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Diritto internazionale privato mosconi de cesari, Dispense di Diritto Internazionale Privato E Processuale

Riassunto dei principali capitoli di 2 libri di internazionale privato Mosconi, De Cesari

Tipologia: Dispense

2015/2016

Caricato il 06/01/2016

jacky1989
jacky1989 🇮🇹

4.8

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Scarica Diritto internazionale privato mosconi de cesari e più Dispense in PDF di Diritto Internazionale Privato E Processuale solo su Docsity! [1] F. MOSCONI, Diritto internazionale privato e processuale 1. Il diritto internazionale provato (d. i. pr.): terminologia. Con l'espressione diritto privato internazionale o normalmente, come si è detto, diritto internazionale privato, ci si riferisce all'insieme delle norme che ciascuno Stato si dà per disciplinare situazioni e rapporti (ossia fatti della vita reale) che coinvolgono privati (persone fisiche ed enti collettivi) e che, in ogni settore dell'ordinamento, non sono totalmente interni all'ordinamento medesimo: situazioni e rapporti, in altre parole, che presentano qualche carattere di estraneità rispetto all'ordinamento statale in questione ovvero, come anche si dice, presentano connotati di internazionalità o transnazionalità. Del resto è proprio rispetto al diritto privato, e precisamente rispetto alla questione della legge – quella locale o altra – applicabile alle relazioni interindividuali, che si è storicamente cominciato ad avvertire il problema della disciplina di situazioni non totalmente interne; e che, per risolverlo, si sono affinate tecniche particolari e differenziate rispetto a quella ordinaria della produzione di norme che direttamente forniscono la disciplina concreta o materiale della fattispecie. La principale e più caratteristica di queste tecniche consiste nella produzione di norme idonee a guidare il giudice nella individuazione del diritto da applicare, e questo spiega l'impiego frequente di espressioni quali norme di scelta (del diritto applicabile) oppure norme di conflitto o anche norme di collisione. 2. Segue: la riforma del 1995 del sistema italiano. Solo in epoca piuttosto recente il legislatore italiano ha concentrato in un unico testo la disciplina nazionale del diritto internazionale privato. Si tratta della legge 31 maggio 1995, n. 218, dedicata appunto alla “Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato”. Come essa stessa precisa in apertura, detta legge ha carattere onnicomprensivo in quanto “determina l'ambito della giurisdizione italiana, pone i criteri per l'individuazione del diritto applicabile e disciplina l'efficacia delle sentenze e degli atti stranieri” (art. 1). Va tuttavia notato fin d'ora che, già pochi anni dopo la sua emanazione, la legge n. 218 ha subito progressive e significative “interferenze” ad opera del diritto comunitario: in altre parole, l'ambito di applicazione della nostra legge risulta oggi, in alcuni importanti settori, puramente residuale rispetto al d. i. pr. di origine comunitaria. Lo strumento attraverso il quale viene “posto” il diritto internazionale privato di origine comunitaria è il regolamento, che, oltre ad essere direttamente applicabile all'interno degli ordinamenti nazionali (e dunque non richiedendo atti di adattamento ad hoc), consente di uniformare completamente le normative nazionali (la direttiva infatti necessiterebbe di integrazioni che potrebbero essere diverse da Stato a Stato). La conclusione che è possibile trarre da questi cenni sulla progressiva comunitarizzazione del diritto internazionale privato, è che i legislatori dei singoli Stati membri svolgano ormai una funzione residuale rispetto all'Unione Europea, nel senso che il loro intervento è venuto riducendosi ai settori lasciati scoperti dall'Unione Europea: settori che, in prospettiva, saranno sempre meno. 3. Adattamento del diritto italiano alle convenzioni internazionali e al diritto dell'Unione Europea. [2] Non è questa la sede per un approfondito studio delle problematiche attinenti alla stipulazione dei trattati e delle modalità mediante le quali avviene l'adattamento dell'ordinamento italiano alle norme internazionali, ovvero – detto in altro modo – delle modalità attraverso le quali le norme internazionali vengono introdotte nell'ordinamento italiano. Basti qui ricordare che se il diritto internazionale non impone che nella stipulazione si segua un iter formativo particolare, sul piano interno va pur sempre soddisfatta l'esigenza, posta dall'art. 80 della Cost., che sia autorizzata dalle Camere, con legge, la stipulazione dei trattati che “importano […] modificazione di legge”. Quanto all'adattamento, il procedimento normalmente seguito è un procedimento speciale, che si realizza mediante un ordine relativo a ogni singolo trattato (c.d. ordine di esecuzione), che nelle materie che qui interessano viene impartito dal legislatore, con legge. Di solito, nella stessa legge con la quale viene autorizzata la ratifica di un trattato trova spazio una disposizione per mezzo della quale al trattato stesso viene data “piena ed intera esecuzione”. Questa procedura di adattamento è però utilizzabile soltanto quando le norme del trattato sono formulate in maniera tale da poter essere direttamente applicate dagli operatori giuridici interni, in ultima analisi, dal giudice (norme cc.dd. self-executing), o quando, pur essendo bisognosi di integrazione completamento, all'interno del nostro ordinamento già esistono norme idonee a svolgere una simile funzione. 4. Interpretazione delle convenzioni internazionali e del diritto dell'Unione Europea. Indubbia è l’importanza del II co., dell'art. 2 della legge 218/1995: che nell'interpretare le convenzioni di diritto internazionale privato si debba tener “conto del loro carattere internazionale e dell'esigenza della loro applicazione uniforme”. È pur sempre vero, tuttavia, che per i trattati di diritto internazionale privato, forse più che per altri, si registra una “divaricazione dei processi interpretativi”, di cui portano la principale responsabilità, data la frequenza con cui sono applicati dai giudici nazionali, oltre che “il particolarismo delle tradizioni giuridiche nazionali, la tendenza dei giudici nazionali ad utilizzare le categorie giuridiche più familiari, la diversità delle versioni linguistiche, le tecniche differenziate di trasposizione della convenzione negli ordinamenti nazionali”. Tuttavia, il giudice italiano – e l'art. 2, co. II, glielo ricorda – deve farsi guidare non già dai canoni ermeneutici propri dell'ordinamento italiano, ma da quelli che si rinvengono nell'ordinamento internazionale con riferimento ai trattati, e segnatamente da quelli codificati negli artt. 31-33 della convenzione di Vienna del 23 maggio 1969, sul diritto dei trattati. Deve, in altre parole, riassumendo, tenere conto di ogni elemento di valutazione che possa emergere dalle diverse versioni linguistiche che vanno tra loro conciliate, dal contesto, dall'oggetto del trattato, dagli scopi che le parti in inteso perseguire mediante la stipulazione, nonché dei lavori preparatori. L'art. 2 della legge non menziona il diritto comunitario, ma l'esigenza di un'interpretazione autonoma e uniforme sussiste anche per le norme di diritto internazionale privato poste mediante regolamenti della Comunità/Unione Europea. È un'esigenza che deriva direttamente dal Trattato CE (oggi Trattato sul funzionamento U.E.), che a tal fine attribuisce la competenza a pronunciarsi in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia. [5] Occorre a questo punto notare che il legislatore di diritto internazionale privato si limita a stabilire dove debba venire ricercata la disciplina del caso in esame e non quale detta disciplina debba essere: non a quale età una determinata persona deve essere considerata maggiorenne e pertanto capace di agire, ma secondo il diritto di quale Stato si debba accertare se quella persona sia maggiorenne. Emerge quindi come il legislatore di diritto internazionale privato si faccia carico del problema della giustizia internazionale soltanto in via indiretta e mediata. Un'attenta lettura della legge del 1995, conferma agevolmente che la ricerca dell'uniformità delle soluzioni è una delle linee guida, delle idee forza del sistema stesso, ma non l'unica. In effetti, accanto a quello dell'uniformità delle soluzioni e oltre a quello della coerenza e armonia interna del proprio ordinamento, per il giudice, come per il legislatore, si collocano con almeno pari dignità altri valori specifici di diritto internazionale privato quale la prevedibilità delle soluzioni. Con questa espressione, nel linguaggio del diritto internazionale privato, si allude essenzialmente alla possibilità che fin dal momento dell'avvio del procedimento giudiziario le parti prevedano quale diritto applicherà il giudice adito e quale sarà quindi l'esito concreto (o comunque prevedibile) del giudizio. 4. Armonia interna delle soluzioni. Si è visto nel par. precedente come quello dell'armonia internazionale delle soluzioni non sia che uno dei valori in gioco nel diritto internazionale privato. In effetti, in ogni ordinamento giuridico statale, accanto a regole che tendono a realizzare l'apertura dell'ordinamento stesso verso l'esterno, verso gli ordinamenti giuridici stranieri, ve ne sono sempre anche altre che sono invece dirette, o vengono semplicemente sfruttate, per ostacolare il coordinamento e l'apertura verso l'esterno. Paradigmatica è al riguardo la c.d. eccezione di ordine pubblico che consente a ogni Stato di rifiutarsi di applicare le norme di conflitto che esso stesso si è dato, in quei casi in cui l'applicazione del diritto straniero designato da una di tali norme condurrebbe a un risultato inaccettabile. È infatti del tutto logico e comprensibile che, pur aprendosi verso valori giuridici esterni e pur perseguendo la ricerca dell'armonia, dell'uniformità delle soluzioni, un ordinamento statale non possa rinunciare a proteggere la propria armonia interna ed eviti quindi di impegnarsi ad applicare quelle norme straniere che, sebbene appartenenti all'ordinamento in principio considerato competente, nel caso di specie produrrebbero nel foro effetti intollerabili in quanto contrastanti con i fondamentali principi morali e giuridici che lo caratterizzano in via generale o in uno specifico settore. La preoccupazione di preservare la coerenza dell'ordinamento del foro sussiste anche quando si tratti, anziché di applicare il diritto straniero, di riconoscere effetti a sentenze pronunciate all'estero. Come meglio si vedrà, l'esigenza di coerenza all'interno del foro, paradigmaticamente espressa dall'eccezione di ordine pubblico, viene talora anticipata dal legislatore che si sforza di garantirla ponendo norme di conflitto che conducono all'applicazione della lex fori piuttosto che di una legge straniera o norme di applicazione necessaria (art. 17) che, in quanto tali, privano a priori il giudice della possibilità di utilizzare le norme di conflitto del foro e, per ciò stesso, di applicare il diritto straniero. Per quanto concerne specificamente il nostro sistema di diritto internazionale privato, nelle “disposizioni generali” sul diritto applicabile, sembra in complesso ravvisabile un orientamento legislativo di conferma della tradizionale propensione [6] all'apertura verso valori giuridici stranieri, anche attraverso l'introduzione di soluzioni specificamente rivolte a moderare spinte “legeforiste” che erano emerse nella giurisprudenza. Questo orientamento trova riscontro nell'ampio uso che nelle singole norme di conflitto viene ancora fatto del criterio di collegamento della cittadinanza nonostante il nostro abbia cessato di essere un Paese di emigrazione per divenire un Paese di immigrazione. 5. Oggetto e funzione delle norme di conflitto. Conviene ora prospettare un quesito intorno al quale la dottrina italiana ha lungamente dibattuto: quello dell'oggetto e della specifica funzione delle norme di conflitto. Secondo l'opinione che appare preferibile, le norme di conflitto renderebbero applicabile volta a volta il diritto materiale italiano – la lex fori – o il diritto straniero (svolgendo, dunque, una funzione bilaterale). Resta da chiarire se le norme di conflitto vengano sempre in gioco, cioè anche al fine di rendere applicabile il diritto materiale italiano a fattispecie totalmente interne rispetto al nostro ordinamento giuridico, ovvero se vengano in rilievo soltanto in ordine a situazioni e rapporti che presentano connotati di internazionalità, ossia che presentano qualche carattere di estraneità rispetto al nostro ordinamento giuridico. È questa seconda opinione che appare preferibile. Infatti, mentre riguardo alle fattispecie totalmente interne al nostro ordinamento il diritto materiale italiano si applica proprio vigore, le norme di conflitto intervengono a guidare il giudice nella scelta del diritto da applicare per decidere di situazioni e rapporti giuridici i quali, oltre che con il nostro, presentano con uno o più ordinamenti stranieri contatti che appaiono rilevanti alla luce del nostro ordinamento complessivamente considerato. Così, per fare un esempio, il giudice italiano chiamato a decidere della capacità di agire di un italiano residente in Germania giungerà ad applicare l'art. 2 del codice civile passando attraverso le norme di diritto internazionale privato e segnatamente l’art. 23, co. I, della legge del 1995 perché altre disposizioni della medesima legge, per altre categorie di fattispecie, assumono la residenza come criterio di collegamento e la residenza dell’interessato all’estero (in Germania) è dunque idonea a far considerare il caso come non totalmente interno, sebbene il diritto materiale da applicare sia in definitiva quello italiano. 