappresenta in qualche modo l’aggressività. Se OSSRID EE >> , ci sono due tipi di comportamenti metallici: A. METALLI ATTIVI: velocità di corrosione molto alta B. METALLI ATTIVO-PASSIVI: formano un rivestimento ossido o idrossido (passivazione) che ostacola l’ossidazione; la velocità di ossidazione e corrosione è molto bassa, anche se non nulla (l’ossido non viene ossidato e corroso a sua volta) I fenomeni corrosivi sono i seguenti: I. GENERALIZZATA II. GALVANICA (queste due tipiche dei metalli attivi) III. INTERGRANULARE IV. IN FESSURA (LEVICE CORROSION): tipica dei contatti viti/piastre V. FRETTING CORROSION: corrosione che avviene nelle superfici di contatto soggette a fretting, cioè in posti che si muovono ma non dovrebbero L’entità degli ioni rilasciati, nei metalli da impianto, è bassa ma comunque ineliminabile. Tipicamente è più alta per gli acciai inox, e può aumentare anche di 100 volte in presenza di   92     corrosione in fessura, fretting corrosion o corrosione localizzata in genere. Gli ioni liberi, oltre a costituire una perdita di materiale e quindi di proprietà meccaniche, possono causare infiammazione, allergia e sensibilizzazione e possono ostacolare l’osteosintesi e l’osteointegrazione. La sensibilizzazione preesistente è dovuta ad altri fattori. Il problema si pone se sia ha corrosione localizzata (altamente penetrante) in acciai inox. I materiali sono standardizzati, anche per favorire la tracciabilità Proprietà Materiale Proprietà meccaniche Colata in getto Lavorabilità con macchine utensili Resistenza corrosione localizzata Biocompatibilità Osteo integrabilità Acciaio austenitico inox AISI 316 Basse (se non è incrudito) Si Buona Scarsa Scarsa Bassa Acciao austenitico ad alto contenuto di azoto Medie No (se no libera l’azoto) Media Buona Scarsa Bassa Lega di CoCrMo per colata in getto Medie Si Molto bassa Buona Buona Bassa Lega di CoCrMo semilavorata (stampabile, forgiabile) Alte No Bassa Buona Scarsa Bassa Titanio CP Medio/basse No (per la reazione con l’aria) Buona Ottima Ottima Ottima Leghe di titanio tipiche Alte No (per la reazione con l’aria) Bassa Buona Buona Buona La corrosione in fessura è dovuta ad esempio a mutazioni ambientali (esempio ritenzione ioni cloro nelle fessure). Interessa per lo più acciaio inox, quasi niente le leghe di cobalto e leghe di titanio (che invece risentono molto di più di fretting corrosion per fenomeni di rottura dell’ossido superficiale). Gli acciai inox sono inossidabili perché contengono il 12% di cromo, che gli permette di passivarsi (con ossido di cromo). Gli altri leganti (Ni, Mo, Ti, N) servono a migliorare proprietà meccaniche e resistenza alla corrosione localizzata (soprattutto il molibdeno). L’acciaio inox è nella fase austenitica (la migliore), ferritica e martensitica. La martensite è una fase metastabile che da grande durezza e resistenza ma scarsa resistenza alla corrosione: ci si fanno oggetti taglienti (ferri chirurgici). Si forma perché a basse temperature il ferro è in fase α−Fe , a struttura CCC, in cui il carbonio è poco solubile, mentre ad alte temperature si ha il ferro γ−Fe (acciaio austentico), a struttura CFC, in cui il carbonio è solubile. Se si raffredda repentinamente, con una tempra, questo acciaio con γ−Fe , si ottiene una struttura “congelata”, che tenta di passare da γ−Fe a α−Fe ma è ostacolata da: a) Poca solubilità del carbonio al proprio interno b) Poca energia a disposizione   95     3. OSTEOINTEGRAZIONE È il contatto senza interposizione di tessuto non osseo tra osso normale e un impianto, in grado di accogliere il trasferimento di un carico dall’impianto fino al tessuto osseo. La definizione di integrazione dell’impianto come fibro-osseo-integrazione è stata abbandonata. Solo le leghe di titanio, e ancora meglio il titanio puro, garantiscono l’osteointegrazione, ma con un’opportuna finitura superficiale, sia per velocizzare la colonizzazione ossea e migliorare l’adesione al nuovo osso che si forma sulla sua superfice, si crea così una superfice molto rugosa, con fori interconnessi, oppure con rivestimento ceramico. Le tecniche sono: § Microsfere metalliche § Filamenti § Plasma spray: porta a titanio rugoso § Sabbiatura § Incrudimento per attacco clinico § HA e biovetri (rivestimenti che velocizzano la colonizzazione) § Spugne metalliche a bassa rigidezza Le prime quattro tecniche sono tecniche di incrudimento. Le microsfere consistono nel sinterizzare sulla superfice (da integrare) delle microsfere, in uno o più strati, che creano dei macroresti (10-100 mµ ), in cui far crescere le trabecole ossee. È una tecnica utilizzata per protesi d’anca non cementate, crea problemi di resistenza