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CLAUDIO MARAZZINI, Sintesi del corso di Linguistica

Marazzini, La lingua italiana. Storia, testi, strumenti, Bologna

Tipologia: Sintesi del corso

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Scarica CLAUDIO MARAZZINI e più Sintesi del corso in PDF di Linguistica solo su Docsity! CLAUDIO MARAZZINI – BREVE STORIA DELLA LINGUA ITALIANA Riassunto del testo di Claudio Marazzini, Breve storia della lingua italiana, Il Mulino, Bologna, 2004. INTRODUZIONE – STORIA DI CHI, STORIA DI CHE COSA 1. CENTRO E PERIFERIA La storia linguistica italiana si caratterizza per un costante rapporto tra il centro (la Toscana) e la periferia. Nella sua espansione, il toscano ha incontrato le parlate locali. Il confronto non si è risolto quasi mai in una imposizione autoritaria: vi è stato piuttosto un libero consenso delle altre regioni. La situazione dell’Italia è anomala: come osservava con imbarazzo Manzoni, l’Italia era l’unica nazione in cui la capitale politica (Roma) era destinata a non coincidere con la capitale linguistica (Firenze). I dialetti sono da considerare sempre nel rapporto con l’italiano: ma per il periodo dalle origini al 1400, non ha senso parlare di dialetti. Se ne parlerà solo dopo l’affermazione della lingua. Quindi per i secoli XIII-XV si parla di “volgari italiani”. 2. I FORESTIERISMI: LE LINGUE NON SONO ISOLATE Sono le lingue di maggiore prestigio a influenzare le altre, esercitando un’azione che si manifesta nei “prestiti”. Il rapporto con una lingua diversa produce anche i “calchi”, che possono essere di due tipi: il primo è il “calco traduzione”, quando si traduce alla lettera una parola straniera (es: skyscaper = grattacielo); il secondo è il calco semantico, quando una parola italiana assume un nuovo significato traendolo da una parola straniera, come accaduto per “autorizzare, che un tempo significava “rendere autorevole”. I “prestiti di necessità” si hanno quando la parola giunge assieme ad un referente nuovo, privo di nome nella lingua che lo riceve (es: caffè, patata, canoa). I “prestiti di lusso”, invece, potrebbero essere evitati perché la lingua possiede già un’alternativa alla parola forestiera. Tutta la terminologia dell’informatica è fittamente intessuta di parole inglesi, prestiti o calchi, perché tutta la tecnologia dell’informatica è stata sviluppata lontano dall’Italia: è quindi naturale che il relativo linguaggio settoriale sia di importazione. Tra le lingue con cui l’italiano è stato maggiormente in relazione, al primo posto stanno quelle europee, prima il provenzale e il francese, poi lo spagnolo e l’inglese. Ma bisogna anche tenere conto dei contatti con il latino e il greco, che forniscono prestiti di matrice colta. Tra le lingue moderne, il francese fin dalle origini ha avuto maggiori rapporti con l’italiano e gli ha dato il più alto numero di parole, con influenza maggiore fra ‘700 e ‘800. All’ inizio dell’800 però il Purismo reagisce contro i gallicismi e contro l’’infranciosamento’ dell’italiano. Il periodo della più forte influenza spagnola va dalla seconda metà del ‘500 alla fine del ‘600. Lo spagnolo era allora la lingua di una grande potenza militare presente nella penisola. Il periodo di forte penetrazione degli anglismi comincia nell’800 e raggiunge il culmine nella nostra epoca. Il tedesco invece è stato molto meno importante. Fondamentale invece nel Medioevo il rapporto con l’arabo. Voci arabe ricorrono nel lessico della marineria, del commercio, nella medicina, nella matematica (zero, tariffa, sciroppo), e sono arabi molti nomi di stelle. 3. GLI SCRITTORI CHE CONTANO 1 E’ sbagliato mettere in secondo piano la lingua comune e d’uso, legata alla comunicazione quotidiana. Il linguaggio letterario ha influito spesso in maniera determinante sulla lingua italiana comune. Sono stati gli scrittori a fornire gli elementi sui quali grammatici e teorici hanno poi stabilito la “norma”. 4. IL MISTILINGUISMO Il parlante o scrivente italiano si è trovato molto spesso al centro di una serie di campi di forza divergenti: è stato attirato dal toscano, lingua conosciuta attraverso i modelli della letteratura, è stato condizionato dal suo dialetto d’origine. Tale ambiente era favorevole allo svilupparsi di fenomeni di lingua mista. La contaminazione che ne deriva può essere definita con termine tecnico come “mistilinguismo”, e poteva manifestarsi sia involontariamente, per errore, sia volontariamente, per deliberata scelta stilistica. 5. NOTAI E MERCANTI DEL MEDIOEVO Il notaio è senz’altro fra i protagonisti della fase iniziale della nostra storia linguistica: molti dei primi documenti del volgare sono stati scritti da notai, e proprio a costoro si deve la scelta di introdurre il volgare al posto del latino. Inoltre, i notai sono stati tra i primi cultori dell’antica poesia italiana. Il mercante medievale era certo meno istruito ma non gli mancava la conoscenza delle lingue straniere. Non sapeva il latino, ma leggeva, per proprio divertimento. Il suo rapporto con la scrittura era invece più sostanziale, aveva a che fare con la sua professione. Un libro di conti del 1211 è la prima testimonianza di volgare fiorentino. Il mercante utilizzò altre forme di scrittura, oltre alle lettere missive: i vademecum, in cui si trovano in maniera disorganica cose diverse; i libri di famiglia, quaderni in cui uno o più membri della famiglia annotavano avvenimenti familiari e cittadini, memorie, etc. Nel ‘500 continuò infine la tradizione delle narrazioni di viaggi. In questi scritti il linguista può trovare le prime attestazioni di parole esotiche poi entrate stabilmente nell’italiano. 6. SCIENZIATI E TECNICI Lo strumento della lingua scientifica fu per lungo tempo solo il latino. La base delle conoscenze sulla natura, del resto, era costituita dagli autori classici come Aristotele e Plinio. Ci volle tempo perché il volgare potesse competere col latino strappandogli il monopolio della cultura. Dante ebbe la lungimiranza di antivedere una simile trasformazione, e scrisse in volgare il Convivio, opera di filosofia e poesia. Ma fu Galileo Galilei il protagonista della svolta che promosse al più alto livello scientifico l’uso del volgare toscano. Il linguaggio scientifico moderno ha accentuato i caratteri specifici che lo distinguono dalla lingua comune, oltre che da quella letteraria, ed è quindi fortemente codificato, rivolto a specialisti. Esso risulta “economico” proprio grazie alla concentrazione di parole specialistiche. Oggi, molto spesso chi scrive saggi scientifici, usa l’inglese, ormai lingua internazionale come un tempo il latino. Se questa tendenza dovesse estendersi, andremmo purtroppo incontro a una progressiva perdita del linguaggio scientifico italiano. 7. PER FORZA DI REGOLE: I GRAMMATICI 2 della dialettologia e dello studio del periodo storico successivo all’Unità d’Italia. Si potè così osservare che il popolo post-unitario era arrivato ad utilizzare una modesta lingua “italiana”, piena di elementi dialettali ed errori. Batoli Langeli, paleografo, afferma che “l’italiano popolare è un modo di scrivere, non di parlare”. Inizialmente, i documenti di italiano popolare vennero ricercati nei secoli XIX e XX. Una serie di documenti dimostra come anche tra gli appartenenti ai ceti sociali più bassi, nelle grandi città, la capacità di leggere e scrivere non fosse totalmente assente, anche prima dell’800. Sempre più spesso escono dagli archivi testi risalenti al periodo tra il ‘500 e il ‘700, redatti in “italiano popolare”: si tratta di scritture di semicolti in un italiano scorretto, saturo di dialettismi, ma comunque diverso dal mero dialetto. La storia dei dialetti italiani è strettamente legata a quella dell’italiano. Il processo è stato duplice: i dialetti si sono via via avvicinati alla lingua, mentre l’italiano ha acquisito elementi provenienti dai dialetti. 14. LA LINGUA COME VARIETA’ L’italiano popolare è l’italiano di chi non riesce a staccarsi dal dialetto e per conseguenza contamina i codici. I linguisti parlano di “varietà diastratiche” per indicare differenze che si riscontrano nell’uso dei diversi strati sociali. A partire dal ‘500, l’italiano letterario divenne lingua della comunicazione scritta ai diversi livelli della società. Da allora in poi, quanto più modesto è il livello culturale dello scrivente, tanto più emergono vistosi gli elementi legati al dialetto. Le varietà diatoniche della lingua sono definibili anche come varietà geografiche. L’italiano parlato nel nostro paese non è uniforme, ma varia da regione a regione. Le differenze riguardano prima di tutto il livello fonetico e fonologico, ma anche quello morfologico e lessicale. I parlanti settentrionali, ad esempio, non distinguono tra le “e/o” rispettivamente aperte e chiuse (pèsca, pésca). Toscani e romani avvertono l’apertura e la chiusura delle “e/o” come rilevante. Le differenze riguardano anche il livello lessicale e sintattico: le forme “tengo fame” per “ho fame” o “il pesce vuol cotto bene” sono chiaro segno di un italiano regionale di tipo meridionale. Diafasico è il termine tecnico per indicare differenze linguistiche relative allo stile della comunicazione. Seguendo un’ideale scala discendente, potremmo parlare di livello molto elevato o aulico, colto, formale, medio, colloquiale, popolare, familiare, basso, etc. E’ interessante notare che molte tendenze innovative proprie dell’italiano di oggi si manifestano prima di tutto ad un livello diafasico medio-basso: è il caso del pronome “gli” al posto di “a lei”, dell’uso del “ci” davanti ad “avere” (c’hai), del che polivalente (“questo è il locale che si balla tutta la notte”), della dislocazione a sinistra (Carlo l’ho visto), dell’uso dell’imperfetto nell’ipotetica dell’irrealtà o dell’indicativo al posto del congiuntivo nelle dipendenti (se sapevo, venivo prima; credo che Mario non viene). CAPITOLO PRIMO – ORIGINI E PRIMI DOCUMENTI DELL’ITALIANO 1. DAL LATINO ALL’ITALIANO L’italiano deriva dal latino, ma non dal latino classico degli scrittori, bensì dal cosiddetto latino volgare. Il latino non aveva dunque una unità linguistica assoluta. Uno dei mezzi per ricostruire gli elementi del latino volgare all’origine degli sviluppi romanzi è la comparizione tra le lingue neolatine. Il latino volgare conteneva molte parole presenti anche nel latino scritto. Altre parole furono innovazioni del latino parlato, e non sono attestate nello scritto, come Putium. In altri casi ancora si 5 ebbe un cambiamento nel significato della parola latina letteraria, la quale assunse un senso diverso nel latino volgare. E’ il caso di Testa(m), che era in origine un vaso di terracotta, ma che poco a poco sostituì Caput: evidentemente Testa(m) ebbe in un primo tempo un significato ironico, e designò il Caput in maniera scherzosa, come noi possiamo dire Zucca, Crapa, etc. Poi la sfumatura ironica sparì, e il termine assunse in toto il significato nuovo. Si consideri ancora l’italiano fuoco, derivato da focus, che in latino non era un fuoco qualunque (il latino letterario aveva il termine Ignis), ma il focolare domestico. Esiste anche una serie di testi che possono darci informazioni utili per intravedere alcune caratteristiche del latino parlato di livello popolare. Alcuni autori classici hanno scritto a volte in maniera meno formale e sorvegliata. Anche i testi teatrali latini contengono elementi di parlato, soprattutto quelli di Plauto. Importante è poi un romanzo come il Satyricon. In Petronio coesistono forme come Pulcher, Formosus e Bellus: il primo aggettivo era destinato a sparire nelle lingue moderne, mentre gli ultimi due sono all’origine delle forme romanze, lo spagnolo Hermoso, l’italiano Bello, il francese Beau. Un particolare rilievo, tra i documenti del latino volgare, ha la cosiddetta Appendix Probi, una lista di 227 parole o forme o grafie non corrispondenti alla buona norma, tramandate da un codice scritto a Bobbio intorno al 700 d.C. Gli studiosi la collocano nel V o VI secolo d.C. Un maestro di quell’epoca raccolse le forme errate in uso presso i suoi allievi, affiancandole alle corrette, secondo il modello “A non B” (speculum non speclum, oculus non oclus). L’Appendix Probi è l’occasione per riflettere su una serie di tendenze aberranti rispetto alla norma classica, che tuttavia contenevano gli sviluppi della successiva evoluzione verso la lingua nuova. L’errore dunque, è una deviazione rispetto alla norma, ma nell’errore medesimo possono manifestarsi tendenze innovative importantissime. Quando l’errore si generalizza, l’infrazione diventa essa stessa norma. Gli studiosi fanno riferimento di solito a fenomeni di “sostrato”: il latino si impose su lingue preesistenti (etrusco, osco-umbro, etc.), che non mancarono di influenzare l’apprendimento della lingua di Roma. Si è spiegata con il sostrato celtico la presenza delle vocali turbate nel settentrione d’Italia, con il sostrato osco-umbro si è spiegata la tendenza all’assimilazione di –nd- > -nn- e –mb- > -mm- nei dialetti centro-meridionali. Un altro problema è il ruolo del “superstrato”: l’influenza esercitata da lingue che si sovrapposero al latino, come avvenne al tempo delle invasioni barbariche. Di fatto, l’apporto lessicale all’italiano risalente a queste lingue non è di grande rilevanza. I termini gotici entrati nell’italiano sono meno di una settantina, e tra essi si possono citare le voci “astio”, “bega”, “melma”, “nastro”, “stecca” e “strappare”. L’invasione dei longobardi fu più violenta e brutale e durò più a lungo. Le parole longobarde che sono state contate nell’italiano e nei dialetti italiani sono oltre duecento, tra arcaiche e moderne, dialettali e di lingua: i toponimi in –ingo e –engo, guancia, stinco, nocca, zazzera, grinfia, stamberga, panca, scaffale, federa, gruccia, palla, zaffata, staffa, spalto, termini giuridici e tecnici come faida e arimanno. Inoltre sono longobardi verbi concreti ed espressivi come arraffare, russare, schernire, scherzare, spaccare, spruzzare e tuffare. I franchi furono un’elite che si insediò ai vertici del potere civile e militare. Sono probabilmente da considerare franchismi i termini come bosco, guanto, dardo e biondo. L’influenza d’oltralpe si fece sentire poi fortemente nei secc. XI e XII, con la diffusione anche da noi della letteratura francese e provenzale. Ritornando comunque al periodo carolingio, entrarono allora termini relativi all’organizzazione politica e sociale: conte, marca, cameriere, barone, dama, lignaggio, sire e vassallo. 