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Didattica della Storia - Insegnare Storia in modo inclusivo e innovativo, Sintesi del corso di Storia

Riassunto dettagliato del manuale "Didattica della Storia - Insegnare Storia in modo inclusivo e innovativo", corso della professoressa Del Bo.

Tipologia: Sintesi del corso

2023/2024

In vendita dal 26/03/2024

ADP45
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Scarica Didattica della Storia - Insegnare Storia in modo inclusivo e innovativo e più Sintesi del corso in PDF di Storia solo su Docsity! RIASSUNTO DIDATTICA DELLA STORIA – Insegnare storia in modo inclusivo e innovativo di Beatrice Del Bo Introduzione Rilevanza delle immagini. A fini didattici si deve considerare con attenzione il ruolo che la produzione e la condivisione di immagini, con una particolare attenzione per Instagram, hanno oggi per le persone, e quindi il connesso cambiamento sociale di cui esse sono veicolo ed esito. E occorre domandarsi se l’iconografia ai nostri giorni non sia il più potente “trasferitore” di conoscenza. Troppo poco spesso ci soffermiamo sul fatto che essa è stata nella Storia il principale strumento di trasmissione di messaggi e di informazioni. Se pensassimo all’età medievale, per fare un esempio soltanto, tutte le “comunicazioni di massa” avvenivano per immagini, nel bene e nel male. Instagram e l’attenzione all’estetica, una nuova “grammatica” della conoscenza. Nella società odierna – definita a torto o a ragione società delle immagini per antonomasia – disponiamo di Instagram, un medium il cui linguaggio, e il cui logo, è la fotografia e l’oggetto che la produce. Questo ambiente virtuale costituisce uno spazio di conoscenza. Oggi il conoscere passa dall’immagine, «elemento centrale di una nuova “grammatica” della conoscenza», e non più dalla parola. A questo proposito, per i videogame, Renato Roda rileva, per esempio, che il loro successo, e specificatamente per quelli di ambientazione storica, è dovuto «alla ricchissima e dettagliata ricostruzione scenografica, narrativa, estetica dei diversi periodi storici». Per il pubblico che frequenta i social, per le possibilità che offrono, per le indicazioni preziose che il/la docente può fornire a proposito della bontà dei contenuti, risulta di fondamentale importanza che anche la didattica della Storia si impadronisca di questi linguaggi e risieda abitualmente sulle pagine virtuali. Una didattica “pop”. Con l’espressione “didattica pop” si intende una modalità di insegnamento che faccia proprio il linguaggio con cui il corpo studentesco oggi si informa, si diverte, apprende, comunica e interagisce. Ciò non significa che il/la docente debba snaturare la propria metodologia, ma che possa in parte adattarla al pubblico a cui si rivolge, giacché l’obiettivo di chi insegna deve essere quello di valorizzare la sua “materia”, di renderla accattivante onde catturare l’attenzione della classe e così trasferire informazioni e concetti, nel nostro caso storici, fondamentali per la crescita e la maturazione di chi frequenta le scuole. Poiché la Storia è una disciplina in perenne evoluzione, grazie alle ricerche della comunità scientifica e alle sue scoperte, pure il suo insegnamento deve rinnovarsi continuamente. L’insegnante designer. Si fa largo, soprattutto nella didattica concepita dai pedagoghi, un profilo di insegnante designer che progetti e gestisca un’esperienza basata sull’impiego del pensiero critico e della creatività al servizio di una specifica disciplina. L’esigenza scaturisce anche dalla consapevolezza scientificamente provata che i nativi digitali dispongano di un livello di durata dell’attenzione ridotto rispetto ai discenti anche soltanto di 15/20 anni fa, il che non è necessariamente un dato negativo, come ormai pare evidente, poiché, se è ridotta la loro capacità di concentrazione durevole nel tempo è invece molto aumentata quella di concentrazione contemporanea su più oggetti, quello che si definisce multitasking. Cosa si intende? Un alto livello di concentrazione nell’esecuzione di due o più attività. La sfida per i/le docenti. Si rammenti che il “come” si insegna è del tutto soggettivo e determina il successo o meno di un/una docente e, insieme, della disciplina. Come può un o una docente, con i mezzi, scarsi, che la scuola italiana mette a sua disposizione, vincere una battaglia che parrebbe persa in partenza? Il docente può sfruttare e valorizzare, oltre alla preparazione e alla formazione, le proprie capacità retoriche, comunicative, conoscenze e talenti personali (disegno, canto, recitazione, scrittura, grafica ecc.). Occorre tuttavia fare i conti ogni anno con il pubblico che ci si trova di fronte, sempre diverso e in continua evoluzione sotto il profilo linguistico e tecnologico, oltre che sociale, culturale ecc. La quotidianità professionale dei docenti si è molto trasformata da quel 1859 quando l’insegnante aveva a disposizione soltanto lavagna e gessetto. Oggi auspicabilmente molte aule sono attrezzate con la L.I.M. (lavagna interattiva multimediale), benché sia poco sfruttato il suo potenziale di interazione con il gruppo studentesco, essendo utilizzata perlopiù come sostituta dell’ardesia. La L.I.M. spesso è impiegata a mo’ di proiettore, svalutando completamente l’investimento non soltanto finanziario ma progettuale che lo Stato avrebbe fatto su questo mezzo tecnologico. Comunque, le scuole spesso sono dotate di PC e di apparecchi televisivi e studenti e studentesse dispongono di una loro dotazione personale di devices. Eppure, ancora oggi la resistenza del corpo docente all’impiego di strumenti tecnologici come supporto per la trasmissione dei contenuti è molto alta. Crisi della storia: dibattito fra apocalittici e integrati. Quindici anni fa Andrea Zannini, interrogandosi sulle ragioni della «crisi della Storia» a scuola, sottolineava l’esistenza di un dibattito aspro tra i “conservatori” o «apocalittici», ossia coloro che, nella didattica, riconoscono al libro e alla lettura la primazia come fonte di apprendimento e che valutano «deconcettualizzante» l’uso dei nuovi media, e quelli che definirei “progressisti” – per altri «integrati» –, ossia chi riconosce ai nuovi codici e linguaggi, alla tecnologia e alle immagini un ruolo fondamentale e benefico nella formazione scolastica. Come imparano, da cosa e da chi apprendono i digital natives? - Essi sono capaci di acquisire informazioni e di seguire contemporaneamente più “discorsi”, provenienti da fonti (devices) diverse, tecnologiche soprattutto, ma che la durata della loro concentrazione è molto inferiore a quella anche soltanto della generazione precedente. - Sono mutate le soglie di attenzione e la durata dell’intelligenza collettiva (il prodotto delle singole intelligenze che riflettono insieme su un medesimo tema con un coordinamento che le valorizzi); è certamente diminuita la credibilità attribuita ai mezzi classici dell’insegnamento scolastico, i libri, e a chi sceglie quali strumenti impiegare, cioè gli/le insegnanti. - A questo punto la scelta di chi fa l’insegnante di mestiere sta fra arroccarsi tra libri e manuali o migrare con le sue conoscenze in un ambiente diverso che consenta di trasferirle in una maniera che potremmo definire friendly, ossia più vicina all’interlocutore/interlocutrice, usando a proprio vantaggio ciò che la tecnologia mette a disposizione (immagini, Internet, social, messaggistica ecc.). Peraltro, è assai probabile che l’insegnante stesso/a quella tecnologia la sfrutti per studiare, preparare lezioni, aggiornarsi, divertirsi, comunicare con amici/he e colleghi/e, affermare le proprie idee, visitare luoghi e via dicendo, cioè che la usi esattamente come i/le discenti, magari con un livello inferiore di abilità e che quindi, a sua volta, potrebbe trarre beneficio dal confronto con generazioni più giovani. - l’annoso problema continua a essere la ridotta percentuale di insegnanti di Storia laureati in Storia. 0.3 “Papà spiegami a che serve la Storia”. Questo interrogativo, tuttavia, è quello che i/le discenti rivolgono a loro stessi/e e pongono al corpo docente, poiché di rado hanno reale contezza del senso dello studio della Storia e della Storia stessa. Alla domanda del bambino si può senz’altro rispondere in molti modi. Innanzitutto, ribadendo che la Storia è sempre nuova poiché evolve ogni giorno grazie al lavoro interpretativo di storici e storiche, e al contempo fornisce strumenti per comprendere il presente e influenzare il futuro. Si potrebbe anche rispondere che, se alcuni governi dittatoriali vietano ancora ai giorni nostri di insegnarla – come documentato nell’ottobre 2022, allorché il presidente della Federazione russa, Vladimir Putin, vietò l’insegnamento della Storia nelle scuole della città ucraina sudorientale di Melitopol’, occupata durante il conflitto russo-ucraino –, risulta perciò evidente quanto essa possa insegnare in termini di diritti, libertà, coscienza, consapevolezza. Cosa significa studiare Storia? - Studiare Storia non significa apprendere una sequenza di nomi di personaggi illustri e di date relative per la gran parte a eventi bellici e/o istituzionali. - Significa invece studiare quali sono state le ragioni dell’evoluzione territoriale, politica, economica, culturale, nel senso più ampio possibile del termine, di un’area geografica e di un potere, ma soprattutto confrontare le interpretazioni che storici e storiche hanno fornito di queste dinamiche nel corso dei decenni. - discernere il vero dal falso, distinguere “amici” e “nemici”. Interpretare criticamente le informazioni, essendo capace di soppesare utilità e validità e di discernere tra fatti e opinioni. In estrema sintesi: la proposta delle “Annales” confliggeva in Italia con la Storia insegnata a scuola che restava, anzi, si consolidava nella prospettiva dell’esaltazione delle «italiche virtù», delle gesta militari, dei generali che senza soluzione di continuità avevano condotto gli italiani di successo in successo dall’Impero Romano al fascismo e, si auspicava, oltre. La ricezione in Italia delle indicazioni di questa nuova scuola di pensiero che, rinnovata, ancora oggi è tra le dominanti il panorama della storiografia europea, avvenne infatti soltanto quando tramontarono Benedetto Croce e Giovanni Gentile, i due brillanti astri che avevano dominato la scena intellettuale e politica italiana dagli anni Venti a tutto il periodo fascista e oltre, inquadrando lo studio e l’insegnamento della storia in categorie morali-ideologiche. CAP 1: PER UNA STORIA DELLA STORIA NELLA SCUOLA ITALIANA 1.1 A partire dall’analfabetismo. L’Italia della seconda metà dell’Ottocento era caratterizzata da disomogeneità economiche, linguistiche, sociali e culturali. Al momento dell’Unità (1861), la neonata nazione era abitata da una popolazione che parlava italiano per il 2%, mentre la restante parte si esprimeva usando dialetti locali, e soprattutto scontava una premessa drammatica, cioè un altissimo livello di analfabetismo. Tuttavia, si facevano strada nuove istanze, che si concretizzarono fra 1961 e 1962 quando si realizzò la nascita della Scuola italiana contemporanea. Si confermò l’obbligo