a fatica e rendeva più critica l’asportazione della sfera durante la revisione, perché si crea ancoraggio molto forte, ma senza grande integrazione con l’osso. Questa tecnica, rispetto a rugosità meno profonde, ha un tempo su superfici sottoposte a trazione, usando 1-2-3 strati su microsfera, solo che queste superfici sono poche e molto critiche per l’usura (coppa acetabolare e piatto tibiale). L’indebolimento a fatica nasce sia perché aumenta la difettosità superficiale, sia perché la saldatura che avviene nella sinterizzazione delle microsfere crea dei punti di saldatura che hanno uno stato termomeccanico alterato e sono quindi meno resistenti. I filamenti sono saldati per diffusione solida (una specie della sinterizzazione) sulla superfice che creano ampi nodi e irregolarità (deposizione casuale), che l’osso penetrerà. L’effetto di riduzione di resistenza a fatica è ridotto, ma i nodi sono facilmente penetrabili da terzi corpi d’usura, provocando osteolisi periprotesica. Il plasma spray (PS) crea un rivestimento in titanio poroso su altri materiali, partendo da polveri che vengono fatte passare attraverso un gas ionizzato ad altissima T (plasma a 200000°C), che le “spara” sul substrato da rivestire con un sistema anodo-catodo e un gas trasportatore, diverso dal gas plasmogeno, che prima ha parzialmente fuso le polveri e tanto più le ha fuse, tanto meno il rivestimento sarà poroso. In questo modo possiamo regolare molto lo spessore attribuibile e la porosità, agendo su vari parametri di processo (T, pressione, dimensione polveri, T del substrato). Si può fare anche sottovuoto (VPS), o in atmosfera controllata, e si possono usare anche polveri di vetri o ossidi o immettere azoto o ossigeno nell’atmosfera per creare così un rivestimento più duro e meno corrosibile: è sufficiente immettere aria (APS). L’APS è meglio utilizzarla su substrati che non risentono di ossidazione o nitrurazione. Vantaggi VPS rispetto ad APS:   96     ü Consente di lavorare su substrati o polveri che si ossidano o nitrurano con l’aria ü Nel vuoto il deposito viaggia a velocità maggiore senza il freno dell’aria dando più stabilità al rivestimento ü Ilrivestimento è più denso ü Maggiore controllo di contaminazione, aiutato dal sottovuoto Gli svantaggi invece sono: v Costo dell’impianto e dell’operazione più alti v Parametri di processo più critici anche per il costo e la durata dell’operazione v Polveri a dimensione e forma controllata I vantaggi del titanio rugoso PS sono: Si crea una superfice in titanio puro, più osteointegrabile Rugosità elevata, che aumenta l’ancoraggio soprattutto contro taglio e compressione Possibilità di sovrapporre con successo anche un film di HA Gli svantaggi sono: • Problemi di lavoraggio e decomposizione per la maggiore “delicatezza” del rivestimento • Possibilità di distacco della superfice, poiché più sono fuse le polveri, più il rivestimento aderisce ma meno è poroso. La coesione è importante sia con la superfice, sia interno al rivestimento fra le sue particelle I rivestimenti in HA sono detti osteoconduttori. Si ottengono per deposizione di PS di polveri di HA (APS precisamente), ma l’adesione è influenzata dalla tecnica di deposizione poiché non essendo depositata su un materiale simile non si lega chimicamente col calore, ma solo meccanicamente al substrato in titanio. Il VPS si usa a volte perché crea un deposito che raffredda più lentamente, diventa più cristallino e aderisce di più. È comunque necessario indurire il substrato per depositare meglio l’HA in uno dei modi spiegati prima. Le tecniche di PS permettono di regolare l’adesione , in modo tale da far si che anche la resistenza alla delaminazione da taglio sia accettabile. Quanto alla cristallinità, l’HA nel rivestimento è cristallina tipicamente al 35%. Più è cristallina più aderisce ma meno è bioriassorbibile. La riassorbibilità deve seguire la rigenerazione ossea ed è generalmente l’ideale. La cristallinità si valuta in XRD, perché consente di valutare la geometria interna del materiale. In VPS si ottiene cristallinità alta ma comunque non totale. La cristallinità si può aumentare anche con trattamenti termici (ad esempio ricottura). L’adesione si può verificare con pull test e shear test, con collanti strutturali più forti dell’adesione che si vuole valutare. Problemi legati all’utilizzo di HA (dovuti più che altro alle vecchie tecnologie di rivestimento): Ø Delaminazione Ø Granulazione: causa usura da terzi corpi nell’anca, fatica, osteolisi periprotesica Ø Adesione Anelli di adesione anno superato questi problemi e rappresentano il gold standard per il rivestimento osteointegrativo di impianti ortopedici. I