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Riassunto dispense Geografia Politica, Sintesi del corso di Geografia

 Riassunto dispense Geografia Politica (Dansero)

Tipologia: Sintesi del corso

2010/2011

Caricato il 06/11/2011

fabiopt112
fabiopt112 🇮🇹

4.5

(212)

12 documenti

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Scarica Riassunto dispense Geografia Politica e più Sintesi del corso in PDF di Geografia solo su Docsity! Geografia politica Prof. Egidio Dansero Riassunto dispense La natura del discorso geografico La geografia è una forma della razionalità occidentale che nasce e si evolve con essa. L’ambiguità fondamentale della parola Geografia (e di conseguenza del sapere che essa identifica) risiede prima di tutto nel duplice significato del secondo dei due termini che la compongono. “Geo” viene dal greco antico ghè (terra), ma “grafia” vuol dire sia immagine che scrittura, sia disegno (carta geografica) che discorso scritto, cioè descrizione. Il primo significato si riferisce ad un sistema chiuso di modellizzazione del mondo, in cui il lettore non può concorrere a costituire il senso della rappresentazione. La seconda accezione del termine rimanda alla presenza, implicita in qualsiasi pagina scritta, di un codice aperto per la concettualizzazione della realtà. G. come disegno del mondo, allora, e G. come discorso sul mondo: tra questi due estremi il sapere geografico ha sempre oscillato. Nel senso che ognuna della G. fin qui praticate o teorizzate risulta definita dalla prevalenza del disegno sul discorso o viceversa. E, almeno in epoca moderna e fino ai giorni nostri, a tale opposizione tra chiusura e apertura del codice prevalente di descrizione del mondo corrisponde puntualmente la funzionalità della G. nei confronti della difesa oppure della critica di ciò che, sul piano dell’ordine del mondo, risulta essere l’esistente. Anassimandro è il primo a situare l’universo all’interno di uno spazio materializzato definito da relazioni di natura puramente geometrica. Ciò permette di abolire di colpo quella che era stata la preoccupazione principale del passato: la spiegazione della stabilità della Terra, l’indicazione della natura del sostegno che impediva ad essa di cadere giù dal suo posto in cielo. Per Anassimandro la Terra resta immobile soltanto perché si trova al centro dell’universo, vale a dire ad uguale distanza da tutti i punti della circonferenza celeste; quel che basta a mantenere stabile la Terra è la similitudine di tutte le direzioni del mondo tra di loro e lo stato d’equilibrio della Terra stessa. Perché per una cosa posta in equilibrio al centro di uno spazio omogeneo, non vi può essere in nessun modo posto per cadere da qualche lato. Tutto ciò diventa possibile perché Anassimandro riduce con il suo disegno la Terra ad un’unica città, anzi ad una gigantesca agorà, ad un’immensa piazza: è lo schema della polis, la forma concreta assunta dal suo ordine sociale, che lui proietta sulla superficie del nostro pianeta. Erodoto rivendica con maggiore decisione, in G., il primato del riscontro empirico sull’astrazione e sulla teoria, per cui il resoconto dei lineamenti fisici della Terra allora conosciuta non è mai separato da quello degli usi e dei costumi dei popoli che la abitano. Spetterà a Strabone di Amasia ristabilire il controllo del discorso sulla visione diretta, rovesciando perciò a sua volta i termini della G. erodotea. L’intento della sua G. non è più la descrizione ma la spiegazione del nostro mondo abitato. Con Strabone, il discorso geografico torna ad obbedire, come per Anassimandro, ad una preliminare opzione di natura filosofica. Con la differenza che il suo oggetto non è più un’entità astratta teoricamente determinata, ma la concreta e totale realtà umana. La G. è per tal verso consapevolmente concepita come sapere antropocentrico: una filosofia sociale. E sarà tale aspetto a rivelare la modernità del suo pensiero. Fino al Settecento, e per tutta l’Europa, il termine geografo significa cartografo, colui che costruisce carte e le commenta. Così il sapere geografico trova immediata coincidenza con il codice bloccato dell’immagine rappresentanza sulla carta. Il quale obbedisce a due condizioni: si fonda sulla visione diretta e risulta immediatamente funzionale al potere politico esistente. Nel 1726 Leyser propone la sostituzione di un’altra logica all’ordine alfabetico oppure a quello fondato sui confini politici degli stati, che erano i sistemi praticati dalla G. aristocratico – feudale: propone un ordine basato sulla situazione naturale, vale a dire su come le regioni e le località si dispongono in rapporto al mare, ai fiumi e agli altri immutabili dintorni. E ciò perché questi sono i più stabili. È l’atto di nascita della G. “naturale” come essa stessa si definisce: la prima forma del sapere geografico “civile”, da cui tutta la G. contemporanea discende. Poiché la denominazione, come la produzione cartografica, è un atto di competenza del potere politico, pretendere di nominare in maniera diversa lo spazio significa in realtà pretendere di stabilire sulla spazio stesso un dominio di segno diverso da quello che esiste. La polemica tra i geografi “di stato” e i geografi “naturali” dura un secolo intero. I primi, inflessibili nella considerazione dello spazio geografico come spazio politico, dunque come territorio; i secondi, all’opposto, impegnati nell’individuazione concreta e nella classificazione sistematica degli spazi naturali e perciò nel superare non soltanto il codice cartografico, ma il suo potere assoluto sull’intera geografia. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento il sapere geografico civile, fino ad allora unitario, risulta ripartito, sotto il segno della divisione positivistica del lavoro scientifico, in due grandi aree disciplinari: la G. fisica (geomorfologia, idrologia, climatologia) e la G. umana. Alla G. umana spettava (e ancora oggi di fatto spetta) l’indagine dei segni dell’mo sulla faccia della Terra (G. culturale, G. politica). Ma tutto ciò secondo un punto di vista che, in analogia a quello impostosi nella G. fisica, riconduce il sapere geografico all’analisi della “semplice forma visibile” sulla carta. La descrizione deve basarsi sulla carta geografica, secondo questa concezione positivistica, che è lo strumento di precisione che raddrizza le nozioni false. Tutta la storia della G. umana internazionale tra le due guerre è la storia della progressiva riconquista del sopravvento sul discorso geografico da parte del disegno geografico. Tale processo culmina, tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta, con la fondazione negli Usa della “G. quantitativa”. Essa si manifesta proprio quando entra in decisa crisi il concetto di paesaggio geografico, che riuscita in maniera sufficientemente adeguata a catturare i lineamenti essenziali dello spazio come ordine dato dalla contiguità degli oggetti. Ma che le rivoluzioni tecnologiche della prima metà del 900 siffatta decifrazione è divenuta pressochè impossibile, perché ogni rivolgimento nel modo di produrre e di esistere resta sempre più nascosto a chi guardi la superficie delle cose. Le tecniche di analisi quantitativa (grazie ai calcolatori elettronici) permettono di iniziare a dislocare nel regno della struttura invisibile ciò che nell’ambito dell’apparenza immediata già accennava a non funzionare più: l’ordine, indistintamente applicato ai fenomeni fisici e alle manifestazioni storico – sociali, della geometria euclidea. Proprio la crisi della portata conoscitiva di tale ordine è all’origine dell’attuale ritorno del sapere geografico alla forma di una pluralità di discorsi comandati dall’astrazione. Il complesso degli indirizzi d’indagine che ne derivano si vanno raccogliendo sotto la “G. umanistica”. Si ha un ritorno alla consapevole che anche la G., dipende, nella propria costituzione, da modelli, cioè da rappresentazioni astratte. Si recupera così quella “conoscenza della Terra” che si fondava sulla consapevolezza che ogni sapere scientifico presuppone una preliminare visione del mondo, da cui dipende l’attivazione del discorso scientifico e la cui natura ne determina per intero il significato. Oggi con la stessa convinzione i geografi umanistici, prendendo le mosse da una dozzina di differenti opzioni filosofiche, s’accingono a dimostrare che gli oggetti della G. umana non sono cose ma atti: atti cristallizzati in forma topografica – geometrica. L’obiettivo è sistematizzare alcuni principi che consentono di caratterizzare uno spazio. Utilizziamo a tal proposito un interessante modello ideato da Levy che propone una generale chiave di lettura del concetto di spazio, definito come l’insieme delle relazioni che la distanza stabilisce tra le differenti realtà. Si è visto come si può distinguere, in relazione al valore della distanza, tra luoghi (spazio prossimo) e aree (spazio non prossimo). Qualunque spazio si caratterizza per almeno tra attributi: la scala, la metrica e la sostanza. La scala Per qualificare qualunque spazio bisogna partire dalla scala, che in prima battura si riferisce alla dimensione dell’area. La scala, secondo i due aspetti che la caratterizzano essenzialmente, può essere considerata sia la trasposizione di uno spazio sulla carta, sia un livello geografico di considerazione di un fenomeno qualunque per studiarlo. La scala si differenzia in scala cartografica e scala geografica. La scala cartografica è il rapporto che esiste tra realtà e la sua rappresentazione e può essere espressa in forma grafica oppure numerica. Essa esprime un rapporto di riduzione. Essendo un rapporto funziona inversamente. La scala geografica si riferisce ad una serie di soglie di spazi. Possiamo pensare a due scale estreme: la più piccola, quella dell’individuo, cioè la più minima e indivisibile realtà sociale, al mondo intero, la scala più grande possibile. Le scale prese in considerazione in geografia sono: locale, regionale, nazionale, continentale e mondiale. Riprendendo la distinzione tra luogo e area, possiamo definire la scala come una serie di soglie di taglia a partire dalle quali un luogo diventa un’area. La scelta delle scale dipende dalle caratteristiche dello spazio, essa varia in funzione degli oggetti e dei problemi presi in considerazione, nonché di come misuriamo la distanza tra i diversi luoghi. Secondo Sheppard e Mc Master si possono individuare cinque tipi di scala: • Cartografica (rapporto tra misura sulla carta e misurare sul terreno) • Osservazionale (riferita all’estensione spaziale di un’area di studio) • Di misura (o risoluzione): si riferisca alle più piccole parti distinguibili di un oggetto • Operazionale (scala di azione): riferita all’estensione spaziale a cui un certo processo opera nell’ambiente • Scala prodotta o costruita nell’azione sociale, a sua volta intesa come taglia, come livello e come relazione. L’ultimo dei cinque significati tratta di produzione e costruzione di scale, di politiche e strategie di scala e rescaling. La metrica I modi in cui si misura la distanza si chiamo metriche. Ci sono due tipi di metriche: • Metriche topografiche. Definiscono una distanza continua ed esaustiva, come se ci si trovasse su un piano dove sia possibile muoversi in qualunque direzione e fermarsi ovunque. • Metriche topologiche. Le distanza sono discontinue e lacunose. Le sole distanze misurabili sono quelle delle linee che separano e collegano i nodi. Sulla base delle due metriche possiamo distinguere tra territori, cioè spazi sorretti da metriche topografiche, e reti, cioè spazi sorretti da metriche topologiche. Questa distinzione ha una validità del punto di vista logico, per distinguere tipologie di spazi sorretti da metriche diverse. Essa introduce quello che è il principale problema della forma Stato nella società contemporanea: come controllare, secondo una logica territoriale, dei flussi che si snodano in spazi di tipo reticolare. L’opposizione territori – reti è dunque l’opposizione tra tipi di spazi differenti. Comunque, si sta parlando di modi differenti di pensare lo spazio, simultaneamente. La sostanza La sostanza è la componente non spaziale di oggetto sociale dato. Quindi, per definire uno spazio occorre stabilire metrica e scala appropriate al tipo di problema che sostanzia lo spazio stesso. Dallo spazio al territorio Il potere politico, nel pensiero occidentale moderno, è strettamente legato al territorio e al suo controllo. Ecco alcune definizioni di territorio: … spazio la cui configurazione e i cui confini diventano il principio strutturante di comunità politiche e il modo discriminante di controllare la popolazione, di imporle un’autorità, di informare e influenzare il suo comportamento (Badie). … area geografica delimitata e controllata da un individuo o da un gruppo di individui al fine di influenzare o controllare persone, fenomeni o relazioni localizzati al suo interno (Pettinelli). Molto spesso in tali ambiti disciplinari si usano come sinonimi