6. Applicabilità d'ufficio delle norme di conflitto. Tra i problemi di diritto internazionale privato che possono definirsi di parte generale conviene ora considerare quello della cogenza delle norme con le quali la legge del 1995 “determina l'ambito della giurisdizione italiana [e] pone i criteri per l'individuazione del diritto applicabile” (art. 1). È evidente che il potere-dovere delle nostre coorti di ius dicere sussiste nei limiti fissati dalla legge del 1995 e che l'accordo tra privati per derogare la giurisdizione italiana non può produrre effetti se non nei casi previsti dalla legge stessa (art. 4, co. II). Le norme di conflitto cogenti fanno parte a ogni effetto dell'ordinamento giuridico sicché anche nei loro confronti vale il principio sancito dall'art. 113 del codice di procedura civile, secondo cui “nel pronunciare sulla causa il giudice deve seguire le norme del diritto”. È fuor di dubbio, in altre parole, che per le norme di conflitto valga il principio iura novit curia e che le parti non possano sottrarsi alla loro applicazione. Di fronte a una fattispecie non totalmente interna al nostro ordinamento giuridico, il giudice italiano ha il dovere di accertare nell'ambito di applicazione di quale norma di conflitto essa rientri e di applicare tale norma. [7] Norme di conflitto facoltative si rinvengono nelle disposizioni che impiegano il c.d. criterio della volontà, conferendo alle parti la facoltà di designare (peraltro sempre entro i confini stabiliti dalle disposizioni medesime) La legge destinata a regolare il negozio. Un altro passaggio resta ancora da compiere. L'aver affermato il dovere del giudice italiano di conoscere e applicare d'ufficio le norme di conflitto comporta come conseguenza logica che egli debba, sempre d'ufficio, verificare i presupposti di tale applicazione: in altre parole, egli dovrà verificare che il caso sottopostogli non sia totalmente interno all'ordinamento giuridico italiano e anche la presenza in concreto di quella circostanza, o meglio, di quel collegamento, che la norma di conflitto assume come idoneo a determinare l'applicazione di un diritto straniero. A tal proposito la Corte di cassazione ha affermato che è “sempre necessario che le condizioni di fatto, alle quali la legge italiana subordina l'applicazione della disciplina straniera, risultino in modo indubbio e pacifico dagli atti di causa ovvero siano oggetto d'allegazione e di prova, in quanto tali condizioni concretano una realtà di fatto che, ove non sia chiara e pacifica tra le parti, non pone al giudice un obbligo di accertamento né si sottrae al regime processuale delle allegazioni e della prova”. Ancora recentemente, del resto, la Suprema Corte ha precisato che l'art. 14 non esonera la parte interessata dall'onere di allegare gli elementi di fatto che la norma di conflitto applicabile alla fattispecie assume come criteri di collegamento ai fini dell'individuazione della lex causae. Una soluzione di questo tipo non appare soddisfacente. Fare gravare sulle parti un onere di prova in ordine alle circostanze assunte dalle norme di conflitto come criteri di collegamento equivarrebbe a dire che il diritto internazionale privato deve essere applicato d'ufficio dal giudice solo se le parti provino che egli deve fare ciò, e dunque equivarrebbe non solo a consentire che esse, d'accordo tra loro, si sottraggano all'applicazione delle norme di conflitto, ma anche, in definitiva, a svuotare di significato l'obbligo imposto al giudice dall'art. 14 circa la conoscenza del diritto straniero applicabile. Appare pertanto equilibrata e convincente la soluzione, proposta in dottrina, secondo la quale i fatti anche semplicemente conosciuti dal giudice, sulla base di una complessiva valutazione di tutti gli elementi a qualunque titolo acquisiti al processo, sarebbero da assimilare ai fatti espressamente invocati e allegati dalle parti. 7. Criteri di collegamento e titoli di giurisdizione: in particolare la cittadinanza … Ciascuna norma di conflitto contempla una categoria più o meno ampia di fattispecie per la quale, per mezzo di un criterio di collegamento, provvede a determinare il diritto che il giudice dovrà applicare. L'espressione “criterio di collegamento” designa quella circostanza, quel fattore materiale, che il legislatore considera idoneo a esprimere un attacco, una connessione, un collegamento, appunto, di una data categoria di fattispecie con un dato ordinamento. Alcuni di quegli stessi elementi operano altresì come titoli di giurisdizione, ossia vengono impiegati dal legislatore anche nelle norme con le quali delimita l'ambito della giurisdizione italiana, nel senso che, se nel caso concreto rivelano una connessione con il nostro ordinamento, fanno sì che il giudice italiano abbia il potere-dovere di giudicare. La statuizione principale per quel che riguarda la determinazione dell'ambito della giurisdizione italiana è racchiusa nella prima frase dell'art. 3, co. I: “La giurisdizione italiana sussiste quando il convenuto è domiciliato o residente in Italia […]”. [10] A parte i limiti or ora ricordati, è pur vero che in materia contrattuale il criterio della volontà viene valorizzato al massimo, essendo consentito che la scelta, oltreché espressa, possa risultare “chiaramente dalle disposizioni del contratto o dalle circostanze del caso”, possa riguardare tutto il contratto ovvero una sola parte di esso, e possa intervenire non solo in occasione della stipulazione del contratto ma anche prima come pure in un momento successivo, e possa addirittura modificare una precedente scelta. Come è già stato osservato, solo in senso traslato si parla della volontà delle parti come titolo di giurisdizione o criterio di collegamento. Non si tratta infatti di un elemento della fattispecie assunto dal legislatore come idoneo a determinare la localizzazione nello spazio, ma di atti negoziali con i quali le parti direttamente incidono sulla delimitazione della giurisdizione ovvero scelgono il diritto che il giudice dovrà applicare. Si pone quindi il problema dell'ordinamento secondo cui si dovranno valutare i requisiti di validità del negozio col quale viene prorogata o derogata la giurisdizione (electio fori) ovvero viene scelto il diritto applicabile (optio legis o pactum de lege utenda). A questo problema in regolamento Roma I dà una soluzione esplicita che ora vale per tutta la materia contrattuale: l'art. 3, co. V, del regolamento, richiamando i successivi artt. 10, 11 e 13, estende infatti al negozio di scelta le soluzioni previste per il contratto. In particolare, l'esistenza e la validità del consenso delle parti sulla legge applicabile vengono assoggettate alla legge regolatrice del contratto, ossia alla lex causae e pertanto in ipotesi alla stessa legge designata dalle parti. Quanto all'accettazione e alla deroga della giurisdizione, la legge di riforma, all'art. 57, dispone che le obbligazioni contrattuali sono in ogni caso regolate dalla Convenzione di Roma (oggi regolamento Roma I). E la stessa soluzione sembra ragionevole seguire anche per i negozi di proroga e deroga della giurisdizione italiana. 10. Segue: concorso alternativo di criteri di collegamento … Quanto ai titoli di giurisdizione, se ci riferiamo al procedimento ordinario di cognizione, accanto a quelli generali del domicilio e della residenza in Italia del convenuto – ossia della parte chiamata in giudizio – vengono presi in considerazione in via sussidiaria altri attacchi, altre connessioni con il nostro ordinamento giuridico, come idonee esse pure a giustificare l'esercizio della giurisdizione italiana nei confronti di un convenuto non domiciliato né residente in Italia. Così, per esempio, per le cause in materia matrimoniale, titoli sussidiari di giurisdizione sono la cittadinanza italiana di uno dei coniugi nonché la circostanza che il matrimonio sia stato celebrato in Italia (art. 32). Ma il nostro ordinamento prende in considerazione altresì circostanze d'indole negativa, atte cioè a escludere la giurisdizione italiana anche in presenza di connessioni in principio idonee a fondarla: la volontà derogatoria delle parti secondo l'art. 4, co. II (nei limiti stabiliti dalla disposizione medesima) e la situazione all'estero del bene immobile oggetto di un'azione reale secondo l'art. 5. Diversa ovviamente l'ottica della normativa internazionale e segnatamente di quella comunitaria, che compie una ripartizione della giurisdizione tra gli Stati membri. Si è già visto infatti che il regolamento Bruxelles I a questo scopo utilizza un titolo di giurisdizione come principale o primario (art. 2), titoli sussidiari idonei a identificare fori speciali concorrenti (art. 5), e altri titoli idonei invece a identificare fori dotati di giurisdizione in via esclusiva (art. 22), ossia idonei a rendere inoperante l'attribuzione di giurisdizione compiuta da altre disposizioni dello stesso [11] regolamento o dei singoli Stati membri. Il regolamento n. 44/2001 attribuisce altresì rilevanza alla volontà delle parti riconosciuta idonea a derogare ovvero prorogare la giurisdizione (artt. 23 e 24). Anche quanto alla individuazione del diritto applicabile la legge di riforma impiega assai spesso una pluralità, un concorso di criteri di collegamento diversi. I criteri di collegamento o le leggi vengono fatte concorrere tra loro secondo due modalità distinte che portano a identificare due tipi di concorso: il concorso successivo e il concorso alternativo. Si ha concorso alternativo allorché la norma di conflitto consideri vari aspetti della categoria di fattispecie da regolare, suscettibili di collegare la fattispecie stessa simultaneamente con più ordinamenti giuridici, tutti, paritariamente tra loro, ritenuti adatti a disciplinare la categoria di fattispecie cui la norma si riferisce. I casi di concorso alternativo nella nostra legge riguardano per lo più la forma. Il risultato al quale il legislatore tende è la validità del negozio, come risulta chiaramente, per esempio quanto al matrimonio, dal tenore dell'art. 28: “Il matrimonio è valido quanto alla forma, se è considerato tale dalla legge del luogo di celebrazione o dalla legge nazionale di almeno uno dei coniugi al momento della celebrazione o dalla legge dello Stato di comune residenza in quel momento”. In tutti questi casi non importa l'ordine secondo cui i criteri di collegamento sono elencati; importa che l’atto soddisfi i requisiti di forma prescritti dal diritto materiale di uno qualunque degli ordinamenti richiamati. 11. Segue: … e concorso successivo. Si ha invece concorso successivo quando la norma di conflitto impiega in sequenza, ossia, come suole dirsi, a cascata, due o più criteri di collegamento, ciascuno dei quali è destinato a subentrare a quello che lo precede quando quest'ultimo non si riveli in grado di funzionare in relazione al caso singolo di cui è questione. I criteri di collegamento sono elencati secondo una scala, un ordine decrescente, che riflette la valutazione del legislatore circa l'ordinamento maggiormente adatto a regolare la categoria di fattispecie cui la norma si riferisce in ragione della maggiore o minore intensità dell'attacco con le varie realtà socio- giuridiche che i criteri stessi denotano. Ad esempio, al criterio della cittadinanza viene sostituito – ove il soggetto cui il criterio è riferito sia apolide – quello del domicilio o, in mancanza anche di questo, il criterio della residenza, mentre ove il soggetto possegga più cittadinanze è previsto che a prevalere tra esse sia quella italiana o, in mancanza, quella dello Stato con il quale esso risulti più strettamente collegato. I criteri di collegamento (sui generis) della volontà della parte (o delle parti) e della prevalente localizzazione del rapporto, nelle nostre norme di conflitto non vengono mai usati da soli. Quello della volontà, al di là del tenore letterale della norma, è sempre collocato al primo gradino della scala, mentre a quello della prevalente localizzazione è sempre attribuito un ruolo sussidiario. 