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Cinema, donne e memoria, Tesi di laurea di Storia Del Cinema

Tesi di laurea triennale in Storia del cinema,

Tipologia: Tesi di laurea

2021/2022

Caricato il 14/03/2024

lauril
lauril 🇮🇹

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Anteprima parziale del testo

Scarica Cinema, donne e memoria e più Tesi di laurea in PDF di Storia Del Cinema solo su Docsity! 1. Cinema e desiderio 1.1L’esperienza cinematografica: dall’andare al cinema all’atto di guardare: Nel corso della storia del cinema, l’esperienza cinematografica è molto mutata. I cambiamenti sociali, culturali ed economici hanno contribuito a diversificare l’andare al cinema. Inizialmente questo atto aveva una rilevanza maggiore rispetto all’atto di guardare in sé, perché univa donne e uomini in luoghi per la visione di pochi minuti di film; poi con la consapevolezza del mezzo cinematografico e la durata che aumenta, l’equilibrio muta. L’esperienza cinematografica femminile tra Otto e Novecento è influenzata dalle dinamiche della metropoli di quegli anni che cambiano le condizioni socio-economiche e culturali, e con esse le condizioni femminili. Si va ad instillare una nuova visibilità, la donna diviene visibile. Il soggetto metropolitano di questi anni è portato a un’iperstimolazione visiva; la tranche de vie diviene il soggetto della nuova forma dello spettacolo. Tale soggetto è per ora maschile, la donna è l’oggetto da sguardo, ancora radicata nel ruolo dell’Angelica, è ambita, elemento di divisione e lotta fra gli uomini per essere colta, radicata cioè ancora ad un ruolo passivo. Per Anne Friedberg il luogo che dà la possibilità alla donna di emergere come osservatrice è il magazzino; lo shopping è all’origine della flaneuse. Ciò è dimostrato anche dalla somiglianza tra la vetrina dei negozi e lo schermo del dispositivo. Bela Balàsz in “L’uomo visibile” del 1924 si sofferma proprio sulla nascita della nuova cultura visuale che muta la trasmissione di conoscenze fra uomini e donne. Nello schermo la spettatrice riusciva a vedere spazi e comportamenti e allo stesso tempo riusciva a riconoscere sé stessa. Il film è quindi come uno specchio, che però differisce dallo specchio primordiale, perché il corpo dello spettatore non vi viene mai proiettato. Il bambino vede nello specchio gli oggetti della sua casa e l’oggetto- madre, che lo tiene in braccio davanti allo specchio. Il bambino si vede come un altro e a fianco di un altro, l’io del bambino si forma cioè con l’identificazione del suo simile. Nel cinema l’oggetto rimane, ma è venuto meno il riflesso del proprio corpo e, questo perché lo spettatore cinematografico è già stato un bambino e ha già vissuto l’esperienza dello specchio; egli non può identificarsi con se stesso come oggetto, ma solo con oggetti che esistono senza di lui. In tal senso, il cinema non può essere considerato uno specchio, perché è l’altro ad essere sullo schermo. Nonostante ciò, l’identificazione nell’esperienza cinematografica rimane, lo spettatore continua a muoversi in un gioco identificatorio permanente, rivedendosi nel personaggio della finzione nei film narrativo- rappresentativo, e nell’attore in film più o meno non di finzione. L’identificazione rimane anche nelle sequenze inumane, dove appaiono oggetti inanimati, paesaggi, ecc.e questo perché l’identificazione con la forma umana non ci dice niente sul posto dell’Io dello spettatore, e con tali sequenze riusciamo a individuare tale luogo. Jean-Louis Baudry osserva che durante le proiezioni siamo, come il bambino, in stato di sotto-motricità e sovra- percezione perché come lui, siamo soggetti all’immaginario del doppio, e lo siamo, attraverso una percezione reale. Identificandosi con se stesso come sguardo, lo spettatore si identifica anche con la macchina presa, che ha guardato prima di lui ciò che egli guarda adesso, e la cui posizione (inquadratura) determina il punto di fuga. 1 Mary Ann in “Identità e misconoscimento” delinea tre tipologie di identificazione cinematografica: l’identificazione con la rappresentazione di una persona, con il corpo del personaggio e della star; l’identificazione di particolari oggetti, persone o azioni; l’identificazione dello spettatore con il proprio atto di guardare (identificazione primaria per Metz). Nel cinema primitivo, in assenza di star e narrazione, assume valore la seconda, si riconosce risalendo a un qualcosa già noto. Nello schermo primitivo lo spettatore non