2. FONETICA E GRAMMATICA STORICA Le modificazioni subite dal latino seguono determinate regole di sviluppo. Queste regole sono organizzate in forma sistematica dalla grammatica storica. 6 Le vocali possono essere classificate in base al loro punto di articolazione, centrale, anteriore o posteriore. La vocale “centrale” è la “a”, le tre vocali “anteriori o palatali” sono i, è, è, le tre “posteriori o velari” sono u, o, ò. La “e” e la “o” si distinguono in chiuse e aperte. Vi sono lingue e dialetti che hanno anche le vocali cosiddette turbate, la ö e la ü, assenti nell’italiano ma presenti nel francese. La vocale indistinta o muta è presente nel francese “de”: la si indica convenzionalmente con “ë”. Le vocali possono essere distinte, a secondo della loro durata, in lunghe e brevi. Le vocali che portano l’accento sono dette toniche, se no sono atone. Combinazioni particolari di suoni sono i dittonghi, che possono essere ascendenti (piède, uòmo) o discendenti (fài, càusa). La “i” e la “u” nei dittonghi prendono il nome di “semiconsonanti”. Vengono rappresentate convenzionalmente con “j” e “w”. Le consonanti vengono pronunciate con un restringimento o un’occlusione del flusso d’aria. Nel primo caso sono dette fricative, nel secondo caso occlusive. La combinazione delle prime e delle seconde produce le affricate. Le consonanti possono inoltre essere sorde o sonore: nelle sorde non di ha vibrazione delle corde vocali, nelle sonore sì. Se l’occlusione della cavità orale si combina con il passaggio di aria nel naso, si ottengono le consonanti nasali. Se la lingua occlude solo la parte centrale della cavità orale, lasciando libere le zone laterali, avremo le consonanti laterali /l/ e /?/ (it. Figlio). La consonante /r/ è vibrante. La lingua italiana ha un sistema di sette vocali perché è ed è costituiscono opposizione fonematica. Il latino aveva dieci vocali, distinguibili in cinque lunghe e cinque brevi. Ad un certo punto, però, la quantità vocalica latina non fu più avvertita, cessò di avere rilevanza, e si trasformò in qualità: in parlanti pronunciarono le lunghe come strette e le brevi come aperte. Lo sviluppo vocalico delle parole italiane è interessato inoltre dai fenomeni del dittongamento (pedem-piede, bonum-buono) e del monottongamento (aurum-oro, caudam-coda). La metafonesi è invece una modificazione del timbro di una vocale per influenza di una vocale che segue. L’anafonesi invece è un fenomeno tipico del fiorentino e di una parte della Toscana: è il fenomeno per il quale una è tonica si trasforma in “i” davanti a /?/, mentre “o” tonica si trasforma in “u” davanti a /?/. Hanno dato luogo quasi sempre a consonante doppia italiana anche i gruppi consonantici latini “ct” e “pt”: Lactem diventa latte, Septem sette. Un caso particolare di raddoppiamento è quello che si produce in fonosintassi, cioè nel contatto tra due parole: ad casam > akkasa. La grafia italiana moderna registra il fenomeno solo quando si è prodotta l’univerbazione, cioè la riduzione a una sola parola (es: soprattutto, sebbene). Nel passaggio dal latino alle lingue romanze, come abbiamo visto, si ebbe la perdita delle consonanti finali (ad esempio della “m” dell’accusativo) e la perdita dell’opposizione tra vocali brevi e vocali lunghe. Nella lingua latina si ebbe dunque un collasso del sistema delle declinazioni. Le parole italiane derivano generalmente dall’accusativo delle parole latine. Il latino è “sintetico”, mentre il passaggio dal latino classico a quello volgare implica l’introduzione di elementi morfologici analitici quali articoli e preposizioni. Gli articoli determinativi italiani il, lo, la, etc. derivano dai dimostrativi latini Illum, Illam, etc. Dal numerale latino Unum deriva invece l’indeterminativo un, uno. Il latino aveva tre generi di nomi, il maschile, il femminile e il neutro. Quest’ultimo è sparito nelle lingue romanze, lasciando rare tracce. Caratteristica, nello sviluppo dei verbi, è stata la formazione del futuro, completamente diverso da quello latino. Il futuro dell’italiano e delle lingue romanze deriva infatti dall’infinito del verbo unito al presente di Habere. Anche il passivo latino fu sostituito da forme analitiche (amatus sum al posto di amor). Nel latino classico era normale la costruzione con il verbo postumo alla fine della frase. Il latino volgare invece preferì l’ordine diretto, soggetto-verbo-oggetto-complemento indiretto. Mentre il latino mostrava una propensione per le frasi subordinate (ipotassi), l’italiano rivela una preferenza per la coordinazione (paratassi), come il latino volgare. 7 9. PRIMI DOCUMENTI LETTERARI Un vero sviluppo della letteratura italiana si ebbe solamente nel XIII secolo a partire dalla scuola poetica fiorita alla corte di Federico II, la cosiddetta Scuola siciliana. Se cerchiamo tracce di componimenti poetici italiani, qualche cosa è dato trovare a partire dalla seconda metà del XII secolo, nella forma che comunemente viene definita “ritmo”. Si trovano quattro versi volgari in una memoria latina esaltante le vittorie delle milizie di Belluno e di Feltre su quelle di Treviso nel 1193 e 1196. Il trovatore provenzale Rambaldo di Vaqueiras ha scritto “le prime strofe regolari che ci siano pervenute nella nostra lingua”. Per trovare versi italiani con intento letterario dobbiamo sfiorare e forse scavalcare la soglia del XIII secolo, visto che a quella data alcuni spostano ora il cosiddetto Ritmo laurenziano. Il primo testo è quello di una canzone di decasillabi, il cui verso iniziale è “Quando eu stava in le tu’ catene”. Il secondo testo si compone di cinque endecasillabi: il primo è “Fra tuti qui ke fece lu Creature”. Sono le più antiche testimonianze di poesia lirica d’amore in volgare italiano. Tali documenti potrebbero autorizzare l’ipotesi di una scuola poetica italiana già attiva prima della Scuola siciliana di Federico II. CAPITOLO SECONDO – IL DUECENTO 1. IL LINGUAGGIO POETICO DAI PROVENZALI AI POETI SICILIANI La prima scuola poetica italiana di cui si abbiano notizie certe e sistematiche fiorì all’inizio del XIII secolo, nell’ambiente colto e raffinato della Magna curia di Federico II di Svevia, in Italia meridionale, per questo detta “scuola siciliana”. Altre due letterature romanze si erano già affermate: quella francese in lingua d’oil e quella provenzale in lingua d’oc. Quest’ultima in particolare esercitava un grande fascino: era, per eccellenza, la lingua della poesia, soprattutto quella amorosa. I poeti siciliani imitarono la poesia provenzale: ma sostituirono la lingua forestiera con un volgare italiano, quello siciliano. Anche Dante ebbe un giudizio positivo di questa scuola. Alcuni dei poeti “siciliani” non sono affatto siciliani: Percivalle Doria è ligure, ad esempio, e ciò dimostra che la scelta del siciliano fu dotata di valore formale, e infatti il volgare della poesia siciliana è altamente formalizzato, raffinato. Vi entrano in gran numero termini provenzali, o arieggianti la lingua provenzale, come le forme in agio (coragio) e anza (amanza, speranza…). Il corpus della poesia delle nostre origini è stato trasmesso da codici medievali scritti da copisti toscani. Nel Medioevo copiare non era operazione neutrale. I copisti toscani intervennero appunto sulla forma linguistica della poesia siciliana con una vera e propria opera di traduzione. La sconfitta degli Svevi e l’avvento degli Angioini portò con sé anche la distruzione fisica dei manoscritti di origine siciliana o meridionale. Giovanni Maria Barbieri, studioso della lingua provenzale, aveva avuto per le mani un codice (Il libro siciliano) contenente alcuni testi poetici siciliani che si presentavano in una forma vistosamente diversa da quella comunemente nota: “Alegru cori, plenu / Di tutta beninanza…”. La sicilianità è vistosa: si notino le vocali finali –u e –i al posto delle –o ed –e toscane, la –u al posto della –o in inamuranza, le –i al posto di –e toscana, in posizione tonica. Benché sostanzialmente fedele all’originale, amo non è un tratto siciliano. Per avere un’idea dell’intensità del processo di toscanizzazione, metteremo ora a confronto la trascrizione in forma toscanizzata con quella in forma siciliana della canzone S’eo trovasse pietanza. Trascrizione di Barbieri: “La virtuti ch’ill’àvi / D’alcirm’e guariri”. Codice Vaticano (toscanizzato): “La vertute ch’il àve /D’ancider me e guerire”. 10 Il confronto mette in evidenza la sostituzione dei tratti siciliani con quelli toscani. Ma una traccia di questa sostituzione rimane anche nelle rime imperfette delle versioni toscanizzate (conduce-croce / ora-pintura), le quali diventano perfette solo se riportate alla lingua originale (conduci-cruci / ura- pintura). La lezione della poesia siciliana fu decisiva per la nostra tradizione lirica. Non solo si stabilizzò la rima siciliana, ma divennero normali in poesia i condizionali meridionali in –ia (il tipo crederia, contro il toscano crederei). 2. DOCUMENTI POETICI CENTRO-SETTENTRIONALI Con la morte di Federico II (1250), venne meno la poesia siciliana. La sua eredità passò in Toscana e a Bologna, con i cosiddetti poeti siculo-toscani e gli stilnovisti. In Italia settentrionale fiorì nel ‘200 una letteratura in volgare molto diversa da quella sviluppatasi nel raffinatissimo ambiente della corte di Federico II. La lingua di questi scrittori è fortemente settentrionale, non essendo ancora in nessun modo presente l’imitazione dei modelli letterari toscani. L’area toscana in cui si ebbe la prima notevole espansione dell’uso del volgare scritto è quella occidentale, fra Pisa e Lucca. In quest’area si sviluppò la cosiddetta poesia siculo-toscana. Firenze si affermò solo nella seconda metà del ‘200: tra il 1260 e il 1280. A Firenze vi erano diversi rimatori, il loro stile rifletteva quello dei poeti siciliani. In essi si ritrovano molti gallicismi e sicilianismi. Tra i sicilianismi si possono notare le –i finali al posto di –e, in sostantivi singolari come calori, valori, siri, in verbi alla terza persona (ardi per arde). In Toscana si stava in sostanza immettendo nella lingua locale tutta la tradizione lirica disponibile, attingendo oltralpe e alla Sicilia. E’ noto che Dante attribuì a Guinizzelli la svolta stilistica che avrebbe portato alla nuova poesia d’amore. Tuttavia, permane una sostanziale continuità tra la tradizione poetica anteriore e quella stilnovista. Permangono i gallicismi (rivera per fiume), i provenzalismi (sclarisce), i sicilianismi (saccio, aggio). In Cavalcanti troviamo le forme suffissali in –anza, i meridionalismi di origine siciliana (feruta, saccio), le rime siciliane del tipo noi-altrui, e i consueti provenzalismi. Stessa sorte per le prime esperienze poetiche di Dante, che però amplia il lessico della poesia. 3. DANTE, PRIMO TEORICO DEL VOLGARE Le idee di Dante sul volgare si leggono nel Convivio e nel De vulgari eloquentia. Nel Convivio, il volgare viene tra l’altro celebrato come “sole nuovo” destinato a splendere al posto del latino, per un pubblico che non è in grado di comprendere la lingua dei classici. Nel Convivio il latino è reputato superiore in quanto utilizzato nell’arte, nel De vulgari eloquentia invece la superiorità del volgare viene riconosciuta in nome della sua naturalezza. Il De vulgari eloquentia è il primo trattato sulla lingua e sulla poesia volgare. Non ebbe una sorte molto felice. Dante muove dalle origini prime, dalla creazione di Adamo: stabilisce che fra tutte le creature, l’unico ad essere dotato di linguaggio è l’uomo. L’origine del linguaggio e delle lingue viene ripercorsa attraverso il racconto biblico: nodo centrale è l’episodio della Torre di Babele. La storia delle lingue naturali, nella loro varietà, incomincia proprio qui: loro caratteristica è il mutare nello spazio, da luogo a luogo, e nel tempo. La grammatica delle lingue letterarie, come quella del greco e del latino, secondo Dante, è una creazione artificiale dei dotti, intesa a frenare la continua mutevolezza degli idiomi. Per arrivare a definire i caratteri del volgare letterario, Dante procede concentrando la sua attenzione su spazi geografici via via più ristretti La sua attenzione di concentra sull’Europa, e 11 procedendo dal generale al particolare e avendo come obiettivo una trattazione approfondita dell’area italiana, si avvicina al suo scopo, venendo a trattare del gruppo linguistico costituito da francese, provenzale e italiano. Si restringe quindi finalmente alla sola area italiana. Dante esamina queste parlate alla ricerca del volgare migliore, definito illustre (e anche aulico, curiale e cardinale). L’esame delle varie parlate si conclude con la loro sistematica eliminazione: tutte, nella loro forma naturale, sono indegne del volgare illustre. Tra le più severe condanne c’è quella per il toscano e il fiorentino. Migliori degli altri risultano il siciliano e il bolognese. Il discorso si sposta poi dalla lingua alla letteratura: Dante, sta cercando una lingua ideale, priva di tratti locali e popolari. Le realizzazioni di questa lingua vengono identificate nei modelli di stile a cui gli stilnovisti e Dante stesso guardavano con maggior ammirazione. 