spazio e territorio. In realtà il concetto di spazio è molto più astratto. Lo spazio è in una posizione di anteriorità (logica e temporale) rispetto al territorio. Noi non abitiamo lo spazio, ma un territorio, cioè un ambiente profondamente e incessantemente trasformato dall’azione umana. Per Magnaghi il territorio non esiste in natura: esso è un esito dinamico e stratificato di successivi cicli di civilizzazione; è un complesso sistema di relazioni fra comunità insediata e ambiente, di cui il paesaggio antropizzato costituisce l’esito sensibile e l’identità percepibile. In questa accezione il territorio è prodotto dall’incontro fra eventi culturali e natura, composta da luoghi dotati di identità, storia, carattere, struttura di lungo periodo. Dematteis dice che un territorio non è una pura entità materiale ma, un insieme di relazioni. In tale visione il territorio è inteso come una categoria di ricomposizione che vede componente naturale e socioeconomica come due inestricabili aspetti di una dinamica che deve essere considerata nella sua interezza e che, solo all’interno di tale interezza, può arrivare a equilibri veramente sostenibili. In termini generali si può dire che, il territorio è un artefatto sociale che comprende la fisicità della superficie terrestre come “materia prima” sulla quale opera l’agire collettivo. Il territorio è dunque prodotto dallo spazio, dalle reti, dai circuiti e dai flussi realizzati dai gruppi sociali. Raffestin definisce il territorio come il risultato di un’azione condotta da un attore sintagmatico, cioè che realizza un programma a qualsiasi livello. Ogni individuo è attore sintagmatico e quindi produce territorio, chiaramente con risorse, strategie e finalità diverse. Questa produzione di territorio è oggi sempre più chiamata a confrontarsi con la sfida dello sviluppo sostenibile e con un generale processo di eco ristrutturazione della società, e dunque anche del territorio, quale forma spaziale dell’azione sociale. A questo riguardo è utile richiamare tre concezioni di territorio che si incrociano nelle politiche pubbliche e che sono rilevanti nel concettualizzare problemi e politiche ambientali: • Il territorio delle competenze, su cui si esercita il potere e l’esercizio politico – amministrativo (sistema delle competenze territoriali). Esso ha molta rilevanza dal punto di vista delle politiche ambientali, in quanto esse scaturiscono dal concorso, dell’azione di una pluralità di soggetti, pubblici e non che agiscono a scale diverse e con diversi territori di competenza. • Il territorio come patrimonio, frutto dell’evoluzione storica, concorre a definire l’identità locale, permettendo la mobilitazione degli attori sulla base della percezione di un destino comune in funzione della comune eredità storica. Dal punto di vista del problemi e delle politiche ambientali, tale concezione ha rilevanza in quanto è alla base di un generale processo di rivalutazione del “locale”, tra visioni nostalgiche e regressive e visioni aperte al futuro che riconoscono come ogni tradizione sia frutto di ibridazioni culturali. • Il territorio come progetto. In questa prospettiva si enfatizza la tendenza al cambiamento che richiede la ridefinizione di obiettivi condivisi di cambiamento. Il territorio stesso appare allo stesso tempo come matrice (intreccio di risorse e attori come base di trasformazione) ed esito di cambiamento. La produzione di territorio può avvenire in modi differenti, sia con la trasformazione materiale, sia con quella organizzativa, sia con quella simbolica. Ognuno di questi cambiamenti è sempre anche un progetto di territorio, esplicito o implicito, pensato dall’alto o comunque dal suo esterno, o dal basso e dall’interno di un territorio attraverso procedure più esclusive o inclusive nei confronti della complessità dei soggetti di un territorio. Il territorio è quindi allo stesso tempo un ambito di competenza, un patrimonio e un progetto. Tutto ciò in un processo continuo di produzione di territorio, ovvero di territorializzazione. Quindi la crisi ambientale è anche la crisi di un modello di territorializzazione. La territorializzazione è quindi una chiave di lettura utile per comprendere e rappresentare il processo di trasformazione e adattamento dell’ambiente terrestre da parte della specie umana. La territorialità Per i geografi politici la territorialità è un modello di comportamento attraverso il quale una regione viene suddivisa in territori chiaramente delimitabili, i cui confini sono considerati dagli occupanti come inviolabili. Soja definisce la territorialità come un fenomeno di comportamento associato all’organizzazione dello spazio in sfere di influenza o territori chiaramente indicati o distinti e considerati almeno parzialmente esclusivi per i loro occupanti o per quelli che li definiscono. Soja individua come caratteri distintivi della territorialità il senso della identità spaziale, il senso della esclusività e il senso della compartimentazione della interazione umana nello spazio. Il senso di appartenenza dei soggetti ad una particolare porzione di territorio, oltre ai caratteri di identità ed delle conoscenze degli uomini in rapporto alla realtà materiale che si esprime attraverso strategie inclusive che mirano all’autonomia. Il processo di territorializzazione Riprendendo la definizione di Raffestin, possiamo considerare il territorio come lo spazio prodotto dall’azione di un attore che realizza un programma. Chiamiamo questo processo territorializzazione. Si produce territorio in diversi modi per comprenderlo ricorriamo ad una sistemazione teorica proposta da Turco. Partiamo da due nuclei concettuali fondamentali. Il primo consiste nel fato che un gruppo umano vive, cresce ed evolve grazie alle trasformazioni che imprime all’ambiente nel quale si è insediato. In questo contesto, chiameremo spazio una estensione della superficie terrestre dotata di meri attributi fisici. Il secondo nucleo concettuale è costituito dal territorio, inteso come uno spazio sul quale si è esercitata e si esercita una qualche azione umana. Il processo attraverso il quale questo artefatto si costituisce ed evolve è il processo di territorializzazione. Dal canto suo il territorio, oltre ad essere un prodotto dell’azione umana, è anche una condizione dell’azione stessa, una configurazione del mondo che permette il pieno dispiegamento dell’agire dell’uomo. Il passaggio dallo spazio al territorio contempla una dinamica trasformativa continua, segnata da andamenti evolutivi che possono essere interrotti da fratture in corrispondenza di grandi mutamenti. Questi incidendo radicalmente sull’organizzazione della società, finiscono per orientare le stesse logiche territoriali. Il processo di territorializzazione si dispiega lungo tre assi. il primo è la denominazione e ha a che fare con la sfera intellettuale e comprende la pura organizzazione, il controllo simbolico del mondo senza la materialità, che gli esseri umani esercitano attraverso l’attribuzione di nomi (designatori) ai luoghi. Il secondo asse è la reificazione e riguarda la sfera materiale: l’attore sociale interviene sulla materialità, istituendo un controllo pratico sulla superficie terrestre, nel tentativo di dominare e modificare i processi naturali attraverso dei processi materiali. Il terzo asse è la strutturazione e attiene alla sfera sensiva e si esplicita attraverso una partizione della superficie terrestre in sistemi di partizioni o di ambiti, i quali vengono identificati perché particolarmente funzionali alla realizzazione di un determinato progetto. Tutte le azioni territoriali degli esseri umani sono riconducibili a uno di questi tre assi. Non solo, l’agire territoriale è un’azione che dipende dal modo in cui una società vive e si riproduce socialmente, vale a dire, da quello che viene definito il suo dispositivo di controllo. Questo dispositivo di controllo poggia su un insieme di valori, tradizioni, religione, cultura, che giustificano lo stare insieme in società e che chiamiamo serbatoio metafisico. Ogni società costituisce il proprio territorio e si serve di esso, in modo circolare, per riprodurre se stessa. Allora il processo di territorializzazione sarà definito auto centrato. Nel caso esso sfugga al controllo della società locale, ricevendo funzioni e regole dall’esterno, diventa in qualche modo il prodotto di un altro corpo sociale e si parlerà di territorializzazione etero centrata (colonialismo in Africa). Parliamo di deficit di territorializzazione quando il territorio non risponde più in modo adeguato alle esigenze e ai bisogni della società, e di eccesso di territorializzazione nel caso in cui si impieghino risorse per creare artefatti che non vengono adeguatamente sfruttati e utilizzati dalla società. Il processo di territorializzazione dipende da molteplici fattori, che riguardano sia le caratteristiche fisiche e naturali, ossia le potenzialità offerte dall’ambiente, sia fattori maggiormente legati ad aspetti culturali e sociali, che concorrono a determinare le modalità di sfruttamento delle potenziali risorse naturali, come efficacemente riassunto nel concetto di “quadro ambientale”. Esso rappresenta un ambito concreto ma indefinito di dati naturali, che acquistano determinatezza mano a mano che la società vi elabora le proprie strategia riproduttive (processo di lungo periodo). Ambiente, ecosistema, habitat, natura, paesaggio, territorio, ambiente vissuto, luogo Ambiente, ecosistema, habitat, natura, paesaggio, territorio, ambiente vissuto, luogo: questi termini ricorrono frequentemente nei discorsi sui problemi e sulle politiche ambientali e ognuno di essi deve essere contestualizzato culturalmente nel tempo, nello spazio e in un dibattito scientifico che è in continua evoluzione. Malcevschi, un ecologo, ha proposto una sistematizzazione dei significati dell’ambiente in una prospettiva transdisciplinare. Il suo modello concettuale va collocato in un dibattito che affrontava, alla fine degli anni Ottanta, il problema di come definire, misurare e valutare gli impatti ambientali di determinare opere umane, tipicamente grandi opere infrastrutturali spesso pubbliche: si tratta dell’ambito della Valutazione di impatto ambientale (VIA), uno strumento concettuale e una norma ambientale allo stesso tempo. Valutare l’impatto ambientale di un’opera pubblica richiede infatti, in primis, di definire cosa sia e quale sia l’ambiente di riferimento, utilizzando uno sguardo interdisciplinare. Il ragionamento di Malcevschi è interessante perché tende a evidenziare come, ponendo il concetto di ambiente al vertice in quanto dotato di una superiore e sfumata complessità, ciascuno dei termini prima elencati ne rappresenti un punto di vista, con l’accentuazione di taluni aspetti piuttosto che altri. Le singole componenti dell’ambiente sono separate in insiemi fisicamente distinguibili. Queste unità, legate da opportune reti di relazioni, costituiscono l’ambiente complessivo. Si possono dunque distinguere i differenti concetti di ambiente sulla base di tre variabili: • Gli elementi costituitivi del sistema ambiente (aria, acqua, manufatti, popolazione umana, altri organismi, substrati fisici); • Le relazioni tra questi elementi e l’esistenza o meno di un centro del sistema di relazioni, che funzioni come parametro costante rispetto a cui valutare le relazioni delle altre variabili (l’uomo o qualunque altra specie animale o vegetale); • L’esistenza o meno di filtri percettivi, metà saranno caratterizzati da una connotazione oggettiva e l’altra metà dipenderanno dall’esistenza di un punto di vista soggettivo, individuale o collettivo. Il concetto di habitat esprime la posizione di centralità di una certa specie, esseri umani inclusi, all’interno del contesto ambientale in cui essa vive e si riproduce: l’attenzione viene posta sui fattori esterni descritti in termini tecnico – scientifici. Gli esseri umani hanno un loro habitat che è costituito non solo dai luoghi fisici in cui sono presenti, ma anche dall’insieme delle caratteristiche che ne consentono la vita (clima, cibo). Il termine ecosistema indica l’insieme degli organismi viventi e dei fattori abiotici presenti in un dato ambiente e le relazioni che legano fra loro tali elementi. Esso designa una rete di relazioni che non presuppone un centro, ponendo tutti gli elementi sullo stesso livello e focalizzando l’attenzione sui flussi di materia ed energia che legano le diverse componenti. L’attenzione alle relazioni permette di considerare l’ecosistema come un’unità complessa di carattere organizzatore. Il concetto di territorio esprime un sistema ambientale governato da un dato soggetto e presuppone, pertanto, un centro del sistema di relazioni. Questo centro è il soggetto che governa e può rappresentare l’intera società. Si tratta di una definizione non diversa da quella in uso nelle varie scienze sociali, nel momento in cui esplicita come il concetto di territorio sia strettamente legato a quello