vede l’altro ma se stesso. È con il divismo degli Stati Uniti nel 1910, e in Italia poco dopo che il rapporto cambia. La relazione tra spettatrice e schermo è fondata sull’autoriflessività2. Con lo sviluppo del lungometraggio e poi del cinema classico il concetto di riconoscimento è sostituito con quello dell’identificazione. Ciò va a mutare 1 C.Metz, Cinema e psicanalisi, Il significante immaginario, trad. Daniela Orati, Identificazione, specchio, PGreco,, 2022, p. 53 2 V. Pravadelli, Le donne del cinema, Editori Laterza, 2014 appartiene al genere noir, Il bacio della pantera, Cat people, titolo originale, del 1982, dove la protagonista, Irena Gallier, che sembra ricordare il Nosferatu di Murnau del 1922, quando è celata nelle scenografiche ed espressionistiche abitazioni, si rifiuta di baciare il marito per paura di una maledizione che la vedrebbe trasformarsi in pantera. Sia Vienna che Irena da oggetto del desiderio, femme fatale, sono divenute soggetti attivi che muovono la storia e che la fanno propria. 1.3 Desiderio femminile e desiderio maschile: È possibile per una spettatrice identificarsi con un protagonista maschile, con l’eroe, grazie a una regressione alla fase preedipica. Secondo Mulvey, il cinema consente alla donna adulta, che ha dovuto abbandonare l’attività fallica preedipica in favore della passività edipica, di regredire a quel momento. Il cinema strutturato attorno al piacere maschile consente alla donna spettatrice di riscoprire l’aspetto perduto della sua identità sessuale. L’identificazione della donna ad un soggetto maschile può essere valida solo per donne che non hanno accettato la propria subalternità e la propria posizione passiva all’interno de circuito sociale e cinematografico. Il woman’s film degli anni ’30 e ’40 ha come contenuto latente il desiderio della donna. In Blonde Venus (Venere bionda, 1932) di Josef von Sternberg è messo in scena proprio questo desiderio fantasmatico femminile; la protagonista si muove vertiginosamente e metaforicamente tra opposte identità, che la porta ad essere moglie e madre, poi amante e performer e infine diva-madre. Marlene è prima sessualmente virtuosa, poi trasgressiva, prima si dedica alla casa e poi riprende a lavorare come cantante. Blonde venus con la sua struttura ellittica e ripetitiva che rompe i principi classici della linearità, è pieno di contraddizioni: quando Marlene nell’ultima scena, in abito da sera, si reca in visita al figlio, il contrasto tra l’eleganza glamour della diva e la modestia dell’appartamento si palesano. E sono proprie queste contraddizioni e questa varietà di costumi indossati da Marlene che la spettatrice riesce a identificarsi in più di un’immagine, diversificando la propria percezione di se. In Perdutamente tua, film del 1942, di Irving Rapper, la spettatrice si ritrova nella medesima e al tempo stesso opposta situazione. La protagonista, Charlotte Vale, una giovane quasi prigioniera della vecchia madre, vuole emanciparsi, distaccandosi da una parte dalla figura materna e dall’altro cercando di indagare la propria sessualità. Nel finale, Charlotte rifiuta l’amore maschile a favore dell’amore madre-figlia, sostituendo la buona madre alla cattiva madre. Elena Ferrante prima, 1992, con il suo romanzo e Mario Martone dopo, nel 1995, con il suo film fanno lo stesso. In Amore Molesto c’è proprio questo distacco materno, inevitabile. Tutti i racconti della Ferrante partono da questo nodo, cercando la madre o misurandosi con l’essere madre a loro volta, Delia e le altre personagge ritrovano se stesse e capiscono chi sono o chi possono essere proprio dalla radice materna. E quindi come lo spettatore primitivo riconoscono se stesse attraverso l’osservazione dell’altro. La Ferrante costruisce il racconto tenendoci dentro al corpo della protagonista. Come quando al funerale della madre è colta dal primo ciclo mestruale: “Avvertii un flusso tiepido e mi sentii bagnata fra le gambe [..] Il liquido caldo che usciva da me senza che lo volessi mi diede l’impressione di un segnale convenuto tra estranei dentro il mio corpo”5; o come quando indossato l’abito donatole dalla madre, con il suo corpo esile si cela nel fluire della città. Quel corpo in rosso sembra fuggire dalla pagina del romanzo all’inquadratura del film per poi arrivare agli occhi degli spettatori. Nel 2021 Celine Sciamma con Petit maman si muove allo stesso modo. Marion dopo aver perso la madre e aver capito che il suo ruolo da figlia si è concluso, ha paura di essere solo madre e per questo va via. Nelly dall’altra parte è una bambina molto intelligente e che spesso si ritrova ad accudire i suoi genitori-bambini. Solo quando Marion bambina e Nelly si incontreranno gli equilibri muteranno, insieme giocheranno e cureranno la Marion madre che tornerà a ricoprire successivamente il suo ruolo. A distanza di molti anni è ancora il rapporto materno lo snodo di molti racconti di autrici e registe. 