scolastico fino ai 14 anni (già previsto dalla “Riforma Gentile” anche se con modalità differenti), presso una scuola media inferiore unica, «scuola secondaria di primo grado», con il conseguente smantellamento delle scuole di avviamento professionale. Si trattò non soltanto di una riforma della Scuola, ma di una riforma sociale e, più in particolare, di una riforma della Storia insegnata. Da allora essa, infatti, fu concepita non più come disciplina a sostegno del regime politico ma come trasmissione della conoscenza dell’evoluzione di uomini e donne. Negli anni seguenti furono tuttavia avviati altri cambiamenti, non tutti positivi: con la Legge n. 348 del 1977 si introdussero i nuovi programmi, con l’abolizione totale del latino nel 1979, la consacrazione della priorità delle discipline scientifiche e l’introduzione dell’educazione musicale. Dal 1988 al 1992 si certificò che oggetto della disciplina Storia insegnata dovesse essere il metodo, tanto che fu ribadita l’importanza della didattica laboratoriale, ossia di quella tipologia di spazio destinato alla sperimentazione del metodo storico che nelle fonti ha i suoi reagenti e nello spirito critico e nella bibliografia i suoi alambicchi. La considerazione che si può formulare è che la riforma della Scuola serva più ad appropriarsi di un’azione di governo che a migliorare il sistema scolastico. I danni procurati da questa serie di conati di interventi, spesso abortiti a causa dell’insediamento del governo successivo, hanno riguardato anche l’insegnamento della Storia, che non è approdato ancora al traguardo di essere quella disciplina formativa contemporanea, interdisciplinare, capace di trasmettere competenze attive ai cittadini e alle cittadine del futuro. 1.5 Da Telescuola a Non è mai troppo tardi: passati linguaggi della contemporaneità. Dal 25 novembre 1958 al 1966 la RAI trasmise Telescuola, un programma ideato in collaborazione con il Ministero della Pubblica Istruzione, che offriva la possibilità di frequentare un corso scolastico “a distanza” a chi abitava in paesi che non erano provvisti di scuole superiori. L’obiettivo che si proponeva Telescuola era sostituire in tutto e per tutto la frequenza della scuola di Stato con un «corso televisivo», cioè, «una scuola vera e propria autosufficiente» con «lezioni giornaliere» e corsi di avviamento professionale a distanza a indirizzo industriale e agrario. Si trattava di una sfida comunicativa e didattica al tempo stesso: offrire la possibilità di concludere il percorso scolastico a coloro che non ne avevano i mezzi a causa dell’assenza di scuole secondarie nella località di residenza, cioè in quei 4000 comuni che, per mancanza di fondi, non avevano potuto allestirle. La trasmissione fu seguita da circa 30.000 discenti, di cui 3500 sostennero l’esame di Stato, superato da mille. In contemporanea, fu la stessa Puglisi a scegliere Alberto Manzi (che divenne noto come “il maestro degli italiani”) per affidargli quella che divenne la trasmissione di punta del settore: Non è mai troppo tardi. Fu un’idea sensazionale e una scelta azzeccatissima. In televisione, egli si presentava infatti accanto a una lavagna con giganteschi fogli di carta che riempiva con destrezza e rapidità di disegni a carboncino che, sia detto per inciso, gli sporcavano regolarmente i polsini della camicia bianca. Manzi si avvalse di questa capacità per conferire dinamicità al suo eloquio durante la trasmissione; era solito coinvolgere il pubblico composto di studenti e studentesse adulti/e, riuscendo a tenere desta l’attenzione di milioni di telespettatori e telespettatrici. Un metodo didattico innovativo. Benché vi sia chi non riconosce alla trasmissione il ruolo alfabetizzante attribuitole da altri, o ne riduca comunque l’impatto, è indubbio che il metodo didattico fu innovativo tanto per il mezzo prescelto – la televisione –, quanto per la metodologia adottata dal maestro, corroborata dall’uso delle immagini, tra disegni di pugno di Manzi e filmati messi in onda. Manzi, come egli stesso dichiarò, adattò il proprio modo di insegnare al pubblico a cui si rivolgeva e al contesto in cui era chiamato a svolgere il proprio mestiere, come ogni insegnante dovrebbe fare. Senza ricevere compenso per il suo lavoro (essendo un dipendente pubblico, poiché era di professione insegnante), Manzi interessò e divertì con la lingua italiana milioni di persone. 1.6 Come i gamberi: l’arretramento della Storia nel 2004. Sin dall’inizio, a causa delle istruzioni ministeriali per i maestri e dei programmi, la Storia insegnata a scuola divorziò dalla Storia come disciplina e dalla società civile. Già la Legge Casati destinava a Storia la metà delle ore attribuite a Lettere, mentre le affidava il compito di trasmettere i valori dell’italianità che avrebbero dovuto essere condivisi dalla popolazione, guidandola a diventare per l’appunto italiana, cioè a farsi portavoce di quella che Andrea Zannini definisce una «costante ideologica e morale» che connotò l’insegnamento. La Storia innanzitutto come «strumento ideologico», trasformatasi soltanto in anni recenti in «disciplina formativa». In seguito, Letizia Moratti, ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca scientifica (2001-2006), promosse una riforma della scuola dell’obbligo, contraddittoria in certi aspetti e quindi non applicata in maniera uniforme sul territorio nazionale (D.L. 19 febbraio 2004), introducendo alcuni “concetti” quali gli «obiettivi specifici di apprendimento», le conoscenze e le abilità disciplinari, cioè quelli che Luigi Berlinguer aveva definito come traguardi irrinunciabili. Programmi di Storia e riduzione delle ore. Per la scuola primaria la riforma è stata molto criticata, le si sono attribuiti una asistematicità e un regresso rispetto al 1985; nei programmi di Storia si insisteva molto sulle origini e sull’identità spirituale e culturale nazionale e regionale; per la secondaria si proponeva invece un elenco di avvenimenti, personaggi, simboli e istituzioni che dovevano essere conosciuti dal corpo studentesco, di fatto segnando un passo indietro rispetto agli anni Ottanta. Si trattava di una selezione molto precisa, criticata per i “concetti” prescelti a discapito di altri e perché, in barba alla rivoluzione delle Annales, guardava alle istituzioni politiche e agli eventi bellici mentre non teneva in alcuna considerazione economia, società e genere. Infine, si aggiungeva la riduzione delle ore di Storia, con l’eliminazione dell’Educazione civica, e il ritorno a una periodizzazione sugli anni scolastici che riportava la storia del Novecento al periodo ante Berlinguer, cioè a costituire una partizione soltanto della storia contemporanea. La riforma firmata dalla ministra intendeva declinare la auspicata autonomia scolastica in ore gestite dalle Regioni, non più dagli Istituti scolastici, introducendo inoltre una pericolosa ingerenza delle istituzioni politiche nei contenuti dell’insegnamento delle scuole secondarie superiori. 2 “INSEGNARE APERTAMENTE”: DESTINATARI E STRUMENTI. Non è prevista una cattedra di Storia nella scuola italiana. Esattamente da un secolo, cioè dalla “Riforma Gentile” del 1923, essa viene insegnata dalla persona titolare della cattedra di Filosofia nei licei e da chi tiene la cattedra di Lettere – di Lingua e Letteratura italiana – negli altri istituti secondari di secondo grado. Diversamente dalla Francia, non esiste una cattedra di Storia o di Storia e Geografia. La maggior parte dei/delle docenti di Storia oggi è laureata, per l’appunto, in Lettere o in Filosofia. Alcune storture per così dire relative alle prove di concorso del 1999 spiegano questa caratteristica specifica della Scuola italiana odierna, come ha evidenziato Andrea Zannini, benché oggi nei concorsi pubblici siano state introdotte come conoscenze di verifica anche Storia e Geografia, accanto a Italiano. Ciò nonostante, per l’assenza di una cattedra autonoma, o principalmente per questa ragione, la minore profondità della preparazione storica del/della docente rispetto a quella filosofica o letteraria e soprattutto la mancanza di un’esperienza diretta di ricerca in questo ambito, che vanta metodologie proprie, pesano sull’efficacia dell’insegnamento. 2.2 Insegnare a chiunque secondo abilità, culture, talenti Per quanto oggi la Scuola sia attenta ai/alle discenti con disabilità, e con DSA e BES, si è ancora lontani dalla realizzazione di una didattica che sia “aperta”, cioè più che “inclusiva”, se consideriamo che “includere” significa letteralmente “chiudere dentro”, un’azione che può essere interpretata come compiuta da una maggioranza nei confronti di una minoranza che la subisce. Per “didattica aperta” si intende un metodo di insegnamento attento alle esigenze e alle capacità di chiunque e che realizzi la «convivenza delle differenze». Legge Casati (1859). Fu la prima Legge che regolò la Scuola italiana. Nella Legge Casati le persone con disabilità furono definite «ineducabili»; perciò, si ritenne di lasciare a carico delle famiglie la loro istruzione. Si dovette attendere la Legge Gentile (n. 3126/1923) affinché bambini/e «portatori di deficit», ciechi e sordomuti compresi, fossero accolti a scuola fino all’età di 14 anni, purché in «assenza di altre patologie che ne impediscono l’ottemperanza». Ciechi e sordomuti, tuttavia, avrebbero dovuto frequentare le cosiddette «scuole speciali» (R.D. n. 786/1933), cioè apposite istituzioni che in quanto tali li escludevano da un percorso scolastico condiviso con discenti non ipovedenti e non sordi. La questione delle persone con disabilità emerse nel dibattito tra i padri e le madri costituenti, che nell’articolo 38 della Costituzione, dopo aver stabilito il diritto allo studio obbligatorio e gratuito per otto anni almeno (artt. 3, 34), sancirono: «Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale». La svolta degli anni 70. Nel 1968 (Legge n. 444) fu istituita la scuola materna dotata di sezioni speciali per «soggetti affetti da disturbi dell’intelligenza, del comportamento o da menomazioni fisiche o sensoriali». Le cose cambiarono decisamente direzione negli anni Settanta, quando, con la Legge n. 118 del 1971, si stabilì che costoro avrebbero frequentato le classi “normali” e che i mutilati e gli invalidi avrebbero avuto accesso agevolato a tutti i gradi dell’istruzione, di fatto reintegrandoli nella società. Nell’art. 28 si prevedeva l’integrazione dei soggetti con disabilità nella scuola comune dell’obbligo, ridimensionando il sistema delle classi «speciali», da cui restavano tuttavia ancora esclusi i soggetti affetti da «gravi deficienze intellettive o da menomazioni fisiche». La legge italiana più recente in materia di disabilità è la n.104 del febbraio 1992, anche denominata Legge-Quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone con disabilità, a cui seguirono altri interventi del Legislatore tra gli anni Novanta e oggi. Il/la docente può lavorare in classe per creare un prodotto didattico “aperto” che, sfruttando specifiche abilità, competenze, conoscenze e talenti, offra ai/alle discenti la consapevolezza di essere parte di una società scaturita da culture, condizioni sociali ed economiche diverse, «basata sulla comprensione delle diversità, nella convinzione che ogni identità si evolve continuamente e che è infondata qualsiasi presunzione di una sua immobilità con cui giustificare il rifiuto di nuovi apporti e dei relativi cambiamenti», come recita il recente Manifesto della Didattica. Si promuove in questo modo il successo formativo di tutte le persone. 