di controllo e governo. Una differenza sostanziale si ha, tuttavia, tra il pensare che il territorio possa essere concepito in modo oggettivo e la concezione presente invece nelle scienze sociali, dove il territorio è visto come costruzione sociale, e quindi culturalmente contestualizzato. Il concetto di natura denota il modo in cui il mondo esterno agli esseri umani (l’insieme dei mondi animali, vegetale e minerale) viene percepito da un soggetto culturale. In questa impostazione tale concetto ha ben poco di oggettivo, ha una sua storia e va collocato in un dato tempo e in una data cultura. All’interno di questa impostazione la natura non esiste, se non come costruzione sociale. Il concetto di paesaggio indica il modo in cui un dato ambiente, fisicamente riconoscibile (comprendente i segni dell’attività umana) e considerato nella sua globalità, viene percepito da un soggetto culturale (soggettività collettiva). Anche questo termine indica una costruzione culturale da collocarsi nello spazio e nel tempo. La definizione di Malcevschi è coerente con Convenzione Europea del Paesaggio che lo designa come una determinante parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni (percezione collettiva condivisa). Il concetto di ambiente vissuto considera le modalità con cui i singoli individui percepiscono l’ambiente esterno (punto di vista individuale). Ogni ambiente ha un significato differente in relazione al nostro vissuto e alle nostre esperienze, pur all’interno di rappresentazioni condivise (paesaggi). Nei conflitti legati alla costruzione di un’infrastruttura sgradita agli abitanti di un territorio, è cruciale capire come la trasformazione dell’ambiente venga vissuta da chi subisce la scelta, proprio per prevenire la conflittualità o trovare soluzioni il più possibile condivise (nel caso della TAV questa valutazione non è stata effettuata). L’ambiente vissuto, pur riferendosi ad una relazione individuale con l’ambiente, va collocato culturalmente ed è evidentemente in relazione con le più ampie idee di natura e paesaggio sedimentate e diffuse in una data società. Considerando l’insieme di significati di ambiente sistematizzati da Malcevschi si può dire che all’origine di molti problemi ambientali sia rinvenibile una concezione di ambiente inteso soprattutto come habitat della specie umana, che non prende in considerazione le catene di relazioni sistemiche che legano le varie componenti dell’ambiente (un significato di habitat a supporto dello sviluppo industriale che non si poneva nessun limite al suo accrescimento). Ognuno di questi significati dell’ambiente costituisce una rappresentazione differente delle relazioni tra società e ambiente e un modello diverso di analisi di tali relazioni, che seleziona le informazioni significative in relazione al tipo di prospettiva adottata. In questo senso, secondo Malcevschi, l’ambiente si configura come un sistema di sistemi, ciascuno definito con un’ottica specifica in relazione all’ambito disciplinare. Il modello di Malcevschi ha il pregio di stabilire un ponte semantico tra le diverse discipline coinvolte nello studio dei problemi ambientali, pur riducendo eccessivamente il campo dei superare ogni confine fisico, culturale, politico, in modo che non esiste più nessun ambito geografico locale che sia al riparo da influenze dirette da parte di forze che operano a livello globale. La globalizzazione di fine ‘900 si caratterizza anzitutto per la globalizzazione della tecnologia e dell’economia e ha funzionato come acceleratore delle altre forme di mondializzazione: ambientale, culturale e politico. La globalizzazione tecnologico – economica riguarda ormai tutte le fasi del circuito economico. In particolare si ha un globalizzazione dei capitali finanziari, sul cui mercato agiscono in tempo reale operatori sparsi in tutto il mondo, collegati per via telematica alle principali “piazze” mondiali. Le dimensioni del fenomeno sono tali che nessun operatore economico e nessuno Stato è in grado di controllarlo. Ecco perché certe fluttuazioni del mercato finanziario mondiale posso produrre effetti a catena globali capaci di far crollare l’economia di interi paesi. Comunque, gran parte di questo grande movimento di capitali è puramente speculativo, mentre una parte percentualmente piccola (10%), ma consistente in valore assoluto, riguarda investimenti in attività economiche, che avvengono anch’essi a scala mondiale, in quanto i capitali accumulati e disponibili in un qualunque paese possono trovare impiego in attività localizzate in qualsiasi altro paese. Questi flussi di investimenti transnazionali sono resi sempre più facili dalla globalizzazione delle imprese. Vi sono, decine di migliaia, imprese multinazionali e vi è un numero ancora maggiore di paesi diversi che stabiliscono accordi tra loro (joint venture), consorzi, associazioni, allo scopo di sviluppare insieme programmi di ricerca, di produzione e distribuzione commerciale. Si formano così reti globali d’imprese che, cooperano a scala mondiale, connettono tra loro centinaia di migliaia di luoghi in cui sono insediate. In tal modo la globalizzazione finanziaria porta con sé quella della produzione, dei servizi e del commercio. La globalizzazione commerciale, attraverso l’opera di organizzazioni internazionali (WTO), tende non solo alla libera circolazione delle merci, ma anche degli investimenti diretti, per cui si è creato un mercato globale delle localizzazioni, che mette in potenziale concorrenza tra loro tutti i luoghi della Terra, per attrarre investitori globali (attività commerciale: marketing territoriale). Tuttavia, la globalizzazione dell’economia non sarebbe stata possibile senza un’applicazione a scala mondiale delle più moderne tecnologie dei trasporti e delle telecomunicazioni, che, combinate con l’elaborazione informatica dei dati, consentono di svolgere operazioni finanziarie, commerciali e produttive in sedi molto lontane tra loro, come se queste si trovassero nello stesso luogo. La globalizzazione è quindi anche il risultato di contrazione del tempo e dello spazio. Le conseguenze di questa rapida trasformazione non si limitano al settore economico, ma si estendono all’insieme delle attività umane, con effetti di ritorno sull’economia stessa. Una caso evidente è dato dalla globalizzazione del sapere scientifico – tecnologico. La competizione economica è sempre più dipendente dalle innovazioni tecnologiche. Ma la base scientifica di queste ultime è ormai il frutto di una cooperazione internazionale che si avvale di un rete globale di centri di ricerca. Si forma così un sapere tecnologico – scientifico globale a cui ogni impresa o rete di imprese attingerà per realizzare “localmente” quei prodotti e quei processi innovativi che la renderanno competitiva. La globalizzazione ambientale (global change) si manifesta nei vari squilibri climatici ma, agisce anche direttamente sulla biosfera minacciando la biodiversità. Qualcosa di analogo avviene con la globalizzazione culturale, si assiste a fenomeni di omologazione, dovuti dalla mondializzazione dei media e dalla scomparsa dei modi di vita locali. Ciò è però compensato dalle numero “ibridazioni”, derivanti dalla facilità di contatti e di interazioni tra culture diverse. Si ha anche una globalizzazione geopolitica e geostrategica che consiste nella crescente e immediata interdipendenza delle decisioni e degli avvenimenti politici dei diversi paesi, nel crescente controllo di alcuni di essi sugli atri e nella capacità delle grandi potenze di intervenire militarmente in qualunque parte del pianeta. Per contro si assiste a un moltiplicarsi di conflitti “locali” e alla proliferazione degli armamenti, che rende problematico un effettivo controllo del sistema mondiale. Le ripercussioni di tutto ciò a scala globale sono imprevedibili e ingovernabili. Questi rischi ci avvertono che il processo di globalizzazione è molto avanzata in certi settori e carente in altri. Tra questi ultimi va ricordata la debolissima globalizzazione delle istituzioni. Gli organismi politici mondiali esistenti (ONU) hanno una capacità molto limitata di regolare i conflitti, di imporre norme, di esercitare poteri giurisdizionali. Ciò impedisce che si realizzi un’effettiva globalizzazione del mercato del lavoro (diversità di tutela del mercato del lavoro e leggi nazionali restrittive in termini di immigrazione). Globalizzazione e territorio La globalizzazione è quel processo per cui tutti i luoghi della Terra sono sempre più facilmente collegabili fra loro, in tempi sempre più rapidi. Le sorti di un territorio dipendono sempre più strettamente da quelle di altri attraverso processi sempre più pervasivi in tutta la superficie terrestre. L’aspetto macroscopico della globalizzazione è sicuramente internet, grazie alla sua capacità di realizzare una compressione spazio – temporale legata ai progressi delle linee di telecomunicazione, i quali hanno permesso una globalizzazione elevata del mondo della finanza. Ma pian piano che si passa della globalizzazione finanziaria ad altre forme, si può notare che gli effetti sono molto meno pronunciati (mercato del lavoro,soluzioni a problemi ambientali). La globalizzazione può essere dunque vista come un processo “sfaccettato” e avanza diversamente a seconda degli aspetti che si valutano. Sono emersi tanti timori in relazione alle conseguenze della globalizzazione, fra cui quello della “fine della distanza” e il conseguente appiattimento delle differenze territoriali. Questa omologazione espone tutti i territori ai rischi d una globalizzazione non governata e lasciata in mano alle leggi di mercato (assenza di istituzioni). L’eco della globalizzazione rimbomba in tutti i locali della Terra, ma la globalizzazione finanziaria poggia su pilastri molto forti in alcune zone (piazze finanziarie). In questi luoghi si innescano processi che altrove sono impensabili. È chiaro dunque che la globalizzazione si nutre di differenze e ne produce a sua volta. Chi è fuori dalla “rete” abita in un mondo lontano, mondo che non comunica. Rappresentazione del processo di globalizzazione Il problema dello sviluppo locale è, in ultima analisi, riconducibile al tipo di rapporto tra l’attore globale (la multinazionale) e ciascun locale; quest’ultimo è legato ad altri luoghi grazie ad un sistema di rete. Tale rapporto dipende dal potere contrattuale dell’organizzazione politico – amministrativa dei singoli locali nei confronti dell’attore locale. L’ambizione di ogni attore che compie strategie territoriali è di poter spostare a proprio piacimento le pedine. In realtà la situazione è diversa perché lo spazio non è una tabula rasa, esistono i vincoli delle culture e delle capacità contrattuali delle popolazioni locali. Di conseguenza, è più competitivo l’attore globale che riesce ad incorporare al meglio le diversità del locale in cui opera. La maggior parte delle carte geografiche sono modelli di rappresentazione della realtà costruite sulla base dell’operato logico della distanza fisica. Possiamo però prende in considerazione altri operatori logici: la distanza temporale, psicologica, sociale ed economica. Nel momento in cui la globalizzazione annulla la distanza fisica acquistano sempre più peso le altre distanze, rivelando la loro natura di strumento di regolazione delle relazioni sociali. Ecco alcune chiavi di lettura spaziali: • Lo spazio di attività: ciascun attore (individuale o collettivo) ha un proprio spazio di attività. Le imprese multinazionali sono attori globali, perché è su questa scala che formulano le proprie strategie. • Le scale di azione: le logiche di azione, spaziale e non, di un attore, saranno probabilmente differenziate nei differenti contesti, in relazione agli obiettivi e ai rapporti di forza con gli altri attori con cui esso interloquisce (partenes commerciali, pubbliche amministrazioni, consumatori, sindacati, opinione pubblica). • La molteplicità di distanza: per spiegare le logiche spaziali di un attore, occorre prendere in considerazione una molteplicità di distanze, non solo quella fisica (distanza politica rappresenta la facilità di investire in un paese piuttosto che un altro). • Lo spazio dei flussi, reticolare: un attore sociale come una multinazionale tende a strutturare la propria azione nello spazio secondo un’organizzazione reticolare, attraversando il controllo territoriale tipico di un attore societale come lo Stato. È il controllo delle reti che interessa sempre più gli attori che si muovo sulle reti lunghe della globalizzazione. • Le gerarchie spaziali: ad una gerarchia funzionale (tra unità produttive di diversa importanza, headquartes e sedi periferiche di semplice assemblaggio), si lega una gerarchia spaziale tra le diverse sedi. Se pensiamo al complesso non solo di imprese multinazionali, ma di funzioni internazionali che una località, può ospitare, possiamo intuire come queste concorrano a definire delle più generali gerarchie spaziali alle diverse scale. Una