1.4 Cinema come invenzione femminile: Si attribuisce il ruolo di pionieri della forma filmica ai fratelli Lumière nel 1895, per l’invenzione del cinema documentario e a Méliès verso la metà del 1896, per il cinema di finzione. Secondo i recenti studi però, Alice Guy fece il suo primo film, La fèe aux choux, prima di Méliès. Questo non basta per attribuirle il primato dei film di finzione perché in realtà, L’arroseur arrosé, film dei Lumière, proiettato il 28 dicembre 5 E. Ferrante, Amore Molesto, Edizioni e/o, 1992 1895, è da considerarsi un film di finzione. Nonostante ciò, l’esperienza di Alice Guy è fortemente rilevante sia nel circuito filmico che quello gender. L’idea di Guy è significativa, dichiara di poter scrivere dei racconti di finzione per sfruttare al meglio le potenzialità del cinema. La fée aux choux, di datazione incerta, girato dalla stessa regista nel 1901, prevede un’inquadratura in cui una donna vestita da fata scopre dei bambini nascosti dietro dei cavoli. Dal centro dell’inquadratura la donna arriva alla prima fila di cavoli, dove trova due bambini, poi ne vede un terzo, nella parte sinistra dell’inquadratura; ma questo è impersonificato da una bambola, a indicare che non è ancora maturo per essere colto. Alice Guy parte dal racconto di una fata che raccoglie cavoli-bambini, non distaccandosi quindi dall’immaginario sociale di quegli anni, che vedeva la donna come custode della casa e dei bambini. Il passo in avanti è però compiuto con il film Madame a des envies (1906), dove la protagonista è una donna in avanzato stato di gravidanza, ripresa mentre cammina, seguita a distanza dal marginale marito che spinge una carrozzina. Quello che presenta Alice Guy è la messa in scena del desiderio femminile, in quanto la donna è soggetta a voglia incontrollata del succhiare oggetti che non le appartengono e che ruba dalle mani prima di una bambina e poi di due uomini. Il gesto sensuale della donna è ripreso con mezza figura larga, un primo piano classico. Così facendo l’inquadratura non fa distogliere l’attenzione della spettatrice dall’immagine della donna che succhia. Prima un lecca-lecca, poi un sigaro e una pipa, questi ultimi oggetti di connotazione maschile che delineano il piacere della donna in forma maschile. 1.5 Il corpo donna e il corpo macchina: Tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi dei Settanta, contemporaneamente alle istanze della seconda ondata del femminismo, molte artiste dell’arte elettronica svolsero la loro attività con stili e linguaggi differenziati, ponendo al centro dell’indagine creativa se stesse e il proprio corpo, inteso come “luogo originario di formazione dell’identità sessuale, perno della costruzione culturale dei generi”6. Dalla tela si arriva al corpo, 6 C.Sorba, Madri, consumatrici, attrici: immagini del corpo femminile tra ‘800 e ‘900 nelle letture della storiografia attuale, in Saveria Chemotti (a cura di), Corpi d’identità. Codici e immagini del corpo femminile nella cultura e nella società, Il Poligrafo, Padova 2005, p.23 2.1 Ricostruire attraverso il corpo: Come il corpo ripreso dalla Caruncho, Jessica, la protagonista di Memoria, film del 2021 di Apichatpong Weerasethakul, si fa portatrice di esperienze e ricordi, divenendo punto di congiunzione tra presente, passato e futuro. I ricordi divengono piccole parti di un più grande quadro esistenziale, fermi immagine estrapolati dal flusso della vita, dove Jessica è al tempo stesso presenza e assenza. Ricordare, fissare nella mente, è un atto violento verso qualcosa destinato alla transitorietà, e quindi l’arte e il cinema sono atti violenti. Come il disegno di una pipa non equivale alla pipa, così la ripresa della realtà non equivale alla realtà. Il film ci racconta come non possa esistere una completezza nella visione e nella comprensione del mondo senza qualcuno a fornirci le chiavi, e in questo caso è il suono, e con esso Jessica, a fornircele. Apichatpong indugia sugli spazi in dilatatissimi longtake ed estenuanti riprese a camera fissa, dove sono