2.3 Il linguaggio inclusivo, anzi aperto La parola è lo strumento di lavoro principale di chi insegna e pertanto quello che deve essere prima di tutto e maggiormente curato; essa è il primo veicolo di inclusione, di apertura e di valorizzazione delle differenze. Introduzione dei termini handicap e “handicappato” (1980). handicap e «handicappato» sono termini che si ritrovano nella Legge n. 104 del 1992, che determina i diritti di integrazione sociale e assistenza connessi alla disabilità. Tale normativa andò a sostituire parole come «mongoloide», «spastico», «invalido», quest’ultima particolarmente inadeguata poiché definisce una persona come fosse del tutto incapace (non valida). L’etimo della parola handicap è ricondotto al gioco inglese hand in cap, una specie di baratto simulato, in cui, tra due giocatori, quello che avesse offerto il bene meno costoso avrebbe dovuto compensare la differenza in denaro in un cappello (cap). Trasferito poi all’ippica, handicap andò a definire lo svantaggio che veniva assegnato in partenza in una gara ai cavalli valutati più forti, in modo da garantire medesime possibilità a tutti i concorrenti. Dalla terminologia sportiva, la parola approdò in Italia alla fine del XIX secolo. Dall’arena semantica dello sport, come spesso capita, nel giro di qualche anno handicap passò a indicare altro e in un diverso ambito, quello medico nella fattispecie: la comunità scientifica internazionale lo usò per definire tutti i tipi di menomazione. Nel corso dei decenni, tuttavia, il termine ha assunto nell’uso un’accezione negativa e insultante, pertanto è stato progressivamente sostituito con «disabilità», di derivazione inglese (dis-ability), indicativo della mancanza di abilità, appunto, potere o forza, che pare essere un termine più generico, meno offensivo, purché non venga impiegato come sostantivo relativo alla persona: non un/una disabile, dunque, ma una persona con disabilità, poiché nel primo caso si lascerebbe intendere che la qualificazione di quel soggetto derivi interamente dalla sua disabilità, valorizzando così la disabilità e non l’individuo, che, ovviamente, non è rappresentato dalla sua disabilità. Il linguaggio concepito quindi come strumento «rappresentazionale» con tutte le difficoltà legate alla comprensione di realtà non esperibili ma anche di concetti cromatici e visivi che non sono altrimenti conoscibili. Le percezioni uditive e tattili sono determinanti e l’insegnante è il medium attraverso cui avviene l’apprendimento; perciò, questi deve tradurre le immagini verbalizzandole in maniera oggettiva e dettagliata, con un’analisi fenomenologica, e deve proporre in formato audio i testi scritti. 2.4 Un pioniere della ricerca didattica: Pasquale Fornari. Grande protagonista della oralità nella didattica per sordi/e fu Pasquale Fornari, tale metodologia sostituì quella gestuale, scelta su cui ancora oggi è acceso il dibattito. The Deaf Soul. Chiara Bucello e Ludovica Billi, entrambe sorde dalla nascita, sono le fondatrici di The Deaf Soul, un portale per la comunicazione e l’informazione rivolto alle persone con disabilità uditive, ideato per offrire un sostegno teorico e psicologico concreto affinché possano vivere in maniera meno invasiva la loro condizione, soprattutto perché quest’ultima sia meno rilevante nei contesti pubblici, e la persona sorda sia percepita alla stregua di chi indossa «un occhiale di vista». The Deaf Soul costituisce un punto di riferimento per l’informazione e la condivisione di esperienze legate alla sordità e promuove iniziative di integrazione tra oralisti e segnanti, cioè tra persone che impiegano la lingua dei segni e sordi/e che invece parlano usando la lingua italiana. Le fondatrici hanno scelto come canale di informazione i social (Facebook e Instagram), con uno stile ironico, pur trattando tematiche importanti, anzi vitali. Evidentemente è stata la scelta giusta, poiché il loro profilo Instagram conta oltre 15.000 follower. Medicina e specializzatasi a Torino in ginecologia, che non fu accolta per il praticantato all’Ospedale Maggiore di Milano. Una donna non si poteva immatricolare come notaia, neppure come avvocata, e non poteva intraprendere la carriera in magistratura. La motivazione addotta, anche in Corte d’Appello, fu che il silenzio legislativo in merito, quindi la mancata esplicita proibizione, discendeva dalla concezione che fosse del tutto inutile proibire qualcosa a cui si riteneva «universalmente ammesso che la donna non potesse aspirare» (sentenza della Corte d’Appello). Soltanto in parte queste deformazioni furono risolte dalla Legge Sacchi del 17 luglio 1919, poiché l’articolo 7 impediva comunque l’accesso delle donne alle principali carriere e uffici pubblici. Posizioni contrarie alle donne giudice. A proposito della possibilità di annoverare donne giudice, che esse fossero e dovessero invece rimanere «regine della casa» poiché inadatte a giudicare in quanto prive di equilibrio, anche per ragioni fisiologiche. Posizione sostenuta anni dopo anche da Eutimio Ranelletti, presidente della Corte di Cassazione, in un libro scritto per illustrare le ragioni per cui le donne non avrebbero dovuto avere accesso alla magistratura. Non fu da meno il futuro presidente della Repubblica, Giovanni Leone (presidente dal 1971 al 1978), allorché dichiarò che le donne sarebbero state adatte come uditori giudiziari nei tribunali dei minori ma non in altri, poiché soltanto gli uomini disponevano della necessaria preparazione e sarebbero stati in grado di padroneggiare «i tecnicismi». Si arrivò dunque soltanto nel 1963 ad aprire anche questa carriera alle donne con l’art. 1 della Legge n. 66 del 9 febbraio. A maggior ragione, docenti e discenti del XXI secolo devono tendere più che mai a una didattica inclusiva, aperta e rappresentativa di tutti i segmenti della società e dei generi, poiché è anche attraverso la rappresentazione linguistica di tutte le persone che si veicola l’idea di parità. 3 LE “FONTI TERZIARIE”, OGGETTI, SUONI E SENSAZIONI OLFATTIVE 3.1 Fonti e problemi. Come se non bastasse, fonti e tipologie aumentano e si trasformano con il passare del tempo. Alcune nascono, come i social; altre muoiono, come i floppy disk, oggi paradossalmente meno “leggibili” delle pergamene che, oltre a sopravvivere fisicamente per secoli e a essere consultabili prescindendo dal progresso dell’hardware, sono ancora impiegate per usi cerimoniali, a testimonianza della loro longevità come supporto scrittorio e come messaggio formale; altre ancora cedono man mano il passo, come i quotidiani cartacei; altre risorgono, come i vinili. Abbondanza di fonti. Più ci si avvicina alla contemporaneità, più fonti si hanno a disposizione, tuttavia, ciò non costituisce necessariamente un vantaggio. Questa abbondanza può determinare l’incapacità di rinvenire e/o di analizzare tutte le testimonianze disponibili, talvolta anche di avere contezza di quante e quali siano, oppure la necessità di operare una selezione per poter condurre il lavoro in tempi ragionevoli; l’abbondanza, inoltre, non esclude di per sé che vi siano state dispersioni e selezioni a monte e quindi lacune nel materiale documentario che impediscono una ricostruzione integrale. La grande quantità può anche rendere più complesso individuare quale sia la verità, se ci si trova di fronte a documentazione di varia provenienza o tipologia, che può quindi determinare l’emergere di contraddizioni tra un testimone e l’altro. Accessibilità delle fonti. Le fake news non sono certo un’invenzione odierna. Le notizie reperibili in rete devono essere trattate con maggiore cautela rispetto a tutte le altre, considerato che la loro provenienza non è sempre indicata e che si deve procedere alla verifica dell’attendibilità dei siti che le ospitano. Essi possono essere privi, cioè, dell’indicazione del produttore/autore della fonte. Questa mancanza procura istantaneamente il dissolversi dell’autenticità di qualsiasi tipologia di documentazione scritta, materiale, orale, visuale, fotografica. Una particolare attenzione va dedicata all’aumento della documentazione privata oggi disponibile grazie ai social. Se pensiamo ai miliardi di profili personali presenti su queste piattaforme, dobbiamo essere consapevoli che essi sono effimeri per la possibilità che ciascun utente detiene di selezionare e cancellare contenuti propri o altrui. Si comprende bene così quali siano le potenzialità della ricerca futura, ma anche i pericoli. Per chi non è del mestiere risulta complesso in questo caso distinguere il vero dal falso. 3.2 Un’antica innovazione: il Laboratorio Esso risale agli anni Sessanta del secolo scorso, ma viene legittimato come pratica didattica, grazie soprattutto a Scipione Guarracino e a Raffaella Lamberti, qualche lustro più tardi, cioè alla fine dei Settanta del XX secolo. A dispetto del nome, non ci si deve aspettare che tale attività si svolga in uno spazio “riconoscibile”, cioè, dotato di attrezzature, in un’aula speciale. Tuttavia, è invece utile restituire a tale etichetta didattica il significato storico più profondo, in modo che essa immantinente evochi nella mente di chi partecipa a tale attività la persuasione dell’equiparabilità della Storia alle scienze dure. Rigore scientifico del metodo storico. Per motivare la scelta del termine “Laboratorio” si dovrebbe fare riferimento all’acceso dibattito a seguito della diffusione della filosofia neopositivista che rivendicava quale proprio obiettivo la diffusione di una «visione scientifica del mondo» dominata e guidata dalle scienze empiriche e che si rifaceva al positivismo del secolo precedente. Il Laboratorio richiama il luogo in cui avviene la sperimentazione di chi indossa “il camice bianco”, cioè di coloro che i positivisti consideravano i soli scienziati dotati di metodologia. Alambicchi, fornelli, strumenti e specifiche attrezzature di vetro e di acciaio occupano quello spazio, evocando istantaneamente un’attività “scientifica”, dotata di rigore e metodo e i cui risultati sono credibili, anzi, sono leggi. Spazi e oggetti attinenti, per l’appunto, alla chimica, alla biologia, alla fisica, alla medicina e via dicendo, nell’immaginario comune, non di certo alla Storia. Discipline dotate di rigore metodologico non meno che di risultati inoppugnabili, come si accennava. Ed è proprio alla rivendicazione del rigore del metodo di storici e storiche – e quindi della scientificità della ricerca di chi indaga la Storia – che bisognerebbe ricondurre il nome di questa specifica modalità didattica. Laboratorio come sperimentazione del metodo storico. Laboratorio è il luogo dove si mettono alla prova le fonti, per distinguere il vero dal falso, ossia per costruire la Storia, attraverso l’uso dei suoi specifici strumenti di ricerca: si trasformano, cioè, in fonti le “tracce” che il passato ha lasciato lungo il suo cammino, analizzandole sulla base di un questionario (questionnaire), ovvero domande scaturite dalla lettura e dallo studio della storiografia, in funzione degli specifici obiettivi di ricerca. Il Laboratorio è come la bottega di un mestiere medievale, cioè, è il luogo dove il maestro trasmette le conoscenze (il know-how), e insegna quali sono e come usare gli attrezzi del mestiere. Il Laboratorio è la sede in cui il/la docente fa percorrere al/alla discente la strada dello/a storico/a dalla fonte al testo o viceversa. Crisi del laboratorio didattico. Col passare dei lustri però è divenuto chiaro che il Laboratorio didattico si stava rivelando fallimentare, poiché gli spazi e i testi a esso destinati erano percepiti e forse anche concepiti come alternativi ai manuali e alla continuità della narrazione storica, che veniva sostituita da una selezione di temi approfonditi nelle fonti e nelle ore di lezione. L’allestimento di un Laboratorio didattico è infatti un’attività complessa, poiché l’obiettivo non è quello di far visionare alla classe le fonti, ma quello di far sì che il/la discente le interroghi e ci lavori. La costruzione del dossier di “documenti” su cui laborare, per l’appunto, è un’operazione delicata, poiché deve essere realizzata in funzione della sua presentazione alla classe, in termini di tipologia, attendibilità, pericoli, potenzialità, autore/autrice dei documenti, finalità per cui essi sono stati prodotti, contesto storico, culturale e sociale. Nuova concezione del laboratorio. Tenuto conto di queste premesse, l’idea che si sta facendo strada oggi è quella di un’attività laboratoriale in cui la creatività, la curiosità e le ricerche del/della discente attraverso fonti non predisposte conducano a risultati ancora più efficaci non soltanto nel segno dell’apprendimento, ma anche in quello della rivalutazione del mestiere di storico/a. Se si vuole avvicinare un pubblico giovane alla ricerca storica, occorre far comprendere loro cosa si intenda per spirito critico e per critica alle fonti. E perché non immaginare dunque un percorso laboratoriale che prenda spunto da un nuovo tipo di fonti che potremmo definire “terziarie”? 3.3 Le “fonti terziarie”: uso critico per il Laboratorio storico Terziarie poiché, in uno dei tanti tentativi di classificazione, si indicano come “fonti primarie” la documentazione scritta, i resti materiali e l’iconografia coevi al periodo indagato e come “secondarie” i testi storiografici; con “fonti terziarie” possiamo indicare invece tutti quei materiali prodotti nella contemporaneità a scopo ludico, di intrattenimento e artistico che riguardano un determinato periodo storico non coevo. Dai film ai fumetti, dai videogiochi alle serie, dai graphic novels ai giochi da tavolo, dai dipinti ai melodrammi, fino ai romanzi. L’accortezza nell’impiego di tali materiali deve essere superiore alla cautela adottata nell’uso delle fonti primarie, poiché le terziarie sono costruzioni artificiali, per quanto possano essere ricostruzioni filologicamente corrette, e come tali devono essere trattate da chi intende impiegarle a scopi didattici. Perché utilizzare le “fonti terziarie”? Perché impiegando questa tipologia di materiali costruiremo un immediato legame tra la nostra classe, noi insegnanti e quel che della Storia i/le discenti hanno conosciuto fuori dalla Scuola e che frequentano talvolta quotidianamente. Così facendo cattureremo la loro attenzione, risulteremo empatici, entrando nel loro mondo. Li aiuteremo a mettere alla prova le loro conoscenze e il loro spirito critico, valutando la bontà delle ricostruzioni, individuando gli “errori”, che, è bene chiarire, non sono tali se compaiono in opere di fantasia, e potremo fornire loro gli strumenti per valutare quanto quegli “errori” siano consapevoli, addirittura voluti, talvolta, frutto della policronia. Se infatti non considerassimo il rilevo che hanno oggi nella vita e nella crescita neurologica e culturale dei/delle discenti, nei processi e nei meccanismi di apprendimento, serie televisive, videogiochi, profili social di divulgazione storica, podcast, oltre ai romanzi storici, se non li prendessimo in considerazione come chance didattica, avremmo perso forse un’occasione. Invece, di tutti questi trasmettitori di Storia o di storie dovremmo comprendere i meccanismi che li rendono affascinanti, quasi imprescindibili, per la gioventù e “impadronircene”, farne uso per rendere divertente anche l’esperienza dello studio della Storia. Videogiochi come veicoli di conoscenza. I videogiochi si possono trasformare in veicoli di conoscenza anche tramite la narrazione interattiva che accompagna la simulazione e la competizione tra pari. Essi oggi fanno parte integrante della crescita degli e delle adolescenti, dalle scuole primarie all’età adulta. Sono numerosissimi i videogame di ambientazione storica; con il passare degli anni, e con la disponibilità finanziaria aumentata grazie al successo, la possibilità per le case produttrici di avvalersi di consulenze storiche di alto livello per la ricostruzione dell’ambientazione ha reso alcuni di questi prodotti molto corretti sotto questo profilo. Proprio le vicende dei giochi di maggior successo sono collocate in epoche passate (in particolare l’età medievale è quella che riscuote maggiore gradimento), e hanno contribuito a produrre una nuova domanda di Storia; ciò che qui interessa a livello didattico non è però tanto, o soltanto, la correttezza della ricostruzione: sono soprattutto le modalità di interazione fra giocatori/giocatrici che possono offrire spunti per l’insegnamento, specie a livello motivazionale, poiché i videogiochi risultano straordinariamente coinvolgenti. Gamification. Si possono dunque ideare strategie didattiche basate su queste dinamiche ben note a una gran parte dei/delle discenti, e replicabili nella realtà scolastica, per favorire la partecipazione. Questa modalità didattica si definisce gamification, cioè l’impiego di elementi di design del gioco in contesti non ludici, o meglio, l’uso di strategie o meccaniche basate sul gioco e sulla sua estetica per ottenere il coinvolgimento di persone con l’obiettivo di renderle attive nei processi di apprendimento e, in ultima analisi, di promuovere l’apprendimento in generale. Una tecnica didattica oggi applicata pressoché esclusivamente all’apprendimento delle lingue straniere. Assassin’s Creed e Call of Duty. Tra i videogiochi di maggior diffusione se ne devono annoverare due il cui successo è stato determinato certamente anche dall’ambientazione storica: Assassin’s Creed, prodotto da Ubisoft e Call of Duty, un war game pubblicato per Microsoft Windows nel 2003. La reazione della comunità scientifica, accademica e del corpo insegnanti, di fronte ai nuovi linguaggi per l’insegnamento, e ai videogiochi in particolare, è critica soprattutto a causa dell’approccio interattivo del gioco che determina conseguenze singole, a seconda del player, sui contenuti storici rappresentati, rendendo quindi il videogioco una rappresentazione storica non affidabile. Ma ciò che un videogioco può fare in ambito didattico non è trasmettere contenuti storici, bensì offrire al/alla docente la possibilità di rappresentare ambienti e contesti e, soprattutto, molle metodologiche, “esche didattiche” utili a catturare l’attenzione della classe. E proprio su questo aspetto si può lavorare, introducendo il concetto di “policronia”. Se, infatti, da un lato, si può apprezzare la realistica ricostruzione scenografica, la narrativa, l’estetica che contraddistingue tali prodotti, occorre tenere ben presente che essi non sono ideati con finalità didattiche e neppure storico-divulgative. La policronia. La definizione data dai due autori di AC Brotherhood Westin e Hedlund nel 2016: «una rappresentazione di un evento, di un luogo o di un paesaggio in un determinato momento storico, che riunisce in modo organico aspetti e manufatti di epoche successive o precedenti per fare appello a un’idea comune». In questo videogioco il passato altro non è che la mediazione tra la ricostruzione rigorosa di storici/che e l’impatto epistemologico degli stereotipi architettonici che popolano l’immaginario collettivo al fine di ottenere un risultato immediato ed efficace. Ciò che viene messo in scena è l’idea collettiva di un luogo in una data epoca, senza necessariamente riprodurre in maniera fedele le acquisizioni scientifiche della ricerca storica e dell’archeologia. Si propone quindi un’immagine policronica, per l’appunto, in cui convivono diverse linee temporali che si appellano a un bagaglio di conoscenze comune, inserito in un’operazione creativa. Roma in Brotherhood. Nel caso specifico, la città in cui è ambientata l’azione di gioco è Roma nella seconda metà del Quattrocento (1455-1510). Questo contenitore temporale e urbano deve raggiungere milioni di utenti in tutto il mondo; pertanto, deve puntare molto sulla riconoscibilità in una sorta di mediazione tra sapere accademico e conoscenze di persone di cultura media, e sul rapporto dei contemporanei con il concetto di Roma e non con il suo passato oggettivo. La casa produttrice ha introdotto nell’ambientazione moltissimi edifici monumentali, ma è stata poco accurata nella resa delle distanze tra uno e l’altro. Non sono presenti però il Teatro di Marcello, nella sua ricostruzione postromana, né la colonna di Marco Aurelio, né alcune porte delle mura aureliane, mentre altre sono posizionate in maniera diversa dalla realtà; mancano moltissime delle 300 chiese attestate, mentre tra quelle incluse c’è ovviamente la basilica di San Pietro ma con la cupola, che all’epoca non era stata ancora completata. Insomma, si assecondano aspettative popolari e standardizzate e si riproducono, per così dire, modelli architettonici riconoscibili. L’operazione di Ubisoft, la casa produttrice del videogioco, ha offerto un’occasione per studiare i meccanismi adottati nella contemporaneità per costruire una rappresentazione rivolta a un pubblico giovane e di massa. contenuti, storici nel nostro caso. Tali essenze olfattive opportunamente riproposte potranno riaccendere il ricordo e quindi riportare alla mente la conoscenza trasmessa. 