città globale presenta una pluralità di funzioni internazionali – globali in diversi campi che la tengono agganciata solidamente alle reti lunghe della globalizzazione (le attività sono agganciate al territorio però, questo radicamento non è permanente, le località devono essere in grado di rimanere agganciate alle reti della globalizzazione). Frammentazione e ricomposizione del territorio ad opera della globalizzazione Uno dei rischi della globalizzazione, oltre quello dell’appiattimento, è la frammentazione, perché nei diversi territori sono presenti soggetti che operano in relazione a reti sovranazionali. Nell’azione di questi soggetti prevale sempre più la logica delle reti in cui sono inseriti e sempre meno quella del territorio in cui agiscono. Si parla di “fine dei territori”, di fronte all’affermazione dello spazio delle reti e dei flussi, di fronte alle difficoltà degli Stati, il cui potere si basa sul controllo di un territorio statale, di controllare e contrastare i vari flussi che li attraversano e li interessano. Si tratta di una frammentazione che può essere letta a diverse scale geografiche. Devolution e federalismo sono processi legati ai tentativi di riarticolare il potere politico – amministrativo per geografica contemporanea è cambiato, poiché riconosce e descrive le differenze sociali ed economiche fra luoghi senza ascriverle direttamente e necessariamente alle differenze derivanti dalla geografia fisica. Inoltre, la geografia si pratica attualmente attraverso una descrizione che seleziona e classifica temi, questioni, fatti, soggetti e relazioni ritenuti importanti per la descrizione stessa. Secondo Agnew, il cambiamento dei due termini mette in evidenza l’inscindibile rapporto che collega la geografia al potere: chi detiene il potere e ha la capacità di comanda gli altri può anche stabilire la nozione stessa di geografia. Di conseguenza c’è un ribaltamento dei rapporti tra geografia e politica. Oggi, la geografia politica va considerata come lo studio di come la politica influenzi la geografia. La concezione di geografia politica di Agnew si compone di due aspetti, diversi anche se strettamente interrelati. Il primo aspetto è la centralità del potere, del suo dispiegarsi, del suo influenzare la geografia di volta in volta descritta e praticata. Il secondo aspetto è l’idea che la geografia politica sia un “farsi”, una creazione continua a seconda del modo in cui la geografia è coinvolta nella pratica politica. L’elemento centrale che caratterizza la concezione di geografia politica di Cox è la consapevolezza che la dimensione politica permea ogni sfera della vita quotidiana delle persone. Al contrario, tradizionalmente la politica era vista come qualcosa di estraneo alla vita delle persone comuni, un gioco condotto e realizzato dai politici, che avveniva nelle istituzioni di governo. La concezione di Cox sottolinea due aspetti di cambiamento rispetto a questa tradizione. Il primo aspetto concerne la crescente consapevolezza dell’impatto che le politiche formali del governo, soprattutto quelle di livello statale, hanno sulla vita quotidiana; il secondo aspetto riguarda invece la sempre maggiore importanza assunta dalle politiche informali, connesse a scelte personali o comunque in luoghi non formalmente deputati alla politica. Se proviamo a far dialogare il pensiero di Agnew e quello di Cox, vediamo che entrambi sottolineano un cambiamento relativo al modo di considerare la politica e, di conseguenza, anche la geografia politica. In definitiva, quindi, il dibattito più recente sottolinea un cambiamento del centro di attenzione della geografia politica. Il focus della disciplina non è infatti più esclusivamente quello delle politiche formali. Essa rivolge invece sempre maggiore attenzione all’esplorazione della molteplicità di politiche informali e, più in generale, delle relazioni di potere di cui sono intessute le relazioni sociali. In questo modo cambia anche il referente spaziale della geografia politica: non più solo lo Stato, ma ogni luogo in cui si fa politica e si esprimono relazioni di potere. Questi cambiamenti modificano anche l’approccio all’interpretazione delle politiche, con il passaggio da una visione giuridico – formale dell’esercizio del governo allo studio e alla rilevazione empirica degli attori e dei ruoli sostanziali che essi rivestono all’interno dei processi sociali. Differenza tra geografia politica e geopolitica La geopolitica è uno degli argomenti studiati dalla geografia politica. Il termine geopolitica fu coniato dal politologo Kjellen all’inizio del Novecento per indicare una analisi della politica estere degli Stati nazionali, condotta in riferimento ai condizionamenti su di essa esercitati dai fattori geografici, intendendo come tali non solo quelli propriamente fisico – naturali, quanto l’insieme delle relazioni di interdipendenza esistenti fra le entità politiche territorialmente definite e le loro componenti (organizzazione fisica del territorio). La geopolitica studia lo Stato, le relazioni fra gli Stati, le influenze dei fattori geografici sulle politiche, sulle relazioni e sulle strategie internazionali. L’obiettivo della geopolitica è individuare e descrivere le caratteristiche geografico – territoriali che definiscono la potenza statale e la natura delle interazioni fra gli Stati. L’ipotesi di fondo della geopolitica è che le caratteristiche geografiche e le risorse fisico – naturali e umane dei territori rivestano un ruolo significativo nella definizione delle politiche internazionali. I fattori geografici presi in considerazione sono le caratteristiche fisico – naturali del territorio (Idrografia, climatologia) e la distribuzione delle risorse fisiche e umane, considerando la distanza, la prossimità, la localizzazione. Nella visione geopolitica, i fatti della geografia influenzano in maniera diretta e prevedibile i processi politici. In quest’ottica, negli studi di geopolitica si afferma una visione della geografia di tipo fondamentalmente determinista: la geografia è cioè vista come il più importante fattore nello studio delle relazioni internazionali perché è il più permanente. Lo studio dei fatti geografici permette consente ai cultori della disciplina di valutare la sicurezza di uno Stato; essa è un concetto fondamentale, in questi studi, perché si riferisce alla possibilità di uno Stato di confrontarsi con le sfide che provengono dall’esterno. Il determinismo ambientale insito in questa concezione di geopolitica appare attualmente superato. È facile dimostrare, sulla base dell’esperienza storica, che i fattori ambientali non determinano le scelte politiche, pur condizionandole grandemente, al pari però di altri fattori e producendo interazioni talmente complesse e variabili da escludere ogni rapporto di causa – effetto. Tuttavia, la tentazione deterministica della geografia politica permane anche in tempi recenti. Tale tentazione deriva dalla mancanza di neutralità della geopolitica: la geopolitica non è cioè che la “geografia del principe”, un “sapere” per costruire il consenso attorno a scelte politiche e strategiche. Non esiste una definizione di geopolitica accettata da tutti: essa è, prima di tutto, azione più che disciplina conoscitiva, infatti, la geopolitica è una disciplina performativa, cioè votata all’azione. La geopolitica quindi non è una scienza, ma un particolare approccio alla politica. La geopolitica costituisce l’applicazione delle informazioni geografiche alla formulazione e allo sviluppo della politica estera di uno Stato. Questo compito è stato per lungo tempo interpretato in un’ottica puramente militarista. Le rappresentazioni geopolitiche hanno inoltre una grande capacità di influenzare sulla percezioni, quindi sulle scelte e sul consenso. Possiedono cioè una notevole valenza propagandistica, informativa e disinformativa. Essendo una disciplina fortemente performativa esistono diverse scuole geopolitiche la cui diversità non è tanto riferibile a diverse impostazioni ideologiche o teoriche, quanto alla particolare situazione dei singoli Stati. Il significato di geopolitica risente quindi fortemente non solo delle condizioni specifiche di un determinato contesto storico, ma anche delle motivazioni e degli interessi che hanno motivato quella definizione. Secondo Yves Lacoste, la geopolitica è semplicemente un “metodo”, un approccio razionale di un insieme di rappresentazioni e di argomenti contraddittori, che esprimono le rivalità di diversi tipi di potere su dei territori. Il termine sottolinea l’importanza, in certi rapporti di forza, di dati geografici che considerati come poste in gioco rilevanti (giacimenti di petrolio). Raffestin considera la geopolitica come la conseguenza della volontà di dominare il mondo, espressione di una conoscenza tecnica il cui obiettivo è l’azione efficace. Tra geografia politica e geopolitica c’è lo stesso rapporto che esiste tra scienza e tecnica. Il determinismo geografico Per il pensiero positivistico della seconda metà dell’Ottocento, i fatti naturali erano visti come la causa della distribuzione geografica degli insediamenti, delle attività umane e degli stessi caratteri della popolazione. Questa scuola di pensiero geografico, secondo la quale l’economia, la cultura, la politica di una regione sarebbe determinata, in maniera diretta e prevedibile, essenzialmente della sue condizioni e risorse naturali fu detta determinismo ambientale. Ad essa si contrapposero, all’inizio del secolo, concezioni ambientaliste che davano maggiore spazio e importanza all’azione umana. In questo modo, i caratteri naturali non erano più visti come condizioni imperative all’azione umana, ma come possibilità offertegli (possibilismo geografico). Questi studi misero in evidenza come, in epoche diverse, i territori potevano essere organizzati, socialmente ed economicamente, in maniera completamente differente. Inoltre, sottolinearono come regioni con caratteristiche naturali analoghe possono ospitare gruppi umani con attività economiche e organizzazioni sociali del tutto differenti. Queste diversità erano spiegate usando il concetto genere di vita, per indicare un insieme di abitudini e tradizioni consolidate nel tempo che portavano ogni gruppo umano a utilizzare certe condizioni e risorse naturali piuttosto che altre. La concezione possibilista si adattava bene a descrivere economie chiuse e società tradizionali. Oggi è stata anch’essa superata da concezioni che fanno riferimento ad una geografia della complessità. Tradizione e evoluzione della geopolitica La geopolitica è nata verso la fine del XIX secolo con lo sviluppo della tecnologia e della scienza e l’apertura di nuove prospettive, conoscitive e pratiche, sul mondo. Essa conobbe un periodo di grande popolarità nel primo dopo guerra, soprattutto per l’impulso datole da studiosi tedeschi (Haushofer). Nel secondo dopo guerra subì un periodo di appannamento, fu quasi messa al bando perché associata con i programmi di espansione territoriale e con le teorie razziste della Germania nazista. Dalla fine della guerra fredda si assiste ad un esplosione di interesse, soprattutto nei media e nell’opinione pubblica, per la geopolitica. Questo aumento di interessa deriva dalle profonde trasformazioni in corso nel sistema delle relazioni internazionali e dalle incertezze e turbolenze che caratterizzano il mondo attuale, nonché dalla moltiplicazione del numero e del tipo di attori geopolitici: stati, organizzazioni internazionali, organizzazioni non governative, organizzazioni illegali. Nel corso del Novecento, la geopolitica si è sviluppata seguendo due principali percorsi di studi, di riflessioni e di pratiche: da un lato, la teoria organicistica dello Stato; dall’altro lato, la geostrategia. Il primo percorso fa riferimento a Ratzel, il quale pubblica Politische Geographie nel 1897 che segna per tanti versi la nascita della geografia politica come disciplina, ma la sua influenza di riversa principalmente sulla geopolitica. In questo libro, Ratzel usa analogie e metafore tratte dalla biologia per spiegare il funzionamento dello Stato. Paragonando lo Stato ad un organismo vivente, egli formula una teoria organicistica dello Stato. L’elemento fondatore dello Stato, è il radicamento al suolo di comunità che utilizzano le potenzialità del territorio. A definire la potenza degli Stati concorrono vari fattori, tra i quali le condizioni ambientali e le attitudini politiche del popolo stesso. La vitalità di uno Stato, secondo Ratzel, può essere misurata dalle sue dimensioni ad un dato momento. Nel suo libro Ratzel indica le sette leggi della crescita dello Stato: • Il tentativo di influenzare la politica e di legittimare la geografia come sapere utile alla ragione di Stato; • L’accettazione delle diversità razziali sulla base delle diversità ambientali; • La visione dell’Europa, e in parte anche degli Usa, come centro del mondo. Geopolitica critica Il collegamento fra geopolitica e nazismo ha pesato a