12. La qualificazione. Ciascuna norma di conflitto riguarda una più o meno ampia categoria di fattispecie, identificata non già attraverso la sua descrizione ma attraverso una formula giuridica. Dopo aver accertato di avere giurisdizione, il giudice deve, pertanto, innanzitutto, decidere quale norma di conflitto (di origine nazionale, pattizia o comunitaria) si adatti al caso sottopostogli, ossia – detto in altro modo – a quale norma di conflitto sia riconducibile la fattispecie portata al suo esame, e per fare [12] questo compie un'operazione di qualificazione. Semplificando può dunque dirsi che tale operazione consiste nella determinazione del significato delle espressioni, delle formule giuridiche mediante le quali ciascuna norma di conflitto delimita il proprio ambito materiale di applicazione, definendo le categorie di fattispecie che intende regolare. È attraverso la norma di conflitto appropriata che il giudice perviene all'individuazione della legge applicabile. A ben vedere, anche per accertare di avere giurisdizione il giudice ha già dovuto compiere un'operazione analoga, ossia ha dovuto definire senso e portata delle espressioni giuridiche per mezzo delle quali le norme mediante le quali viene delimitato l'ambito della giurisdizione italiana determinano la propria sfera d'azione nonché delle espressioni giuridiche (ad esempio residenza e domicilio) per mezzo delle quali vengono identificate le connessioni con il nostro ordinamento (titoli di giurisdizione) idonee a giustificare l'esercizio del potere-dovere di ius dicere, ossia di rispondere a una domanda di giustizia rivolta all'autorità giudiziaria italiana. E di nuovo, nella formulazione delle norme di conflitto, oltre alle espressioni giuridiche che indicano le categorie di fattispecie da ciascuna regolate, compaiono altre espressioni giuridiche mediante le quali viene identificata la connessione con l'ordinamento (quello del foro o quello di un altro Stato) dal quale la stessa norma di conflitto vuole che il giudice desuma la norma materiale da applicare. I passaggi che si sono menzionati comportano un'operazione di qualificazione e, in definitiva, può dirsi che detta operazione si configuri come un problema di interpretazione. Con la precisazione che deve ritenersi che il legislatore italiano abbia legiferato con l'idea di ricoprire ogni possibile situazione, sicché l'interprete dovrà seguire il percorso indicato dall'art. 12 prel c.c.: “… Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe […]”. L'interpretazione così delle norme sulla giurisdizione come delle norme di conflitto dovrà logicamente svolgersi alla luce del sistema normativo cui la norma in questione appartiene. Ciò significa, in sintesi, che per quanto concerne le norme di conflitto unilateralmente poste dal nostro legislatore, la qualificazione deve essere operata sulla base del diritto italiano ossia sulla base della lex fori, mentre per le norme di conflitto poste da atti comunitari la qualificazione deve essere operata sulla base del diritto comunitario e per quelle di origine convenzionale deve tenersi conto di tale loro natura. Concludendo, la qualificazione va operata lege fori, ossia sulla base dell'ordinamento cui la norma di conflitto appartiene. 13. Segue: la qualificazione dei criteri di collegamento, e in particolare del criterio della cittadinanza: pluricittadini, apolidi rifugiati. Qualche difficoltà emergere rispetto al collegamento della cittadinanza delle persone fisiche impiegato tanto dalla nostra legge che da norme pattizie. A comprendere la difficoltà può giovare un raffronto col collegamento della residenza, esso pure largamente impiegato. La nozione di residenza che emerge dal codice civile (art. 43, co. II: “La residenza è nel luogo in cui la persona ha la dimora abituale”) può funzionare tanto verso il nostro che verso uno Stato estero, indicando comunque un solo Stato. Invece la legge sulla cittadinanza permette esclusivamente di stabilire se una persona possiede o no la cittadinanza italiana ma non può funzionare verso altri Stati. In altre parole, questo criterio di collegamento, per sua propria natura, non è suscettibile di venire qualificato lege fori: gli Stati infatti possono soltanto conferire o negare la propria cittadinanza e, trattandosi di materia che rientra nella competenza esclusiva (c.d. dominio riservato) di ciascuno [15] domiciliato nello Stato del foro il giudice adito applica la propria legge, e per determinare se è domiciliato in un altro Stato contraente applica la legge di tale Stato (art. 52). Per fare un esempio, invece, di interpretazione autonoma, è stata recentemente accolta una definizione, fondata sulla giurisprudenza della Corte di Giustizia, della nozione di residenza abituale. Nel 2009, infatti, la Corte di Giustizia si è pronunciata sulla nozione di residenza abituale del minore, come titolo di giurisdizione in materia di responsabilità genitoriale, ancorandola al luogo che denota una certa integrazione del minore in un ambiente sociale e familiare. “A tal fine, si deve in particolare tenere conto della durata, della regolarità, delle condizioni e delle ragioni del soggiorno nel territorio di uno Stato membro e del trasloco della famiglia in tale Stato, della cittadinanza del minore, del luogo e delle condizioni della frequenza scolastica, delle conoscenze linguistiche nonché delle relazioni familiari e sociali del minore nel detto Stato. Compete al giudice nazionale stabilire la residenza abituale del minore, tenendo conto delle peculiari circostanze di fatto che caratterizzano ogni caso di specie”. La regola dell'interpretazione autonoma dei termini giuridici utilizzati negli atti comunitari è stata da tempo affermata dalla Corte di Giustizia, secondo la quale “deve osservarsi, anche nel caso di piena concordanza delle versioni linguistiche che il diritto comunitario impiega, una terminologia che gli è propria. D'altronde, va sottolineato che le nozioni giuridiche non presentano necessariamente lo stesso contenuto nel diritto comunitario e nei vari diritti nazionali. Occorre tuttavia precisare che, perché possa essere ricostruita una nozione autonoma, in mancanza di una lex fori comunitaria – ossia di un sistema di norme materiali comunitario –, è necessario che esistano principi comuni tra gli Stati membri. In alcuni casi, tuttavia, il legislatore comunitario si premura di chiarire il significato speciale che intende attribuire ad un certo termine: in questi casi la nozione autonoma è insomma fornita direttamente dall’atto normativo. 15. Norme di conflitto relative ad aspetti particolari di una o più categorie di fattispecie: il frazionamento. Le norme di conflitto per lo più riguardano, ciascuna, una più o meno ampia categoria di fattispecie. Vi sono tuttavia anche norme di conflitto che contemplano determinati aspetti idonei ad assumere rilievo in ordine a più categorie di fattispecie. Il legislatore opera infatti un frazionamento della fattispecie, individuandone taluni aspetti cui cerca di dare una disciplina più appropriata mediante norme di conflitto distinte. Questo fenomeno, o meglio questa tecnica legislativa, comporta evidentemente l'insorgere di un particolare problema di qualificazione, essendo necessario determinare il rispettivo ambito di applicazione della norma di conflitto che contempla la fattispecie e di quella che ne regola un dato profilo come, appunto, la capacità o la forma. Va peraltro sottolineata la tecnica legislativa impiegata dal legislatore del 1995 al fine di facilitare il compito dell'interprete. Accanto a norme di conflitto relative genericamente alla capacità giuridica e di agire delle persone fisiche (artt. 20 e 23), ve ne sono altre che si riferiscono a singoli atti giuridici. Ad esempio, sotto la rubrica “Condizioni per contrarre matrimonio”, l'art. 27 fa esplicito riferimento alla capacità matrimoniale e l'art. 35, relativo al “Riconoscimento di figlio naturale”, al II co. si occupa della capacità del genitore di compiere il riconoscimento, utilizzando lo stesso criterio di collegamento che è impiegato nelle norme generali concernenti la capacità (cioè nei già ricordati artt. 20 e 23). [16] Il fenomeno tradizionale del frazionamento fin qui considerato va confrontato con un fenomeno piuttosto nuovo, per il quale pure si parla di frazionamento della fattispecie, che figura nel regolamento Roma I sulla legge applicabile ai contratti. L’art. 3, I co., ultima frase, di tale regolamento consente infatti ai contraenti di “designare la legge applicabile a tutto il contratto, ovvero a una parte soltanto di esso”. Il frazionamento previsto dal regolamento Roma I si distingue dunque dal tradizionale frazionamento perché ad operare il frazionamento stesso non è il legislatore bensì l'accordo dei privati contraenti. Il risultato del frazionamento, indipendentemente dalle sue modalità, è il trattamento c.d. a mosaico della fattispecie, alla cui disciplina partecipano (a diverso titolo) più leggi. 16. Le questioni preliminari. Sotto la rubrica “Questioni preliminari”, l'art. 6 della legge di riforma estende l'ambito della giurisdizione italiana fino a comprendere le questioni sulle quali il giudice deve necessariamente assumere posizione per essere in grado di decidere sulla domanda principale sottopostagli. Orbene, mentre la legge di riforma, con l'art. 6, prende atto dell'esistenza di questioni “la cui soluzione è necessaria per decidere sulla domanda proposta” e conferisce al giudice italiano il potere-dovere di pronunciarsi su di esse anche se di per sé non rientrerebbero nella sua giurisdizione, nulla dispone circa la legge da applicare a dette questioni. Questioni preliminari si pongono per lo più nel campo del diritto di famiglia: basti pensare, per fare un esempio, alla filiazione legittima, che presuppone il matrimonio dei genitori e, a sua volta, può costituire un presupposto rispetto a una questione successoria. Una prima soluzione consiste nel sottoporre la questione preliminare alla legge richiamata dalla norma di conflitto del foro che la contempla specificamente, come se la questione si ponesse in via principale (c.d. soluzione disgiunta). Una seconda soluzione consiste invece nel sottoporre la questione preliminare alla stessa legge applicabile alla questione principale (c.d. soluzione dell’assorbimento). Una terza soluzione consiste nel sottoporre la questione preliminare al diritto materiale del foro (c.d. soluzione legeforista). Giova notare che il problema si pone a rigore solo allorché la norma di conflitto del foro sottoponga la questione principale a un diritto straniero diverso da quello richiamato per la questione preliminare e allorché la norma di conflitto del foro e quella dell'ordinamento richiamato in ordine alla questione principale sottopongano la questione preliminare a leggi diverse. Solo in questo caso, infatti, le diverse soluzioni prospettate conducono a risultati pratici differenti. Negli altri si tratterebbe di “falsi conflitti”. A noi pare comunque preferibile la prima soluzione esposta – c.d. soluzione disgiunta – posto che in assenza di un'espressa prescrizione legislativa il giudice italiano non può tenere conto di una delle nostre norme di conflitto solo perché la questione si presenta in giudizio come preliminare. Può darsi tuttavia che la questione che il giudice italiano deve affrontare in via preliminare sia già stata oggetto di una decisione adottata dai giudici dello Stato la cui legge è richiamata dalla nostra norma di conflitto per la questione principale o che in quest'ultimo Stato sia produttiva di effetti una decisione adottata al riguardo da giudici di un terzo Stato. In questo caso il giudice italiano si limita a prendere [17] atto che nell'ordinamento in base al quale deve risolvere la questione principale già è stata data soluzione a quella che a lui si presenta come questione preliminare. Anche se precedente all'entrata in vigore della legge di riforma, merita di essere qui ricordato il caso Rossi di Montelera, deciso dalla nostra Corte di cassazione con sentenza 14 marzo 1968, n. 623. Si trattava di accertare la capacità matrimoniale di una donna di nazionalità inglese (questione principale) che dipendeva (questione preliminare) dall'avvenuto scioglimento del precedente matrimonio. La donna infatti era stata già legata a un francese da un matrimonio successivamente sciolto da una sentenza francese. A tale sentenza il diritto britannico, ossia la legge nazionale della donna, richiamata dalla norma di conflitto italiana come legge regolatrice della capacità matrimoniale (questione principale), attribuiva efficacia automatica, e la nostra Corte di cassazione, ritenendo che si dovesse prendere atto di ciò e dunque della sentenza di divorzio pronunciata in Francia, riconobbe la capacità matrimoniale della donna e considerò per tanto valido il suo secondo matrimonio. Merita infine di essere segnalato il problema che si pone quando la questione principale è regolata da una norma di conflitto di origine convenzionale. Da più parti si è sostenuto che il rispetto degli impegni presi a livello internazionale richiederebbe l'adozione del metodo dell'assorbimento, cioè la sottoposizione della questione preliminare alla legge richiamata per la questione principale. A tal proposito, tuttavia, si può ritenere che non ci si debba far tentare dalla “praticità” del metodo dell'assorbimento né si debba esasperare l'idea di armonia internazionale delle soluzioni da ricercare attraverso la soluzione congiunta: anche in questo caso infatti la soluzione disgiunta appare in principio preferibile. IL DIRITTO APPLICABILE In questo capitolo verranno trattati alcuni dei problemi cosiddetti di parte generale, relativi alla legge applicabile, di cui si occupa, ponendo norme che vengono dette norme di funzionamento, il titolo III (Diritto applicabile), capo I (Disposizioni generali) della legge di riforma. 