4. LA FORMAZIONE DELLA PROSA VOLGARE Confrontato con l’alto sviluppo qualitativo della poesia, la prosa duecentesca appare in ritardo. Il latino, nel ‘200, detiene ancora il primato assoluto nel campo della prosa, come strumento di comunicazione scritta e di cultura. A volte si tratta di un latino che assume forme domestiche, in cui affiorano tracce di un espressivo parlato in lingua volgare. Inoltre il volgare è necessariamente influenzato dal latino. Molto spesso il verbo viene posto in clausola, e anche la sequenza determinante-determinato viene ripresa dal latino. Se alcuni italiani usavano il francese addirittura per scrivere le loro opere, riconoscendogli il pregio di essere la più piacevole delle lingue, niente di strano che il francese influenzasse i volgarizzatori. Nel 1200, alle due lingue di comune impiego nella prosa, cioè il latino e il francese, non si contrappone ancora un tipo unico di volgare, e predomina anzi una sostanziale varietà. Non esiste una prosa-modello che in questo secolo si imponga su quella delle altre regioni. Di fatto, però, il ruolo della Toscana stava delineandosi. CAPITOLO TERZO – IL TRECENTO 1. DANTE E IL SUCCESSO DEL TOSCANO La ricchezza tematica e letteraria della Commedia favorì la promozione del volgare, dimostrando che la nuova lingua aveva potenzialità illimitate. Ecco perché il successo del poema di Dante e il successo della lingua italiana (toscana) già nel ‘300 andarono di pari passo. La Commedia è opera compiuta in esilio nell’Italia settentrionale. Si profila dunque un connubio tra Nord e Centro, che sta alla base della crescita rapida della fortuna accordata ai modelli letterari del volgare. Il toscano iniziò così la sua espansione destinata a completarsi nel giro di alcuni secoli. Il processo fu reso irreversibile dal Canzoniere di Petrarca e dal Decameron di Boccaccio. Senza questi tre autori, probabilmente la storia linguistica italiana sarebbe stata diversa, anche se il fiorentino era una lingua dotata di particolari potenzialità: vivacissima era la società fiorentina, e la sua lingua occupava una posizione mediana tra le parlate italiane. Inoltre era abbastanza simile al latino. 2. VARIETA’ LINGUISTICA DELLA “COMMEDIA” 12 Esistono due tipi di contaminazione colta tra volgare e latino: il macaronico e il polifilesco. Con il termine macaronico di designa un linguaggio (e un genere poetico) comico nato a Padova alla fine del ‘400. Tale linguaggio è caratterizzato dalla latinizzazione parodia di parole dal volgare, oppure dalla deformazione dialettale di parole latina, con forte tensione espressionistica tra le due componenti poste a coesistere, quasi anzi a cozzare violentemente fra loro. Una di queste componenti, quella dialettale, è bassa, corporea, plebea; l’altra latina è aulica. Dal punto di vista dell’invenzione linguistica, il macaronico consiste nella formazione di parole miste. A una parola volgare può essere applicata una desinenza latina: cercabat per cercava (cercare più –abat imperfetto latino), ficavit per ficcò; in altri casi parole già esistenti sia in latino che in volgare vengono usate nel significato proprio del volgare, come casa, che in latino significa capanna; parole latine vengono legate in costrutti sintattici tipicamente volgari: propter non perdere tempus per “per non perdere tempo”. Il risultato è un latino che sembra pieno di errori. Si noti però che l’errore non è dovuto ad imperizia. L’autore macaronico è anzi un pttimo latinista, che tuttavia gioca con gli idiomi dei classici. Si tratta dunque di una scelta volontaria dello scrittore, a scopo comico, realizzata mediante una tecnica che si può definire di abbassamento del tono. La poesia macaronica (il cui nome deriva da un cibo, il macaone, cioè un tipo di gnocco: come si vede, si tratta di un’origine vistosamente corporea, parodia rispetto alla natura eterea della poesia). Il polifilesco o pedantesco si trova sotto forma di linguaggio prosastico nell’Hypnerotomachia Poliphili (Guerra d’amore in sogno dell’amatore di Polia), un romanzo anonimo pubblicato nel 1499 a Venezia. La mescolanza fra latino e volgare non è certo una novità della predica quattrocentesca, ma viene direttamente ereditata dalla tradizione medievale. Il latino non solo serviva come punto di partenza, con il riferimento a qualche versetto della Bibbia, ma ricorreva sovente più volte nel corpo della predica stessa. Il latinismo nel contesto di un documento volgare è spesso legato a una consuetudine. In una lettera, ad esempio, accade frequentemente che siano in latino le formule iniziali e finali, così come frequenti sono le formule correnti, così comuni che la loro latinità passa in pratica inavvertita agli occhi dei lettori del tempo: cum per con, maxime per massimamente, etc. 3. LEON BATTISTA ALBERTI E LA PRIMA GRAMMATICA Mancava dunque un autore che manifestasse piena fiducia nell’italiano. Tanto più dunque risulta innovativa la posizione di Leon Battista Alberti. Egli iniziò il movimento definibile come “Umanesimo volgare”, elaborò un vero programma di promozione della nuova lingua. L’Alberti era convinto che bisognasse imitare i latini prima di tutto in questo: nel fatto che avevano scritto in una lingua universalmente compresa, di uso generale; anche il volgare aveva il merito di essere lingua di tutti, ma occorreva mirare a una sua promozione a livello alto, da affidare ai dotti. All’Alberti è attribuita anche un’altra eccezionale impresa: la realizzazione della prima grammatica della lingua italiana, prima grammatica umanistica di una lingua volgare moderna. Questa Grammatica della lingua toscana la si conosce anche come Grammatichetta vaticana. Una breve premessa anteposta al testo chiarisce il collegamento con le dispute umanistiche, polemizzando contro coloro i quali ritenevano che la lingua latina fosse propria solamente dei dotti. La Grammatichetta vaticana nasce da una sorta di sfida: dimostrare che anche il volgare ha una sua struttura grammaticale ordinata, come ce l’ha il latino. Essa tuttavia non ebbe influenza, perché non circolò e non fu data alle stampe. Caratteristica della grammatica dell’Alberti è l’attenzione prestata all’uso del toscano del tempo, verificabile fra l’altro in alcune indicazioni relative alla morfologia: così la scelta dell’articolo el anziché il, così la preferenza per l’imperfetto in –o. La norma a cui si rifà la Grammatichetta sta dunque nell’uso, non negli autori antichi, per i quali non mostra alcuna propensione. Poiché la linea maestra della produzione grammaticale del secolo seguente è tutta incentrata sui modelli letterari, la piccola grammatica dell’Alberti si segnala per 15 essere basata sull’uso vivo. La promozione della lingua toscana da parte dell’Alberti culminò in una curiosa iniziativa, il Certame coronario del 1441. Egli organizzò una gara poetica in cui i concorrenti si affrontarono con componimenti in volgare. La giuria, composta da umanisti, non assegnò tuttavia il premio, facendo in pratica fallire il Certame, che pur aveva avuto una certa risonanza. 4. L’UMANESIMO VOLGARE A Firenze, nell’età di Lorenzo il Magnifico, si ebbe finalmente “un forte rilancio dell’iniziativa in favore del toscano, politicamente voluta e sostenuta al più alto livello” (Tavoni). I protagonisti di questa svolta, anticipata da Alberti, furono oltre a Lorenzo De’ Medici, l’umanista Cristoforo Landino e il Poliziano. Landino fu culture della poesia di Dante e di Petrarca, fino al punto di introdurre la lettura di questi autori persino nella cittadella universitaria. Landino nega la naturale inferiorità del volgare rispetto al latino e invita i concittadini di Firenze a darsi da fare perché la città ottenga il “principato” della lingua. Lorenzo il Magnifico, nel proemio al Comento per alcuni dei propri sonetti (1482-84), prospettando un mirabile sviluppo futuro del fiorentino, una crescita della sua maturità, parla, analogamente, di un “augumento al fiorentino imperio”. Lo sviluppo della lingua si lega dunque ora ad una concezione patriottica, viene inteso come patrimonio e potenzialità dello stato mediceo. Landino sosteneva la necessità che il fiorentino si arricchisse con un forte apporto delle lingue latina e greca: la traduzione, dunque, aveva una funzione importante. Nel tradurre, diede spazio a voci toscane popolari. Nel 1476, Federico, erede al trono di Napoli, aveva incontrato Lorenzo a Pisa, e in tale occasione i due avevano discusso di letteratura volgare a proposito degli autori che avevano poetato in lingua toscana. L’anno successivo Lorenzo inviava dunque a Federico la raccolta selezionata di quegli autori, unendovi l’elogio di quella lingua e di quella letteratura, in primo luogo di Dante e Petrarca (“lingua non povera e rozza ma abundante e pulitissima…”). Con Lorenzo il Magnifico e con la sua esaltazione del fiorentino, che egli stesso e Landino riconoscevano comune a tutta l’Italia, per la prima volta la promozione del volgare e la rivendicazione delle sue possibilità si collegavano ad un preciso intervento culturale e letterario, non disgiunto da un disegno politico in senso lato. La vitalità dell’Umanesimo volgare fiorentino esige dunque che si presti particolare interesse alle realizzazioni poetiche di Lorenzo e del suo entourage. Il volgare viene assunto in questo caso a soggetto di un esercizio letterario colto, in un ambiente d’elite. Nell’ambiente mediceo assistiamo alla prima trasposizione su di un piano colto di un genere popolare che godeva grande fortuna, quale era il cantare cavalleresco. Si trattava di una forma poetica in ottave che veniva portata sulle piazze da canterini, cantastorie professionisti, per l’intrattenimento di un pubblico medio-basso. Il Morgante di Luigi Pulci (1432-1484) si inserisce in una generale tendenza al ricupero colto di forme popolari, che caratterizza in larga misura buona parte della letteratura del rinascimento mediceo. Pulci scrisse al giovane Lorenzo una lettera in furbesco (si tratta del primo caso di uso del gergo nella nostra letteratura) e compilò un Vocabolista, raccolta lessicale ad uso privato, la quale può essere considerata una sorta di antecedente di un vocabolario italiano. Un altro autore fiorentino, il Burchiello, è rimasto famoso per aver coltivato un genere di poesia comica fondata sul gioco di doppi sensi e sull’invenzione verbale fino ai limiti del non senso e dell’incomprensibilità. 5. L’INFLUENZA DELLA LETTERATURA RELIGIOSA 16 La letteratura religiosa è importante per la circolazione tra il popolo di modelli linguistici toscani o centrali. Nel ‘400 troviamo raccolte di laude (laudari) in uso presso molte comunità dell’Italia settentrionale. Le sacre rappresentazioni erano messe in scena per un pubblico popolare, e quindi erano un’altra occasione in cui, come nel caso delle laudi, gli incolti dialettofoni potevano incontrare una lingua più nobile e toscanizzata. Anche la predicazione si rivolgeva al popolo, e quindi aveva bisogno del volgare. Il volgare della predicazione sarà stato in certi casi molto vicino al dialetto, o volgare locale, illustre. Nel ‘400, però, abbiamo già casi in cui la lingua toscana esercita anche in questo campo un prestigio al di là dei suoi naturali confini geografici. Tra i predicatori spicca la figura di San Bernardino da Siena. Egli usa una lingua semplice e colloquiale, un parlar “chiarozzo acciò che chi ode, ne vada contento e illuminato, e none imbarbagliato”. Diverso il caso di Savonarola, un non toscano, proveniente dall’Italia settentrionale, che approdò a Firenze, e vi dovette esercitare la sua missione, parlando ai cittadini dal pulpito. Egli fu quindi costretto ad una sorta di toscanizzazione. Il fatto stesso che i predicatori si muovessero da luogo a luogo e facessero esperienza di un pubblico sempre diverso, li spingeva a raggiungere il possesso di un volgare che fosse in grado di comunicare al di là dei confini di una singola regione. Probabilmente tale predicatore poteva adottare alcune parole proprie del posto in cui si trovava, ma doveva essere comunque in grado di depurare la propria lingua naturale, toscana o non toscana che fosse, degli elementi vernacolari, incomprensibili ad un pubblico diverso da quello della sue regione di origine. 6. LA LINGUA DI COINE’ E LE CANCELLERIE La poesia volgare ebbe fin dall’inizio una maggiore uniformità rispetto alla prosa, tanto da formare molto presto una sorta di sistema omogeneo. La prosa invece risentì maggiormente di oscillazioni. Si può parlare a questo proposito di una varietà di scriptae, lingue scritte attestate dai documenti dell’epoca, collocate in precisi spazi sociali e geografici. Ma nel ‘400, esse mostrano una tendenza al conguaglio, cioè all’eliminazione dei tratti più vistosamente locali. Nel ‘400 dunque, le scriptae, tramite conguaglio, si evolvono verso forme di coinè, termine tecnico con cui si indica una lingua comune superdialettale. La coinè del ‘400 consiste appunto in una lingua scritta che mira all’eliminazione di una parte almeno dei tratti locali e raggiunge questo risultato accogliendo largamente latinismi e appoggiandosi anche al toscano. Il crescente prestigio dell’Umanesimo non significò affatto mortificazione del volgare, ma anzi aumento della sua espansione e ramificazione. Proprio a partire dal ‘400 le manifestazioni scritte del volgare mostrano una differenza che può essere attribuita allo spessore sociolinguistico. Una forte spinta in direzione della coinè la diede l’uso del volgare nelle cancellerie principesche, ad opera di funzionari, in genere notai. Lo scarto tra scrittura pratica e scrittura letteraria rimaneva tuttavia ben marcato. E’ noto il caso di Boiardo, le cui lettere private sono ad un livello di formalizzazione e di toscanizzazione molto minore rispetto alle opere poetiche, in particolare rispetto alle liriche d’amore. Nell’incertezza di un uso ancora non codificato da grammatiche e vocabolari, il latinismo era un punto d’appoggio sicuro e insostituibile. 