i personaggi a muoversi non la mdp. Ognuno di noi è portatore di un frammento che nulla significa nel suo isolamento, ma assume valore solo quando si incontra con un altro. E come il bambino dello studio di Lacan che si percepisce più vasto e allo stesso tempo frammentario, così il cinema assume valenza nella sua compresenza di immagini frammentarie unite fra loro tramite il decoupage. Lo spettatore del regista thailandese ha molto in comune con lo spettatore dell’arte contemporanea, dove la tela diviene un portale in cui entrare, generando così un dialogo attivo fra artista- arte e spettatore. È chi guarda che fa la scena, che filma, che mette a fuoco e unisce come un puzzle i pezzi della storia. E ciò che guarda non ha mai un’unica lettura e non somiglia mai a quella del regista, perché ogni immagine è influenzata dalla soggettività di ognuno. Valerio Mieli in Ricordi? parla proprio di ciò, e della capacità del soggetto di cambiare la storia nella propria camera di ricordi. Mieli si mostra coraggioso, scansa l’impersonale narrazione dei fatti per addentrarsi in un sentiero scomposto di ricordi veri e fasulli. “Perché il ricordo mente. Il ricordo abbellisce le cose.”11 Il cinema alle volte è come un ricordo, uno spettacolo ben costruito che dalla mente del regista arriva prima al corpo dell’attore e alla sua interiorità e poi a quello dello spettatore. Quando Agnes Varda in Jane B. del 1988 crea un documentario biopic e parla con l’attrice, si sofferma sull’obiettivo della 11 Lei parlando con Lui nel film Ricordi?, V. Mieli, 2018 telecamera. Jane sembra aver paura di quest’obiettivo, ha difficoltà a guardarlo perché le pare di guardare qualcuno negli occhi; Agnes dall’altra parte vede l’obiettivo come uno specchio, uno specchio però dove non guardi gli altri, ma solo te stesso. In una ripresa in movimento l’elemento dello specchio funge da strumento cinematografico tramite il quale Agnes Varda spiega come nella rappresentazione del ritratto dell’attrice “impressionerà” sia il corpo di Jane, sia il corpo della macchina da presa e sia il corpo della regista. È un dialogo continuo quello fra le tre, dove Jane si rivolge alla macchina come un corpo di una persona a cui fa cenno di entrare nella casa e nella sua storia. Ciò che viene mostrato si incontra con quello che non è raccontato, perché “quando mostri tutto, riveli davvero poco”12. La/Il regista è colei/colui che sceglie la porzione di spazio da inquadrare. Nulla è a caso e tutto è ben ponderato e pensato. Assume un ruolo ciò che deciderà di inquadrare, ma anche quello che non deciderà di inquadrare, perché quello che non viene mostrato dovrà essere ricostruito dalla mente di chi guarda. Allo stesso tempo però è proprio lo spettatore a scegliere cosa avrà rilevanza e cosa no nella sua mente, è il suo sguardo che decide cosa guardare e inquadrare. André Bazin si sofferma sulla realtà ontologica dell’immagine, e quindi ciò che è fondante e ciò che genera l’immagine è la realtà. Per Bazin la realtà è intrappolata nell’immagine, così come Jane crede che l’obiettivo sia una trappola. Quando Jean-Luc Godard nel 1962 realizza Vivre sa vie, il pubblico è destabilizzato; il film inizia con una lunghissima inquadratura di spalle ai due personaggi, che non sono mostrati in volto per i primi otto minuti, ciò fa si che chi guarda non sappia cosa sta guardando perché è abituato a vedersi servita l’immagine che ora gli è negata. Lo spettatore, come il regista e la macchina da presa è impossibilitato a vedere la scena da ogni inquadratura perché costretto a stare dietro i personaggi. La telecamera è fissa, sono i personaggi a muoversi, nascondendo i loro volti; anche vicino al flipper i loro visi sono celati. L’inquadratura ci accompagna altrove, al di là della vetrina, dove c’è una strada e una donna che corre, che cattura la nostra attenzione. Una donna che non recita nessuna parte e che correva 12 Jane parla alla Mdp e ad Agnes Varda, Jane B., A. Varda, 1988 quel giorno su quella strada e che quindi rappresenta una realtà catturata dall’immagine. 