1. Il problema del rinvio: il caso Forgo. Il problema del rinvio consiste nel domandarsi se il richiamo di un ordinamento straniero da parte delle norme di conflitto si riferisca solo alle norme materiali di detto ordinamento, oppure includa le norme di diritto internazionale privato del medesimo, e dunque se queste ultime possano produrre un rinvio dall'ordinamento straniero individuato come applicabile dalla norma di conflitto italiana (ossia dal foro) a quello di un altro Stato: quello stesso di partenza, ossia del foro, nel qual caso si parlerà di rinvio indietro, oppure quello di un terzo Stato, nel qual caso si parlerà di rinvio oltre o altrove. È facile comprendere come questo problema nasca e sia reso particolarmente delicato dalla contrapposizione fra sistemi di diritto internazionale privato prevalentemente incentrati sul criterio di collegamento della cittadinanza e sistemi prevalentemente incentrati sul criterio di collegamento di tipo domiciliare. A far emergere con grande evidenza il problema è stata una vicenda successoria ottocentesca, in merito alla quale sono intervenute più decisioni dei giudici francesi: il caso Forgo concluso con una pronuncia della Corte di cassazione francese del 22 febbraio 1882. [20] Per comprendere l'eccezione sub b) basta riflettere che in tema di forma degli atti il legislatore italiano di diritto internazionale privato, sulla base di considerazioni di indole materiale, persegue, attraverso l'impiego di più criteri che concorrono alternativamente fra loro, il concreto obiettivo della salvaguardia della validità dell'atto e che questo obiettivo rischierebbe di venire vanificato dal rinvio. Meno evidenti, forse, le ragioni dell'eccezione sub c), che concerne le obbligazioni non contrattuali, rispetto alle quali è stato osservato che le norme di conflitto presenti nella legge del 1995 spesso richiamano più leggi dimostrando con ciò stesso di tenere già in adeguata considerazione l'esigenza di coordinamento con il punto di vista dei sistemi di diritto internazionale privato degli altri ordinamenti. Alla necessità di evitare che il rinvio conduca a risultati pregiudizievoli per il figlio, può essere ricondotta la previsione del III co. dell'art. 13, secondo cui per l'accertamento della filiazione (art. 33), la legittimazione (art. 34) e il riconoscimento del figlio naturale (art. 35) si tiene conto del rinvio soltanto se esso conduce all'applicazione di una legge che consenta lo stabilimento della filiazione. Risulta dunque in definitiva che le materie nelle quali l'art. 13 prevede il ricorso al congegno del rinvio sono quelle che attengono alla capacità e ai diritti delle persone fisiche, alle persone giuridiche, ai rapporti di famiglia, alle successioni per causa di morte, alle donazioni e ai diritti reali. Una precisazione riguarda l'eventualità che il diritto internazionale privato dell'ordinamento straniero richiamato dalla nostra norma di conflitto rinvii all'ordinamento di un terzo Stato il quale peraltro non accetta il rinvio. Si immagini che il giudice italiano debba decidere circa l'attribuzione di un immobile situato nello Stato D, caduto in successione alla morte di un cittadino di B, domiciliato in C; e che il diritto internazionale privato di B sottoponga le successioni al diritto dello Stato del domicilio del defunto (ossia di C) che invece non “accetta” il rinvio in quanto sottopone le successioni relative a beni immobili alla legge dello Stato di situazione degli stessi beni. In questa eventualità il giudice italiano deve applicare la legge nazionale del defunto, richiamata dal nostro art. 46, I co.. In definitiva – e conviene sottolinearlo – il diritto internazionale privato di cui l'art. 13, I co., vuole si tenga conto è quello, e solo quello dell'ordinamento richiamato dalla nostra norma di conflitto, e non già quello di altri, successivi ordinamenti. 3. Conoscenza e applicazione del diritto straniero richiamato. Sotto la rubrica “Conoscenza della legge straniera applicabile”, l'art. 14, I co., stabilisce che “l'accertamento della legge straniera è compiuto d'ufficio dal giudice” e prosegue con l'indicazione dei mezzi di cui egli può avvalersi. L'esplicita enunciazione del principio iura novit curia, confermando che, anche allorché venga applicato nel nostro ordinamento, il diritto straniero non perde la propria originaria natura, conferma ovviamente la possibilità che la sua violazione o errata applicazione dia luogo a ricorso per cassazione. Nonostante gli sforzi che è previsto siano compiuti, non è possibile escludere che le disposizioni del diritto straniero restino ignote al giudice italiano. Questa circostanza non può giustificare che esso ammetta la impossibilità di rispondere alla domanda di giustizia rivoltagli (diniego di giustizia). La risposta – come espressamente dispone l'art. 14, II co. – è invece da ricercare nella lex fori, ossia nel diritto materiale comunemente applicato dal giudice italiano che in questo caso ridiventa applicabile, appunto per la pratica impossibilità di rispettare l'indicazione della norma di conflitto, la quale avrebbe voluto vedere la fattispecie concretamente regolata da una legge diversa. Ma il ripiegamento sulla lex fori potrà avvenire [21] soltanto come soluzione residuale, quando cioè non sia in alcun modo possibile rispettare la volontà legislativa, quale risulta dalla norma di conflitto, di sottoporre la fattispecie a un diritto diverso da quello italiano. Il principio iura novit curia accolto dal I co. dell'art. 14 vale non solo riguardo al diritto materiale straniero, ma anche riguardo al diritto internazionale privato dell'ordinamento richiamato dalla norma di conflitto italiana laddove esso entri in gioco in forza della disciplina del rinvio dettata dall'art. 13. L'accertamento del diritto internazionale privato straniero, dunque, dovrebbe essere compiuto d'ufficio dal giudice e tale accertamento dovrebbe includere la “riqualificazione” della fattispecie alla luce dell'ordinamento straniero richiamato. Il giudice italiano deve cioè individuare quale tra le norme di conflitto dell'ordinamento straniero sia applicabile nel caso di specie. L'eventualità che non riesca ad addivenire a questa individuazione è da equiparare all'eventualità che non riesca ad accertare il diritto materiale straniero. 4. Interpretazione del diritto straniero e controllo della sua legittimità costituzionale. Già emerge come il problema della conoscenza della legge straniera richiamata non si risolva nella pura e semplice acquisizione del dato normativo straniero, pur nella traduzione italiana. Esso implica invero un'attività più complessa che passa attraverso l'individuazione delle regole che lo stesso ordinamento straniero richiamato ritiene specificamente idonee a disciplinare la fattispecie e l'accertamento del significato che esse hanno nel loro proprio contesto normativo. A tal proposito l'art. 15 dispone: “La legge straniera è applicata secondo i propri criteri di interpretazione e di applicazione nel tempo”. Naturalmente i principi concernenti “l'interpretazione e applicazione della legge straniera” (questa è la rubrica dell'art. 15) devono trovare applicazione sia riguardo al diritto materiale sia riguardo al diritto internazionale privato dell’ordinamento richiamato dalla norma di conflitto italiana. 5. Richiamo di ordinamenti plurilegislativi. La problematica dei cosiddetti conflitti di leggi interne (contrapposta a quella dei conflitti tra legislazioni appartenenti a Stati diversi, che costituiscono materia del diritto internazionale privato), si presenta in relazione agli Stati plurilegislativi, ovverosia a quegli Stati in cui vigono più legislazioni civilistiche, vuoi su base territoriale (conflitti interlocali) vuoi su base personale (conflitti interpersonali). I conflitti interlocali si pongono allorquando nelle varie zone (regioni, Stati, province, cantoni) in cui lo Stato è suddiviso vigono normative differenti. Le ipotesi sono quelle degli Stati federali (come Stati Uniti d'America e Canada) – dove i vari membri della federazione godono di autonomia legislativa –, degli Stati politicamente unitari ma legislativamente differenziati e degli Stati in cui, ad esempio a seguito dell'annessione di nuovi territori, vigono temporaneamente normative diverse. I conflitti interpersonali invece si producono quando nel territorio dello Stato vigono contemporaneamente più legislazioni, ciascuna delle quali però è applicabile soltanto a una determinata categoria di persone. Il fenomeno, piuttosto frequente in passato, è andato riducendosi con la decolonizzazione, sebbene persista tuttora anche in alcuni Stati europei, nei quali riguarda essenzialmente la materia matrimoniale: accanto a Stati che ammettono esclusivamente il matrimonio civile [22] (Francia, Svizzera, ecc.), ve ne sono infatti altri che ammettono altresì il matrimonio religioso, cui ricollegano anche effetti civili (Italia, Spagna, ecc.). A risolvere entrambi i tipi di conflitto provvede, o almeno dovrebbe provvedere, lo Stato “centrale”, attraverso l'emanazione di “norme attributive di competenza”, ovvero di norme deputate a determinare la sfera di competenza dei vari sotto- ordinamenti, territoriali o personali. Ma il problema si pone anche indirettamente, ossia allorquando una delle nostre norme di diritto internazionale privato indichi come applicabile il diritto di uno Stato appunto plurilegislativo. Ed è questa la prospettiva che qui rileva. Di fronte alla norma di conflitto italiana vengono dunque a presentarsi tante soluzioni materiali potenzialmente diverse quanti sono i sotto-ordinamenti vigenti all'interno del sistema giuridico straniero richiamato. Le norme di conflitto italiane sono peraltro formulate in modo da richiamare nel loro complesso gli ordinamenti di altre entità di tipo statuale dotate di soggettività giuridica internazionale, come risulta anche dall'impiego del termine Stato (con l'iniziale maiuscola) ogni qual volta compaiono le formule “… si applica la legge dello Stato”, “… sono regolati dalla legge dello Stato” o altre simili; e soprattutto dallo stesso tenore dell'art. 18. Questa disposizione, sotto la rubrica “Ordinamenti plurilegislativi”, dispone infatti al I co.: “Se nell'ordinamento dello Stato richiamato dalle disposizioni della presente legge coesistono più sistemi normativi a base territoriale o personale, la legge applicabile si determina secondo i criteri utilizzati da quell'ordinamento”. La Relazione ministeriale chiarisce che i criteri secondo cui l'ordinamento complessivo distribuisce le varie fattispecie tra i sotto-ordinamenti possono essere esplicitamente previsti dal legislatore straniero o semplicemente elaborati dalla giurisprudenza o messi in luce dalla dottrina. Ma se in nessun modo al giudice italiano riesce possibile individuare detti criteri, egli deve, in base a quanto gli prescrive il II co. dell'art. 18, applicare “il sistema normativo con il quale il caso di specie presenta il collegamento più stretto”. 6. L'ordine pubblico: funzione e natura. Anche il nostro, come tutti gli ordinamenti, mentre si apre verso i valori giuridici esterni per mezzo delle norme di diritto internazionale privato, si munisce di strumenti idonei a operare nella direzione opposta, a consentirgli cioè di richiudersi in sé stesso. Tra questi il principale è la clausola o eccezione di ordine pubblico, il cui fine primario e dichiarato è quello di preservare l'armonia interna dell'ordinamento, precludendo l'applicazione da parte del giudice italiano di norme straniere suscettibili di produrre effetti inaccettabili, ossia effetti non compatibili con i principi etici, economici, politici e sociali che condizionano il modo d'essere degli istituti del nostro ordinamento giuridico. Secondo una recente pronuncia della Cassazione, l'ordine pubblico è “formato da quell'insieme di principi, desumibili dalla Carta costituzionale o, comunque, pur non trovando in essa collocazione, fondanti l'intero assetto ordinamentale […], tali da caratterizzare l'atteggiamento dell'ordinamento stesso in un determinato momento storico e da formare il cardine della struttura etica, sociale ed economica della comunità nazionale conferendole una ben individuata ed inconfondibile fisionomia”. Il limite dell’ordine pubblico trova ora espressione nel I co. dell’art. 16: “La legge straniera non è applicata se i suoi effetti sono contrari all’ordine pubblico”. Occorre tuttavia sottolineare come svariate norme italiane, pur non derogabili per mezzo di volizioni private e quindi obbligatorie in situazioni totalmente interne (c.d. ordine pubblico interno), possono ben cedere il passo all'applicazione, prescritta da [25] concreta degli effetti che dall'applicazione della disposizione suddetta deriverebbero nel nostro ordinamento. Se il giudice reputa che detti effetti urtino contro uno dei principi cardine del nostro ordinamento, non applica la disposizione straniera. Resta così aperto il problema della determinazione della specifica regola che il giudice, non potendo evidentemente rifiutarsi di giudicare, dovrà porre a base della propria decisione. 