7. FORTUNA DEL TOSCANO LETTERARIO Il volgare toscano acquistò di fatto un prestigio crescente fin dalla seconda metà del ‘300, a partire dalla presenza fuori di Toscana di autori come Dante e Petrarca, i quali si mossero variamente 17 venivano giudicate inscindibili da quelle della lingua. Quando Bembo parla di lingua volgare, intende senz’altro il toscano: ma non il toscano vivente, il toscano parlato nella Firenze del XVI secolo, bensì il toscano letterario trecentesco dei grandi autori, di Petrarca e di Boccaccio. Questo è un punto fondamentale della tesi bembiana: egli non nega che i toscani siano avvantaggiati sugli altri italiani nella conversazione; ma questo non è oggetto del trattato, che non si occupa del comune parlato, ma della nobile lingua della letteratura. Il punto di vista delle Prose è squisitamente umanistico, e si fonda sul primato della letteratura. La lingua non si acquisisce dunque dal popolo, secondo Bembo, ma dalla frequentazione di modelli scritti, i grandi trecentisti appunto. La teoria di Bembo voleva coniugare la modernità della scelta del volgare con un totale distacco dall’effimero, secondo un’ideale rigorosamente classicistico, la cui natura è squisitamente letteraria. Requisito necessario per la nobilitazione del volgare era dunque un totale rifiuto della popolarità. Ecco perché Bembo non accettava integralmente il modello della Commedia di Dante, di cui non apprezzava le discese verso lo stile basso e realistico. Da questo punto di vista, il modello del Canzoniere di Petrarca non presentava difetti, per la sua forte selezione linguistico-lessicale. Qualche problema invece poteva venire dalle parti del Decameron, in cui emergeva più vivace il parlato. E’ vero che Bembo era convinto che la storia linguistica italiana avesse raggiunto una vetta qualitativa insuperata nel ‘300, con le Tre Corone. E’altrettanto vero però che egli non escludeva che il volgare, così giovane in confronto al latino, potesse ancora raggiungere risultati eccezionali, proprio attraverso la nuova regolamentazione proposta nelle Prose. La soluzione di Bembo fu quella vincente. Essa formalizzava in maniera rigorosa e teoricamente fondata quanto era avvenuto nella prassi: il volgare si era diffuso in tutt’Italia come lingua della letteratura attraverso una più o meno cosciente imitazione dei grandi trecentisti. Ora la grammatica di Bembo permetteva di portare a compimento quel processo spontaneo, depurando il volgare stesso dagli elementi eterogenei della coinè primo-cinquecentesca. 3. ALTRE TEORIE: “CORTIGIANI” E “ITALIANI” Le fonti più ricche di notizie sulla teoria cortigiana sono proprio gli scritti degli avversari: è lo stesso Bembo, nelle sue Prose, a parlare dell’opinione di Calmeta, secondo la quale il volgare migliore è quello usato nelle corti italiane, e specialmente nella corte di Roma. Egli fa riferimento alla fondamentale fiorentinità della lingua, la quale si doveva apprendere sui testi di Dante e Petrarca e doveva essere poi affinata attraverso l’uso della corte di Roma. Mario Equicola aveva parlato di una lingua capace di accogliere vocaboli di tutte le regioni d’Italia, mai plebea, con una coloritura latineggiante il cui modello stava nella lingua della corte di Roma, una lingua “commune”. Bembo obiettava ai sostenitori della lingua comune che una lingua cortigiana era un’entità difficile da definire in maniera precisa, non riconducibile all’omogeneità. In effetti, proprio questo difetto fece sì che la teoria cortigiana non uscisse vincente dal dibattito cinquecentesco. La teoria arcaizzante di Bembo aveva su di essa il considerevole vantaggio di offrire modelli molto più precisi. Nel 1529, Trissino diede alle stampe il De vulgari eloquentia di Dante, ma non nella forma latina originale, bensì in traduzione italiana. Nello stesso anno egli pubblicò il Castellano, un dialogo in cui sosteneva che la lingua poetica di Petrarca era composta di vocaboli provenienti da ogni parte d’Italia, e non era quindi definibile come fiorentina, bensì come italiana. La tesi di Trissino negava dunque la fiorentinità della lingua letteraria e faceva appello alle pagine in cui Dante aveva condannato la lingua fiorentina, contestandone ogni pretesa di primato letterario. Trissino, inoltre, aveva proposto una riforma dell’alfabeto italiano, in particolare con l’introduzione di due segni del greco, ipsilon e omega. 20 4. LA CULTURA TOSCANA DI FRONTE A TRISSINO E A BEMBO La più interessante tra le reazioni fiorentine di fronte alle idee di Trissino è il Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua attribuito a Machiavelli. Dante dialoga con Machiavelli, facendo ammenda degli errori commessi nel De vulgari eloquentia, ed è condotto ad ammettere di aver scritto in fiorentino, non in lingua curiale (cioè in una lingua comune o cortigiana). Viene inoltre rivendicato il primato linguistico di Firenze contro le pretese dei settentrionali. Ben presto si sviluppò una polemica sull’autenticità del De vulgari eloquentia, favorita dal fatto che Trissino non rese mai pubblico il testo originale latino dell’opera. Martelli, Gelli e Varchi individuavano nell’opera delle contraddizioni rispetto alle idee espresse da Dante nel Convivio e nella Commedia. Varchi affermò che il trattato conteneva vere e proprie sciocchezze, cose che Dante non avrebbe mai potuto scrivere. Nella prima metà del ‘500, tuttavia, gli intellettuali fiorentini non trovarono un modo efficace di contrapporsi alla tesi del fiorentino arcaizzante di Bembo, che avversavano. Fu uno studioso senese, Claudio Tolomei, a rimettere in gioco il volgare vivo, d’uso; egli parlò tuttavia (nel Polito e nel Cesano) di un modello “toscano”, non più specificamente fioretino. Nel 1570 uscì a Firenze e Venezia l’Hercolano di Benedetto Varchi: egli ebbe il merito di introdurre il bembismo nella città che gli era naturalmente avversa. La rilettura di Bembo condotta da Varchi non fu affatto fedele, e anzi risultò alla fine un vero e proprio tradimento delle premesse del classicismo volgare. Ciò servì però a rimettere in gioco il fiorentino vivo, dandogli un ruolo e una dignità. Fu una vera e propria riscoperta del parlato. Per Varchi la pluralità di linguaggi non va spiegata con la maledizione babelica, ma con la naturale tendenza alla varietà propria della natura umana. Inutile veniva reputata la ricerca del primo linguaggio umano. Il trattato di Varchi affiancava dunque al modello linguistico bembiano la lingua parlata di Firenze. La revisione del bembismo operata da Varchi vanificava l’austero rigore delle Prose della volgar lingua, caratterizzate dalla loro attenzione per il ruolo dei grandi scrittori. L’Hercolano sanciva invece il principio secondo il quale esisteva un’autorità popolare (seppure non propria del popolazzo) da affiancare a quella dei grandi scrittori. Questi principi permisero a Firenze di esercitare di nuovo un controllo sulla lingua. 5. LA STABILIZZAZIONE DELLA NORMA LINGUISTICA Nel ‘500 si ebbero le prime grammatiche e i primi vocabolari, nei quali si riflettono le proposte teoriche, in particolare quella di Bembo. Già il terzo libro delle Prose è una vera e propria grammatica, seppure esposta in forma dialogica. Bembo era stato preceduto da Fortunio nel 1516, che ad Ancona stampò le Regole grammaticali della volgar lingua. Queste grammatiche non si proponevano ambiziosi obiettivi teorici, ma avevano uno scopo eminentemente pratico. Nel fiorire di grammatiche, pubblicate soprattutto dall’editoria veneta, si segnala l’assenza di opere prodotte dall’editoria di Firenze. Il malumore toscano per l’ingerenza di grammatici e teorici forestieri in quella che veniva pur sempre reputata una lingua prima di tutto patrimonio locale, e non proprietà comune, non seppe tradursi in un’adeguata risposta sul piano normativo. Cosimo de’ Medici aveva chiesto all’Accademia fiorentina di stabilire le regole della lingua in maniera ufficiale e per contro l’Accademia stessa non arrivò ad un accordo. I vocabolari del ‘500 contenevano un numero relativamente limitato di parole, ricavate da spogli condotti sugli scrittori, Dante, Petrarca e Boccaccio in primo luogo. Il più noto vocabolario della prima metà del ‘500, strutturato in forma di dizionario metodico, è la Fabbrica del mondo (1548) di Francesco Alunno di Ferrara. 21 La grammatica di Bembo influenzò l’esito di un grande capolavoro quale l’Orlando furioso, perché Ariosto corresse la terza e definitiva edizione del poema seguendo proprio le indicazioni delle Prose. Tra le correzioni si ricordano la sostituzione dell’articolo maschile el con il, le desinenze del presente indicativo prima persona plurale regolarizzate in –iamo e la prima persona singolare dell’imperfetto in –a alla maniera dei trecentisti. 6. IL RUOLO DELLE ACCADEMIE Pietro Pomponazzi detto il Peretto (1462-1524) dichiarava che la filosofia avrebbe dovuto essere trasportata dalle lingue classiche alla lingua volgare, con ricchezza di traduzioni e con conseguente modernizzazione e democratizzazione della cultura. Il latino e il greco gli sembravano un ostacolo alla diffusione del sapere. Le accademie, come quella degli Infiammati, svolsero nel ‘500 una funzione di primo piano, in quanto in esse si organizzarono gli intellettuali e vennero dibattuti i principali problemi culturali sul tappeto. La più famosa accademia italiana che si occupò di lingua fu quella della Crusca, ancora oggi attiva. La sua fondazione risale al 1582. La Crusca, nella prima fase della sua esistenza, si fece conoscere per la polemica, condotta soprattutto da Salviati, contro la Gerusalemme liberata di Tasso. Lo stesso Salviati conduce un intervento sul testo del Boccaccio per spurgarlo dalle parti ritenute moralmente censurabili. L’intervento di una censura moralistica, certo repellente al nostro gusto di moderni, fu dunque, per paradosso, l’occasione per la nascita e lo sviluppo di un’attenzione filologica per il testo del Decameron. Nel 1590 l’Accademia deliberò di rivedere e correggere il testo della Commedia di Dante. Nel 1595 uscì a Firenze La Divina Commedia di Dante Alighieri ridotta a migliore lezione dall’Accademia della Crusca. 7. LA VARIETA’ DELLA PROSA L’architettura fu uno dei settori in cui l’italiano si impose decisamente. Fra le traduzioni determinanti per la stabilizzazione del lessico tecnico, la più importante fu senz’altro quella del maestro latino dell’architetture Vitruvio. La prima traduzione italiana a stampa di Vitruvio si era avuta all’inizio del XVI secolo da parte del pittore e ingegnere lombardo Cesare Cesariano, nelle forme tipiche della coinè settentrionaleggiante. Molte parole italiane, relative all’architettura civile e militare, entrarono anche nelle altre lingue europee, così facciata (fr. Façade, sp. Fachada). Senza dubbio le traduzioni dei classici costituiscono un capitolo fondamentale per la storia dell’italiano. Proprio nel confronto col latino, la lingua italiana affinò le proprie capacità e sperimentò le proprie potenzialità. La traduzione fu il settore che meglio funzionò come banco di prova delle capacità dell’italiano. Lo prova la versione degli Annali di Tacito, a cui attese tra il 1596 e il 1600 il fiorentino Bernardo Davanzati Bostichi sforzandosi di gareggiare in concisione con l’originale. Nel 1532 fu stampato a Roma il trattato De principatibus di Machiavelli, prosa molto diversa dal modello proposto da Bembo. Machiavelli scrive in un fiorentino ricco di latinismi come tamen e etiam, che non hanno una funzione nobilitante ma piuttosto ricollegano questa scrittura a quella quattrocentesca di tipo cancelleresco. Il volgare prevaleva nel settore della scienza applicata o diretta ai fini pratici, non nella ricerca di tipo accademico. La scelta del volgare acquista tuttavia un rilievo particolare nel caso di Galileo. 22 da stabilire che forma e che qualità esso dovesse avere. Il primo elemento di cui si deve prendere atto è la forte influenza del bembismo anche nel campo della predicazione. La predicazione si presentava come un settore vergine, nuovo, e non a caso molte volte i grandi predicatori del secondo ‘500 come Panigarola tornavano sul tema della perniciosa dulceda, la pericolosa dolcezza delle arti oratorie dei pagani. Francesco Panigarola, nel Predicatore, trova posto per una sezione specifica relativa alla “lingua, che ha da adoperare il predicator italiano”. Vi si trova non solo l’adesione ai principi fiorentinismi di Bembo, ma, in più, il riconoscimento del primato della lingua fiorentina parlata, giudicata come la più adatta al pulpito, se depurata dai localismi fiorentini troppo evidenti. CAPITOLO SESTO – IL SEICENTO 1. IL VOCABOLARIO DELL’ACCADEMIA DELLA CRUSCA L’Accademia della Crusca ebbe un’importanza eccezionale. Era un’associazione privata senza sostegno pubblico, poco adatta ad assoggettarsi a un’unica autorità normativa. La Crusca portò a termine il disegno di restituire a Firenze il magistero della lingua e costrinse tutti gli italiani colti a fare i conti da allora in poi con il primato della città toscana. La Crusca si indirizzò alla lessicografia dal 1591. In quell’anno gli accademici discussero sul modo sul modo di fare il Vocabolario e si divisero gli spogli da compiere, il cui elenco corrisponde a quello fornito da Salviati. Da Salviati gli accademici acquisiscono anche la caratteristica impostazione antibembiana secondo la quale gli autori minori e minimi erano giudicati degni, per meriti di lingua, di stare fianco fianco ai grandi della letteratura. I meriti linguistici potevano accoppiarsi a una grande modestia della sostanza. Al momento della realizzazione del Vocabolario Salviati era già morto, e nell’Accademia non vi era una figura che potesse raccoglierne l’eredità. Vi erano veri e propri dilettanti di giovane età, che condussero comunque un lavoro con una coerenza metodologica e un rigore che andavano al di là di tutti i precedenti. La squadra dei lessicografi andò formandosi da sé, e mantenne una notevole collegialità nelle sue scelte. Il Vocabolario degli Accademici della Crusca uscì dunque nel 1612 presso la tipografia veneziana di Giovanni Alberti. Sul frontespizio portava l’immagine del frullone o buratto, lo strumento che si usava per separare la farina dalla crusca, con sopra, in un cartiglio, il motto “Il più bel fiore ne coglie”, allusivo alla selezione compiuta nel lessico. Gli Accademici fornirono il tesoro della lingua del ‘300, esteso al di là dei confini segnati dall’opera delle Tre Corone, arrivando ad integrare con l’uso moderno. Gli schedatori avevano cercato di evidenziare la continuità tra la lingua toscana contemporanea e l’antica. Le parole del fiorentino vivo erano documentate di preferenza attraverso gli autori antichi. Il Vocabolario largheggiava nel presentare termini e forme dialettali fiorentine e toscane, come “assempro” per esempio, “manicare” per mangiare, etc. Per quanto riguarda la scelta della grafia, invece, il Vocabolario si collocò sulla linea dell’innovazione, distaccandosi in buona parte dalle convenzioni ispirate al latino (le –h etimologiche e i nessi del tipo –ct), seguendo in ciò un aggiornamento gradito alla cultura toscana. La fortuna del Vocabolario della Crusca è confermata dalle due edizioni che ebbe nel XVII sec.: quella del 1623 analoga alla prima del 1612, quella del 1693 composta da tre tomi al posto di uno, con un corrispondente aumento del materiale. I lavori per questa riedizione durarono ben trent’anni, e alla fine risultarono decisivi i contributi di accademici quali Carlo Dati, Alessandro Segni, Francesco Redi, Lorenzo Magalotti e il giovane Anton Maria Salvini. Il binomio Redi-Magalotti, costituito da due letterati-scienziati di primo piano, spiega la dura con cui la nuova Crusca diede contro del linguaggio scientifico, includendo peraltro Galileo fra gli autori spogliati. 