rivestimenti in biovetri sono meno usati rispetto all’HA, ma sono più usati per il rivestimento di lacune ossee. Si possono usare sempre in PS: formano rivestimenti con pori dimensione da mµ303− , che si formano da un gel siliceo superficiale e fanno nucleare al proprio interno cristalli di HA. Le particelle di degradazione o granulazione, che sono rilasciate, sono metabolizzate   97     rapidamente e quindi non sono un problema anche se in quanto ceramici lo sarebbero per la durezza e l’inerzia in particolare. Le schiume metalliche a bassa rigidezza si creano da un precursore in polimero reticolato, con pori tra le catene grandi circa come le PVD particelle di tantalio, fino a formare uno strato di mµ5040 − In modo da ottenere una “spugna” in tantalio con porosità del 75-80%. Hanno un comportamento intermedi tra quello dell’osso corticale trabecolare (E=3GPa, MPanecompressioR 8050, −=σ ). Crea una buona interconnessione con i tessuti ossei. In questo “trabecular metal” si ricavano componenti di rivestimenti (con rivestimenti aderenti, ma pezzi extra) da usare per piatti tibiali o anche coppe acetabolari, sul lato dell’osso. Negli steli non cementati è meglio una finitura microporosa che regga gli sforzi di taglio e compressione all’interfaccia con l’osso, ma nei metal back ci sono sforzi di trazione e quindi è meglio una finitura macroporosa. Parliamo di tecniche alternative che riguardano soprattutto per l’ambito dentale. Una tecnica è il rivestimento con fosfati di calcio con metodi elettrochimici: cella elettrochimica in cui il catodo è il titanio, la soluzione salina contiene ioni di calcio e di fosfato. L’attivazione della tensione causa: riduzione dell’acqua attorno al catodo, aumento del pH e quindi deposizione del coating dalla soluzione. Possiamo ottenere coating da meno di mµ105− e possiamo anche rivestire strutture complesse o porose, poiché nei punti nascosti non riusciamo a far arrivare il raggio del PS. Possiamo controllare forma e struttura del coating coi parametri di processo e incorporare anche sostanze bioattive (antibiotici, farmaci). Lo svantaggio è che si crea uno strato a minore adesione che nel PS. Questa tecnica può essere utilizzata per tutti i materiali conduttori. Aumentando la durata del processo aumentiamo lo spessore del coating, senza cambiare la morfologia in modo significativo (tipicamente porosa). Il fosfato di calcio che si deposita è una bruslite (si è visto in XRD). È più amorfo che cristallino e quindi è fortemente solubile in ambiente biologico, che però assieme la sottigliezza del suo rivestimento e la sua porosità accelera l’osteointegrazione, in modo da prevenire il distacco da scarsa adesione di molto materiale. Al posto del calcio si possono usare anche magnesio e argento: il primo sembra favorire la crescita ossea e il deposito di calcio fosfato; il secondo da proprietà antibatteriche senza intaccare l’osteointegrazione se sotto certe dosi. Non sono sostituzioni ma solo dosaggi (l’argento è citotossica se è troppo), di fatto il coating avrà l’1-2% di Mg o Ag. Con questo drogaggio non cambierà di fatto la morfologia superficiale né la struttura, che è sempre bruslite molto amorfa. Se agissimo sul pH si creerebbero dei fosfati di calcio diversi nel coating , ciascuno con solubilità diversa in ambiente biologico. Per fare questo agiamo nel seguente modo: dopo il rivestimento catodico mettiamo il pezzo in una soluzione con un pH tale da stabilizzare la fase calciofosfatica voluta, a una certa T per un certo tempo, compiendo un processo di CONVERSIONE DI FASE e quindi possiamo ottenere anche HA, con pH=9.5-12. Si può fare anche con il drenaggio e non viene cambiata la composizione. Tipicamente si crea anche un assottigliamento del rivestimento, perciò si tende a creare un rivestimento cristallino con trattamenti termici. Di conseguenza i metodi per ottenere i rivestimenti più o meno solubili sono abbastanza rapidi. Questi trattamenti sono nuovi e meno costosi del PS, perciò in crescente uso. In presenza di rivestimento di HA, gli osteoblasti sono stimolati a rivestire d’osso il pezzo di titanio (senza ci sarebbe uno strato di collagene perché gli osteoblasti non vedono il titanio come una superfice amica). Ciononostante gli impianti dentali rivestiti in HA hanno avuto un comportamento peggiore rispetto a quelli non rivestiti, per via dei detriti duri di HA generati dall’antifilettatura della vite e da ogni altra fonte di sforzi di taglio. Per ovviare a questo si sottopone il titanio a trattamenti biomimetici di ossidazione, senza deposizione di HA, in modo da creare uno strato legato
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