3.7 E i suoni, la musica, i rumori? Alla stessa stregua, suoni, musica, rumori possono accompagnare l’insegnamento della Storia. L’impiego di una “colonna sonora didattica” non è stato ancora sperimentato nelle scuole italiane, benché sia noto che il suono è la prima guida alla conoscenza e all’apprendimento sin dalla fase prenatale e durante l’infanzia, senza entrare poi nel merito della funzione riabilitante della musicoterapia. Anche l’impiego delle sensazioni uditive costituisce quindi una forma di didattica inclusiva per chi è cieco o ipovedente pur escludendo, al contempo, ovviamente, le persone sorde o ipoudenti, che dovranno essere accompagnate dalla rappresentazione grafica dei suoni e dalla loro descrizione. L’inquinamento acustico contemporaneo. Rispetto al passato la nostra epoca è caratterizzata da una sovrabbondanza di sensazioni uditive, da un inquinamento acustico; quindi, il nostro rapporto con esse è esasperato. Forse è giunto al limite. Assisteremo dunque a una riduzione della complessità della «composizione musicale»? A un ritorno al silenzio? A un riassetto del paesaggio sonoro che lo limiti? Sineddoche di quel che intendo è costituita da una esaltante e magistrale esemplificazione di rappresentazione dei rumori connotanti un periodo storico, riprodotti con strumenti musicali. Chi l’ha concepita e realizzata è Luigi Boccherini, nel quintetto per archi Op. 30 n. 6 in do maggiore, meglio noto come La musica notturna delle strade di Madrid, composto nel 1780. Nato a Lucca nel 1743 e morto a Madrid nel 1805, Boccherini si era distinto in giovanissima età per il talento come suonatore di violoncello, avendo avuto il privilegio di crescere in una famiglia di musicisti. Fu notato dall’ambasciatore della corte spagnola a Parigi; con un collega e amico che suonava insieme a lui, Boccherini accettò di trasferirsi alla corte borbonica. La forma del quintetto di archi, scelta anche per la composizione di cui sopra, è, in termini di musicologia, il superamento del quartetto dovuto alla presenza di un secondo violoncello, ossia quello suonato da Boccherini stesso, nella fattispecie. Come Boccherini racconta magistralmente attraverso la sua musica, la vita è scandita da specifiche sensazioni sonore che segnalano tanto orari e fasi della giornata quanto il rilievo di istituzioni e persone, tutti chiaramente identificabili tramite specifici suoni, noti a tutte le persone contemporanee. Se siamo interessati a ricostruire i suoni di una data epoca in un luogo dato, dovremo tenere conto di una serie di elementi che possano restituire nella maniera più precisa possibile il paesaggio sonoro. Tra questi, gli eventi atmosferici e naturali (cioè piogge frequenti o a carattere temporalesco, fulmini, il fuoco degli incendi e i corsi d’acqua); i suoni specifici delle religioni praticate (dalle campane ai muezzin, ai cori e canti tipici di ciascuna celebrazione); le attività artigianali e/o industriali (telai, fucine, mulini, magli dei folloni, trattori, trivelle ecc.); le voci di chi lavora che percorrono una storia secolare (come gli arrotini che annunciano il loro passaggio, le grida dei commercianti del mercato, i canti delle mondine ecc.). I rumori raccontano la storia. Benché alcuni rumori siano scomparsi, non si è concretizzata una tangibile diminuzione del livello sonoro e della sua complessità, anzi, si può dire che la progressiva marginalizzazione del silenzio costituisca di per sé un indice del passare dei secoli. I rumori raccontano la Storia, dunque possono essere uno strumento assai efficace per accompagnarne l’apprendimento. 4 NUOVE TECNOLOGIE E DIDATTICA FRA TRADIZIONE E INNOVAZIONE 4.1 La rete come spazio di ricerca critica e accorta. Gli operatori booleani. Inoltre, per ottenere risultati più accurati, o più attinenti, e meno generici, si possono adottare taluni accorgimenti come l’uso degli operatori booleani (AND, OR e NOT), dal nome del matematico inglese George Boole, il quale ideò il sistema logico alla base del loro impiego, che conviene usare per precisare la tipologia di esigenza dell’utente: • AND se si cercano i due termini insieme; • OR quando si cercano l’uno e/o l’altro; • NOT quando, tra due parole, si vuole escludere la seconda. L’impiego delle virgolette, inoltre, serve a precisare il campo di ricerca; l’asterisco a omettere le desinenze dei termini e includere così un maggior numero di parole nella ricerca. Rischio di informazioni poco affidabili. A prescindere dalla capacità dell’utente di interrogarla, la rete mette a disposizione oggi una marea di informazioni di carattere storico. Tra queste molte non sono affidabili poiché sono ospitate su pagine/siti pubblicati da persone o associazioni prive dei requisiti necessari per chi cerca notizie e contenuti già vagliati e quindi credibili. Enciclopedie Libere Online. Premesso che quando si cercano informazioni storiche in rete ci si deve indirizzare a siti “istituzionali”, tanto per accedere alle fonti (testi, iconografia, filmati, fotografie, quotidiani, documentazione d’archivio, epigrafi ecc.) quanto per reperire la storiografia di riferimento, e si dovrebbero consultare siti specializzati, non si può fare a meno di considerare che invece le ricerche vengono perlopiù svolte avvalendosi di Enciclopedie Libere Online (EOL) e, tra queste, soprattutto di Wikipedia. Ciò avviene poiché, se si inseriscono i termini che riguardano gli estremi della ricerca in un browser, nella stragrande maggioranza dei casi il primo risultato che compare è un link che conduce alla più diffusa e impiegata di tali enciclopedie, Wikipedia, per l’appunto. Risultati ordinati per popolarità. E perché? Perché i risultati che compaiono sono in ordine di popolarità, cioè quelli più impiegati, più cliccati da chi naviga, e non di credibilità scientifica, perciò è facile che le risposte, cioè i link, conducano a siti contenenti informazioni molto generali o divulgative. Ecco perché in cima alla lista solitamente compare il termine inserito nella maschera di ricerca ospitato su Wikipedia. E più si impiegherà Wikipedia, più essa si consoliderà come primo risultato, in considerazione del fatto che ormai le risposte alle domande che ciascuno/a di noi ottiene sono personalizzate, cioè, basate sulla nostra cronologia di navigazione e quindi anche sull’impiego che facciamo dei link fornitici, e che, grazie ai famigerati cookies, i browser sono in grado di filtrare e proporre risposte che strizzino l’occhio “personalmente” al singolo utente. Si tratta insomma di un meccanismo che si potrebbe definire autoreferenziale e che si autoalimenta. Molto spesso la ricerca dell’utente si esaurisce lì: si considera soddisfatto soprattutto perché forse ignora la possibilità che le voci wikipediane contengano errori. 4.2 Un passo indietro nel tempo: l’enciclopedia La definizione di “enciclopedia”: «dal greco egkúklios paideía = cultura generale. Opera che raccoglie ed espone organicamente tutto il sapere o specifici ambiti di esso». L’enciclopedia italiana dell’Istituto Treccani (dal 1929). Per terminare la lista delle opere del genere, limitandosi alle pubblicazioni italiane, nel XIX secolo fu data alle stampe dall’editore Pomba la Nuova enciclopedia popolare, composta da 12 volumi (1841-48), vicina al gusto della borghesia liberale. Essa rivestì un ruolo egemone nel settore finché non si avviò il progetto culturale e politico dell’Istituto Treccani, che nel 1929 mise sul mercato il primo tomo della Enciclopedia italiana di scienze, lettere e arti (v. oltre). Altre case editrici intrapresero poi la strada della pubblicazione di enciclopedie (Einaudi, Garzanti, UTET, Bompiani), non riuscendo a eguagliare il successo della Treccani. Declino delle enciclopedie cartacee e ascesa di quelle online. I costi della pubblicazione insieme alla diffusione di Internet e alla comparsa di Enciclopedie Libere Online hanno decretato, con una accelerazione netta dal 2001, anno di nascita di Wikipedia, l’atrofizzazione, prima, e la fine, poi, dell’epopea enciclopedica in versione cartacea. E proprio da Wikipedia e dalle altre EOL riprenderemo il nostro cammino alla scoperta di pro e contro di questi strumenti disponibili sul web. 4.3 Pro e contro delle Enciclopedie Libere Online (EOL) Tra i pro delle risorse online si devono ascrivere la più facile e immediata accessibilità, il minor costo e il più basso impatto sull’ambiente, la presenza di contenuti interattivi e multimediali, di audio e di video ecc. Per questo insieme di caratteristiche le versioni online possono essere ritenute più inclusive rispetto alle cartacee per le persone con DSA e disabilità, benché risultino invece escludenti – e va annoverato fra i contro – per chi non possieda un device che consenta l’accesso a tali risorse. Le ulteriori controindicazioni imputabili ai prodotti virtuali sono la mancanza di autorialità – e si vedrà oltre in quali casi –, la poca accuratezza ortografica e una marcata confusione nell’esposizione degli argomenti, come fossero affastellati, giustapposti uno dopo l’altro senza una ratio, fattore amplificato nel caso di Wikipedia dalla molteplicità di mani che contribuisce alla redazione delle singole voci. Infine, risulta penalizzante la modalità illustrativa e non critico- interpretativa adottata per l’esposizione degli argomenti, anche qualora le note a corredo della pagina contengano riferimenti bibliografici, che non restituisce la complessità del dibattito storiografico, appiattendo di fatto la narrazione su un’unica posizione. Wikipedia. A proposito di Wikipedia, Enrico Manera ha commentato che in questo strumento coabitano forza e debolezza. Non occorre riprendere qui il contenuto dell’articolo, ma soltanto richiamare la criticità rilevata rispetto a tale contenitore di informazioni, che può essere colta al meglio da chi ha una formazione storica: le voci di Wikipedia sono prive di autore/autrice ossia di chi si assume la responsabilità di ciò che è scritto; inoltre i lemmi sono compilati da più persone, continuamente ritoccati, rivisti e modificati. Se ciò, da un lato, potrebbe garantire accesso a informazioni aggiornate, dall’altro, invece, non offre garanzie sulla bontà del contenuto a meno che esso non sia confrontato, messo alla prova, con altre fonti. Si perde in tal modo il vantaggio dell’immediatezza dell’informazione. 4 tipi di enciclopedie online: 1. Reproduced: quelle che ricalcano il modello cartaceo da cui derivano. 2. Adapted: come suggerisce il nome, versioni del cartaceo adattate al web sfruttando lo spazio infinito a disposizione e quindi con voci corredate di più informazioni e un apparato più ampio di immagini, file audio e video, collegamenti web, oppure animazioni, come se si trattasse di un portale multimediale. Queste prevedono anche la possibilità di redazione dei lemmi da parte dell’utente. 3. Emergent: prodotti innovativi che implicano un’educazione specifica alla consultazione. 