8. Segue: gli effetti che conseguono all'intervento del limite dell'ordine pubblico. In primo luogo, occorre notare che, laddove in giudizio sia fatta valere una pretesa basata esclusivamente su di una determinata norma straniera, se il giudice accerta che, pur appartenendo all'ordinamento competente secondo la nostra norma di conflitto, la norma straniera non può trovare applicazione, deve limitarsi a rigettare la domanda, senza mettersi alla ricerca di una disposizione della lex fori adatta a risolvere il caso. Non è probabilmente un'eventualità frequente, ma è quanto per esempio ha fatto, correttamente, la Corte d'appello di Milano, con una sentenza riguardante lo scioglimento del matrimonio di una coppia iraniana. Dopo aver affermato che competente a regolare il caso era, secondo le norme di conflitto allora vigenti (ma anche secondo l'attuale art. 31, I co.), la legge iraniana, in quanto legge nazionale comune ai coniugi, la Corte ha respinto la domanda proposta, ritenendo che il limite dell'ordine pubblico precludesse l'applicazione dell'art. 1133 del codice civile iraniano, invocato dal marito a fondamento dell'azione di divorzio intentata nei confronti della moglie. Quella disposizione, infatti, ad avviso della Corte, consentendo il divorzio a sola richiesta del marito, senza che la moglie potesse paralizzarne o contrastarne la volontà, urtava contro il principio dell'eguaglianza tra i coniugi, che è fondamentale per il nostro ordinamento. Sempre in questa prospettiva devono essere inquadrate quelle sentenze che fanno operare l'eccezione di ordine pubblico solo nella misura strettamente necessaria, posto che la competenza del diritto straniero, in quanto determinata e voluta dalla norma di conflitto del foro, va il più possibile preservata e rispettata. Così, ad esempio, la Corte di cassazione francese, ritenendo inapplicabile la regola del diritto islamico che determina l'incapacità dei non islamici di succedere a un islamico, ha per contro tenuto ferma l'applicabilità del diritto islamico in ordine al calcolo delle quote ereditarie. Il II co. dell’art. 16, poi, si pone espressamente il problema del “dopo eccezione di ordine pubblico”. Esso, da un lato, valorizzando la circostanza che parecchie delle nuove norme di conflitto impiegano una pluralità di criteri di collegamento, stabilisce che, ove il limite dell'ordine pubblico precluda l'applicazione della legge straniera cui la norma di conflitto conduce mediante il suo primo criterio di collegamento, si debba progressivamente esplorare la possibilità di applicare in sequenza le leggi richiamate dagli altri criteri di collegamento in via subordinata, eventualmente contemplati dalla competente norma di conflitto. D'altro canto, stabilendo che “in mancanza” si applica la legge italiana, la disposizione in esame consacra legislativamente la soluzione secondo la quale, non essendo concesso al giudice rifiutarsi di giudicare, egli giudica sulla base della lex fori. 9. Le norme di applicazione necessaria dell'ordinamento italiano. L'art. 17 della nostra legge di diritto internazionale privato, sotto la rubrica “Norme di applicazione necessaria”, prende atto della presenza anche nel nostro [26] ordinamento di norme (materiali) che, in ragione del loro oggetto e dello specifico fine cui tendono, si applicano, oltre che alle situazioni e ai rapporti giuridici totalmente interni, altresì a quelli che presentano elementi di estraneità rispetto al foro e che – in base alle nostre norme di conflitto – potrebbero trovarsi sottoposti a una legge straniera. Una definizione di questa categoria di norme è andata col tempo consolidandosi nella giurisprudenza della Corte di giustizia, secondo la quale “le disposizioni nazionali qualificate da uno Stato membro come norme imperative di applicazione necessaria sono le disposizioni la cui osservanza è stata reputata cruciale per la salvaguardia dell'organizzazione politica, sociale o economica dello Stato membro interessato, al punto da imporne il rispetto a chiunque si trovi nel territorio nazionale di tale Stato membro o a qualunque rapporto giuridico localizzato nel suo territorio”. La dottrina, molto tempo prima del legislatore, ha messo a fuoco questa categoria di norme, come pure l'altra, finitima, categoria delle norme (dette autolimitate o spazialmente condizionate) che provvedono esse stesse, in modo esplicito e diretto, a determinare il proprio ambito di applicazione. Caratteristica comune a queste due categorie di norme è quella – sottolineata nell'art. 17 – di dover “essere applicate nonostante il richiamo alla legge straniera”. In tal modo l'art. 17 evidenzia la funzione di limite preventivo all'operare delle norme di conflitto del foro. Invece, l'eccezione di ordine pubblico interviene come limite successivo rispetto al funzionamento della norma di conflitto, frustrando l'effetto suo proprio, disattivandola, potrebbe dirsi, a posteriori, poiché le conseguenze che produrrebbe nel foro l'applicazione del diritto da essa richiamato risulterebbero inaccettabili. Al pari dell'eccezione di ordine pubblico, peraltro, parte delle norme che rientrano nella categoria qui in esame e segnatamente quelle cui meglio si addice l'espressione “norme di applicazione necessaria”, si basano su quei medesimi principi; ma ve ne sono anche altre che rispondono a esigenze meno alte, soltanto di carattere pratico od organizzativo (per esempio quelle relative all'apertura dei negozi, che riflettono semplicemente la scelta pratica del legislatore di organizzare in un dato modo un settore di attività economica). Il legislatore si è limitato a descrivere le caratteristiche delle norme di applicazione necessaria e a riconoscerne la prevalenza sulle norme di conflitto. Né verosimilmente avrebbe potuto fare altro. La Relazione ministeriale indica come esempi di norme suscettibili di rientrare nella categoria in esame certe norme che disciplinano il profilo valutario delle obbligazioni contrattuali, e la capacità di porre in essere determinati atti; altri esempi si rinvengono in materia di locazione di immobili, in materia di adozione e di protezione degli incapaci, in materia di pratiche restrittive della concorrenza, in materia di mercati finanziari e tutela del risparmio, in materia di tutela del consumatore, così come in molti altri campi. In via di massima, dunque, può dirsi che le norme di applicazione necessaria esprimono l'esigenza che tutte le situazioni e relazioni in qualche modo collegate con il nostro ordinamento giuridico siano assoggettate a una disciplina uniforme, che sono le stesse norme in questione a fornire: esse mirano dunque a preservare l'armonia e la coerenza interna del nostro sistema giuridico, ignorando programmaticamente, per così dire, l'obiettivo dell'armonia e uniformità internazionale delle soluzioni, che è invece frustrato solo in via di eccezione dal limite dell'ordine pubblico. Conviene comunque sottolineare che le norme di applicazione necessaria spesso disciplinano solo aspetti particolari e circoscritti (a volte addirittura marginali) di una fattispecie, non già l'intera fattispecie nel suo complesso. Per gli aspetti residui [27] non è paralizzata l'operatività della norma di conflitto entro la cui sfera di applicazione la fattispecie in questione è riconducibile: per gli aspetti residui, dunque, la norma di conflitto svolge normalmente il suo compito ed essi potranno pertanto venire regolati da norme di un ordinamento straniero. È indubbia la possibilità che – addirittura anche in assenza di una disposizione esplicita del tipo di quella di cui il nostro sistema di diritto internazionale privato si è dotato con l'art. 17 – il legislatore statale imponga l'applicazione di determinate norme materiali del foro nonostante il richiamo di un diritto straniero operato dalla norma di conflitto: quest'ultima è infatti una norma di cui il legislatore che la pone conserva, per così dire, la piena disponibilità. Qualche dubbio può sorgere invece in relazione a norme di conflitto di origine convenzionale o comunitaria, rispetto alle quali appare logico domandarsi se per uno Stato membro il dare la prevalenza a una propria norma di applicazione necessaria non costituisca una violazione degli impegni internazionalmente assunti, ossia un illecito internazionale. Una risposta negativa a questo dubbio è da ritenere tuttavia possibile, sulla base di un'importante decisione resa dalla Corte internazionale di giustizia. 10. Segue: le norme di applicazione necessaria di altri ordinamenti. La presenza di norme di applicazione necessaria nella generalità degli ordinamenti giuridici dà luogo a due problemi che non trovano espressa soluzione nell'art. 17 della nostra legge, il quale si occupa soltanto delle norme italiane di applicazione necessaria. Si tratta della presenza di norme di questo tipo: a) nell'ordinamento straniero su cui cade il richiamo operato dalla nostra norma di conflitto (lex casae); b) in un altro ordinamento straniero col quale pure la fattispecie da regolare presenti una qualche connessione. La Relazione ministeriale menziona questi problemi e, quanto al primo, osserva che la presenza di norme di applicazione necessaria nella lex causae non determina spostamenti di competenza legislativa rispetto alla previsione della norma di conflitto italiana e che la loro imperatività può venire agevolmente riconosciuta in base al principio secondo cui la legge straniera è applicabile secondo i suoi propri criteri di interpretazione (art. 15). Quanto all'eventualità sub b), ossia che in un ordinamento diverso dalla lex causae vi sia una norma di applicazione necessaria nel cui ambito di applicazione, dal suo punto di vista (ossia dal punto di vista di quell'ordinamento), la fattispecie o un determinato aspetto della fattispecie rientrerebbe, va osservato che, se è facile riconoscere l'inadeguatezza di un atteggiamento di totale e immediato rifiuto, è poi difficile identificare le ragioni e i precisi confini entro i quali quella norma di applicazione necessaria dovrebbe essere applicata dal giudice italiano. È infatti fuor di dubbio che di per sé la volontà di un legislatore straniero di vedere applicata una propria norma materiale di applicazione necessaria non è idonea a prevalere sulla volontà del legislatore italiano espressa in una norma di conflitto; ma è altresì logico, per esempio, che in una causa concernente la responsabilità per un incidente stradale, quantunque la legge applicabile in base all'art. 4 del regolamento Roma II (“Norma generale” in materia di obbligazioni extracontrattuali dal fatto illecito) possa essere diversa, non vengano ignorate le regole che disciplinano la circolazione nello Stato in cui l'incidente è avvenuto. [30] distinta, ma strettamente collegata a quella di applicabilità diretta. Tale ultima caratteristica comporta che gli atti in discorso non solo non necessitano di atti interni per avere efficacia vincolante, ma nemmeno per poter essere applicati: il giudice interno applica il regolamento, come applica la legge interna. Nel caso di una direttiva, il giudice applica invece la legge d'attuazione dell'obbligo dell'Unione. La prassi dell'utilizzo di regolamenti, che consente l'unificazione delle norme di conflitto, è apparsa dunque la più idonea. Infatti, la regolazione internazionale dei conflitti di leggi e giurisdizione e delle altre questioni attinenti la materia è parsa richiedere tale più penetrante tecnica di unificazione legislativa. Le direttive garantiscono, infatti, esclusivamente quella che in senso altresì tecnico si definisce armonizzazione internazionale del diritto. L'armonizzazione, a differenza dell'unificazione, crea una più o meno intensa omogeneità fra le normative nazionali, che mantengono tuttavia un certo grado di differenza. Ad ulteriore conferma di quanto sopra, possono citarsi brevemente talune altre caratteristiche dei regolamenti. Ci si riferisce, in particolare, al coordinamento degli stessi con il diritto nazionale e alla limitata sottoponibilità a sindacato di costituzionalità. Circa il primo punto, si osserva come i regolamenti siano atti particolarmente resistenti, in quanto è comunemente ammessa la loro prevalenza sia rispetto alla normativa interna ad essi anteriore che a quella posteriore. La prevalenza sulla normativa interna anteriore è affermabile semplicemente sulla base del principio lex posterior derogat priori, ed è ammessa in maniera sostanzialmente pacifica. La prevalenza dei regolamenti sulle norme posteriori è attualmente ammessa in maniera generalizzata, non dopo un travagliato iter che ha visto contrasti che, per quanto concerne l'Italia, hanno riguardato la giurisprudenza della Corte costituzionale, da una parte, e quella della Corte di giustizia, dall'altro. La Corte costituzionale, attraverso un'inversione di direzione effettuata in fasi successive, è giunta infine ad affermare in senso generale la “non applicazione” del diritto interno posteriore incompatibile con quello comunitario, ed ha affermato la competenza del giudice interno a statuire direttamente circa tale compatibilità. Circa la sottoponibilità dei regolamenti a sindacato di costituzionalità, si rileva una tendenza delle Corti supreme di diversi Paesi ad affermare la propria competenza a sindacare la legittimità costituzionale del diritto comunitario, in relazione al rispetto dei principi fondamentali dell'ordinamento e dei diritti fondamentali della persona, seppure occorre sottolineare che in via di principio il diritto comunitario rimane sottratto a tale sindacato in quanto esiste già un'analoga forma di controllo effettuata dalla Corte di giustizia. 