lungo sullo sviluppo della disciplina. Nel secondo dopo guerra la geopolitica, a causa del suo collegamento con la politica nazista, si è eclissata. Una fase d’importante rinascita per la geopolitica è rappresentata dal periodo della Guerra Fredda. In questa fase storica, si afferma e si consolida la visione del mondo del tutto bipolare: esistono due centri di potere (Usa e Urss), contrapposti, e le uniche relazioni possibili fra di essi sono relazioni di forza. La fine della Guerra Fredda e la caduta dell’Urss sembravano annunciare un nuovo ordine mondiale, di pace e stabilità dopo la paura e le ansie del periodo precedente. In realtà, il nuovo ordine mondiale non è un ordine di pace e di stabilità. La sostituzione, di una molteplicità di centri di potere ai due che avevano retto i destini del mondo e la realtà dello strapotere americano, apre la strada a un nuovo ordine mondiale post Guerra Fredda del tutto incerto. Il mondo è diventato più complicato. Tale complessità moltiplica i rischi, i pericoli e le trappole per la pace e la stabilità: esse derivano dall’emergente nazionalismo, dalla sempre più spinta competizione economica e dalla lotta per il controllo delle risorse strategiche, dalla presenza di situazioni ormai incancrenite (conflitto arabo – israeliano), dall’appello alla Guerra Santa e la risposta armata dell’Occidente. Nonostante ci si muova in uno scenario affatto pacifico e pacificato, una parte della geopolitica odierna è meno bellicosa e imperialista di quella di un tempo. Anzi, essa si configura come geopolitica della pace. La concezione e il ruolo tradizionale della geopolitica sono ridefiniti nel dibattito e nelle pratiche recenti, nel tentativo di superare una visione deterministica del ruolo dei fattori geografici nell’influenzare la situazione politica internazionale. Questo approccio della geopolitica contemporanea, geopolitica critica, si fonda sul riconoscimento della complessità e della crisi delle grandi narrazioni teoriche, nel tentativo di superare l’approccio della geopolitica classica mettendo in discussione non solo gli assunti geografici, ma anche il linguaggio utilizzato per descrivere la situazione geopolitica e le pratiche della politica estera. In questo modo, la geopolitica critica mette in evidenza come le relazioni e i fatti geografici non siano elementi senza tempo, ma siano, al contrario, specifici di determinati contesti storici, culturali e sociali. Pertanto, l’influenza della geografia sui processi politici può cambiare e può essere cambiata. La geopolitica critica, inoltre, discute i modi con cui i politici e i media rappresentano i luoghi e il loro significato strategico, decostruendo, in riferimento alle tesi post – strutturaliste di Foucault, Deridda, le strategie discorsive usate per rendere comprensibili e accettabili e quindi fondamentalmente per legittimare la necessità di interventi militari, le situazioni di crisi e di conflitto. Retibus regiones regere Fin verso la metà del nostro secolo si fondava l’idea di regione come base territoriale stabile di una comunità. La rottura con quest’idea consiste nel fatto che prima la regione era pensata come un dato, un’entità primaria e tendenzialmente invariante, mentre ora può solo più essere pensata come una costruzione intenzionale: un ordine geografico locale che nasce nella turbolenza dei flussi e che deve interagire con essi per continuare ad esistere. Ecco come cambiano oggi i presupposti della regionalità e della territorialità. Le reti globali frammentano e rimodellano i territori Le relazioni internazionali, nella prima metà del Novecento, si costituivano a partire da unità territoriali preesistenti: principalmente gli Stati. Gli attori pubblici e privati a cui le relazioni transazionali facevano capo erano radicati in tali entità territoriali. Le reti globali nascevano e dipendevano dai territori; e tale dipendenza si materializzava in confini geografici. Sin tanto che il controllo e la gestione dei flussi si mantenne territoriale, le reti potevano essere governate dai territori. Quando ciò non fu più possibile, soprattutto per l’accresciuta mobilità dei capitali e delle informazioni, che permetteva di riorganizzare produzione e mercati a scala planetaria, la situazione mutò radicalmente. Gli stati e gli altri enti territoriali non controllavano più i flussi immateriali in entrata e in uscita, così che le reti di questi flussi e delle organizzazioni transazionali che li gestivano si ponevano di fatto come entità globali de territorializzate e sovrane. D’altra parte le reti globali e i loro nodi non potevano operare senza legare i propri nodi operativi a determinati territori. È da tali legami, anche se meno stabili dei vecchi radicamenti, dipendono gli esiti della competizione su scala globale. Tuttavia, tale dipendenza delle reti da specifici territori vale solo in qualche caso, come in quello delle città globali e quindi, la localizzazione di nodi di reti globali in una determinata regione o località può considerarsi necessaria. Molto più frequente è il caso in cui un elevato numero di territori, tutti dotati di vantaggi competitivi simili, sono in concorrenza tra loro per attrarre lo stesso investitore globale. Il rafforzamento delle organizzazioni a rete globale ha avuto conseguenze sostanziali sull’articolazione e disarticolazione regionale dei territori. Ogni parte di questi territori, in quanto sede di attori locali che si collegano in qualche modo a reti globali, tende a rendersi funzionalmente indipendente dalle entità territoriali di cui formalmente fa parte. Il risultato d’insieme è una frammentazione dei territori in unità funzionali autonome, di varia dimensione, alcune delle quali con esplicite aspirazioni all’autonomia politico – amministrativa. Infatti ogni frammento di territorio che è riuscito con successo ad agganciarsi alle reti globali comincerà a seguire un camino di sviluppo piuttosto indipendente, che lo porterà ad “avvicinarsi” sempre più ad altri luoghi lontani legati alle stesse reti globali e ad “allontanarsi” sia da porzioni contigue di territorio che non ospitano nodi di reti globali, sia dalle entità territoriali di livello superiore a cui istituzionalmente appartengono. Questa frammentazione, che esalta le differenze e gli squilibri a scala micro territoriale, diventa anche sovente frammentazione sociale in quanto all’interno delle varie regioni essa accresce le disparità di opportunità tra gli strati sociali che direttamente o indirettamente si collegano con le reti globali e quelli che ne sono esclusi (polarizzazione sociale). Una conseguenza geograficamente rilevabile di tutto questo è che le reti globali stanno ridisegnando l’articolazione regionale del pianeta. Dimensioni, geometrie caratteri e dinamiche degli spazi regionali derivano ormai in larga misura dalle interazioni dei luoghi con le reti che li attraversano. Le reti poi concentrano i loro “nodi” operativi e decisionali in poche aree dense che rimangono gli unici punti fissi di un’articolazione territoriale a geometria variabile e relativamente instabile. La conseguenza politica è che acquistano potere le grandi organizzazioni a reti e globali e relativi centri decisionali, mentre perdono potere gli Stati. Nello stesso tempo la disarticolazione e la frammentazione dei territori nazionali favorisce regionalismi, localismo e movimenti secessionisti. Interazione tra territori locali e reti globali La frammentazione e riarticolazione dei territori operata dalle reti globali non ha affatto eliminato la territorialità. L’ha esalta a livello locale – regionale, l’ha indebolita a livello nazionale e l’ha fatta rinascere alla scala macroregionale e continentale (Ue). Nel grandioso processo di deterritorializzazione – riterritorializzazione, i principali protagonisti e attori dello sviluppo, assieme alle reti globali, sono i sistemi territoriali locali. Con questa espressione indichiamo quelle entità territoriali di dimensione micro regionali, che, considerate un tempo come semplici parti di entità territoriali maggiori, vengono ora riconosciute come nodi d’interconnessione tra reti globali e territori, dotati di un’autonoma capacità di sviluppo. Si tratta di unità territoriali che non per forza hanno un riconoscimento istituzionale. Di regola corrispondono ad articolazioni locali di soggetti, legati a certi substrati culturali (milieu) e capaci di auto – organizzarsi, in modo da operare di fatto come attori collettivi nella ideazione e realizzazione di progetti di sviluppo (sistemi urbani o distretti industriali). Lo sviluppo locale auto – organizzato si basa su una duplice interfaccia al centro della quale stanno le reti locali di soggetti: quella che le fa interagire con le risorse potenziali del milieu e quella che le fa interagire con le reti sovra – locali. Dall’interfaccia con il milieu dipende la sostenibilità dello sviluppo, da quella con le reti globali la sua efficienza e competitività. Queste due istanze sono tendenzialmente contraddittorie e sovente in conflitto tra loro: la complessità del milieu e delle reti locali entra in conflitto con le finalità astratte e semplificate che la competizione economica globale impone ai sistemi locali, anche a danno della sostenibilità ecologica, culturale e sociale dello sviluppo. Nel momento in cui un territorio si afferma come soggetto collettivo è ovvio che si ponga il problema dell’affermazione e della conservazione della propria identità nel rapporto con gli altri. Ciò che è importante è, che il rapporto delle reti globali con i luoghi è uno stimolo potente a resistere, a creare nuovi legami sociali e a rivitalizzare le forze e le capacità auto – organizzative di territori e di collettività che prima potevano sembrare protette e garantite, ma che in molti casi erano soltanto passive e letargiche; quindi questo rapporto non è necessariamente omologante. Le identità territoriali nascono dall’agire collettivo contemporaneo Le tendenze sin qui esposte permettono di delineare due modalità di rappresentazione geografica. Una è quella locale del singolo territorio, il cui spazio significa prossimità e presuppone interazione tra soggetti attori, in presenza di un dato insieme di risorse e di un milieu locale specifico. Un altro livello è quello globale, dove lo spazio è dato dalle reti di flussi e di relazioni materiali o “immateriali” che legano tra loro i diversi territori, indipendentemente dalla loro distanza reciproca. Questi due tipi di spazio, sul piano logico – concettuale sono molto diversi e, sotto certi aspetti, opposti tra loro. Ma ciò non significa che i fenomeni che si manifestano a livello locale siano qualcosa di diverso da quelli che si manifestano a livello globale. Oggi i territori non possono essere pensate come entità organiche stabili, formate da un “corpo” (il suolo, il milieu locale) e da una “mente” organizzativa (le reti locali di soggetti), che li renderebbero capaci di progetti e azioni Rogue state I rogue state indicati da Lake nel 1994 sono Cuba, Corea del Nord, Iran, Iraq e Libia e si caratterizzano, secondo lui, per il loro comportamento aggressivo e arrogante. Sono Stati fuorilegge, recalcitranti a entrare nella “grande famiglia delle nazioni” venutasi a creare dopo la caduta del Muro di Berlino, anzi, essi rappresentano una minaccia nei confronti dei valori su cui quella stessa famiglia si regge. Da quel momento in poi il termine “rogue state” diventa non solo parte integrante del discorso geopolitico americano, ma addirittura un perno concettuale attorno al quale si costruirà una serie di strategie d’intervento politico e militare e si legittimerà il ruolo degli Usa nella definizione del nuovo ordine mondiale. Il concetto di rogue state ha dunque trovato piena cittadinanza nel discorso geopolitico americano dell’ultimo decennio e sta guadagnando credito anche in altre sedi internazionali e nell’opinione pubblica di molti Paesi occidentali. Si cercherà di dimostrare che si tratta di una formulazione incoerente e priva di qualsiasi fondamento teorico, eppure straordinariamente proficua se utilizzata come stratagemma per decomplessificare lo scenario politico attraverso i mass media e per demonizzare ed essenzializzare ipotetiche alterità radicali. Per decostruire il concetto geopolitico di rogue state si utilizza la metodologia analitica della critical geopolitics. Invece di considerare la geopolitica come una descrizione attendibile della mappa politica mondiale, la critical geopolitics la legge invece come un “discorso”, come un modo differenziato, sia politicamente che culturalmente, di descrivere e rappresentare la geografia e la politica internazionale. Essa ritiene che il discorso geopolitico cerchi di stabilire e di affermare la propria verità. Secondo questa prospettiva, la geopolitica deve essere riconcettualizzata come una pratica discorsi attraverso la quale gli intellettuali dello Stato e delle istituzioni “spazializzano” la politica internazionale in