4. Emerging: enciclopedie completamente diverse rispetto a tutte le altre, con voci costituite perlopiù da link e rimandi a siti web e/o da link a materiali multimediali; esse sollecitano la collaborazione fra utenti e sito, lo scambio di materiali e la condivisione degli stessi. Enciclopedia Treccani, da cartacea a online. Nella versione tradizionale cartacea, essa nacque nel 1925 durante la temperie fascista, quando era stata concepita come un vessillo dell’italianità sbandierato sia alla popolazione nazionale, sia al resto del mondo. Essa si ispirò al modello britannico, cioè al prodotto culturale analogo di cui la Gran Bretagna si era dotata dalla seconda metà del XVIII secolo, l’EncyclopaediaBritannica (oggi di proprietà dell’University of Chicago), mentre la Francia disponeva del Grand Dictionnaire Universel du XIXe siècle, pubblicato nell’ultimo lustro dell’Ottocento. Il ruolo di Gentile. Alla guida del progetto scientifico ed editoriale fu destinato il filosofo Giovanni Gentile. Nel 1933 con un Regio Decreto Legge (n. 669) fu costituito l’Istituto della Enciclopedia Italiana, fondato da Giovanni Treccani. Nel decreto si stabiliva che la nomina del presidente dell’Istituto spettasse al capo del governo, all’epoca Benito Mussolini. Oggi, benché l’ente sia privato, il privilegio della scelta è ancora appannaggio del presidente della Repubblica. L’Enciclopedia Treccani si è messa al passo con i tempi. Dal 2014 infatti è anche una EOL, che comprende oltre un milione di lemmi. Rispetto al cartaceo, vi sono spazi quotidiani dedicati ad argomenti e personaggi che variano di giorno in giorno e link che collegano ai profili social della Treccani, ma la versione dell’enciclopedia online rimane una fedele riproduzione dei volumi, senza opzioni multimediali. Sapere.it. Una EOL di tipo adattato avanzato, per così dire, è invece stata messa in rete nel 2021 dalla De Agostini: Sapere.it. Nelle pagine dedicate alla Storia, ci si imbatte in un indice tematico che presta il fianco a critiche sulla ratio che ha guidato la scelta dei macrotemi, cioè argomenti che coincidono con periodizzazioni che appaiono del tutto arbitrarie, come «Antichità» e «Antichità classica», a cui si affianca una Storia che definirei di settore, se non di nicchia, come la «Storia militare», comprendente un dizionario biografico di militari. La sezione è così descritta: «La vita e le gesta di quanti, per servire lo Stato, per seguire un’ideale – sic, errore d’ortografia compreso! – o semplicemente per svolgere una professione d’onore, hanno scelto la carriera militare, il fare la guerra, studiando le strategie o imbracciando le armi, con la speranza di giungere alla pace». Evidentemente questa sezione asseconda o promuove un interesse del pubblico a cui si rivolge, anche considerato il fatto che un’altra sezione è dedicata agli strumenti di tortura, un argomento decisamente più da curiosità e da etnostoria che da Storia vera e propria, mentre una terza parte riguarda l’araldica. L’enciclopedia è organizzata per raccolte di biografie, non approfondite, di carattere meramente descrittivo, in una prosa non ricercata e talvolta scorretta persino dal punto di vista grammaticale, con gravi responsabilità dal momento che essa si propone come veicolo di trasmissione di conoscenza. Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche RAI. Tra le Emerging si può citare l’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche RAI, che comprende 39 categorie e argomenti. Essa propone filmati tratti dalle Teche RAI, cioè dagli archivi della Radio Televisione Italiana. Nella sezione «Storia» sono raccolti e presentati filmati relativi ad avvenimenti storici con testi introduttivi, a commento e contestualizzazione dei materiali video, e interventi relativi al significato storico di tali prodotti, un inquadramento generale e particolare, notizie su autori dei programmi e conduttori. Certamente costituisce un repertorio di fonti di straordinaria rilevanza. Considerazioni su Wikipedia. • User-created. Stando alle categorie sopra esposte, essa appartiene a quella delle Emergent, con la caratteristica di essere user-created, cioè realizzata dall’utente, e di offrire un repertorio iconografico e apparati di grafici e tabelle, oltre che link ad altre pagine web. • spazio di socializzazione. Ulteriore aspetto non trascurabile, che contribuisce a spiegarne il successo, Wikipedia ha costituito e costituisce uno spazio di socializzazione tra utenti che nelle «discussioni» sulle voci hanno modo di conoscersi tra loro. • Prima di Wikipedia: Nupedia. Wikipedia «è un’enciclopedia online a contenuto libero, collaborativa, multilingue e gratuita, nata nel 2001, sostenuta e ospitata dalla Wikimedia Foundation, un’organizzazione statunitense non a scopo di lucro», come si legge nella pagina di presentazione. Nata nel 2001, dalle intelligenze di Jimmy Wales e Larry Sanger, essa in realtà è figlia di un altro prodotto elaborato dai due: Nupedia. Questa risorsa, tuttavia, non presentava la possibilità di inserimento dei dati da parte di tutte le persone registrate, senza controllo. Una volta deciso di consentire a chiunque di inserire testi senza che venissero preventivamente vagliati, il fenomeno Wikipedia è letteralmente esploso. • Oltre 300 edizioni in lingue diverse. Attualmente essa è la più vasta enciclopedia del mondo. I dati ufficiali rilevati alla fine del 2022 riportano l’esistenza di 318 Wikipedia con più di 100 articoli, 166 delle quali con più di 10.000 voci e 70 con più di 100.000. Sono 329 le edizioni in lingue diverse, per un totale di più di 60.149.297 milioni di articoli. 4.5 Insegnare Storia con i podcast Podcast come ausilio per persone con DSA. Per chi abbia Disturbi Specifici dell’Apprendimento, che riscontri difficoltà nella lettura e nella comprensione di testi scritti, il podcast rappresenta, inoltre, un’efficace alternativa e, stimolando un canale sensoriale soltanto, cioè quello dell’udito, consente un maggior livello di concentrazione. Il podcast fornisce meno distrazioni rispetto ad altri tipi di comunicazione multicanale, per così dire. Coloro che fossero sordi/e o ipoudenti possono avvalersi della trascrizione del testo. Come risorsa didattica. Il podcast costituisce sicuramente una risorsa didattica e può essere impiegato con efficacia in due modi: 1. proponendone l’ascolto, sotto la direzione di un/una insegnante, dopo avere effettuato una selezione secondo i criteri che verranno illustrati (v. oltre). Servirà a. per apprendere concetti e ricavare informazioni; b. per una caccia all’errore, per affinare lo spirito critico e verificare le conoscenze del/della discente; 2. proponendone la produzione, sotto la direzione di un/una insegnante. In questo modo il/la discente acquisirà molteplici competenze e conoscenze, ossia: a. selezione e analisi delle fonti; b. ricerca bibliografica tematica; c. abilità nell’individuare argomenti d’impatto; d. valorizzazione dei talenti personali; e. rudimenti tecnologici e informatici su • software di registrazione e postproduzione; • piattaforme di distribuzione; • strumentazione audio; • diritti d’uso e siti per la selezione delle musiche; • diritti d’uso e siti per la selezione delle immagini; • filologia delle scelte; • marketing: promozione social e tradizionale dell’iniziativa. 4.5.1 Ascoltare Storia. Esistono molti podcast prodotti da persone con vari livelli di competenza senza che tuttavia ne sia stato creato mai uno con fini espressamente didattici. Essendo un prodotto accessibile gratuitamente, posto di possedere un collegamento internet e un device, il podcast può essere impiegato dal/dalla docente senza che sia necessaria alcuna autorizzazione da parte della Scuola e delle famiglie. Sulla base dell’analisi di alcune caratteristiche, possiamo suddividere i podcast a tema storico nelle tre categorie seguenti. 1. Talk: in maniera strutturata uno o più ospiti vengono intervistati su un tema. Esempi positivi sono: Voci della Memoria, a cura di Raffaella Calandra e Maria Luisa Colledani, Daniele Bellasio e Dario Ricci, realizzato da Radio 24 e Il Sole 24 Ore. Oppure Segno delle donne, a cura di Silvia Salvatici, prodotto da Rai Play. 2. Free talk: conduttori/conduttrici e ospiti conversano liberamente, come in MediaEvi. Il format prevede la libera discussione su un tema storico, unendo divulgazione storica ai linguaggi dei social network. 3. Monologhi: una persona tratta un argomento specifico, senza altre voci con cui interloquire, come in La presa del potere, prodotto da Rai Radio 3 in collaborazione con la casa editrice Laterza. Criteri per selezionare podcast utili a fini didattici. Tra quelli indicati, soltanto sulla base delle caratteristiche generali, il primo tipo risulta il più adatto, didatticamente parlando, se si pensa a una funzione passiva, mentre per una sperimentazione attiva si prediligeranno il primo e il terzo. Nell’effettuare la selezione a fini didattici, oltre ovviamente all’argomento, si dovrà tenere conto di una serie di fattori: • chi è l’autore/autrice dei contenuti (ambito accademico, formazione storica universitaria, appassionato/a, giornalista, altro); • presenza e caratteristiche di un comitato scientifico o di una redazione; • ragioni alla base della pubblicazione (commerciali, didattiche, divulgative, ideologiche, intrattenimento, autopromozione ecc.); • durata degli episodi (compatibile o meno con una lezione scolastica); • bibliografia a corredo. Altri elementi da valutare: - audience, che può fornire indicazioni sulla diffusione e sul successo, sulla capacità comunicativa, sui temi più in voga; - valutazioni/recensioni, classifiche disponibili online da consultarsi con cautela. In alcune liste si possono trovare prodotti molto disomogenei e forse inseriti per interesse commerciale. Affidarsi a prodotti con contenuti scientificamente corretti e garantiti. Ciò premesso, se si intende sfruttare un podcast con la funzione 1, cioè l’ascolto, per andare sul sicuro conviene affidarsi a prodotti il cui contenuto sia garantito da storici e storiche di professione. Si badi che un podcast che dichiara di occuparsi di Storia non può e non deve contenere elementi di fantasia, come invece è consentito a film, fiction, serie, canzoni, romanzi storici e podcast di intrattenimento. Soddisfa molti dei requisiti sopra menzionati, fatto salvo quello della durata poiché taluni episodi superano l’ora, Il podcast di Alessandro Barbero: Lezioni e Conferenze di Storia. L’abilità nella divulgazione, unita alla piacevolezza dell’eloquio e alla capacità di spaziare lungo tutto l’arco della Storia, ha decretato lo straordinario successo dello storico torinese, le cui pubblicazioni scientifiche risultano spesso in vetta alle classifiche di vendita. Guest star di tutti i principali Festival storici, con un successo senza precedenti, Barbero è rimasto tuttavia estraneo per scelta ai social. Ciò nonostante, come accennato, il “suo” podcast, creato e curato da Fabrizio Mele, gode di un successo eccezionale. Vi sono raccolte a oggi, rendendole così più facilmente reperibili, ubicate e organizzate come sono in un’unica sede virtuale, oltre 230 conferenze e lezioni, su vari argomenti e periodi dalla storia antica a quella contemporanea, tenute da Barbero davanti a un pubblico en vrai, in circostanze e luoghi diversi. Questo prodotto è il più ascoltato nel suo genere, come accennato. Esso risponde a tutti i requisiti sopra menzionati, unendo la capacità oratoria ad argomenti di interesse e alla certificazione di attendibilità del contenuto data dal curriculum professionale del protagonista. Il prodotto, tuttavia, non è un podcast nel senso più tradizionale del termine, ma appartiene alla categoria catch-up, cioè qualcosa che è stato ideato per un altro format e poi adattato a questo strumento. L’origine dei podcast di Storia in Italia è stata rivendicata da Enrica Salvatori, che nel 2006 ha realizzato e pubblicato «il primo podcast italiano che parla di Storia», cioè Historycast, terminato nel 2016. Un MediaEvi tra free talk e intervista. Un prodotto ibrido tra free talk e intervista, di ambito strettamente medievale, è invece MediaEvi. Il Medioevo al Presente, giunto a marzo 2022 al 30° episodio. Esso presenta una struttura fissa: ciascuna puntata è suddivisa in due parti; la prima dedicata alla creazione da parte dei due conduttori, entrambi giovani attivi in