25 2. L’OPPOSIZIONE ALLA CRUSCA Il primo avversario dell’Accademia di Firenze fu Paolo Beni, professore di umanità nell’Università di Padova, autore di un’Anticrusca (1612) nella quale venivano contrapposti al canone di Salviati gli scrittori del ‘500, e in particolare il Tasso, il grande escluso dagli spogli del Vocabolario. La maggior parte del trattato di Beni è dedicata a polemizzare contro la lingua usata da Boccaccio, indicandone le irregolarità e gli elementi plebei. Alessandro Tassoni protesta contro la dittatura fiorentina sulla lingua, proponendo di adottare nel Vocabolario espedienti grafici per contrassegnare con evidenza le voci antiche e le parole da evitare. Tema fondamentale della riflessione del Tassoni è dunque l’improponibilità dell’arcaismo linguistico. Daniello Bartoli, gesuita, scrittore molto noto per la sua elegante prosa, non fa una polemica diretta e violenta nei confronti del Vocabolario, ma riesaminando i testi del ‘300 sui quali si fonda il canone di Salviati, dimostra che proprio lì si trovano oscillazioni tali da far dubitare della perfetta coerenza di quel canone grammaticale. Bartoli usa non di rado una pungente ironia nei confronti di ogni forma di rigorismo grammaticale. 3. IL LINGUAGGIO DELLA SCIENZA La prosa del ‘700 deve molto allo sviluppo del linguaggio scientifico, che in questo secolo raggiunse esiti elevati, prima di tutto per merito di Galileo. Egli aveva scritto in italiano fin da quando aveva 22 anni, allorché aveva composto il breve saggio La bilancetta. Egli aveva la volontà di staccarsi polemicamente dalla casta dottorale. Infatti, nella prefazione a Le operazioni del compasso geometrico e militare, aveva affermato di aver usato il volgare per raggiungere coloro che avessero più interesse per la milizia che per la lingua latina. Un intento divulgativo è quindi riconoscibile, così come la fierezza per la propria lingua, quella toscana. Il latino assunse la funzione di termine di confronto negativo, a cui rivolgersi in una sorta di controcanto polemico: ciò è particolarmente evidente nel Saggiatore (1623), dove sono riportate le tesi dell’avversario scritte in latino e confutate in italiano. Galileo, pure scegliendo il volgare, non si collocò mai al livello basso o popolare. Seppe raggiungere un tono elegante e medio, perfettamente accoppiato alla chiarezza terminologica e sintattica. Non rinunciò peraltro a mostrare in alcuni suoi scritti alcune macchie di lingua toscana, così come sarcasmo, boutade scherzose e paradossi. Galileo raggiunse un grande rigore logico-dimostrativo e una eccezionale chiarezza linguistico- terminologica. Vi sono termini per i quali Galileo ha provveduto a fissare il significato in maniera univoca. Così il candore della luna: “questo tenue lume secondario, che nella parte del disco lunare non tocco dal Sole si scorge”. Galileo, dunque, quando nomina e definisce un concetto o una cosa nuova, preferisce attenersi ai precedenti comuni ed evita di introdurre terminologia inusitata o troppo colta. Migliorini ha osservato come Galileo, più che alla coniazione di vocaboli nuovi, si affidasse alla tecnificazione di termini già in uso. Si pensi allo strumento che egli nominò inizialmente come cannone o occhiale e che poi prese il nome di cannocchiale. Osserva ancora Migliorini che ogni qual volta troviamo un’invenzione galileiana designata con un nome dotto, possiamo asserire con quasi assoluta certezza che il nome fu foggiato da altri. I grecismi si affermarono nel linguaggio della scienza fin dal XVII secolo: il barometro si chiamava inizialmente Tubo di Torricelli. 4. IL MELODRAMMA 26 L’Italia assunse per lungo tempo una posizione egemonica per ciò che riguarda la produzione di opere liriche. Il melodramma permette di affrontare la questione del rapporto fra parola e musica. Il melodramma del primo ‘600 fu un tentativo di ricreare la tragedia antica. Il rapporto tra musica e poesia era considerato stretto: tuttavia una semplice utilizzazione della poesia da parte dei musicisti ci permetterebbe solamente di affermare che il canto fu un ulteriore canale di diffusione dei modelli della prosa letteraria italiana. Il rapporto fra la parola e la melodia fu affrontato in maniera più profonda e sistematica nel Dialogo della musica antica del 1581, in lingua italiana, da Vincenzo Galilei. Il teatro del ‘500 era stato recitato, non cantato, e la musica era rimasta confinata negli intermezzi. Peri e Caccini, nella partitura nell’Euridice, diedero una svolta al canto, un canto che permetteva finalmente di comprendere il testo senza deformazioni. Il melodramma si caratterizza come uno spettacolo di èlite, e questo ci aiuta a delimitare la sua influenza linguistica nella giusta dimensione, quella della corte. La produzione di libretti, a partire dal ‘600, ebbe dimensioni quantitative strepitose. Il linguaggio poetico del melodramma si inserisce nella linea della lirica petrarchesca, rivisitata attraverso la memoria di Tasso, in particolare dell’Aminta. Le concatenazioni di “e”, i giochi di opposizione (del tipo: “dove ghiaccio divenne il mio bel foco”), già tipici della lirica tassiana, si diffusero ulteriormente attraverso il melodramma, in cui si accentuò la propensione per la poesia cantabile, per i versi brevi, per le ariette. 5. IL LINGUAGGIO POETICO BAROCCO Con Marino e il marinismo, a partire dall’inizio del ‘600, le innovazioni si fanno ancora più accentuate. Il catalogo degli oggetti poetici si allarga notevolmente. Gli schemi metrici e le cadenze ritmiche sono ancora quelle petrarchesche. La poesia barocca estende il repertorio dei temi e delle situazioni che possono essere assunte come oggetto di poesia, e il rinnovamento tematico comporta un rinnovamento lessicale. Si considerino i riferimenti botanici. Proprio Marino, accanto alla rosa, pone una serie di piante diverse, sovente corredate dal loro epiteto (il vago acanto, la bella clizia, il papavero vermiglio, etc.). La poesia barocca utilizza un’ampia gamma di animali, canonici e non (il fiero leone, la giovenca, la civetta, il parpaglione, etc.). Nel Lubrano ci sono il baco da seta e la lucciola. La prosa scientifica aveva descritto con interesse il regno animale anche in alcune delle sue forme repellenti, come le vipere e i vermi. I poeti barocchi non furono da meno e arrivarono a utilizzare gli stessi strumenti della scienza, sfruttando le più aggiornate ricerche zoologiche per attingere nuovo lessico. Marino, nell’Adone, usa il lessico dell’anatomia, ricavato dai trattati anatomici del tempo, in modo da celebrare i “sensi” e la “macchina” umana. Altre ottave dell’Adone utilizzano la descrizione della luna fatta da Galileo, fino a concludere coll’elogio del “picciol cannone” con i suoi “due cristalli” (il cannocchiale galieleiano, appunto). Un consistente filone della poesia barocca che fa capo a Marino utilizza dunque il lessico scientifico. Sempre Marino, nell’Adone, parla anche dell’anatomia dell’occhio umano, usa parole come nervi, orbicolare, pupilla e cristallo, anche se questo lessico, nuovo nella poesia, viene poi utilizzato nel contesto del tradizionale linguaggio poetico nobile. Il suo è un poema, ma anomalo poiché comprende una certa varietà di generi. La presenza del lessico scientifico nella poesia di Marino conferma dunque la tendenza al rinnovamento. Nell’Adone entra l’attualità: il cannocchiale, le lodi a Galileo. Vengono usati cultismi, grecismi, latinismi, non di rado di provenienza scientifica. 6. LE POLEMICHE CONTRO L’ITALIANO 27 per composizione. Un’altra possibile fonte di parole possono essere i dialetti italiani. Cesarotti ammette anche che possano essere adottate parole straniere, ma questa scelta è presentata come una sorta di male necessario. Secondo Cesarotti i forestierismi e i neologismi, una volta entrati nell’italiano, possono legittimamente produrre nuovi traslati e derivazioni. Il “genio della lingua”, inteso come carattere originario tipico di un idiome e di un popolo (spiegato come effetto di condizionamenti esterni quali il clima, il governo, le condizioni economiche, etc.), era utilizzato dagli avversari dei forestierismi per dimostrare l’estraneità e l’improponibilità del termine esotico, il quale, di per sé, in quanto straniero, doveva appunto ripugnare al “genio nazionale”. La struttura grammaticale delle lingue (il loro “genio grammaticale”), infatti, è inalterabile: si veda ad esempio la differenza tra una lingua che distingue i casi mediante le desinenze, come il latino, e una che ne è priva. Il lessico invece dipende dal genio retorico, che riguarda l’espressività della lingua stessa. In questo settore, tutto è alterabile. La novità del progetto finale del libro, con la proposta di una magistratura della lingua, attraverso una riforma che con equilibrio e moderazione esprimesse quel “consenso pubblico” che sta alla base del pensiero di Cesarotti. Poiché la lingua è della nazione, egli proponeva di istituire un Consiglio nazionale della lingua, al posto della Crusca. La sede di questa nuova prestigiosa istituzione linguistica avrebbe dovuto essere ancora Firenze. La nuova istituzione avrebbe rinnovato i criteri lessicografici, dedicando attenzione al lessico tecnico delle arti, dei mestieri e delle scienze. Il riscontro del lessico mancante nel vocabolario sarebbe stato fatto non solo per via libresca, ma mediante il ricorso a chi esercitava professioni specifiche. Una schedatura del genere permetteva di arrivare fino alle parole di uso regionale; a questo punto si sarebbe proceduto a una scelta, e questa scelta era compito del Consiglio italico. Compito finale e supremo del Consiglio era la compilazione di un vocabolario. Il vocabolario avrebbe dovuto essere realizzato in due forme. Ci sarebbe stata una edizione ampia e una ridotta, di uso comune, divulgativa, pratica. Il Consiglio, inoltre, avrebbe dovuto avviare una serie di traduzioni di autori stranieri. Il Saggio di Cesarotti si chiude dunque con un appello all’attività intellettuale, chiamando Firenze a farsi rinnovata guida culturale d’Italia, con il consenso delle altre regioni. L’appello, però, cadde inascoltato. 3. LE RIFORME SCOLASTICHE E GLI IDEALI DI DIVULGAZIONE Gli illuministi cominciarono a pensare che anche la conoscenza della lingua italiana dovesse entrare nel bagaglio di cui ogni uomo doveva essere provvisto per assumere un ruolo nella società produttiva. E’ questo il secolo in cui l’italiano entra per davvero nella scuola, in forma ufficiale. Anche prima potevano esistere scuole in cui si insegnava a leggere e scrivere in volgare, ad esempio presso le parrocchie o presso alcuni ordini religiosi. Nel ‘700, però, sono le organizzazioni statali a darsi da fare, sotto lo stimolo di intellettuali particolarmente sensibili e intelligenti. Infatti il dibattito sulla necessità di fare giungere ovunque i lumi della cultura diventa assai comune in questo secolo. Moderne sono anche le ribellioni antipedantesche e antiaccademiche a cui si assiste nel corso del secolo. La situazione delle riforme scolastiche italiane è dunque in realtà diseguale, diversa da stato a stato. Esemplare è quanto accade in Piemonte, dove nel 1729 Vittorio Amedeo II di Savoia emanò provvedimenti per la riforma dell’Università. Un intellettuale di grido come Scipione Maffei, appositamente interpellato, aveva suggerito l’introduzione di un insegnamento di “lettere toscane”. Il suggerimento di Maffei non fu allora messo in atto. Sempre in Piemonte, nel 1733-34, divenne obbligatorio per la prima volta, nella scuola superiore d’èlite, lo studio dell’italiano, posto tuttavia in una posizione estremamente marginale: la lezione era stabilita solo una volta alla settimana, per 30 di più il sabato. Nel 1734 venne definitivamente istituita a Torino una cattedra universitaria di “eloquenza italiana e greco”. A Modena nel 1772, si prescriveva per i primi anni di corso l’uso di libri esclusivamente italiani e non latini. A Parma la costituzione degli studi emanata nel 1768 prevedeva per le classi infime l’insegnamento del solo italiano. A Napoli fu elaborato un progetto avanzato, il piano di Genovesi del 1767, che già nel 1754 aveva deciso di tenere le sue lezioni accademiche in volgare. Alcune voci si levarono nel ‘700 contro l’abuso del latino nell’educazione dei fanciulli. Si insisteva sul fatto che ai giovani delle classi medie e popolari serviva una cultura maggiormente legata alle esigenze dei commerci e delle attività pratiche. Tra il 1786 e il 1788 il padre Soave, un somasco nato a Lugano, pubblicò una serie di manuali per l’insegnamento dell’italiano che ebbero grande fortuna. Dalla riforma austriaca nacque anche l’idea di una scuola comunale con il compito preciso di insegnare a leggere e scrivere. Questa scuola fu istituita a partire dall’800, negli stati dell’Italia settentrionale. 