modo tale da costruire una specifica rappresentazione del mondo. Lo studio della geopolitica diventa così diventa così lo studio della spazializzazione della politica internazionale da parte di potenze e di Stati dominanti. La descrizione di un luogo, di una regione o di un Paese specifico è quindi molto più della semplice definizione di un territorio: si tratta dell’apertura di un campo di possibili classificazioni e gerarchie, e della creazione di una serie di narrative, di soggetti e di politiche estere appropriate, facendole apparire come le uniche reali ed attendibili. E questo vale anche per la teoria dei rogue state. Si cercherà di mostrare la natura discorsi e retorica del concetto di rogue state e di decostruire i processi comunicativi che hanno contribuito a creare le condizioni “culturali” necessarie per legittimarlo. Classificando un Paese come “stato canaglia”, gli si attribuisce peraltro implicitamente una serie di caratteristiche e comportamenti che devono rimanere all’interno della gabbia concettuale che sta alla base della teoria stessa; come se questi paesi fossero uniti da qualcosa di essenziale che deriva dalla “natura” dei loro regimi (diversissima), come se avesse qualcosa in comune al di là del fatto di essere classificati dai geopolitici americani quali Stati fuorilegge. Quindi il concetto di rogue state è nient’altro che un espediente retorico della geopolitica americana e non un criterio analitico accettabile per individuare determinati regimi e per sanzionarne il comportamento. Ciò che importa sotto il profilo geopolitico è che la teoria dei rogue state, pur essendo contraddittoria e banalmente semplicistica, trova legittimazione in una concezione cartografica e quasi didascalica del mondo, in una divisione della sfera politica tra “buoni” e “cattivi”, in una riduzione radicale, sia della complessità delle relazioni tra Paesi, sia dei differenti contesti politici interni ai Paesi stessi; una semplificazione che spesso si traduce in ampio consenso nei confronti dell’uso della violenza per la soluzione delle tensioni tra diversi soggetti politici sulla scena internazionale. Questo articolo proverà a decostruire una serie di discorsi che hanno contribuito ad alimentare in Occidente e negli Usa, una cera idea “cartografica” dell’Iran, a rappresentalo cioè come un’entità solida e compatta, la cui identità è associata ad una serie di luoghi comuni e di pratiche discorsive decisamente orientaliste e chiaramente riconducibili a determinati interessi e processi culturali che tendono a costruire una specifica immagine del Medio Oriente; si tratta infatti di un’immagine funzionale al dibatti politico – culturale interno ai mass media e alle varie correnti di pensiero che formulano le strategie e che orientano gli atteggiamenti americani nei confronti di quella fetta di mondo. Al di là di quello che effettivamente accade in Iran, e a prescindere dai processi politici e culturali che coinvolgono quel Paese, esiste un “oggetto” geopolitico chiamato Iran, che viene solitamente rappresentato come “soggetto” geopolitico (rogue state) ma che, in realtà, nelle modalità in cui viene conosciuto, è il risultato di una dialettica in buona parte interna alle comunità interpretative che producono consenso e che controllano l’informazione negli Usa. L’Iran, per esigenze di cronaca e di consenso, è stato spesso mostrato come un Paese che si muove coerentemente avanti e indietro lungo il cammino del progresso e della civiltà. La rivoluzione khomeinista e la successiva vicenda degli ostaggi nell’ambasciata americana di Teheran hanno rappresentato un evento geopolitico talmente dirompente nei rapporti tra Usa e Medio Oriente, e tra Occidente e Islam, da lasciare un segno indelebile nella politica internazionale americana dei decenni successivi, tanto da identificare l’Iran come un interlocutore implicito e esplicito nei rapporti con il mondo musulmano, un interlocutore estremamente importante per l’auto – definizione dell’identità americana e per la legittimazione del nuovo ordine mondiale. La figura di Khomeini ha inaugurato una stagione di icone negative. Dopo l’articolo di Lake del 1994 l’Iran era sparito dalla carta geopolitica americana, la sua ricomparsa nella proiezione geopolitica di Bush non ha tuttavia sorpreso che conosce bene la retorica del “nuovo ordine mondiale” inaugurata da Bush – padre e perseguita con pervicacia dalla diplomazia americana per tutto il decennio successivo, una retorica che ha trovato nella teoria dei rogue state uno dei suoi capisaldi concettuali. Il ruolo degli Usa e le sue diverse strategie (operazione Enduring Freedom lanciata dopo gli attentati terroristici dell’11 settembre) sullo scenario medio – orientale rappresentano una componente costitutiva della costruzione del discorso geopolitico sull’Iran, senza la quale non si possono comprendere, né le diverse reazioni americane nei confronti dell’ex alleato, né tanto meno il sapiente uso mediatico dei discorsi occidentali sul Medio Oriente da parte dei fautori della Rivoluzione Islamica. Quello che verrà illustrato nell’articolo è come l’immagine dell’Iran si sia evoluta nel corso degli ultimi decenni, sia in funzione di una serie di eventi che hanno riguardato quel Paese, sia in funzione di una mutevole visione dei rapporti internazionali da parte delle diverse amministrazioni americane. L’alternarsi di immagini e silenzi che hanno riguardato l’Iran in questo periodo si può spiegare soltanto in quadro più ampio dei rapporti geopolitici internazionali, che a volte hanno avuto ben poco a che fare con la dialettica politica interna all’Iran stesso. Questa presenza mutevole sullo scacchiere internazionale è caratterizzata dalla costante visione dell’Iran come un “corpo” unico dai dati essenziali radicalmente altri rispetto all’Occidente e ai suoi valori. Critical geopolitics La critical geopolitics è la riflessione post – moderna applicata alla geopolitica (Dalby, O’Tuathail). Ponendo particolare enfasi sull’analisi testuale (seguendo Deridda e i post – strutturalisti) e sui rapporti di potere e conoscenza (seguendo Foucault), essa si occupa di decostruire i testi che, attingendo dal taken – for – granted dell’universo culturale in cui vengono concepiti e diffusi, contribuiscono a costruire una determinata visione del mondo e anche la sua progressiva naturalizzazione. La lettura “critica” della geopolitica è un modo di politicizzare la produzione di conoscenza geografica da parte di intellettuali, istituzioni e statisti e di considerare il discorso geopolitico come parte della politica stessa, e non come una descrizione naturale e distaccata di una qualche realtà obiettiva e trasparente. Un simile approccio ha l’obiettivo di analizzare il funzionamento e la natura politica di tutte le forme di conoscenza geografica e di dimostrare che tutte le narrazioni/descrizioni geografiche sono forme di specificazione della realtà politica che hanno un effetto politico. Le rappresentazioni geografiche non sono il riflesso passivo (e neutrale) dell’esistente, di quale realtà territoriale oggettiva, ma piuttosto devono essere intese come un’emanazione delle condizioni materiali, culturali e politiche dominanti in un particolare contesto spazio – temporale. La geografia del mondo viene vista da O’Tuathail e Agnew, come un’espressione della relazione potere/sapere, un discorso di carattere sociale e storico profondamente interconnesso alla dimensione politica e ideologica dell’ambiente che l’ha prodotto. La produzione di rappresentazioni geografiche è quindi sempre un atto di potere, in quanto comporta l’imposizione di un certo ordine, di una certa identità e di certe modalità di comprensione e, quindi, la realizzazione di una fotografia del reale formale e legittimata, che diventa così l’unico reale possibile. I critical geopolitics sostengono pertanto che, esaminando le diverse narrazioni, i diversi concetti e le diverse pratiche di significazione che contribuiscono a creare il discorso geopolitico, è possibile comprendere il modo in cui essi scrivono le mappe della politica globale. L’obiettivo della critical geopolitics è quindi quello di mettere in evidenza la infrastrutture discorsive di tutte le forme di geo – power e anche quello di esporre l’uso del discorso geografico al servizio del potere dello Stato, parlando in maniera critica della verità che quel potere utilizza. Questa denuncia/esposizione si basa sulla problematizzazione delle relazioni essenziali tra il sapere geografico e la gestione della politica globale, e sulla messa in discussione delle identità che vengono date per scontare e dei significati che derivano dalla naturalizzazione di quelle stesse relazioni. Per questa ragione, il compito dello studioso di critical geopolitics è quello di documentare le strategia utilizzate per produrre le mappe della global politics da parte dei diversi centri di potere, allo scopo di mettere in crisi il funzionamento infrastrutturale di tali mappe, proprio rigettando le relazioni naturali sulle quali esse di basano. Nella letteratura sulla critical geopolitics ci sono tutti gli elementi tipici dell’analisi geografica di matrice post – strutturalista: il rigetto della divisione per blocchi del mondo; l’attacco alla letteratura maschilista ed eurocentrica offerta dalle visioni geopolitiche; la denuncia del tentativo di nascondere la posizionalità delle visioni geopolitiche attraverso la naturalizzazione dell’informazione geografica su cui esse si basano; la critica alla pretesa di collocare il geopolitico in posizione distaccata rispetto al mondo, quasi ne fosse un lettore esterno ed oggettivo; la convinzione che la costruzione dell’identità si basi sulla rappresentazione dell’alterità e dell’altrove, e quindi spesso dei territori dell’Altro; l’interesse per l’archeologia del discorso geopolitico; l’esplicitazione della natura politica e quindi per niente innocente, del testo geografico. Secondo associare il termine rogue al terrorismo e alla proliferazione orizzontale delle armi di distruzione di massa riferendosi in particolare ad alcuni paesi del terzo mondo. Il bisogno di ammantare scientifico questa definizione ha anche un’altra origine: nel timore di essere accusati di discriminazione di tipo religioso (la gran parte degli stati canaglia è a maggioranza musulmana) i teorizzatori del concetto di rogue state hanno ripetutamente sottolineato che si tratta di una classificazione oggettivamente associata ad un insieme di comportamenti e alla natura politica di determinati regimi, che solo casualmente possono coincidere con i governi di paesi a maggioranza musulmana. Con la caduta del Muro di Berlino e la vittoriosa Guerra del Golfo, cominciano a delinearsi uno scenario politico internazionale e un ruolo della potenza americana nel mondo completamente nuovi che avevano bisogno di altrettanto nuovo formulazioni teoriche e di una serie di strategie in grado di legittimare pseudo equilibrio del potere economico e militare. È in questo quadro politico che prende forma la concezione dello Stato canaglia. Nel gennaio del 1993 viene diffuso un significativo documento intitolato Regional Defence Strategy, nel quale si mettono in evidenza una serie di possibilità strategiche e lo spettro delle potenziali minacce poste dal nuovo ordine globale nei confronti degli Usa. Si tratta di un piano che influenzerà in maniera decisiva la politica estera e militare americana nel decennio successivo. L’idea che guida il documento è che gli Usa devono essere in grado di affrontare militarmente due crisi regionali simultaneamente, strutturando la propria capacità di intervento militare sulla base dell’esperienza maturata con l’operazione Desert Storm. Il terreno politico e strategico per la legittimazione definitiva della teoria dei rogue state è pronto: l’esistenza di stati e di leader canaglia è probabilmente necessaria alla credibilità e all’efficacia del cosiddetto two – theater approach formulato dalla nuova strategia di difesa regionale. La categoria dei rogue state entra in maniera definitiva nel linguaggio geopolitico americano. Nella primavera del 1994 Lake pubblica il famoso articolo nel quale definisce i tratti di quelli che chiama back – lash state, Paesi cioè che minacciano la stabilità e la libertà della grande famiglia delle nazioni guidata dagli Usa. L’adozione di un procedimento induttivo che, prima individua i paesi fuorilegge, e poi costruisce le ragione della loro inclusione, dimostra la natura di puro espediente politico della teoria dei rogue state. L’unico elemento che veramente accomuna questi paesi è il fatto che gli Usa abbiano predisposto un dispositivo militare, economico e politico in grado di contenere, isolare e possibilmente questi regimi. Spetta alla comunità internazionale se contribuire o meno a quest’azione di pulizia delle canaglie, un’azione che gli Usa hanno fatto rientrare nelle grandi responsabilità assegnate loro dalla lunga tradizione del Manifest