5. Principi e metodi della normativa di diritto internazionale privato adottata. Limiti e dubbi. L'Unione, come abbiamo detto, ha posto in essere in tema di diritto internazionale privato e processuale un complesso normativo ormai di rilievo per quantità e qualità delle materie disciplinate, non seguendo peraltro un percorso di codificazione organico e sistematico, con la conseguenza di rendere difficile un piano complessivo ed unitario. Ciò rende più che mai, sembra, problematica l'indagine circa l'esistenza o meno di un corpus di principi informatori basilari, e da ritenersi ormai più o meno necessariamente impliciti all'intera legislazione dell'Unione nella materia che ci interessa. [31] A nostro parere, sia pure a seguito di un'indagine talvolta non facile, a tale quesito dovrebbe darsi, almeno allo stato attuale, una risposta solo parzialmente positiva che determina l'assenza di un compiuto carattere uniforme della disciplina. Senz'altro generalizzato appare il principio del riferimento alle nozioni autonome di diritto dell'Unione Europea. Come infatti meglio vedremo più avanti, la giurisprudenza della Corte di giustizia è ormai granitica nel ritenere che i singoli concetti giuridici contenuti nelle legislazioni dell'Unione vadano intesi, qualificati ed interpretati alla luce, non del diritto interno dei singoli Stati (ossia della lex fori), bensì esclusivamente (salvo che la norma in questione non disponga altrimenti) secondo il significato che essi rivestono nel singolo specifico strumento normativo che li impiega, ovvero nel complessivo diritto della stessa Unione. Per contro saremmo molto esitanti a ravvisare con altrettanta sicurezza altri principi da ritenersi ormai acquisiti e dotati di valenza implicita nel sistema. Il diritto dell'Unione del resto appare caratterizzato, sia nel campo sostanziale che in quello processuale, da un'ampia libertà concessa alle parti di determinazione del diritto sostanziale applicabile, e anche di scelta del foro internazionalmente competente a decidere sulle liti sorte o che sorgessero in futuro. In questo senso, si può senz'altro affermare che l'autonomia della volontà costituisce ormai uno dei punti più caratteristici della legislazione europea in materia. Questo rilievo dato dall'Unione all'autonomia privata non deve però trarre in inganno, visto che non mancano per contro materie nelle quali invece si riscontra una notevole rigidità, nel senso dell'esclusione di ogni facoltà delle parti di individuare liberamente la legge applicabile al loro rapporto, e la giurisdizione internazionalmente competente. Naturalmente ciò varrà nelle situazioni maggiormente connotate di riflessi pubblicistici e, in tal senso, tipico è il caso del regolamento n. 1346/2000 sulle procedure di insolvenza. Ma, più in generale, al di fuori dei casi di esplicazione dell'autonomia privata, la normativa dell'Unione in questo campo è connotata da grande rigidità, nel senso dell’affermazione di criteri, specialmente di legge applicabile, più o meno inderogabili. Il riferimento ai diritti fondamentali costituisce infine senz'altro un principio basilare per l'attività normativa dell'Unione europea nella cooperazione giudiziaria in materia civile. IL RUOLO DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELL'UNIONE EUROPEA NELLA FORMAZIONE E NELL'INTERPRETAZIONE DELLE NORME DI DIRITTO INTERNAZIONALE PRIVATO 1. Originalità del meccanismo di interpretazione in via pregiudiziale attribuito alla Corte di giustizia dell'Unione Europea. All'interno dello spazio giudiziario europeo, il problema dell'interpretazione delle disposizioni contenute nei trattati e negli atti derivati è stato particolarmente sentito ed è per questo che è stata affidata alla Corte di giustizia dell'Unione Europea la funzione di interpretare in maniera autentica e vincolante il diritto dell'Unione attraverso il meccanismo del rinvio pregiudiziale. Attraverso le sue decisioni, la Corte ha elaborato, nello svolgimento di questa sua competenza, una serie di principi generali che non sono codificati nei trattati, ma che hanno rappresentato la struttura portante del sistema. Il meccanismo interpretativo creato all'interno dello spazio dell'Unione è unico nel panorama internazionale. Si tratta di “uno strumento di cooperazione giudiziaria, un dialogo tecnico di giudici e tra giudici” che ha posto i presupposti per un'effettiva [32] interpretazione uniforme, vale a dire un'interpretazione che conduca a significati univoci ed obiettivi dei termini utilizzati nel diritto dell'Unione che siano identici e vincolanti per tutti gli Stati parte evitando, in questo modo, interpretazioni divergenti che mettano a rischio l'uniformità internazionale della regolamentazione e che si verificano quando il giudice nazionale è invece lasciato a sé stesso e non dispone di un simile strumento. 2. Le competenze pregiudiziali attribuite alla Corte da convenzioni internazionali concluse fra Stati membri. Fino a quando la Comunità non ha avuto competenza normativa nel settore del diritto internazionale privato e processuale, competenza che poi il trattato di Amsterdam le ha, come visto, attribuito, la materia a livello comunitario era stata oggetto di convenzioni internazionali e la competenza ad interpretare le disposizioni in queste contenute era stata attribuita alla Corte attraverso lo strumento dei protocolli allegati alle convenzioni stesse. Il meccanismo previsto dagli anzidetti protocolli era analogo a quello del rinvio pregiudiziale alla Corte. Si trattava del rinvio in interpretazione da operarsi da parte dei giudici nazionali, allorché l’applicazione delle norme della convenzione avesse comportato la soluzione di un dubbio sul suo significato e tale soluzione fosse risultata necessaria per emanare la sentenza del giudice nazionale. 3. Il ruolo della Corte nello sviluppo e nell’elaborazione del diritto internazionale privato e processuale ed i criteri esegetici da essa elaborati. Per comprendere quale è stata e continuerà ad essere la funzione della Corte nell'interpretazione delle norme contenute nei regolamenti dell'Unione adottati nel settore della cooperazione giudiziaria in materia civile, è opportuno ricordare che essa ha rivestito un ruolo uniformante e propulsore nel ramo del diritto internazionale privato e processuale ed ha influenzato anche la giurisprudenza delle codificazioni nazionali. Tale tecnica ermeneutica è strettamente collegata al noto attivismo giudiziale della Corte. La stessa ha, infatti, assunto una posizione centrale nel quadro dell'ordinamento giuridico dell'Unione complessivamente inteso, svolgendo un'opera unificante e colmando spesso le lacune normative presenti nel sistema dei trattati, per loro stessa natura incompleti. Nell'evoluzione della sua funzione nomofilattica con riferimento alle norme dei trattati e degli atti derivati, la Corte ha elaborato una serie di tecniche che hanno trovato applicazione nell'interpretazione delle norme degli atti normativi adottati nell'ambito della cooperazione giudiziaria in materia civile. Tali tecniche si sono poste nel solco della convenzione di Vienna del 23 maggio 1969 sul diritto dei trattati e in particolare con riferimento alle norme in essa contenute relative all'interpretazione dei trattati stessi, ma con aspetti talvolta diversi e originali. Elementi di affinità sono senz'altro riscontrabili nell'utilizzo di un criterio esegetico teleologico e sistematico, che, superando la mera interpretazione letterale, ha consentito il miglior perseguimento degli obiettivi del sistema. Con riferimento alla convenzione di Bruxelles, ciò è stato sintetizzato dalla Corte affermando che “la convenzione va interpretata tenendo conto tanto del suo sistema e dei suoi obiettivi specifici quanto del suo collegamento con il trattato”. Un ulteriore elemento di affinità è rappresentato dai criteri esegetici elaborati in relazione alla questione del plurilinguismo. La Corte ha, infatti, affermato la necessità di ricercare il significato [35] competenza in relazione a qualunque pretesa rientrante nell'ambito di applicazione ratione materiae del regolamento, ad eccezione di quelle per le quali sono previsti alcuni fori esclusivi. Il regolamento prevede anche una serie di competenze giurisdizionali speciali. Qualora la lite verta, infatti, su determinate categorie di controversie, l'attore ha la possibilità di adire, oltre al foro generale, taluni fori speciali. Questi sono alternativi, nel senso che l'attore potrà in ogni caso scegliere fra il foro generale e quello speciale, o tassativi, in quanto per tutte le materie non specificamente elencate nel regolamento potrà essere adito soltanto il foro generale. 3. Il foro generale del domicilio del convenuto. Poste queste sintetiche premesse, si osserva che il domicilio del convenuto, previsto quale titolo generale di giurisdizione all'art. 2 del regolamento (come già per la convenzione di Bruxelles), è un criterio utilizzato nella maggior parte degli ordinamenti nazionali che permette al convenuto di organizzare nel modo migliore la propria difesa. Va rilevato che l'art. 2 del regolamento, come anche l'art. 3, si applica sempre e soltanto quando il convenuto abbia il proprio domicilio nell'ambito del territorio dell'Unione Europea. Esso prevede, infatti, che la presenza del domicilio del convenuto in uno Stato comunitario costituisce il criterio di giurisdizione generale per determinare il giudice competente a risolvere le controversie in materia civile e commerciale rientranti nell'ambito di applicazione del regolamento. Come è statuito all'art. 3 del regolamento, un convenuto domiciliato in uno Stato membro può essere chiamato in giudizio davanti ai tribunali di uno Stato diverso da quello del suo domicilio soltanto in conformità alle norme del regolamento stesso. Anche il regolamento n. 44/2001, come già la convenzione di Bruxelles, per quanto riguarda il convenuto persona fisica, non introduce una definizione autonoma di domicilio. Occorre, pertanto, ancora aver riguardo alla legge materiale dello Stato nel quale il convenuto si assume domiciliato, secondo quanto dispone l'art. 59 del regolamento. Per l'ordinamento italiano, la nozione è quella di cui all'art. 43, co. I, del codice civile, e si fonda su un elemento di fatto, vale a dire, il luogo in cui il soggetto ha stabilito la sede principale dei suoi affari ed interessi. Una modifica rispetto al testo della convenzione è stata invece apportata per il domicilio delle persone giuridiche. L'art. 60 del regolamento, infatti, considera una società domiciliata nel luogo in cui questa abbia alternativamente la sede statutaria, l'amministrazione centrale, il centro di attività principale. Tale norma, tuttavia, non elimina la possibilità di conflitti positivi di competenza nell'ipotesi di non coincidenza dei vari luoghi elencati all'art. 60. In un'eventualità del genere, considerato che i tre criteri sono indicati in via alternativa, la società potrebbe essere indifferentemente convenuta in giudizio davanti al giudice di ciascuno dei predetti luoghi. Nel caso in cui dovessero essere aditi giudici di Stati diversi, l'eventuale conflitto andrà risolto tramite l'applicazione delle norme in materia di litispendenza e connessione, riconoscendo la priorità al giudizio previamente instaurato. 