2.2 La natura ontologica dell’immagine secondo André Bazin La psicanalisi delle arti plastiche considera la pratica dell’imbalsamazione come questione fondante della loro genesi. La difesa contro il tempo è tra i bisogni più importanti per la psicologia umana. La morte è la vittoria del tempo. Fissare artificialmente le apparenze carnali dell’essere vuol dire strapparlo al flusso della durata: ricondurlo alla vita.13 La pittura per lungo tempo si è orientata verso il simbolismo; nel XV secolo però ha cominciato a discostarsi dalla realtà spirituale per ricondursi all’espressione come imitazione più o meno completa del mondo esterno tramite la prospettiva. Con questa l’artista riusciva a dare l’illusione di uno spazio a tre dimensioni dove gli oggetti venivano posizionati come lo erano nella nostra percezione diretta. Così facendo la pittura si orientava fra due aspirazioni: una propriamente estetica, espressione della realtà spirituale; e l’altra che equivale a un desiderio psicologico di rimpiazzare il mondo esterno con il suo doppio. I grandi artisti hanno realizzato da sempre la sintesi di queste due tendenze, dominando la realtà e riassorbendola nell’arte, come una semplice fotopia alle volte, o come una gabbia che tiene imprigionata il vero. La discussione sul realismo nell’arte deriva dalla confusione fra estetica e psicologia. La prospettiva è stata quindi il peccato originale dal quale si sono andate a sviscerare questioni profonde e concettuali che riguardano le donne, gli uomini e il loro modo di rapportarsi agli strumenti esterni che creano arte. Niepce e Lumiere furono i redentori. La fotografia portando a compimento il barocco, ha liberato le arti dalla loro ossessione di rassomiglianza. La pittura si sforzava infatti di illudere ma, per quanto abile potesse essere il pittore la sua opera era intaccata dalla propria soggettività. La fotografia dall’altra parte, con il gruppo di lenti che costituisce il l’occhio fotografico, l’obiettivo, è dotata di un’oggettività essenziale. L’immagine del mondo esterno si forma automaticamente senza che ci sia l’intervento creativo 13 A. Bazin, Qu’est-ce que le cinema?, trad. A. Aprà, Garzanti, 1973,1986, p.3 Nel suo lavoro Varda conia anche il termine “cinecriture” con il quale indica una scrittura su pellicola utilizzata in sala di montaggio, con la messa insieme di immagini, inquadrature, musica e rumore, Agnès sceglie di aggiungere successivamente dei commenti per inserirsi nel prodotto. E tale voce “scritturata” prende il nome di cinescrittura. La sua cinécriture si fa strumento per ricercare la realtà, interrogarla e conoscerla, inquadrare significa lasciare qualcosa fuori, e ciò che Agnès Varda inquadra assume ancor più valore con i commenti inseriti in postproduzione. La sua filmografia è caratterizzata da una cinecriture che crea una dialettica tra il personale e il collettivo, tra la realtà e la finzione e tra la dimensione emotiva e quella razionale. Durante la sua carriera, Varda è entrata in contatto con tutte le donne che ha catturato con l’obiettivo. La sua filmografia può infatti essere letta come un’esplorazione di immagini ed esperienze femminili diversificate, non offrendo cioè allo spettatore un tipo generico di donna, ma rifiutando le convenzioni, raccoglie tanti tipi di donna: “Ho cercato di mostrare le donne mentre si muovono dall’ombra verso la luce”.17 In La pointe courte (1954), gli spettatori vengono posti davanti a una bella parigina in vacanza nel sud della Francia e alle vedove e figlie dei pescatori del luogo. Varda sceglie di proseguire su due binari, uno più privato e di finzione dove due amanti senza nome dialogano sofisticamente, e l’altro più collettivo e realistico con scene documentaristiche nelle quali lo spettatore osserva da vicino la quotidiana lotta per la sopravvivenza delle famiglie locali. Cattura le divergenti prospettive e vite di queste donne, le pone l’una a fianco all’altra, abbracciando le loro diversità e contraddizioni. In Du coté de la coté (1958), la cinepresa inquadra sagome colorate e bruciate dal sole delle nuotatrici in vacanza a Cannes, prediligendo anche in questo caso la dimensione collettiva. Decide invece di restringere il campo in Jane B. par Agnes Varda, con la sua voce che accompagna la maggior parte delle immagini, mostrando il desiderio costante di rendere giustizia alle tante voci di donne, sovvertendo stereotipi e interagendo con le contradizioni e complessità del mondo. In Ulysse (1982), la tensione tra osservazione documentaristica e ricreazione artistica è forte; dopo i titoli di testa, 17 T.J. Kline, (a cura di) Agnès Varda. Interviews, University Press of Mississippi, Jackson, 2014, p.97 il film si apre con un’inquadratura fissa di una fotografia, che si fa strumento evocatore, finché una voce over spezza “il suono” dell’immagine. Corpo e voce:
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