Destiny americano. Il concetto di rogue state, secondo Klare è una vera e propria invenzione del Pentagono concepita per giustificare il mantenimento di un assetto militare di un corrispondente budget, paragonabili a quelli della Guerra Fredda. Questo concetto è stato elaborato dall’establishment militare americano nei mesi successivi alla fine della Guerra Fredda allo scopo di individuare nuovi nemici per gli anni Novanta: per giustificare le spese militari necessarie a mantenere in piedi quell’establishment dovevano essere nemici temibili da suscitare sufficiente preoccupazione nell’opinione pubblica, ma non troppo. Ecco perché l’Iran, l’Iraq, la Corea del Nord, la Libia sono diventati la nuova minaccia del dopo Guerra Fredda. Per giustificare i costi del mantenimento di un apparato di difesa così imponente, le diverse amministrazioni che si sono succedute da quel momento in poi hanno dovuto continuamente dimostrare come gli Usa siano realmente minacciati da potenti nemici stranieri. Con la conclusione della Guerra del Golfo l’attenzione venne rivolta quasi immediatamente alla Corea del Nord. Per buona parte del 1993 e del 1994, le autorità americane denunciarono l’incipiente minaccia nucleare rappresentata dalla Corea del Nord e accelerarono una pianificazione di una seconda Guerra di Corea. Non appena le tensioni in Corea hanno iniziato a placarsi l’amministrazione Clinton ha aumentato la pressione sull’Iran. Tutto questo mentre la stampa diffondeva notizie allarmistiche sui programmi nucleari e sulle crescenti capacità militari dell’Iran. Durante gli ultimi anni Novanta l’Iran non è stato più nel mirino delle invettive americane, almeno fino alla recente inclusione nell’asse del male immaginato da Bush. Vediamo di ripercorre l’evoluzione dell’immagine dell’Iran rispetto alle diverse cornici geopolitiche che sono state via via legittimate dai circoli intellettuali e politici occidentali e rispetto ad una serie di eventi che in quelle cornici sono stati collocati e interpretati. Nel caso della geopolitica americana siamo di fronte ad una visione decisamente egemonica nei rapporti internazionali; di cui la stessa classe al potere in Iran nel suo farsi soggetto geopolitico ha saputo utilizzare in molte occasioni proponendosi come spazio alternativo a questa stessa egemonia. Iran: genesi di un rogue state Secondo McAlister sono quattro le ragioni principali per cui il Medio Oriente è diventato una regione particolarmente importante per gli Usa: la sua rilevanza strategico – militare, il luogo assegnato alla Terra Santa per motivi religiosi; il sostegno allo Stato di Israele; la questione del petrolio. Due di queste ragioni sono state alla base del ruolo che l’Iran ha avuto per la presenza americana in Medio Oriente: la sua posizione strategica nelle politiche di contenimento dell’Urss e il controllo delle risorse petrolifere in quell’area. Fin dal 1946 gli Usa, in un’epoca in cui gli assetti della Guerra Fredda era ancora in corso di definizione si preparavano a un intervento immediato in Iran, sia per impedire l’espansione ipotetica del germe comunista, sia per non perdere il controllo strategico sui suoi pozzi petroliferi. È utile ricordare come i piani americani per un’eventuale conflitto nucleare contro l’Urss consistessero tra le varie ipotesi scatenanti anche quella della perdita dell’Iran e del suo prezioso petrolio. Queste considerazioni strategiche si sono spesso incrociate con un modo di intendere da parte degli Usa il proprio ruolo nel mondo, quale potenza a cui è stato assegnato dalla teoria del Manifest Destiny un compito storico, di porta quasi divina. L’Iran nella politica del contenimento rappresentava per gli Usa uno dei tre terreni solidi su cui poggiare i piedi della loro organizzazione militare e della loro penetrazione economica in quella parte del mondo, assieme ad Israele e all’Arabia Saudita. In cambio del controllo delle risorse petrolifere e del totale appoggio strategico e militare, il governo iraniano guidato dallo Shah, ha potuto fino alla Rivoluzione Islamica del 1979, attingere a fornitura di armi convenzionali cospicue e dar vita ad un processo di modernizzazione e di progressivo riposizionamento del suo paese nella mappa geopolitica del Medio Oriente. La Rivoluzione Islamica del 1979 e la successiva presa degli ostaggi nell’ambasciata degli Usa di Teheran, hanno avuto una serie di effetti dirompenti nella visione geopolitica americana del Medio Oriente e nella definizione dell’identità nazionale degli Usa. L’Iran e la sua sfida all’America hanno avuto un ruolo fondamentale nella riformulazione delle nuove strategie geopolitiche per il Medio Oriente e nel rapporto tra Occidente e Islam, una riformulazione importante tanto sul piano strategico tanto su quello simbolico, cioè sulla definizione delle geografie morali che ne hanno regolato le relazioni internazionali negli ultimi due decenni e mezzo. Innanzi tutto, la Rivoluzione Islamica ha significato la perdita dell’Iran, cioè l’improvvisa conversione di un alleato in un nemico. In secondo luogo, l’Iran non soltanto rappresentava un importante esportatore di petrolio, ma avrebbe potuto esportare la propria rivoluzione con il rischio di scatenare una reazione a catena tra i paesi produttori di greggio, con le immaginabili conseguenze per l’economia e la politica del paesi Occidentali. Una terza conseguenza riguarda l’immagine della potenza statunitense nel mondo. Gli americani hanno vissuto la presa degli ostaggi con i relativi fallimenti dei tentativi diplomatici e militari per liberarli, come uno scacco insopportabile di fronte all’opinione pubblica mondiale. Quarto, la crisi degli ostaggi è stata una delle vicende che hanno goduto della maggiore copertura mediatica della storia. Questa copertura ha avuto un duplice effetto: quello di aumentare la paura del mondo arabo e islamico e delle sue minacce e quello di rendere immaginabile e politicamente praticabile, per i Paesi islamici, una politica di radicale opposizione al dominio occidentale. Più in generale si può affermare che lo shock della crisi degli ostaggi ha rafforzato una visione dualistica del mondo, con il male ed il bene chiaramente collocati culturalmente e geograficamente. Inoltre, la guerra al terrorismo in poi, è diventata una priorità della geopolitica americana, essa influenzerà tutta la politica estera delle varie amministrazioni che governeranno nei decenni successivi ed avrà importanti riflessi sulla politica interna. Dal 1979 in poi, l’Iran diventa quindi un soggetto geopolitico fondamentale nella costruzione dei nuovi equilibri di politica internazionale. L’ombra della presa degli ostaggi si è estesa sulle relazioni tra paesi arabi e il mondo occidentale, ma anche sul processo di ricostruzione dell’identità nazionale americana nel corso degli ultimi due decenni. La presenza pervadente della figura di Khomeini ha trovato espressione almeno su tre fronti. Il primo fronte è quello interno. Il fallimento della politica di Carter nella gestione della crisi degli ostaggi e il senso di potenza percepito dall’opinione pubblica americana in quell’occasione, non solo hanno rafforzato il senso di frustrazione e la crisi di identità provocati dalla sconfitta in Vietnam, ma hanno anche consentito di rivisitare in chiave interna i quattro ambiti di interesse americano per il Medio Oriente. La Terra Santa è diventata, un terreno conteso sia per il crescente supporto dell’opinione pubblica americana nei confronti della politica di Israele, sia per la preoccupazione nei confronti della minaccia islamica che da quella terra trova origine. A ciò si aggiunga il sempre maggiore peso dei gruppi fondamentalisti cristiani nella politica degli Usa. Il secondo fronte è quello del ruolo americano a tutela della democrazia e dei valori universali asseriti dalla comunità internazionale, il cosiddetto destino manifesto. L’ideale della diffusione della democrazia e della liberazione dal gioco coloniale hanno rappresentato per altro la piattaforma ideologica ideale sulla quale si è retto il passaggio di consegne tra potenze europee e Usa. La rivoluzione khomeinista, una versione radicale dell’autodeterminazione di una parte maggioritaria del popolo iraniano, ha anche messo in crisi questa piattaforma ideologica, paralizzando per certi aspetti il potenziale interventismo e inducendo una radicale riformulazione della retorica benevolente che aveva nutrito la politica americana dal dopo guerra in poi. Il diritto degli iraniani a darsi un governo religioso ed estremamente conservato ha posto il problema della rappresentazione del mondo non occidentale al di là dello schema, richiedendo un profondo ripensamento del ruolo degli Usa nel mondo, che soltanto con il crollo del Muro di Berlino e l’attacco ad Hussein ha potuto trovare forma strategie e linguaggi. Il terzo fronte è quello della personalizzazione della geopolitica. Khomeini, dalla Rivoluzione Islamica, in poi ha cominciato ad impersonare sia il male assoluto, sia l’Iran stesso, che quindi necessariamente hanno finito per coincidere. Il ritorno del “mostro” geopolitico ha consentito, da un lato, una semplificazione del linguaggio e dell’immaginario che hanno armato la guerra al regimi, non consentendo la diversificazione che l’evoluzione delle condizioni politiche di questi stessi Paesi avrebbero richiesto; la demonizzazione che viene associata all’appellativo rogue state, rende infatti particolarmente difficile per gli strateghi americani mutare politica senza perdere consenso agli occhi della propria opinione pubblica, spesso mobilitata in una sorta di guerra santa contro il male incarnato da un determinato Paese (aperture del presidente iraniano Khatami negli anni ’90). Infine, l’eventuale utilità propagandistica del concetto di rogue state non è paragonabile al suo costo politico in termini di isolamento e di frizione con gli alleati tradizionali degli americani che la sua adozione provoca. Si può concludere che la definizione in questione non solo alimenta contraddizioni e paradossi, spesso coperti a fatica dalla propaganda mediatica americana, ma è sinceramente inaccettabile per la banalizzazione quasi infantile dei rapporti internazionali che essa offre all’opinione pubblica. Nonostante queste considerazioni nulla toglie al fatto che si tratti di un pilastro della nuova mappa mondiale del potere costruita a partire dalla fine della Guerra Fredda. Questa visione geopolitica contribuisce a creare il mondo oltre che a descriverlo, perché legittima azioni militari contri i rogue state e ciò ridefinisce la mappa della politica globale. Attualmente la teoria dei rogue state sta alimentando la Fase 2 della guerra al terrore lanciata da Bush, fase in cui si intendono colpire tutti i regimi che rappresentano una potenziale minaccia alla sicurezza mondiale. Sarajevo come paesaggio simbolico Forgotten Sarajevo, un volume pubblicato nel 1999 da Prstoievic riflette il paesaggio simbolico “paesaggio simbolico” di Sarajevo, elaborato nel milieu culturale post – bellico dal punto di vista di un intellettuale impegnato, che ha partecipato attivamente alla resistenza culturale ed artistica della città durante l’assedio. Un paesaggio simbolico che riflette “uno sguardo”, vale a dire una maniera soggettiva di esprimere la realtà, indissolubilmente legata alla visuale prospettica e quindi alla situazione storica, politica e cultura di chi effettua l’azione del guardare. Il paesaggio di Sarajevo è stato più volte modellato e rimodellato nel corso della storia. Attualmente, a Sarajevo, la posta in gioco è quella di una ricostruzione della realtà urbana, che se da un lato propone l’obiettivo di disegnare una territorio mono etnico, secondo il modello di una nuova omogeneità culturale, ma ambisce dall’altro ad elevare la città a luogo internazionale di arte e creatività intellettuale, capace di rinascere dalle proprie ceneri sotto il segno della tolleranza culturale e della pace. Il paesaggio urbano come paesaggio simbolico Un paesaggio urbano può essere considerato e letto in termini “simbolici” nella sua duplice referenzialità di insieme di oggetti e di immagine e rappresentazione degli stessi. Se inteso in qualità di “paesaggio culturale”, il paesaggio urbano costituisce un insieme di oggetti che appartengono alla vita di tutti i giorni (edifici, negozi), e quindi può venir interpretato come la manifestazione visibile del genere di vita di una data società. In questa prospettiva, il paesaggio viene considerato come un sistema di segni, che può essere interpretato attraverso l’attribuzione di un significato ai singoli elementi che lo compongono, nonché alla combinazione di quegli elementi nello spazio. Il paesaggio urbano è anche “paesaggio politico” (o disegnato), in quanto gli oggetti che lo compongono, insieme con la loro stessa combinazione, sono spesso volutamente inseriti nel paesaggio, al fine di comunicare un particolare messaggio (disposizione delle vie e strade per