4. La domiciliazione del convenuto al di fuori dell'Unione Europea. La giurisdizione nei confronti di convenuti, persone fisiche o giuridiche, domiciliati in Paesi extracomunitari resta regolata dalle varie normative nazionali (art. 4), salve le norme degli artt. 22 e 23, considerato, come già detto, che le disposizioni della disciplina del regolamento, come già quelle della convenzione, operano solo con [36] riferimento a controversie in cui è convenuto un soggetto domiciliato nel territorio di uno Stato dell'Unione Europea. In prospettiva, è già stata suggerita la possibilità di estendere le norme sulla competenza previste dal regolamento ai convenuti domiciliati in Stati terzi. A tal proposito sono stati formulati ulteriori criteri di competenza: il luogo dell'esercizio dell'attività, il luogo di situazione dei beni e un forum necessitatis che consentirebbe di adire il giudice nei casi in cui non sarebbe altrimenti possibile accedere alla giustizia. 5. La competenza giurisdizionale nelle controversie in materia contrattuale: premessa. Accanto al foro generale del domicilio del convenuto, il regolamento individua una serie di fori alternativi o facoltativi davanti ai quali il soggetto, domiciliato nel territorio di uno Stato dell'Unione, può essere convenuto in giudizio. Il regolamento prevede all'art. 5, par. 1, che la persona domiciliata nel territorio di uno Stato membro può essere convenuta in un altro Stato membro: 1. in materia contrattuale davanti giudice del luogo in cui l'obbligazione dedotta in giudizio è stata o deve essere eseguita, 2. ai fini dell'applicazione della presente disposizione e salvo diversa convenzione, il luogo dell'esecuzione dell'obbligazione dedotta in giudizio è: − nel caso di compravendita, il luogo, situato in uno Stato membro, in cui i beni sono stati o avrebbero dovuto essere consegnati in base al contratto; − nel caso di prestazione di servizi, il luogo in cui i servizi sono stati o avrebbero dovuto essere prestati in base al contratto. 6. Segue: la nozione di materia contrattuale. Appare opportuno richiamare il lavoro interpretativo svolto dalla Corte di giustizia al riguardo. In particolare, problemi interpretativi si erano posti in merito alla definizione di “materia contrattuale”, alla identificazione di quale tra le prestazioni contrattuali fosse rilevante per la competenza e con riguardo alla determinazione del luogo di esecuzione della prestazione. Con riferimento alla nozione di “materia contrattuale”, la Corte di giustizia ha avuto modo di precisare che essa deve essere interpretata in modo autonomo fondandosi sui principi e sugli scopi del sistema di Bruxelles, senza ricorrere per la sua qualificazione ai diritti nazionali. In particolare, la Corte ha ritenuto che una controversia può essere giudicata in “materia contrattuale” solo quando ci si trovi di fronte ad “un legame contrattuale” che è presente in tutte le ipotesi in cui sia rinvenibile “un obbligo liberamente assunto da una parte nei confronti dell'altra”. La nozione adottata dalla Corte si è dimostrata, tuttavia, utile solo parzialmente. Essa, infatti, pur fornendo un parametro all'interprete, gli lascia un evidente margine di valutazione nello stabilire in quali fattispecie sia riscontrabile tale reciproca assunzione di obblighi. Fondandosi sui principi richiamati, la Corte ha escluso che rientri nella nozione di “materia contrattuale” la lite instaurata dal destinatario di merci o dal suo assicuratore, nei confronti del vettore marittimo effettivo nei casi in [37] cui questi non abbia assunto alcun vincolo contrattuale diretto con l'attore, pur facendosi carico dell'esecuzione del trasporto che un altro soggetto si era impegnato ad effettuare emettendo a proprio nome la polizza di carico. Le merci erano risultate avariate al termine del trasporto e l'attore, basandosi sulla polizza di carico, aveva chiesto il risarcimento del danno non a chi aveva emesso la polizza a proprio nome, bensì alla persona ritenuta effettivo vettore. La Corte ha deciso che in una fattispecie del genere non si poteva considerare esistente un obbligo liberamente assunto da una parte nei confronti dell'altra ed ha escluso, pertanto, che la lite potesse essere ricondotta alla materia contrattuale. La Corte di giustizia ha escluso dall'ambito di applicazione della disposizione in esame le controversie in materia di responsabilità precontrattuale, caratterizzate dalla presenza di una pretesa risarcitoria riferita a comportamenti precedenti all'assunzione di un qualsiasi impegno contrattuale. 7. Segue: la determinazione dell'obbligazione rilevante in giudizio e l'individuazione del luogo di esecuzione dell'obbligazione contrattuale. Le soluzioni giurisprudenziali anteriori al regolamento. Come abbiamo detto, in materia contrattuale, riprendendo quanto previsto all'art. 5, n. 1 della convenzione, il regolamento individua quale criterio alternativo a quello del domicilio del convenuto il criterio del luogo in cui l'obbligazione dedotta in giudizio è stata o deve essere eseguita. La ratio di questa disposizione va ricercata nell'esigenza di attribuire la competenza ad un tribunale vicino ai fatti della causa che meglio possa decidere in termini di economia del processo e di assunzione delle prove. Oltre alle difficoltà di precisare la nozione di materia contrattuale, due sono stati in particolare i problemi che il criterio ha posto: − il primo concerne la determinazione analitica dell'obbligazione rilevante in giudizio; − il secondo l'individuazione del luogo di esecuzione. Pensiamo ad una controversia relativa ad una compravendita: la causa può avere ad oggetto il pagamento del prezzo, se ad agire è il venditore, oppure la consegna della merce, se la domanda viene proposta dal compratore. Nel primo caso, per individuare la competenza giurisdizionale occorre fare riferimento al luogo in cui deve essere eseguito il pagamento, mentre nel secondo caso si deve far riferimento al luogo nel quale la consegna deve essere effettuata. La conseguenza è che per uno stesso rapporto si vengono a determinare tanti fori quante sono le pretese avanzate in giudizio. Al fine di evitare una moltiplicazione dei fori alla quale poteva condurre la norma, come nelle circostanze appena illustrate, la Corte di giustizia ha chiarito che l'obbligazione dedotta in giudizio è quella specifica sulla quale si fonda la domanda e non una qualsiasi obbligazione relativa al rapporto contrattuale. In conseguenza di questa interpretazione, si è affermato che il criterio speciale di giurisdizione del luogo di esecuzione può essere applicato solo per le liti relative alle domande di adempimento di una specifica obbligazione o di risarcimento del danno conseguente al suo inadempimento. Ove poi l'attore faccia valere più obbligazioni derivanti dallo stesso contratto, il giudice adito deve decidere tenendo conto della localizzazione dell'obbligazione principale. Per quanto riguarda la determinazione del luogo di esecuzione, i giudici comunitari hanno affermato che il luogo dell'esecuzione, quando non sia pattuito diversamente [40] Un ulteriore criterio speciale di giurisdizione di particolare rilievo è quello relativo al settore degli illeciti civili. La materia, com'è noto, è definita a contrario dalla Corte, dovendosi ricondurre in tale foro tutte le controversie dirette a far valere la responsabilità di un convenuto e non riconducibili alla materia contrattuale di cui all'art. 5, n. 1. La Corte ha qualificato anche la responsabilità precontrattuale come illecito civile e, pertanto, ha considerato le controversie aventi ad oggetto tale responsabilità come rientranti nell'ambito di applicazione dell'art. 5, n. 3. Infatti, non solo l'inesistenza di un contratto, ma anche di una “obbligazione da una parte liberamente assunta nei confronti dell'altra” ha portato la Corte ad escludere che la domanda di risarcimento danni, avanzata a seguito dell'ingiustificato recesso dalle trattative rivolte alla conclusione di un contratto, potesse qualificarsi come controversia in materia contrattuale. 11. Segue: il criterio di giurisdizione utilizzato e la determinazione del luogo dell'evento. Nel regolamento, rispetto alla corrispondente disposizione della convenzione di Bruxelles, viene mantenuta per l'illecito doloso o colposo la competenza giurisdizionale del giudice del luogo in cui l'evento dannoso è avvenuto, ma si aggiunge anche la locuzione, “o può avvenire”. La ratio della regola è fondata sulla considerazione che tale criterio determina il foro più prossimo ai fatti di causa e all'accessibilità ai mezzi di prova. La determinazione del luogo in cui l'evento dannoso è avvenuto dovrà continuare ad essere espletata applicando i noti principi giurisprudenziali elaborati dalla Corte di giustizia, secondo i quali è competente sia il giudice del luogo in cui è avvenuto il fatto che ha dato origine al danno, sia quello del luogo in cui si sono verificate le conseguenze dannose del fatto medesimo. La scelta fra tali due fori spetta all'attore, e la natura facoltativa dei medesimi è perfettamente compatibile con la natura concorrente dei fori speciali. In un caso realmente verificatosi, le coltivazioni di un'impresa agricola olandese erano state danneggiate dall'acqua del Reno usata per l'irrigazione a causa dell'immissione di sostanze inquinanti versate in Francia nel fiume da un'impresa francese. L'impresa olandese aveva promosso l'azione avanti al giudice olandese, e quindi nel luogo in cui si era verificato il danno. Anche se il luogo dell'evento generatore del danno era da collocarsi in Francia, la Corte ha ritenuto fondata anche la giurisdizione dei giudici olandesi, in quanto in Olanda era situato il luogo dove si era verificato il danno. Il principio dell'ubiquità non è peraltro di agevole applicazione in ogni circostanza: basti pensare alle complicate questioni che la determinazione di tali due luoghi pone in relazione all'illecito commesso a mezzo stampa o alla diffamazione via Internet. In queste ipotesi, sussistono più fori adibili: quello nel quale la vittima ha subito un pregiudizio alla propria reputazione (luogo dell'evento), quello in cui opera l'editore della pubblicazione (luogo dell'azione), ma, seguendo il criterio generale del domicilio del convenuto, anche quello dello Stato del domicilio del responsabile. In un caso di diffamazione per mezzo di un art. di stampa diffuso in più Stati dell'Unione Europea, la Corte di giustizia ha affermato che la vittima può promuovere nei confronti dell'editore un'azione di danni sia davanti ai giudici dello Stato nel quale ha la sede l'editore stesso (e in tal caso i giudici sono competenti a pronunciarsi sull'intero danno derivante dalla diffamazione), sia davanti ai giudici di [41] ciascuno degli Stati dove la pubblicazione è stata diffusa (ma in questa ipotesi tali giudici sono competenti a conoscere dei soli danni patiti dalla vittima nell'ambito dello Stato del giudice adito). Al fine di evitare una moltiplicazione dei fori disponibili, nei casi di danni di natura unicamente patrimoniale, la Corte ha preferito un'interpretazione restrittiva del criterio in esame ed ha affermato che la nozione di evento dannoso debba essere interpretata solo quale lesione del bene giuridico protetto dalla norma. Essa ha statuito che, nel caso di effetti prodotti dal danno sul patrimonio della vittima, nel criterio del “luogo in cui l'evento dannoso è avvenuto” non rientra “qualsiasi luogo in cui possono essere risentite le conseguenze dannose di un evento che abbia già provocato un danno effettivamente verificatosi in un altro Stato membro” ed ha limitato la portata della nozione al solo danno iniziale escludendo che vi possano essere ricompresi i luoghi ove si verificano i danni indiretti o consequenziali o comunque i luoghi in cui la parte lesa sostiene di aver subito un danno di natura patrimoniale conseguente ad un danno iniziale, verificatosi in un altro Stato membro. La giunta, nel regolamento, della locuzione “può avvenire” introduce una precisa competenza del giudice del luogo in cui l'evento può verificarsi ad adottare provvedimenti inibitori o cautelari finalizzati ad ottenere la condanna alla cessazione di una condotta idonea a cagionare un danno non ancora realizzatosi. Tali provvedimenti, comunque, potranno essere richiesti solo in quanto previsti dal diritto interno. In relazione a queste azioni, dovrebbe trovare agevole applicazione il principio sancito dalla Corte circa la determinazione del luogo in cui l'evento dannoso è avvenuto. L'attore potrà, pertanto, scegliere se adire il giudice del luogo in cui reputa si possa verificare il fatto causativo di danno o quello in cui reputa che tale fatto possa generare conseguenze dannose. 