ambiente accademico, di un’atmosfera intima con il pubblico, tramite il quale si viene introdotti al tema trattato, mentre la seconda parte si caratterizza per un dialogo/intervista con uno/a specialista. Nova Lectio. Oltre a docenti, insegnanti e persone vicine all’ambiente accademico, appassionati/e e professionisti/e di altri settori si sono cimentati nella pubblicazione di puntate di podcast, con esiti positivi. Notevole successo di pubblico vanta Storie di Geopolitica, un programma che affronta temi dall’antichità all’attualità. Esso annovera tra i fondatori uno tra i dieci principali influencer under 40 del 2021, che coordina una équipe composta da diverse professionalità, ma soltanto da un laureato in Storia, accanto ad “appassionati” di questa disciplina. Dal 2014 al 2021 lo staff impiegato è aumentato in linea con l’incremento degli ascoltatori. Il podcast vanta 180.000 fruitori su Spotify e il connesso canale YouTube 670.000 iscritti. I numeri dell’audience hanno determinato un fenomeno per certi versi preoccupante poiché, come molti influencer, anche Simone Guida è stato contattato da una casa editrice di livello nazionale per scrivere un libro, peccato che si tratti di un libro di Storia: Instant Storia Contemporanea (2021). È chiaro che sta agli storici/che a questo punto accettare la sfida e mettersi in pari, tecnologicamente parlando, in modo da raggiungere un pubblico più vasto rispetto ai classici interlocutori accademici, impiegando «i linguaggi della Contemporaneità» e restituendo così credibilità e piacevolezza alla Storia. Storypodcast di successo. In vetta alle classifiche compaiono altri storypodcast frutto dell’iniziativa di appassionati: Storia d’Italia (oggi a 118 episodi), premiato nel 2020 come Best non-English podcast ai Discover Podcast Awards (un riconoscimento attribuito dai fans, quindi acritico dal punto di vista strettamente contenutistico). Anche in questo caso l’ideatore non è storico di formazione ma proviene dall’ambiente del marketing, tanto che ha trasformato il suo podcast in un business, affiancandolo ad altre attività commerciali di divulgazione storica (pubblicazione di libri, merchandising ecc.), in collaborazione con gruppi di rievocazione storica e di public history. Imprecisioni, inesattezze, passaggi e riferimenti anacronistici, oltre a luoghi comuni, sciupano podcast dotati di un potenziale enorme grazie alla capacità comunicativa e artistica dei loro ideatori, ma offrono una bella opportunità didattica al/alla docente. Si può infatti aprire uno spazio laboratoriale, una palestra in cui si lavori – docente e discenti – alla verifica e alla correzione del contenuto, di cui beneficerebbero tanto il podcast quanto gli studenti. Podcast come occasione didattica e learning by doing. Come si è scritto, il podcast è comunque un’occasione didattica. Sta all’insegnante determinare, in base alla validità contenutistica di ciascuno di essi, quale uso farne, cioè se suggerire l’ascolto per acquisire concetti e informazioni in maniera più accattivante rispetto a un manuale o al docente stesso, oppure suggerire un ascolto più critico, onde verificare la correttezza di contenuti “non garantiti”, facendo sì che il “referaggio”, per così dire, consenta ai/alle discenti di acquisire conoscenza attraverso un learning by doing, ancora più efficace nella modalità illustrata nel prossimo paragrafo. 4.5.2 “Fare” Storia Da una breve ricerca emerge infatti che questo strumento non è ancora sufficientemente sfruttato presso le scuole secondarie di secondo grado, tantomeno per l’apprendimento della Storia, mentre, come si è visto, è largamente diffuso presso i giovani l’ascolto di podcast a tema storico. Lavoro di gruppo e valorizzazione delle varie abilità. Eppure, il podcast, come accennato, costituisce uno strumento poliedrico ed efficace sotto il profilo didattico, poiché la realizzazione comporta un lavoro di gruppo nel quale, sotto una guida competente, mettere a frutto e valorizzare le differenti abilità di chi partecipa, nel solco di un Universal Design for Learning che sfrutti per l’appunto i diversi talenti in un learning by doing. In una scuola che oggi più che mai si deve porre come obiettivo il trasferimento di competenze multiple ai/alle discenti, coordinare un gruppo che crei un podcast significa trasferire un pacchetto di competenze (skills) multiple, che vanno ben oltre l’apprendimento della Storia, toccando tecnologia e marketing, esegesi delle fonti e diritti d’uso delle immagini o della musica, storiografia, scrittura teatrale e recitazione. Una ricaduta formativa molteplice. Ulteriore beneficio diretto sui/sulle discenti, oltre che sulla Scuola, è inoltre la visibilità mediatica che un podcast può garantire, come testimonia la fortuna di alcuni/e podcaster a cui si è già accennato. Punti fondamentali per la realizzazione di un podcast: 1. Selezione di un tema storico da percorrere, che incontri l’interesse del gruppo studentesco e quindi quello del pubblico potenziale: si può scegliere una categoria di eventi oppure di persone, oggetti, numeri, tutto quello che rende il programma identificabile in maniera univoca. 2. Scelta della modalità di realizzazione tra le molte disponibili (narrazione-storypodcast, talk, intervista ecc.). 3. Definizione della durata di ciascun episodio e applicazione all’intera stagione. 4. Selezione delle piattaforme di registrazione e di pubblicazione/distribuzione. 5. Individuazione delle sedi virtuali in cui pubblicizzare l’iniziativa e apertura di profili 6. Definizione dell’ordine degli episodi e della struttura complessiva. 7. Riferimenti bibliografici da indicare. Questa fase comporta una stretta collaborazione tra docente e studenti e studentesse che risulterà determinante, poiché il mixage tra fonti – che possono essere lette, rese in prosa, recitate, descritte – e studi realizzati sul tema è alla base dell’originalità dell’episodio (e della serie). 8. Scelta della musica per i singoli episodi; che si tratti di un tappeto lungo tutto l’episodio o di intermezzi soltanto musicali, il criterio deve essere individuato preventivamente e applicato a tutte le puntate. 9. Registrazione degli episodi, che può essere svolta in autonomia dagli studenti e studentesse previa prova in classe oppure tutorial. 10. Per ciascun episodio, selezione di un’immagine di copertina adatta. 11. Valutazione dell’uniformità degli episodi, scelta dell’immagine del podcast, del titolo e della sigla (una voce con un tappeto musicale, solo la voce con il nome del podcast, solo musica ecc.). 12. Pubblicazione scaglionata degli episodi su piattaforma. 13. Rilevazione e commento dei riscontri in termini di pubblico. Intelligenza collettiva. La stretta collaborazione di tutto il gruppo del corso, coordinato da uno studente e una studentessa che si sono proposti come supporto tecnico, social e grafico (peer tutoring), in un vero e proprio lavoro di situated and cooperative learning, ha alimentato una «intelligenza collettiva» – secondo il concetto espresso da Lévy – , in cui chiunque, in un ambiente formativo in cui si costruiscono abilità di relazione non competitive (comunità di pratica che puntano al raggiungimento di medesimi obiettivi), ha messo a disposizione degli altri e delle altre le proprie conoscenze (dimestichezza con i social, conoscenza di programmi di grafica, competenze informatiche, esperienza di registrazione, teatrale, talenti personali). Il successo di questo esperimento, che, sulla carta, non si presentava forse così scontato, si misura sulla soddisfazione di chi vi ha partecipato, non soltanto quella della docente, ma quella che studenti e studentesse hanno manifestato decidendo di costituire un gruppo che si occupi, al di fuori dell’ambito universitario, di produrre podcast di Storia. CAP 5: SPERIMENTAZIONI VINCENTI DI DIDATTICA INNOVATIVA 5.1 I social: W Facebook! Resta il social media di riferimento, utilizzato dal 59% di coloro che navigano su Internet. Per quanto si continui a sostenere che tale mezzo sia considerato obsoleto dal segmento della popolazione giovane, in Italia Facebook risulta della storia”. Se la didattica digitale è la strada maestra per avvicinare i e le discenti alla Storia, queste sperimentazioni dimostrano anche che la competenza storica consente di costruirsi una professionalità del tutto attuale in ambito culturale. 5.5 La Storia con le storie di Instagram Già nel 2015, una ricerca, condotta da uno studente della University of Texas di Austin e pubblicata da “Il Post”, relativa alle preferenze social dei teenager informava che Instagram era preferito a Facebook e Twitter.4 Rispetto agli altri due, infatti, risulta meno dispersivo e capace di proporre contenuti più in linea con gli interessi dell’utente, grazie anche alla più alta qualità delle immagini che oggi sono sicuramente una delle leve dell’attenzione. Il successo di questo social è legato quindi alla sua “personalità”, alla cifra che lo distingue dagli altri, cioè al peculiare rapporto stabilito tra comunicazione e immagini che hanno una «funzione testimoniale». Occorre domandarsi se l’immagine ai nostri giorni non sia il più potente transfer di conoscenza. I social nella didattica. All’autorevolezza di parenti e docenti si è sostituita quella di personaggi che la rete “reputa” e trasforma in autorevoli influencer e persone pubbliche con profili social molto seguiti. La vera grande atout dei social, e di Instagram, è la possibilità che offrono a qualsiasi utente di costruire contenuti e quindi, volendo, di “apprendere facendo”, e di condividerli, in modo da avere un riscontro immediato e diretto del successo di una certa proposta sia a livello di forma che di sostanza, attraverso i “like”. Per questa ragione il potenziale didattico di Instagram non può essere trascurato. Se poi si tenesse conto che i social, e questo in special modo, oggi accompagnano costantemente la vita delle persone di età inferiore ai 18 anni, in media da quasi 5 a più di 8 ore al giorno, la questione diventa urgente. Dal punto di vista sociologico ciò significa infatti che la gran parte delle tendenze, delle conoscenze, delle informazioni viene acquisita e costruita attraverso una mediazione digitale duplice: lo strumento (telefonino, PC, tablet ecc.) e il contenuto proposto e filtrato dal social. Introdurre l’uso dei social nella didattica può aiutare a rivestire di positività per i genitori e per il mondo adulto in generale questi spazi virtuali che, all’apparenza, invece, tolgono tempo allo studio. Una parte della popolazione adulta ha infatti una considerazione negativa del tempo trascorso a navigare e dell’influenza dei social media sui teenager, in particolare attribuendo a queste attività responsabilità sul rendimento scolastico negativo. L’obiettivo finale è dunque quello di rendere quelle stesse piattaforme spazi e strumenti di conoscenza, di informazione, di studio, di apprendimento della Storia. 