4. LA LINGUA DI CONVERSAZIONE E LE SCRITTURE POPOLARI L’interesse manifestato dai riformatori del ‘700 per l’insegnamento scolastico dell’italiano non produsse, ovviamente, risultati immediati al livello della popolazione di ceto più basso. L’uso della lingua italiana continuò, anche in questo secolo, a essere in sostanza un fatto di èlite. Lo spazio della comunicazione familiare era sostanzialmente occupato dai dialetti, e quando non bastavano i dialetti, si doveva ricorrere a una lingua che Giuseppe Baretti ha così descritto: “… toscaneggia il suo dialetto alla grossa, viene a formare una lingua arbitraria, tanto impura e difforme e bislacca sì nelle voci, sì nelle frasi, sì nella pronuncia…”. Osserva Foscolo che l’uso di una lingua non dialettale nella propria patria avrebbe rischiato di creare problemi di comprensione, o sarebbe stata considerata una “affettazione di letteratura”. Manzoni, da parte sua, descrive i caratteri del cosiddetto “parlar finito”, la lingua ritenuta elegante, che consisteva appunto nell’usare le parole che si supponevano italiane, e nell’aggiungere finali italiane alle parole dialettali terminanti per consonante. La lingua italiana, dunque, così come aveva affermato Baretti, si prestava poco alla conversazione “naturale”, perché era scritta ma poco parlata, e comunque parlata come qualcosa di artificiale. Questa situazione era tale da far nascere il vero e proprio topos secondo il quale la lingua italiana non poteva essere classificata appieno tra le lingue vive o addirittura era da classificare fra le morte. Non mancano interessanti eccezioni alla marginalità culturale del dialetto: nei tribunali veneti, ad esempio, le arringhe si fanno in veneto illustre. Ecco un’arringa dell’avvocato veneto Casalboni: “Gran apparato de dottrine…el mio reverito avversario…risponderò col mio veneto stil, il nativo idioma…”. Si noterà il passaggio continuo dal codice dialettale alla lingua, fino alla compenetrazione, con articoli e preposizioni venete (el, de), sonorizzazioni settentrionali (segondo per secondo). 5. IL LINGUAGGIO TEATRALE E IL MELODRAMMA Il successo dell’opera italiana nel ‘700 è molto grande, anche all’estero, e questo successo contribuì in maniera determinante a fissare lo stereotipo dell’italiano come lingua della dolcezza, della contabilità, della poesia, dell’istinto, della piacevolezza, in contrapposizione al francese, la lingua della razionalità e della chiarezza. Laddove era necessario usare tecnicismi di qualunque tipo, però, l’italiano entrava in crisi. Quanto ai paesi di lingua tedesca, l’italiano, già ampiamente diffuso a Vienna, a Dresda e a Salisburgo, ebbe un nuovo successo col trionfo dell’opera italiana di Metastasio, a Vienna. Il linguaggio dell’opera influenzò l’italiano imparato da alcuni stranieri, come Voltaire, che scrive lettere con un lessico melodrammatico e aulico. Anche Mozart conosceva l’italiano, e lo adoperava 31 in forme curiose e vivaci. Benché si ritrovino nell’opera di Goldoni alcuni accenni al problema della lingua, non si può certo dire che egli ne fosse assillato. Goldoni scrisse opere in dialetto veneziano, in italiano, e infine scrisse anche in francese. Il suo francese è stato giudicato una lingua formalmente imperfetta, ma assai vivace ed adatta alla scena. Goldoni, nella presentazione della raccolta delle sue opere, toccò comunque la questione: “Quanto alla lingua ho creduto di non dover farmi scrupolo d’usar molte frasi, e voci lombarde, giacchè ad intelligenza anche della plebe più bassa, che vi concorre (al teatro)…”. L’uso del dialetto, che in scena non costituisce un problema, richiede qualche temperamento in occasione della trasposizione scritta. Sparisce il tradizionale bolognese del “dottore avvocato”; il dialetto veneziano resta, ma corredato di una serie di chiose per fare intendere anche ai non veneti; vengono così spiegati in nota gli elementi di un ipotetico italiano settentrionale, in cui le careghe stanno al posto delle sedie. Alcune caratteristiche dell’italiano di Goldoni sono quelle di essere un “fantasma scenico” (Folena) che ha spesso la vivacità del parlato, ma si alimenta piuttosto dall’uso scritto non letterario, accogliendo in copia larghissima venetismi, regionalismi lombardi e francesismi. Dialetto e lingua, comunque, non vanno visti necessariamente in opposizione. In certi casi si alternano e si confondono in una stessa battuta. L’italiano teatrale di Goldoni è vero, estraneo a preoccupazioni di purezza: lingua non elegante, dunque, ma viva, lingua innovativa che va contro le tendenze tradizionali della prosa accademica italiana. In Goldoni domina una sintassi di tipo paratattico, giustappositivo, asindetico, in cui affiorano caratteri propri del parlato e del registro informale, rimasti sempre ai margini della norma grammaticale, come le ridondanze pronominali (“Corallina mia, a me mi volete bene?”) o come la cosiddetta dislocazione a sinistra con anticipazione del pronome (“La ricchezza la stimo e non la stimo”). 6. IL LINGUAGGIO POETICO Risale al 1690 la fondazione, a Roma, dell’Arcadia, una palestra poetica di dimensioni gigantesche. Essa ebbe come strumento una lingua sostanzialmente tradizionale, ispirata al modello di Petrarca, e intesa a liberarsi degli eccessi della poesia barocca, allontanandosi dal gusto per l’anormale e per lo straordinario che aveva caratterizzato il secentismo. Vi è nel linguaggio della poesia del ‘700 una sostanziale adesione al pssato, un impiego della toponomastica e onomastica classica, della mitologia, con relativo largo uso di latinismi ed arcaismi. Sono gli effetti di una tendenza alla nobilitazione come la proclisi dell’imperativo, nelle forme t’arresta, t’accheta, etc, dell’enclisi sgridonne, negommi, etc. Stessa funzione hanno gli iperbati come “la rauca di Triton buccina tace”. Metastasio fa uso di troncamenti (arrossir, parlar…). I troncamenti, come gli abbondanti arcaismi e latinismi, hanno lo scopo di distinguere la poesia della prosa, di salvare cioè i versi dal rischio di scivolamento nel prosastico. Tra due termini, si tende dunque a scegliere quello più raro e letterario, ancorché banale: duolo piuttosto che dolore, per esempio. La poesia del ‘700 affronta temi nuovi temi: basti pensare alla poesia didascalica (Mascheroni) e a quella morale (Parini). Ciò significa che non si rifugge dall’attualità, dai temi moderni, e purtuttavia lo si fa ricorrendo a una sotanziale nobilitazione verbale degli oggetti comuni. 7. LA PROSA LETTERARIA Includeremo nella categoria della prosa letteraria la prosa saggistica del ‘700. Molti scriventi invocano il confronto salutare con la tradizione francese e inglese. Alessandro Verri dichiara la 32 3. UNA STAGIONE D’ORO DELLA LESSICOGRAFIA L’800 è stato il secolo dei dizionari: una stagione splendida per ricchezza di produzione e per qualità. La “Crusca veronese”, fondata nel 1806-11 da padre Antonio Cesari di Verona, aveva riproposto il Vocabolario della Crusca con una serie di giunte, allo scopo di esplorare ancor più a fondo il repertorio della lingua antica, la lingua trecentesca, ripescata non solamente negli scritti dei grandi autori, ma anche nei minori e minimi, poco colti e semipopolari. Tra il 1833 e il 1842 fu pubblicato il Vocabolario della lingua italiana di Giuseppe Manuzzi, anch’esso nato da una revisione della Crusca. Manuzzi fu un purista come Cesari. Le opere citate possono dare l’impressione di una certa monotonia, di una mancanza di originalità, per il tentativo di sommare l’esistente mediante l’accumulo di giunte, aggiunte al vocabolario di base. La somma delle giunte avveniva in maniera piuttosto meccanica, e ciò indica la difficoltà nell’amalgamare l’insieme, l’impossibilità di tagliare di netto con il passato. Persino gli esperimenti lessicografici più notevoli e innovativi prendevano pur sempre le mosse della Crusca, anche se poi se ne distanziavano in maniera critica. Tra il 1829 e il 1840 la società tipografica napoletana Tramater diede alle stampe il Vocabolario universale italiano, la cui base era ancora la Crusca; l’opera aveva però un taglio tendenzialmente enciclopedico e dedicava particolare attenzione alle voce tecniche, di scienze, lettere, arti e mestieri. L’opera si segnala per il superamento delle definizioni tradizionali: i vocabolari del passato avevano fatto riferimento a cane come “animal noto” o il cavolo come “erba nota”; nel Tramater, invece, la definizione zoologica e botanica poggia sulla precisa classificazione scientifica, per cui il cane è la “specie di mammifero domestico…che ha sei denti incisori…”. Nessun vocabolario dell’800 si avvicina nemmeno lontanamente alla qualità del Dizionario di Tommaseo (poi portato a termine da Bellini). Tommaseo si preoccupò di illustrare attraverso il proprio dizionario le idee morali, civili e letterarie. Tra queste, comunismo e positivismo, entrambe accompagnate da una definizione umorale e per nulla oggettiva. Uno dei punti di forza del nuovo vocabolario era, oltre alla mole e all’abbondanza dei termini, la strutturazione delle voci. Il criterio seguito non consisteva nel privilegiare il significato più antico o etimologico, ma nel dichiarare “l’ordine delle idee”, seguendo un criterio logico, a partire dal significato più comune ed universale, ordinando gerarchicamente gli eventuali significati diversi di una parola, individuati da numeri progressivi, e privilegiando sostanzialmente l’uso moderno. Della soggettività di Tommaseo, è rimasta celebre la faziosità contro Leopardi, dimostrata nel compilare la voce “procombere”: “l’adopra un verseggiatore moderno, che per la patria diceva di voler incontrare la morte…Non avendo egli dato saggio di sostenere virilmente i dolori, la bravata appare non essere che retorica pedanteria”. Si realizzò anche un vocabolario coerente con l’impostazione manzoniana, ispirata al fiorentinismo dell’uso vivo. Nella relazione Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla del 1868, Manzoni aveva guardato al Dictionnaire de l’Acadèmie française: erano stati aboliti gli esempi di autore. Al posto delle citazioni tratte dagli scrittori, il Giorgini-Broglio presentava una serie di frasi anonime, testimonianza dell’uso generale. Allo stesso tempo, venivano eliminate le voci arcaiche. Secondo Manzoni, si trattava di scindere le due funzioni che si erano confuse nei vocabolari italiani, i quali avevano voluto allo stesso tempo mostrare l’uso vivente, e documentare gli esempi degli scrittori del passato. Questa seconda finalità doveva essere invece rinviata a lessici appositi, di tipo esclusivamente storico, mentre la funzione primaria doveva essere quella di indicare l’uso vivo di Firenze. Il secondo obiettivo proposto da Manzoni nella Relazione del 1868 stava nella realizzazione di una serie di vocabolari dialettali i quali suggerissero l’esatto equivalente fiorentino. L’800 fu anche il secolo d’oro della lessicografia dialettale. L’interesse romantico per il popolo e la cultura popolare, a cui seguì la curiosità della linguistica per il dialetto, considerato non più italiano corrotto, ma una parlata con la sua dignità, i suoi documenti, la sua storia parallela a quella della 35 lingua italiana. Lo studio dei dialetti si accompagnò a una profonda curiosità per le tradizioni popolari e anche per le forme letterarie della cultura orale, canti e racconti. Mentre si realizzava l’unità d’Italia, lo studio dei dialetti serviva proprio per scoprire le tradizioni italiane. 4. GLI EFFETTI LINGUISTICI DELL’UNITA’ POLITICA In comune, tra i vari stati italiani, c’era soltanto un modello di italiano letterario, elaborato dalle élite. Mancava quasi completamente una lingua invece comune della conversazione. Il numero degli italofoni, era allora incredibilmente basso. De Mauro, al momento della fondazione del Regno d’Italia, sostiene che quasi l’80% degli abitanti era analfabeta ufficialmente. Non tutto il restante 20% però sapeva utilizzare l’italiano. Alfabeta dunque non significava avere un reale possesso della lingua scritta. De Mauro ha supposto che per raggiungere una padronanza accettabile della lingua occorresse almeno la frequenza della scuola superiore postelementare, la quale nel 1862-63 toccava solamente l’8,9 per mille della popolazione tra gli 11 e i 18 anni, ovvero 160000 individui. A questi, si aggiungano i 40000 toscani e 70000 romani che hanno un possesso naturale della lingua. Essi infatti, se hanno conseguito anche solo un’istruzione elementare, hanno un possesso accettabile della lingua. In totale sarebbero dunque 600000 gli italiani capaci a parlare italiano su una popolazione totale di 25 milioni, ovvero il 2,5%. Castellani ha invece posto il problema dell’esistenza di una fascia geografica mediana, corrispondente almeno a una parte della Marche, del Lazio e dell’Umbria, in cui la natura delle parlate locali è tale da far ritenere che un grado di istruzione anche elementare sia sufficiente per arrivare al possesso dell’italiano. Il nocciolo del problema sta nel tipo di rapporto che si ritiene intercorra tra la lingua toscana parlata, i dialetti dell’area mediana e l’italiano. Il nuovo calcolo del Castellani alza la percentuale di parlanti in italiano al 10% della popolazione totale. Con la formazione dell’Italia unita, per la prima volta la scuola elementare divenne ovunque gratuita ed obbligatoria grazie all’estensione della legge piemontese Casati del 1859 in tutto il territorio statale. La legge Coppino del 1877 rese effettivo l’obbligo della frequenza, almeno per il primo biennio, punendo gli inadempienti. Nel 1861, almeno la metà della popolazione infantile evadeva l’obbligo scolastico. Nel 1906, evadeva l’obbligo ancora il 47% dei ragazzi. Esistevano gravi condizioni di disagio: certi maestri infatti usavano il dialetto per tenere lezione, essendo incapaci di fare di meglio; inoltre nelle scuole superiori si confrontarono posizioni teoriche diverse, con la presenza di insegnanti puristi, manzoniani e classicisti. Giosuè Carducci diede il suo parere su programma e libri scolastici, progettando un percorso basato su di un sentimento classico della lingua letteraria. Le cause che hanno portato all’unificazione linguistica italiana dopo la formazione dello stato unitario, individuate da Tullio De Mauro, possono essere così riassunte: 1) azione unificante della burocrazia e dell’esercito. 