far esaltare i palazzi del potere). Il “paesaggio politico” è dunque simbolico perché risulta punteggiato da segni che producono significati storici, relazioni sociali e rapporti di potere. Lo spazio pubblico urbano, spazio di libertà ma anche spazio di controllo, risulta il luogo dove meglio è possibile riunire un grande numero di persone che condividono i medesimi codici interpretativi, e dunque dove più frequente è la pratica dell’intervento di “monumentalizzazione” delle forme materiali, attraverso edifici di grande visibilità, statue, fontane. Il paesaggio urbano si trasforma così in una rappresentazione attraverso la quale il potere decide di “farsi riconoscere”. Anche un “paesaggio del potere”, tuttavia, può assumere codifiche differenti nel corso della storia e mutare di significato in relazione alle diverse fasi della vita politica di una comunità. Il paesaggio urbano può essere di diversi tipi: paesaggio “imposto”, nel caso gli edifici vengano eretti o abbattuti dalle diverse comunità che si susseguono; paesaggio “dimenticato”, nel caso in cui gli stessi edifici cambino il loro valore in base alla comunità che vive in quello spazio; oltre a questi due modi il paesaggio urbano può essere un “paesaggio della resistenza”, partiti politici diversi possono negoziare differenti interpretazioni del passato e dunque elaborare una discorde interpretazione in relazione agli stessi luoghi della memoria, agli stessi edifici e alle medesime rovine. Talora, è la città in quanto sistema insediativo a divenire un “paesaggio della mente”, ad acquisire, in se stessa, una valenza simbolica, nella sua doppia possibile interpretazione di centro di civiltà, eterogeneità culturale e urbanità, oppure di luogo ibrido, culturalmente meticcio e moralmente pericoloso. Un “paesaggio della mente” ha spesso il potere di generare emozioni e di provocare azioni; se connesso ad uno specifico luogo può assumere un significato politico più profondo ed essere acquisito all’interno di una data narrativa etno – nazionale: diviene allora un etno – paesaggio. Il paesaggio come pratica discorsiva Considerare una paesaggio urbano come “paesaggio culturale o politico” significa fare riferimento ad un oggetto concreto prodotto di un determinato momento storico. Fare riferimento ad un “paesaggio della mente” significa invece implicare la rappresentazione dell’oggetto, vale a dire il variabile significato attribuito a quel paesaggio, come risultato di un modo di vedere. Per mettere in atto questi diversi livelli di analisi, è possibile fare riferimento al metodo iconografico. L’approccio iconografico si sforza di attribuire significato ad un paesaggio collocandolo nel suo contesto storico e analizzando in particolare le idee implicate nella sua elaborazione come immagine. È possibile considerare quel sistema di idee come il prodotto di un discorso e lo stesso paesaggio come frutto di una pratica discorsiva, che non solo ne influenza le modalità di interpretazione (in termini soggettivi), ma è capace di produrre azioni e conseguenze sulla “cosa stessa”, modificandola in termini oggettivi. Il paesaggio assume in questo caso la triplice valenza di oggetto, rappresentazione dell’oggetto e discorso sull’oggetto che, in quanto tale, è capace di produrne la trasformazione. In ogni caso, il significato delle cose è di per se stesso instabile. I simboli possono mutare di significato e ciò rende il paesaggio urbano assai più simile ad un “immagine cangiante” (flickering text), piuttosto che ad un rigido palinsesto. La prospettiva iconografica tenta di cogliere il significato di volta in volta impresso al singolo oggetto e di esaminare quale tipo di significato venga mutevolmente selezionato dalle diverse modalità di rappresentazione visuale e narrativa del paesaggio stesso. In realtà, è l’uomo che guarda ad essere storicamente, geograficamente e culturalmente determinato, e con lui il suo modo di vedere. I diversi livelli di analisi sono strettamente interconnessi; infatti, cultura, politica e soggettività sono elementi che interagiscono di continuo nel configurare e riconfigurare il paesaggio urbano, non solo in quanto manufatto concreto, ma anche come modo di vedere; a sua volta, il paesaggio come pratica discorsiva spesso induce ad adombrare il paesaggio come oggetto reale. Sarajevo ottomana: la produzione di un “paesaggio culturale” Nel XVI secolo, il paesaggio di Sarajevo era un classico esempio urbano ottomano, con strade strette, edifici bianchi, giardini chiusi e alti minareti, a costituire gli unici elementi di riferimento ad elevata riconoscibilità visuale. Le strade di ogni quartiere erano organizzate in modo da condurre direttamente alla moschea di vicinato, che ne rappresentava il centro, sociale, religioso e amministrativo, o verso il mercato, vale a dire verso il centro economico e commerciale della città. Allora, Sarajevo era abitata perlopiù da musulmani anche se molti cristiani cattolici avevano un loro quartiere specifico. Anche molti ebrei fuggiti dalla Spagna si erano insediati in città. Pertanto, già nella seconda metà del sedicesimo secolo, Sarajevo aveva iniziato a sviluppare un carattere decisamente multiculturale. Nel 1697, Eugenio di Savoia, entrò in Sarajevo e bruciò gran parte degli edifici cittadini per poi tornare in territorio austriaco. L’attacco lasciò una città sconvolta e durante tutto il corso del diciottesimo secolo, ogni sforzo del ricostituito potere ottomano fu convogliato nella ricostruzione di quanto era stato distrutto. Sarajevo asburgica: l’imposizione di un paesaggio politico Il Congresso di Berlino (1878) diede mandato sulla Bosnia all’impero austro – ungarico. Negli anni del potere asburgico, la regione visse cambiamenti culturali, economici e politici di grande impatto e il paesaggio urbano della sua capitale venne completamente ridisegnato. Dal punto di vista austriaco, la Bosnia era allora parte dell’Europa che si riteneva fosse rimasta in una situazione di arretratezza culturale a causa della dominazione ottomana. Era pertanto necessario mettere in atto una tangibile opera di civilizzazione. In qualche anno, il paesaggio di Sarajevo venne completamente modificato: una rete di trasporti e di comunicazioni venne realizzate per connettere la città con la costa adriatica e con il resto dell’Europa; nuove, moderne industrie vennero create e il sistema finanziario completamente riorganizzato, insieme con la burocrazia centrale. Anche dal punto di vista demografico, il processo di europeizzazione produsse risultati notevoli: la componente islamica della popolazione si ridusse notevolmente. Vennero realizzati molto edifici pubblici, tracciati viali e disegnati parchi; vennero aperte piazze, secondo un’idea urbanistica nuova per la sensibilità ottomane. Il nuovo impianto di strade venne tracciato per favorire la comunicazione e la visibilità dei luoghi di culto e dei luoghi del potere, invece che per garantire il rispetto del privato. La strada divenne l’unità urbanistica di riferimento, mentre persino le case private venivano ad essere costruite secondo un modello di pianificazione che favoriva l’apparenza e la localizzazione all’austriaca. Gli austriaci ridisegnarono anche la pianta stradale, considerando quella locale caotica e priva di un impianto razionale. Nuovi nomi, atti ad onorare la casa imperiale, apparvero sulla carta di Sarajevo. Gli sforzi per rendere la capitale della Bosnia più moderna, secondo la moda europea, portarono alla creazione di forme specifiche ed originali di coesistenza e fusione culturale. Gli stessi austriaci, All’attacco del paesaggio culturale si è poi aggiunta la distruzione sistematica del banale tessuto cittadino. La città stessa, in quanto “città”, è stata colpita dai cecchini sulle montagne, che in Sarajevo vedevano, secondo i vecchi stereotipi, una “città” resa abbietta da secoli di mimetismo morale nei confronti del mondo islamico. Gli stessi stereotipi paesaggistici che dall’esterno hanno fomentato l’attacco contro Sarajevo, riletti dall’interno in prospettiva rovesciata, ne hanno permeato l’esistenza. Gli abitanti di Sarajevo hanno infatti contrapposto l’immagine speculare di Sarajevo come un luogo cosmopolita, pacifico e civile, vittima di un feroce attacco da parte dei selvaggi calati dalle montagne, e proprio per difendere la civiltà urbana contro le barbarie, hanno organizzato una resistenza intellettuale ed artistica che ha sollecitato nei confronti della città la solidarietà internazionale, e le ha consentito di sopravvivere. In questo senso, la distruzione di Sarajevo è stata concettualizzata all’insegna della nozione di “erbicidi”, vale a dire di atto di distruzione deliberatamente mirato a colpire la città nella sua qualità specifica di “urbanità”. Questa interpretazione, apparentemente legata all’antagonismo fra i tipi psico – geografici, è stata coltivata da molti intellettuali bosniaci, e dallo stesso nazionalismo bosniaco, la cui affermazione si è indissolubilmente legata ad una lettura della guerra come confronto fra la “civiltà urbana” dei musulmani e la mentalità “barbara e tribale” dei serbi. Il paesaggio urbano di Sarajevo, fatto di edifici devastati e pieni di cicatrici, è stato a sua volta trasformato nel simbolo stesso della creatività artistica, capace di ergersi e di resistere contro la guerra e la distruzione (violoncellista Smajlovic suona tra le rovine della Vjecnica). Dopo Dayton: la ricostruzione di Sarajevo come paesaggio simbolico A partire dalla fine dell’assedio, siglata dagli accordi di Dayton (21 novembre 1995), Sarajevo è divenuta il centro di molti progetti di ricostruzione; gli edifici principali sono in fase di restauro (torri Unis). Il bisogno di ricostruire la città e di liberarla dalla sue rovine, e nel contempo il desiderio di riscrivere il paesaggio culturale e politico, hanno visto intervenire molti attori sulla scena. Insieme all’Austria, altri paesi donatori, come l’Arabia Saudita, sono entrati in gioco, come l’Unesco e l’Ue, impegnati in un ampio spettro di iniziative; e naturalmente lo stesso governo della Bosnia. Ovviamente interventi come la costruzione di una nuova, imponente moschea evidenziano in modo chiaro il desiderio di marcare il paesaggio con qualche elemento chiaramente islamico (finanziata dagli E.U.A). esattamente, come il supporto finanziario offerto dall’Austria per riportare l’edificio della Vijecnica nelle sue condizioni di partenza può essere considerato come un tentativo di re incorporare il paesaggio di Sarajevo nella storia d’Europa. Tuttavia, l’antagonismo fra potere esterni alla regione, che in qualche modo cercano di influenzarne la storia, non è nuovo per Sarajevo; anzi, fa parte della tradizione della città e del suo paesaggio culturale, la cui unicità e distintiva bellezza stanno proprio nella discordanza visuale. Quello che è nuovo invece è il processo di omogeneizzazione impresso al paesaggio politico, al fine di soddisfare le ambizioni mono – etniche del nazionalismo bosniaco. I nomi di “eroi” comunisti, di partigiani della Seconda guerra mondiale, di artisti e località della Serbia e della Croazia e di “eroi nazionali” della Jugoslavia sono stati cancellati e rimpiazzati con nomi che celebrano la storia musulmana o personaggi bosniaci. Il ricordo dei “nazionalisti serbi”, e di Princip in particolare, è stato cancellato dalla mappa cittadina, e il ponte dove si è verificato l’attentato, chiamato Principov most (ponte di Princip) negli anni della Jugoslavia, è ritornato ad essere Latinluk most, come nella tradizione ottomana; solo un piccola targa ora marca il luogo dell’attentato. La memoria sociale tende ad essere selettiva, oppure ad essere ricostruita in modo selettivo, e la Sarajevo post – bellica rischia di essere ricostruita in senso più islamico, e meno cosmopolita di quanto non fosse prima del conflitto. Nello stesso tempo, nei quartieri serbi della città, la popolazione locale continua a commemorare i proprio eroi nazionali. Fragili equilibri di pace sono così messi a repentaglio dalla stessa opera di rielaborazione dei paesaggi simbolici. Tuttavia, la città ha assunto l’immagine come luogo di resistenza nel nome della cultura, ed è diventata un icona globale. Molti dei progetti di ricostruzione sono focalizzati a mantenere questa immagine, mentre nuovi progetti sono orientati a fare di Sarajevo un simbolo di speranza, al posto del paesaggio tragico del “paese dell’odio”. Secondo quanto pronunciato dalle istituzioni bosniache, il sogno è quello di fare di Sarajevo un punto focale per l’arte contemporanea del ventunesimo secolo. La domanda che rimanere aperta è se un simile sogni può effettivamente trasformare Sarajevo da luogo di “memoria letterale”, incapace di fuggire dalle tensioni del dopo – assedio, a luogo di memoria “esemplare”, vale a dire in un luogo simbolico capace di mostrare come l’arte e la cultura possano cancellare la violenza etnica e l’odio.
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