5.5.1 Come fare la Storia con Instagram in classe? • Storie e reel • Storie in evidenza • Hashtag: è un’etichetta impiegata dai social media – ma anche dai servizi web in generale – come aggregatore tematico, cioè come collante e organizzatore di contenuti sotto lo stesso cappello. Il suo fine è quello di rendere rintracciabili più facilmente i post relativi a uno specifico tema. Utilizzo didattico di storie e reel. Scelto un tema storico da trattare, ciascun/a partecipante creerà un reel e lo caricherà sul proprio profilo, avendo cura di taggare il profilo di riferimento del corso o dell’insegnante – che poi potrà raccogliere nelle “Storie in evidenza” tutte le storie e mantenerle disponibili –, e di inserire gli hashtag comuni, suggeriti dal/dalla docente, e quelli che personalmente ritiene più efficaci. Il numero di cuoricini collezionati dalle singole storie costituirà una misura di valutazione per i/le partecipanti, “premiando” chi ha realizzato al meglio e nella maniera più originale e riconoscibile possibile – grazie alle funzioni di scrittura, ai filtri, e agli adesivi disponibili sul social – il proprio contenuto. Renderli accattivanti. La possibilità di corredare di suoni e/o musiche i propri reel consente di renderli più accattivanti e, in chiave didattica, più efficaci, considerato inoltre che il legame tra immagine e musica è particolarmente adatto alla trasmissione di contenuti, poiché più facilmente memorizzabile. Altrettanto efficace sotto il profilo didattico è agganciare l’argomento, per quanto la trattazione specifica possa riguardare il passato, all’attualità, in modo da creare un immediato rimando alla realtà vissuta e conosciuta dagli/dalle utenti. La cifra distintiva di Instagram, rispetto agli altri social – Facebook, Twitter e TikTok –, è costituita da immagini e grafica, quindi post e reel curati sotto questo profilo, con soluzioni originali e combinate, catturano più like e più lettori. La resa grafica del reel, o del post, è molto importante per chi frequenta Instagram, al pari della scelta di frasi d’effetto, brevi ed efficaci, per far sì che il messaggio e quindi il contenuto del reel restino impressi. 5.5.2 Un Festival di Storia Differenza tra Didattica della Storia e Public History. Esse sono considerati ambiti culturali affini per quanto distinti, poiché mirano entrambe a diffondere la conoscenza storica; in particolare, la prima si deve occupare o, meglio, preoccupare, di creare competenze nel campo dello specifico insegnamento, e la seconda di avvicinare il pubblico alla Storia; la prima non consiste in un’attività divulgativa, la seconda sì. Uso della storia a favore del pubblico. La mancata traduzione dell’espressione Public History con un’equivalente italiana è stata dettata dalla volontà di mantenere ben distinti i concetti di “uso pubblico della Storia” e di “uso della Storia a favore del pubblico”, per così dire. Se del primo possediamo innumerevoli esempi in negativo e oggi il dibattito e le critiche investono e riguardano anche la memoria storica e la sua costruzione (ricorrenze, commemorazioni, iniziative per celebrazioni, statue, targhe ecc.), del secondo invece si possono rintracciare alcuni esempi positivi che possono utilmente fungere da modello didattico. La “storia fuori” dalle scuole. Il campo della divulgazione storica è oggi occupato da migliaia di persone che non possiedono una formazione sufficiente per trasmettere in maniera corretta conoscenze storiche. Tuttavia, l’unico modo per contrastare questa pratica e per ridurre gli eventuali danni procurati da questo fenomeno è che siano storici e storiche a occupare il campo, superando le loro eventuali limitanti ritrosie. Se infatti la “Storia fuori” dalle scuole ha successo, mentre ne ha molto meno al suo interno, è necessario che negli ambiti ascolastici, o extrascolastici che dir si voglia, essa sia trasmessa da chi la pratica come disciplina scientifica, cioè è necessario che storici e storiche di mestiere si facciano carico di divulgarla. In parte ciò avviene già in singole occasioni e in alcuni specifici contesti, come in diverse manifestazioni classificate sotto l’etichetta “Festival”. Queste hanno oggi grande successo in termini di partecipazione di pubblico di ogni età, anche giovane come quello che segue il Festival del Medioevo di Gubbio. Diversamente da altre, la manifestazione ruota attorno alle decine di conferenze tenute da storici e storiche, qualche giornalista e divulgatore/trice, su un tema scelto dall’organizzatore di anno in anno. Ma quale è il format del Festival di Gubbio? Benché nel corso degli anni si sia modificato, il nucleo portante è sempre stato costituito da interventi di persone appartenenti al mondo dell’Università, prima prevalentemente del Centro Italia, di Perugia in particolare, poi sempre più variegato. Fioravanti descrive in maniera efficace le difficoltà della pratica della Public History, parlando peraltro da un contesto ideale, considerato il sostegno fornito da associazioni culturali e scuole locali, volontari, politici e banche. Il fondatore del Festival illustra quanto sia difficile per uno/a storico/a di professione fare bene divulgazione – «con questi professori è una battaglia spesso persa» –, afferma e sottolinea al contempo quanto l’Università possa essere scettica e critica nei confronti di un evento del genere. Pur rendendosi perfettamente conto di quanto possa risultare complesso illustrare un tema nodale della Storia medievale in 30 minuti con parole semplici, Fioravanti non si è spaventato e dalla prima edizione si sforza di coinvolgere, ed eventualmente ricontattare, soltanto chi si è dimostrato in grado di farlo. Nell’intervista infatti precisa che taluni, come Alessandro Barbero, hanno la capacità «di coinvolgere, di raccontare bene la storia, di emozionare il pubblico», mentre «altri bravissimi professori […] però non sanno parlare, cioè non sanno parlare a un pubblico non dei loro studenti». In conclusione, l’obiettivo di Fioravanti è rendere «appassionante e comprensibile, come un gioco, la Storia»,7 in cui protagonisti/e sono al tempo stesso le persone che parlano e quelle che ascoltano. Un festival di storia a scuola. Ispirandosi a questa esperienza, allestire su scala ridotta un evento del genere in una classe, oppure, meglio ancora, in una scuola, offrirebbe la possibilità a studenti e studentesse, oltre che di acquisire conoscenze storiche, primo obiettivo dell’attività, anche di apprendere e affinare diverse competenze, che vanno dall’organizzazione logistica all’individuazione dei contenuti, dall’elaborazione dei testi delle comunicazioni alla pianificazione degli interventi, dalla capacità di parlare in pubblico a quella di rielaborare testi scientifici a fini divulgativi, sino alla creazione di contenuti per la comunicazione. 5.5.3 Dalla Public History alla Didattica della Storia tra disputatio, processo all’americana e talent. L’iniziativa ha ogni anno un successo eccezionale che deriva dalla bravura delle due parti chiamate a dibattere “in aula”, dalla credibilità delle argomentazioni pro e contro e dal coinvolgimento della cittadinanza che al contempo è spettatrice e protagonista dell’evento. È anche questo l’aspetto che qui interessa, poiché la riproposizione del format, la preparazione delle due posizioni delle parti in causa e delle argomentazioni a sostegno costituiscono un’utile palestra di apprendimento storico e storiografico. 5.5.4 Il “Processo” nelle scuole e nelle università Questa fase pubblica dell’attività, per dir così, in realtà è la punta dell’iceberg del processo di apprendimento che può essere sviluppato con questo metodo, poiché è nella preparazione delle due linee, di difesa e accusa, che si misura l’efficacia didattica di tale metodologia, laddove si costruiscono le competenze per giungere alla fase finale del dibattimento. L’esperienza consente infatti di sviluppare abilità trasversali come public speaking e problem solving (espletate nella fase dibattimentale) insieme a cooperative e peer learning, dal momento che la classe viene suddivisa in gruppi, per predisporre le strategie processuali di accusa e difesa. All’interno dei gruppi ogni partecipante porta le proprie competenze, conoscenze e talenti. Ovviamente prima di tutto vanno conteggiate, nel bilancio complessivo dell’attività, le acquisizioni in ambito letterario e storico, realizzate durante la fase di preparazione del processo vero e proprio, relativamente al romanzo, ai personaggi e alla congiuntura storica in cui è ambientato. Nel corso di Didattica della Storia dell’Università degli Studi di Milano (a.a. 2022/23), invece, è andato in scena il Processo a Federico I Barbarossa, onde trasferire a studenti e studentesse le competenze utili all’allestimento e alla gestione di una attività di questo genere in previsione del loro futuro da insegnanti. Quali sono state le tappe? 1. Individuazione dell’imputato: la prima tappa del progetto è consistita nell’individuazione dell’imputato che, possibilmente, deve rivestire un peso storico anche locale 2. Selezione della bibliografia e fonti: La seconda tappa del lavoro del/della docente consiste nel fornire una sintetica bibliografia sul tema e un elenco di fonti consultabili direttamente da studenti e studentesse, in funzione del grado e dell’indirizzo scolastico specifico. 3. Cooperative learning per difesa e accusa: Si procede poi alla costituzione di due macrogruppi che si occupino di predisporre le linee di difesa, l’uno, e di accusa, l’altro, a loro volta suddivisi in raggruppamenti più ristretti in funzione delle singole attività da svolgere e costituiti in funzione di competenze e talenti dei/delle discenti. CONCLUSIONI Ancora oggi nella maggior parte degli istituti scolastici, infatti, l’insegnamento della Storia avviene tramite lezioni frontali, basate prevalentemente sul manuale, cioè su quello che potrebbe essere per molti/e discenti l’unico tipo di testo scientifico di Storia che leggeranno nella loro intera esistenza. Le ragioni che inducono chi insegna a prediligere il libro in adozione, anziché avvalersi di letture alternative su specifici argomenti, per preparare la lezione ed esporla in classe, sono anche in questo caso varie: dalle poche ore settimanali a disposizione, che obbligano ad affrontare molti argomenti del programma in un ridotto lasso di tempo e quindi ad affidarsi a un testo che è per definizione sintetico, alla formazione dei e delle docenti di Storia, che solitamente è di matrice filosofica o letteraria, per via della cattedra unita, e che pertanto costringerebbe l’insegnante volenteroso che volesse uscire dal dettato del manuale a un investimento di varie ore di lavoro per allestire una didattica che poggi su letture altre o, ancora di più, per realizzare un Laboratorio storico. Compito dell’insegnante che aderisce alla modalità innovativa e “aperta” è quello di riuscire a coniugare la scientificità dei contenuti con gli strumenti oggi a sua disposizione per assicurarne l’apprendimento, senza trasformarsi in divulgatore/trice. La Storia è una disciplina e una materia scolastica che deve essere narrata, quindi particolarmente complessa da insegnare, ma per farlo non occorre essere bravi/e comunicatori/trici, occorre però essere consapevoli che esistono linguaggi più o meno comprensibili, più o meno efficaci, che possono essere sfruttati.
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