2) azione della stampa periodica e quotidiana. 3) effetti di fenomeni demografici quali l’emigrazione, che porta fuori dall’Italia molti analfabeti. 4) l’aggregazione attorno ai poli urbani che significa abbandono dei dialetti rurali. 5. IL RUOLO DELLA TOSCANA E LE TEORIE DI ASCOLI Nel 1873 le idee e le proposte manzoniane furono contrastate da Graziadio Isaia Ascoli, il fondatore della linguistica e della dialettologia italiana. La polemica prendeva le mosse dal titolo del Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze di Giorgini-Broglio, titolo in cui era stato usato l’aggettivo novo alla maniere fiorentina 36 moderna, con il monottongamento in –ò- di –uo-, contro al tipo nuovo, ormai largamente accolto nella lingua letteraria comune. In sostanza Ascoli escludeva che si potesse disinvoltamente identificare l’italiano nel fiorentino vivente, e affermava che era inutile quanto dannoso aspirare a un’assoluta unità della lingua. L’unificazione linguistica italiana non poteva essere la conseguenza di un intervento pilotato, doveva essere una conquista reale, che sarebbe avvenuta solo quando lo scambio culturale nella società italiana si fosse fatto fitto. Ascoli, inoltre, contestava che si potesse applicare in Italia il modello centralistico francese, a cui si era ispirato Manzoni. L’Italia andava considerata insomma un paese policentrico, in cui Ascoli individuava la mancanza di quadri intermedi che si ponessero a mezza strada tra i pochissimi dotti e l’ignoranza delle masse, e la malattia era la retorica. Ascoli è severo con la Toscana. La giudica una terra fertile di analfabeti, con una cultura stagnate: perciò meglio guardare a Roma. Castellani invece ha difeso il ruolo e la funzione di questa regione, insistendo sull’importanza del manzonismo. 6. IL LINGUAGGIO GIORNALISTICO Nel XIX secolo il linguaggio giornalistico acquistò un’importanza superiore. Proliferavano infatti periodici che raggiungevano un pubblico nuovo. Ma inizialmente non era stato facile, e il giornale primo-ottocentesco infatti restava ancora un prodotto di èlite. Nella seconda metà del secolo, in ogni modo, il giornalismo diventò fenomeno di massa. Ancora in questo periodo, nel giornale di alternavano voci culte e libresche a voci popolari, anche se vengono in genere evitati i dialettismi più vistosi. Alcune voci regionali si diffondono attraverso questo canale, come camorra e picciotto. La sintassi giornalistica sviluppò la tendenza al periodare breve, e spesso alla frase nominale. Il giornale è oggi linguisticamente interessante perché composto da parti diverse: la lingua della cronaca infatti non è la stessa di quella politica o economica. Compare anche la pubblicità sotto forma di annunzi che spesso contenevano termini nuovi o parole regionali. Michele Ponza, insegnante e lessicografo piemontese, nel 1830 se la prendeva con un foglio periodico in cui trovava regionalismi come grotta per cantina e pristinaio per panettiere. Il direttore si difese dicendo: “Non so come siami lasciata cadere dalla penna questa marcia voce di pristinaio, voce lombarda”. 7. LA PROSA LETTERARIA Nell’800, si fonda la moderna letteratura narrativa. Manzoni ebbe il merito di rinnovare il linguaggio non solo del genere romanzo, ma anche della saggistica, avvicinando decisamente lo scritto al parlato. Una svolta nella prosa letteraria è comunque quella segnata da Manzoni nei Promessi Sposi, che uscì in prima edizione del 1825-27 già indirizzata verso la lingua media e comune. Seguì una lunga e meditata revisione, la cosiddetta risciacquatura dei panni in Arno, cioè la correzione della lingua del suo capolavoro, che egli voleva perfettamente adeguato al fiorentino delle persone colte. Possiamo così sintetizzare i criteri della prassi correttoria manzoniana: 1) espunzione abbastanza ampia della forme lombardo-milanesi, come l’eliminazione del termine marrone per sproposito: ho fatto un marrone diventa ho sbagliato. 2) Eliminazione di forme eleganti, pretenziose, scelte, preziosistiche, auliche, affettate, arcaicizzanti, o letterarie rare: lunghesso la parete per strisciando il muro e l’affisò per lo guardò, per esempio. 37 sublime. In Gozzano, il rovesciamento dei toni si ha mediante una dissacrante ironia. Quanto all’avanguardia, in Italia essa si identifica sostanzialmente col futurismo. Fra le innovazioni più vistose ed effimere ricordiamo l’uso di parole miste a immagini, l’uso di caratteri tipografici di dimensioni diverse per rendere l’intensità e il “volume fonico” delle parole, l’abolizione della punteggiatura e il largo uso di onomatopee. Le punte più innovative della prosa dannunziana si possono indicare nel Notturno e nel tardo Libro segreto. La prosa del Notturno si caratterizza per il periodare breve e brevissimo, per la sintassi nominale, per i frequenti “a capo”, per la presenza di elementi fonici e ritmici nella frase di andamento lirico. Ecco un esempio in cui D’Annunzio, cieco, si impersona in una rondine: “Entra nella Corte Contarina. Un grido, due gridi. / Viene dalla riva degli Schiavoni. / Passò sopra Chioggia. / Volò a San Francesco del deserto”. D’Annunzio, dunque, col suo gusto per lo sperimentalismo, è una sorta di Giano bifronte: si pone a chiusura di un ciclo storico e al tempo stesso inaugura nuove tendenze. Un interessante riflesso del parlato si ha nella prosa di Pirandello, nelle opere teatrali, dove si ha la presenza di una serie di interiezioni frequentissime come “ah sì!”, “eh via!”, e connettivi come “è vero”, “ si sa”. Va ricordato inoltre che Pirandello “è sempre stato programmaticamente diffidente verso il dialetto come strumento letterario”. L’altro grande scrittore del primo ‘900, Italo Svevo, è famoso per il rapporto non facile con la lingua italiana, determinato dalla sua provenienza da un’area periferica come quella di Trieste. A lui fu rivolta l’accusa di “scriver male”. La mancata adesione ai modelli del bello scrivere, in una tradizione iperletteraria e culta come quella italiana poteva essere persino una forza, una verginità; e forse effettivamente lo fu, nel senso che favorì una diversità e leggibilità del testo. Uno dei punti di riferimento per gli scrittori rimane sempre però il dialetto. Bisogna distinguere fra l’utilizzazione diretta e le varie miscele che sono possibili combinando dialetto e lingua. Nel ‘900, anche il toscano può essere considerato alla stregua di un dialetto: Federico Tozzi introduce senesismi dei suoi romanzi (parole come astiare per odiare). Negli scrittori invece mistilinguisti come Carlo Emilio Gadda, non c’è un solo dialetto, ma una varietà: lombardo, fiorentino, romanesco, molisano, etc. 2. L’ORATORIA E LA PROSA D’AZIONE L’oratoria del primo ‘900 richiama il tema dei discorsi rivolti alle masse da Mussolini. Gran parte del loro fascino stava nel rapporto diretto con la folla, secondo i dettami, appunto, dell’oratoria tradizionale. Se dovessimo indicare un modello che, meglio di quello mussoliniano, rappresenta le tendenze di un’oratoria letteraria e magniloquente, coltissima, efficace, ben radicata anche nel militarismo patriottico della Grande Guerra, dovremmo riferirci ancora una volta a D’Annunzio. Sicuramente il modello dannunziano influì sulla retorica del Fascismo. Nella lingua del fascismo e di Mussolini sono stati individuati i seguenti caratteri: abbondanza di metafore religiose (martire, asceta, etc.), militari (falangi, veliti), equestri (redini del proprio destino), oltre a tecnicismi di sapore romano, come Duce, littore, centurione e manipolo. Si aggiunga l’ossessione dei numeri: l’insistenza, ad esempio, sui milioni di italiani, sulle migliaia o decine di migliaia di caduti, di feriti, etc. Rispetto ai modelli di retorica alta prima esaminati, l’oratoria mussoliniana rivolta al popolo si distingue per un particolare tipo di dialogo con la folla, la quale risponde con l’ovazione collettiva. Ovviamente nel discorso mussoliniano ha largo posto lo slogan, l’esagerazione e il luogo comune: massa compatta, compiti poderosi, pagine di sangue e di gloria, fermissima incrollabile decisione, etc. 40 3. LA POLITICA LINGUISTICA DEL FASCISMO Il fascismo ebbe una chiara politica linguistica: la battaglia contro i forestierismi in nome dell’autarchia culturale, la repressione delle minoranze etniche e la polemica antidialettale erano i punti fermi. Nel 1930 si ordinò la sospensione nei film di scene in lingua straniera. Nel 1940 l’Accademia d’Italia fu incaricata di esercitare una sorveglianza sulle parole forestiere e di indicare alternative, anche perché una legge dello stesso 1940 vietò l’uso di parole straniere nell’intestazione delle ditte, nelle attività professionali e nelle varie forme pubblicitarie. Durante il fascismo venne fondata la rivista “Lingua Nostra”, in cui agli interventi scientifici si affiancarono discussioni normative. Bruno Migliorini, in particolare, elaborò una concezione moderatamente avversa ai forestierismi, definita “neopurismo”. A Migliorini si deve fra l’altro la brillante sostituzione della parola resgista al francese regisseur. Con l’avvento della Repubblica è stata abrogata la normativa linguistica esterofoba. Ora in campo linguistico esiste una certa vitalità, dopo che è stata approvata una legge molto radicale sulla protezione delle minoranze, nella quale si riconosce tuttavia che l’italiano è la lingua ufficiale della Repubblica (legge 15 dicembre 1999, n.482). Tornando alla battaglia fascista contro i forestierismi, va ricordato che furono pubblicati vari elenchi di parole proscritte, con indicazione dei relativi sostituti. Nella lingua comune, le parole suggerite dall’Accademia si affiancarono al forestierismo; ancora permane ai tempi nostri una concorrenza, diventata una pacifica convivenza, tra termini come “rimessa/garage” e “villetta/chalet”. Durante il Fascismo vi fu anche una campagna per abolire l’allocutivo “Lei” (febbraio 1938), e sostituirlo col “Tu”, considerato più romano, e con il “Voi” (di rispetto, rivolgendosi ai superiori). La campagna non ebbe molto successo. All’inizio del ‘900 la Crusca tentava ancora di concludere una nuova versione del suo vocabolario, la quinta, avviata nel 1863. La mole dell’opera era davvero notevole, ma la realizzazione si trascinò stancamente. Quando nel 1923 divenne ministro della Pubblica istruzione Giovanni Gentile, filosofo vicino al regime fascista, fu tolto alla Crusca il compito di preparare il vocabolario. Si interruppe così la quinta impressione, giunta in tanti anni alla lettera “o”. Il ventennio fascista si inaugurava, dal punto di vista lessicografico, con la soppressione dell’antico vocabolario dell’Accademia di Firenze; ma anche il nuovo e moderno vocabolario del fascismo, prodotto dall’Accademia d’Italia, non ebbe esito felice: la pubblicazione di Giulio Bertoni arrivò infatti solo al primo volume (1941, lettere da A a C). Il vocabolario dell’Accademia d’Italia procedette, rispetto al Tommaseo, all’eliminazione di molte voci antiche. Nelle linee programmatiche, gli autori accennavano alla necessità dell’accettazione di vocaboli nuovi per designare idee e cose nuove. Ci si mostrava coscienti che i vocaboli non si impongono per autorità né di Accademie, né di decreti. Di fatto i forestierismi erano registrati nel nuovo vocabolario, e anche nella forma di prestiti non adattati, come boxe, bulldog e camion, posti in parentesi quadra al fine di segnalare la loro estraneità alla sostanza della lingua. Un aspetto innovativo è il criterio di citazione degli esempi, un compromesso fra la forma tradizionale della Crusca e di Tommaseo (ampia citazione degli autori) e quella del Giorgini- Broglio (elimina il riferimento agli autori): sono infatti citati gli scrittori, ma solo come documentazione di un uso comune, senza riferimento preciso all’opera. Questo vocabolario non ebbe tuttavia influenza. Troppo ridotta risultò la parte realizzata rispetto al progetto, interrottosi con la caduta del Fascismo. Un certo rilievo ebbe invece la realizzazione di un piccolo vocabolario destinato a fornire la pronuncia esatta delle parole italiane, a uso primario degli annunciatori della radio. Nel 1939, infatti, Bertoni e Ugolini pubblicarono il Prontuario di pronunzia e di ortografia, nel quale si affrontava la questione della pronuncia romana, là dove essa divergeva dalla fiorentina, 41 rivendicando il ruolo di Roma nella questione della lingua. Veniva proposto, per conseguenza, nei casi di divergenza con Firenze, di accettare l’uso romano. 4. DAL “NEOITALIANO” DI PASOLINI ALLA LINGUA “STANDA” A Pasolini si deve un clamoroso intervento nella “questione della lingua”. Nato come conferenza, questo intervento fu infine pubblicato sulla rivista “Rinascita” del 16 dicembre 1964 con il titolo “Nuove questioni linguistiche”. Partendo da queste premesse marxiste e gramsciane, sosteneva che era nato un nuovo italiano, i cui centri irradiatori stavano al Nord del paese, dove avevano sede le grandi fabbriche, dove era diffusa e sviluppata la moderna cultura industriale. Egli annunciava che era nato “l’italiano come lingua nazionale”, nel senso che per la prima volta una borghesia egemone era in grado di imporre in maniera omogenea i suoi modelli alle classi subalterne. Tale nuovo italiano poteva contare su: 1) la semplificazione sintattica, con la caduta di forme idiomatiche e metaforiche. 2) La drastica diminuzione dei latinismi. 3) La prevalenze dell’influenza tecnica rispetto a quella della letteratura. Un coro di fischi accolse queste acute intuizioni di Pasolini. Diversi anni dopo Pasolini intervenne per rivendicare una funzione rivoluzionaria dei dialetti e per lamentare l’imbarbarimento del linguaggio dei giovani. Egli utilizzava come sistema di riferimento il rapporto con la “lingua media” (negativa). Sembrava privilegiare viceversa gli esperimenti di plurilinguismo, alla maniera di Gadda. Vittorio Coletti, parlando di narratori come Calvino, Tomasi di Lampedusa, Nathalie Ginzburg etc., osserva che la scelta da essi compiuta in favore della “lingua media e comune, dopo gli abbassamenti del neorealismo e le infrazioni espressionistiche o d’avanguardia, è innanzitutto una scelta di una lingua più ricca e più complessa di quella ammessa dal romanzo nell’immediato dopoguerra”. Si noti inoltre che gli scrittori della normalità stilistica, sono alla fin fine gli autori oggi più letti dal grande pubblico. Lo scrittore gode oggi di una libertà grandissima: può anche arrivare alle soglie di una lingua semidistrutta e massificata, che è stata ironicamente definita anziché standard, standa (Antonelli), in riferimento alla nota catena di supermercati. Nei poeti come Saba, Ungaretti e Montale, il ‘900 sperimenta una grande varietà di soluzioni stilistiche, dall’apertura al linguaggio comune e quotidiano, fino agli esiti arditi di Zanzotto. Montale, dopo aver sapientemente selezionato quanto gli offriva la tradizione primo-novecentesca, è arrivato, in Satura (1971) a una lingua spesso ironica, distaccata, prosastica, intrisa di citazioni di elementi quotidiani, tuttavia calcolata con straordinaria eleganza e letterarietà. 5. VERSO L’UNIFICAZIONE: “MASS-MEDIA”, DIALETTI, IMMIGRAZIONE Vi era stata indubbiamente nel corso del ‘900 una perdita nei dialetti e nell’espressività gergale. Era nata un’Italia ben diversa da quella povera, contadina e patriarcale della prima metà del secolo. C’era stato un cambiamento al livello della scolarizzazione, prima di tutto. L’analfabetismo, dal 75% del 1861 e dal 40% del 1911, era passato poi al 14% nel 1951, all’8,3% nel 1961 e al 5,2% nel 1971. I sondaggi ci dicono anche che è progressivamente diminuito lo spazio del dialetto. Si aggiunga che i dialetti hanno subito un processo di avvicinamento alla lingua comune e che quindi oggi sono più “italianizzati”. Negli anni ’60 e ’70, anche la fabbrica ha svolto una funzione di scuola, promuovendo ed integrando nella realtà cittadina e industriale, masse di origine contadina. La radio italiana nacque nel 1924. La televisione del gennaio del 1954. De Mauro ne ha messo in 42 Grande interesse tra gli studiosi hanno sempre suscitato le due colonie greche presenti nel territorio italiano. L’una è in Calabria, nelle località di Bova, Condofuri e Rogudi, sulle pendici dell’Aspromonte. L’altra è nel Salento. Le propaggini slave erano molto importanti prima dell’ultima guerra, ma si sono ridotte notevolmente quando l’Istria passò a quella che era allora la Jugoslavia. Rimangono in territorio italiano alcuni gruppi sloveni nelle province di Udine, Gorizia e Trieste. Ci sono inoltre alcune antiche colonie slave (serbo-croate) nel Molise. Vi sono in Italia numerose antiche colonie di albanesi. Sono distribuite tra la provincia di Campobasso e l’estremità settentrionale della provincia di Foggia. 3. AREE DIALETTALI E CLASSIFICAZIONE DEI DIALETTI Da gran tempo si è posto il problema (lo si trova per la prima volta del De vulgari eloquentia di Dante) della classificazione delle aree dialettali. In Italia vi sono tre aree diverse, la Settentrionale, la Centrale e la Meridionale, separate da due grandi linee, la La Spezia –Rimini e la Roma-Ancona. La linea La Spezia-Rimini fu la frontiera etnica fra i popoli gallici e l’elemento etrusco; in seguito fu la frontiera che divideva l’arcidiocesi di Ravenna dall’Arcidiocesi di Roma. Nelle parlate dialettali, a nord di questa linea, si ha: 1) l’indebolimento (sonorizzazione o caduta) delle occlusive sorde in posizione intravocalica (fradel invece che fratello, formiga o furmia invece di formica). 2) Lo scempiamente delle consonanti geminate (spala per spalla, gata per gatta, bela per bella). 3) La caduta delle vocali finali (an per anno, sal per sale) eccetto la a che resiste. 4) La contrazione delle sillabe atone (slar per sellaio, tlar per telaio). La linea Roma-Ancona invece dà altri risultati. Al di sotto infatti arrivano: 1) la sonorizzazione delle consonanti sorde in posizione postnasale (mondone per montone, angora per ancora). 2) La metafonesi delle vocali toniche e ed o per influsso di i e u finali (acitu per aceto, e il dittongo metfonetico dienti per denti). 3) L’uso di tenere al posto di avere. 4) L’uso del possessivo in posizione proclitica (figliomo per “figlio mio”). La classificazione delle aree dialettali non è in realtà una cosa semplice. Non sempre i confini sono chiari e univoci. Molto forte è la variabilità dei dialetti, che mutano da luogo a luogo, anche all’interno di una stessa regione o di una stessa città. 4. GLI ITALIANI REGIONALI Le varietà di italiano, dipendenti dalla distribuzione geografica, dall’influenza esercitata dai dialetti locali, prendono il nome tecnico di varietà diatopiche dell’italiano o di varietà regionali di italiano, o italiani regionali. La caratterizzazione più evidente e immediata dei vari italiani regionali si ha a livello di pronuncia. Quattro sono le principali varietà di pronuncia dell’italiano: la varietà meridionale, la varietà settentrionale, la varietà toscana e la varietà romana. Roma, accogliendo molti elementi estranei, ha nello stesso tempo influenzato le altre varietà attraverso la radio, il cinema, la televisione. Parole come abboccarsi, caciara, fasullo, frocio, inghippo e intrallazzo sono entrate nel vocabolario. L’italiano è una lingua che per tradizione è ricca di termini ufficiali, elevati, letterari, ma quando si passa a un contesto familiare e domestico le differenze regionali si fanno marcate. Si possono ricordare a questo proposito le denominazioni della tazza senza manico, che al Nord è scodella, in Toscana è ciotola, ma è anche tazza, soprattutto al Sud. 45 5. ITALIANO, FIORENTINO E TOSCANO Il toscano è la parlata regionale che più si avvicina alla lingua letteraria, poiché la lingua letteraria deriva appunto dal toscano trecentesco. Il toscano ha avuto una posizione privilegiata. Firenze è stata considerata la città in cui si poteva imparare a conversare nella lingua migliore. Fra le altre parlate toscane, ha goduto di un certo prestigio culturale quella senese. L’italiano ha in comune con il fiorentino classico: 1) l’anafonesi. 2) La dittongazione di e e o del latino. 3) Il passaggio di e atona protonica a i (nipote diventa nipote, dicembre dicembre, etc.). 4) Il passaggio di ar atono a er nel futuro della prima coniugazione (amarò-amerò), il passaggio di rj intervocalico a j (gennaio-gennaro). 5) L’italiano, inoltre, non conosce (come il fiorentino) la metafonesi, presente e diffusa nei dialetti settentrionali e meridionali. Vi sono elementi che distinguono il fiorentino dall’italiano. Il più vistoso è la cosiddetta gorgia, cioè la spirantizzazione delle occlusive sorde intervocaliche, per cui amico viene pronunciato amiho. Un’altra caratteristica che distingue oggi il fiorentino dall’italiano comune è la tendenza alla monottongazione di uò: buono e nuovo sono in Toscana bòno e nòvo. LETTURE CONSIGLIATE 1. LA RIFLESSIONE ANTICA SULLA FORMAZIONE DELL’ITALIANO Il più antico trattato in cui vennero affrontati temi storico-linguistici è il De vulgari eloquentia di Dante, che risale all’inizio del ‘300. In esso si trova una interessantissima rassegna delle varietà di volgare parlate nella penisola italiana e anche un esame della tradizione poetica nella nuova lingua. Si può affermare che una vera tradizione di studi sulla storia della lingua ebbe inizio con gli umanisti della prima metà del ‘400. Secondo Biondo Flavio, il latino di era corrotto per una causa esterna: la venuta dei popoli barbari. Secondo l’umanista fiorentino Leonardo Bruni, al tempo di Roma antica non si parlava un latino omogeneo, poi corrottosi con la barbarie, ma c’erano già due diversi livelli di lingua, uno “alto”, letterario, l’altro “basso”, popolare. Da quest’ultimo si sarebbe poi sviluppato l’italiano. Lodovico Castelvetro (1505-1571) spiegò come al tempo di Roma antica doveva essere esistito un latino popolare (la lingua vulgare latina), il quale nella grammatica non differiva dal latino vero e proprio; il lessico però era diverso da quello del latino nobile. Queste parole del latino popolare erano poi sopravvissute nell’italiano, in una sostanziale continuità. Il senese Celso Cittadini, autore del Trattato della vera origine e del processo e nome della nostra lingua (1601), tendeva a escludere che le invasioni barbariche avessero avuto importanza per lo sviluppo della lingua italiana. Nei documenti epigrafici Cittadini potè identificare e descrivere una serie di errori o devianze linguistiche rispetto alla norma del latino classico non soltanto in testi successivi alle invasioni barbariche, ma anche in lapidi arcaiche e di epoca imperiale. Ludovico Antonio Muratori, storico e ricercatore accanito di documenti archivistici, aveva il desiderio di trovare in Italia qualche cose di paragonabile al primo documento della lingua francese, il Giuramento di Strasburgo dell’842. Il Giuramento di Strasburgo, per la sua antichità, sembrava appartenere ad una fase in cui il latino non esisteva più come lingua viva, ma d’altra parte non esistevano ancora le lingue moderne. Fu considerato dunque come appartenente a una lingua intermedia. Muratori però non credette mai ad un ipotesi del genere. Era convinto che le lingue germaniche 46 avessero avuto un peso determinante nella trasformazione del latino, che la “lingua intermedia” non fosse mai esistita. Tra il latino classico e il moderno francese, dunque, alcuni studiosi collocarono l’ipotetica lingua intermedia o romana. All’inizio dell’800 uno studioso e lessicografo piemontese, Giuseppe Grassi, progettava un libro di storia della lingua italiana: nasceva l’idea che la storia linguistica fosse parte della storia della civiltà nazionale, oltre che base della storia letteraria. 2. DALLA LINGUISTICA PRESCIENTIFICA ALLA LINGUISTICA SCIENTIFICA Friedrich Schlegel pubblicò nel 1808 un saggio in tedesco intitolato Sulla lingua e la sapienza degli Indù, nel quale venivano mostrati i rapporti che intercorrono tra le lingue d’Europa e il sanscrito (la lingua sacra dell’India). Si dice di solito che con questo libro nacque il moderno comparativismo. Quanto alla separazione tra linguistica prescientifica e scientifica, sono stati gli Schlegel stessi a fissare tale distinzione, presentando un’immagine molto negativa degli studi precedenti. Secondo gli Schlegel le lingue possono essere di tre tipi: 1) senza struttura grammaticale (cinese, con parole immutabili, con radici sterili). 2) Ad affissi (indigeni d’America, permettono la combinazione di composti). 3) Flessive (sanscrito, latino, greco, idiomi europei, sistema grammaticale strutturato). Nelle lingue flessive, la desinenza, unendosi alla radice, permette di esprimere molte idee con poche parole, a differenza di quanto accade nelle lingue delle categorie 1) e 2). Stabilito il principio della superiorità delle lingue indoeuropee flessive, Schlegel introduceva un’altra distinzione tipologica, tra le lingue sintetiche e le lingue analitiche. Le caratteristiche delle lingue analitiche venivano individuate nella presenza dell’articolo, nei pronomi davanti ai verbi, nell’uso degli ausiliari nella coniugazione dei verbi, nelle preposizioni adoperate per supplire all’uso dei casi. Le lingue analitiche, secondo Schlegel, erano nate dalla decomposizione delle sintetiche. La formazione di una grammatica analitica al posto di quella sintetica era spiegabile con l’influenza esercitata dai barbari e dai provinciali, incapaci di usare in maniera corretta le desinenze e i casi del latino classico. Graziadio Isaia Ascoli (1829-1907) fu il primo a dare una descrizione accurata e completa della distribuzione dei dialetti italiani e delle loro caratteristiche, in uno studio, rimasto classico, intitolato L’Italia dialettale. Rielaborò inoltre la teoria del sostrato, in base alla quale veniva stabilita l’importanza dell’azione svolta dalle lingue vinte su quelle dei vincitori. Secondo Ascoli, un popolo conquistato perde, in certe condizioni, la propria lingua, ma assoggetta la lingua del vincitore alle abitudini del proprio organo vocale. Ascoli attribuiva all’influenza del sostrato celtico prelatino la presenza in alcuni dialetti italiani della vocale turbata U (la u alla francese). Nel proemio all’Archivio Glottologico, egli polemizzò anche contro la soluzione manzoniana alla questione della lingua. Dimostrò che l’unificazione italiana non era avvenuta secondo il modello centralista proprio del latino e del francese. 3. I MANUALI DI STORIA DELLA LINGUA ITALIANA Nel XIX secolo, in tutta Europa, seguendo il modello della Germania, furono istituite cattedre di glottologia e di linguistica comparata. Molto più recente è invece la definizione della “storia della lingua italiana” come disciplina universitaria autonoma (1938, Facoltà di Lettere di Firenze). La prima sintesi completa di storia della nostra lingua fu portata a termine da Giacomo Devoto, che nel 1940 pubblicò una Storia della lingua di Roma, e in seguito nel 1953 un sintetico Profilo di storia della lingua italiana. Migliorini invece volle che l’opera più importante della sua carriera di studioso (Storia della lingua 47
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