12. Il foro della succursale, dell'agenzia e di qualsiasi altra filiale. Per le controversie relative all'esercizio di una succursale, di un'agenzia o di qualsiasi altra sede di attività, l'art. 5, n. 5, del regolamento, in continuità con la convenzione, adotta in alternativa al foro del domicilio della casa madre (così come determinato dall'art. 60), il foro del luogo di situazione in uno Stato comunitario della succursale, dell'agenzia o di qualsiasi altra filiale. La Corte di giustizia ha avuto modo di affermare che la giurisdizione in questione riguarda le controversie vertenti sui diritti e sugli obblighi contrattuali ed extracontrattuali relativi alla gestione dell'agenzia, della succursale o della filiale “considerate in sé stesse”, come quelle relative alla locazione dell'immobile in cui tali entità hanno sede, ovvero all'assunzione del personale che vi lavora; riguarda, altresì, le controversie relative agli impegni da esse assunti in nome della casa madre e che devono essere adempiuti nello Stato dell'Unione in cui sono stabiliti tali “centri operativi”. La Corte, di fronte alle differenti qualificazioni dei vari ordinamenti statali, ha adottato una nozione autonoma per la filiale, l'agenzia o la succursale considerandole quali “centri operativi”, materialmente organizzati, dotati di una minima struttura in grado di operare per conto dell'impresa e in modo da poter intrattenere rapporti con i terzi, al di là della loro formale qualificazione ed iscrizione quale agenzia, succursale o filiale dell'impresa sotto la cui direzione ed il cui controllo tali entità operano. 13. Altri fori speciali previsti dall'art. 5. [42] Un'ulteriore criterio di collegamento speciale è quello previsto all'art. 5, n. 4, in materia di risarcimento del danno o di restituzione derivanti da comportamenti penalmente rilevanti. Per le azioni relative, può essere adito il giudice presso il quale è esercitata l'azione penale, sempre che la lex fori autorizzi tale giudice a conoscere dell'azione civile. In conformità con i principi generali del regolamento, occorre naturalmente che l'imputato sia un soggetto domiciliato in uno degli Stati membri e che la decisione pronunciata in materia civile dal giudice penale rispetti i principi dell'equo processo al fine del riconoscimento di decisioni straniere. 14. I fori facoltativi per le ipotesi di connessione soggettiva ed oggettiva. Il regolamento n. 44/2001 agli artt. 6 e 7 individua una serie di ulteriori fori facoltativi previsti per particolari ipotesi di connessione soggettiva ed oggettiva, prevedendo che un soggetto può agire o essere convenuto anche davanti ad un giudice diverso da quello del foro generale e da quelli individuati dai fori speciali. L'art. 6 stabilisce riguardo quattro diverse ipotesi: A) La prima è quella di cui al n. 1), che prevede, per il caso di pluralità di convenuti, c.d. litisconsorzio passivo, la competenza del giudice del luogo nel quale un qualunque convenuto è domiciliato a decidere di tutte le cause connesse, sempre che “tra le domande esista un nesso così stretto da rendere opportuna una trattazione unica ed una decisione unica onde evitare il rischio, sussistente in caso di trattazione separata, di giungere a decisioni incompatibili”. La disposizione, tuttavia, non pare specificare in maniera sufficientemente precisa in che cosa consista il vincolo particolarmente stretto tale da consentire l'attrazione di competenza per connessione. La valutazione del giudice nazionale circa la sussistenza del rischio di incompatibilità fra decisioni continua pertanto a rimanere rapportata a parametri ampiamente discrezionali. B) Le azioni di chiamata di terzo in garanzia o ad altro titolo, che possono essere promosse davanti al giudice presso il quale è stata proposta la domanda principale, sempre che quest'ultima non sia stata proposta solo per distogliere colui che è stato chiamato in causa dal suo giudice naturale (n. 2). C) Al n. 3) è consentito al convenuto di agire nei confronti dell'attore di fronte allo stesso giudice davanti al quale egli è stato chiamato in giudizio per far valere, in via riconvenzionale, una propria pretesa nascente dal medesimo contratto o dal medesimo fatto su cui si fonda la domanda principale. D) Al n. 4), qualora l'azione in materia contrattuale possa essere riunita con un'azione in materia di diritti reali immobiliari nei confronti del medesimo convenuto, è previsto che la pretesa contrattuale possa essere promossa davanti al giudice dello Stato ove è situato l'immobile. 15. L'ampliamento della tutela accordata alle parti deboli. La tutela delle parti che risultano in una posizione contrattuale sfavorevole è una delle tendenze rintracciabili in maniera più evidente nella codificazione del diritto internazionale privato e processuale nell'ambito dell'Unione Europea. Le norme in materia di consumatori, assicurazioni e lavoratori subordinati sono basate su meccanismi di protezione i quali consentono alla parte debole, che si faccia attrice in giudizio, di scegliere fra una pluralità di fori, e fra questi quello del suo domicilio. [45] essere applicate anche quando il contratto sia stato concluso tra persone presenti in seguito alla pubblicità risultante dal sito web. 18. Segue: la protezione del lavoratore subordinato. Per le norme in tema di contratto individuale di lavoro il regolamento ha aggiunto un'apposita sezione, la n. 5), che raggruppa alcune disposizioni che prima erano sparse nella convenzione di Bruxelles. Nella convenzione di Bruxelles, l'art. 5, n. 1), seconda frase, ha disciplinato la giurisdizione in materia di contratto di lavoro ed ha previsto che il datore di lavoro possa convenire il lavoratore anche davanti al giudice del luogo in cui egli svolge abitualmente la propria attività, oltre che davanti al giudice del domicilio del lavoratore. Nel caso si ha invece il lavoratore ad agire in giudizio, l'art. 19 gli consente la scelta fra i giudici dello Stato del domicilio del datore e quelli del luogo in cui il lavoratore svolge abitualmente la propria attività o in subordine del luogo della sede di attività presso la quale il lavoratore è stato assunto. In ogni caso, come è confermato dalla giurisprudenza della Corte, “il luogo di abituale svolgimento dell'attività lavorativa ai fini in esame deve essere quello che presenti i collegamenti più intensi con la controversia”. 19. I fori esclusivi: caratteristiche comuni. I fori esclusivi esprimono, rispetto ai criteri speciali esaminati nei parr. precedenti, una connessione ancora più significativa fra il giudice e la controversia e, in relazione ad essi, all'attore non è concessa alcuna scelta circa il giudice adibile. Pertanto, nelle materie tassativamente elencate all'art. 22 del regolamento, risulterà possibile adire esclusivamente il giudice individuato da tale norma. La prossimità del giudice alla controversia, in questo caso, è talmente significativa che la competenza può radicarsi anche in relazione a convenuti domiciliati al di fuori dello spazio giuridico comunitario. Inoltre, essa non è suscettibile di alcuna deroga ad opera della volontà delle parti, come è invece ammesso, alle condizioni di cui alla sezione 7 del regolamento, negli altri casi. Ancora, l'incompetenza in tali casi dovrà essere rilevata d'ufficio dal giudice in qualunque stato e grado del procedimento, mentre per gli altri criteri di competenza è prevista l'accettazione tacita, qualora il convenuto non contesti tempestivamente la giurisdizione. I fori esclusivi contemplati dall'art. 22, corrispondente all'art. 16 della convenzione di Bruxelles, concernono varie materie e, precisamente: − i diritti reali immobiliari, compresi i contratti di affitto superiori a sei mesi; − gli atti costitutivi delle società, la validità, la nullità e lo scioglimento delle società e delle persone giuridiche e la validità delle delibere dei relativi organi; − le iscrizioni nei pubblici registri; − le registrazioni delle opere d'ingegno; − l'esecuzione delle sentenze. Per le controversie relative alle anzidette materie, i titoli di giurisdizione esclusiva previsti sono giustificati dall'esigenza di garantire che sia competente della decisione della lite solo il giudice collegato dal vincolo più intenso in quanto in grado di conoscere in modo più approfondito non solo le circostanze di fatto, ma anche le norme giuridiche rilevanti ai fini della decisione della controversia. I giudici competenti in via esclusiva previsti in forza dei criteri ora indicati sono: a) il giudice del Paese ove è situato l'immobile; [46] b) il giudice del Paese ove è localizzata la società; c) il giudice del Paese in cui si trova il luogo ove è tenuto il pubblico registro e ove sono regolati i suoi effetti nei confronti dei terzi; d) il giudice del Paese in cui sono depositati o registrati brevetti, marchi e disegni; e) il giudice del Paese in cui si vuole eseguire la sentenza straniera. 20. Segue: il giudice competente per le controversie relative ai diritti immobiliari. La tendenza ad una valutazione restrittiva dei titoli di giurisdizione di cui all'art. 22 si è manifestata in varie occasioni. Per quanto riguarda i diritti reali immobiliari, ad esempio, la regola è stata progressivamente delimitata introducendo il foro alternativo del domicilio per i contratti di affitto inferiori a sei mesi, purché proprietario e inquilino fossero state persone fisiche entrambe domiciliate nel medesimo Stato contraente. In linea con l'interpretazione restrittiva, la Corte di giustizia ha escluso che rientrino nel foro esclusivo del luogo di ubicazione dell'immobile le controversie volte a far cessare le immissioni su un fondo agricolo provenienti da una vicino impianto nucleare. La Corte ha ribadito, infatti, che la competenza esclusiva prevista dall'art. 22, n. 1), comprende non tutte le azioni che si riferiscono ai diritti reali immobiliari, ma solo quelle che sono volte a determinare l'esistenza, la consistenza, la proprietà e il possesso di beni immobili o l'esistenza di altri diritti reali su tali beni. Nel caso di immissioni nocive invece la natura del diritto reale rileva solo in via incidentale. 21. Segue: il giudice competente per le controversie relative a società. Per quanto concerne le controversie relative alle società, va rilevato che l'art. 22, n. 2), dopo aver previsto la competenza speciale dei giudici dello Stato membro della sede, stabilisce che, per determinare tale sede, il giudice applica le norme del proprio diritto internazionale privato e non la nozione autonoma prevista dall'art. 60 del regolamento, secondo la quale le società e le persone giuridiche devono considerarsi domiciliate nel luogo dove si trova la loro sede statutaria, oppure la loro amministrazione centrale oppure il loro principale centro di attività. L'intento di questa disposizione è quello di identificare un unico giudice competente. La soluzione adottata, tuttavia, non elimina potenziali conflitti di giurisdizione. 22. Segue: il giudice competente per le controversie relative alle trascrizioni, al deposito o registrazione di un diritto di proprietà industriale o all'esecuzione di sentenze straniere. In materia di validità delle trascrizioni ed iscrizioni nei pubblici registri, all'art. 22, n. 3), prevede la competenza esclusiva del giudice dello Stato membro nel cui territorio i registri sono tenuti. Per le controversie relative alla registrazione o validità di brevetti, marchi, disegni e modelli, è prevista la competenza esclusiva a favore rispettivamente dei “giudici dello Stato membro nel cui territorio i registri sono tenuti” e dei “giudici dello Stato membro nel cui territorio il deposito o la registrazione sono stati richiesti, sono stati effettuati o sono da considerarsi effettuati a norma di un atto normativo comunitario o di una Convenzione internazionale” (art. 22, n. 4). Questa competenza si applica a tutte le azioni vertenti sulla validità, sulla registrazione, sull'esistenza o sulla decadenza del brevetto, nonché sulla rivendicazione di un diritto di priorità per un deposito precedente, mentre non si applica alle azioni di contraffazione o sull'uso abusivo che coinvolgono [47] esclusivamente interessi privati e non riguardano l'esercizio della sovranità dello Stato che ha concesso la privativa industriale. L'art. 22, n. 5), attribuisce la competenza esclusiva per l'esecuzione delle sentenze straniere ai giudici dello Stato membro nel cui territorio deve aver luogo l'esecuzione. 23. Gli accordi di proroga della giurisdizione: il ruolo dell'autonomia privata nella determinazione del tribunale competente. In forza dell'art. 23 del regolamento i soggetti interessati ad una controversia possono liberamente decidere di attribuire la competenza al giudice di uno Stato membro in relazione ad una controversia rispetto alla quale egli non avrebbe la competenza. La volontà delle parti può essere espressa, e manifestarsi in un patto di proroga (c.d. clausola compromissoria o accordo di proroga di competenza), o tacita ed essere desunta da un comportamento processuale della parte convenuta. Quanto alla volontà espressa, l'art. 23 detta una serie di criteri la cui soddisfazione consente all'autonomia delle parti di individuare convenzionalmente il giudice competente. L'art. 23 non si applica ai contratti di assicurazione, a quelli conclusi dal consumatore e a quelli di lavoro, in quanto le sezioni 3, 4 e 5 del regolamento contengono una disciplina specifica particolarmente protettiva della parte debole, per la quale l'ambito dell'autonomia privata, nel designare il giudice competente per la risoluzione della controversia, è decisamente ridotto. Neppure si applica se l'oggetto della controversia riguarda uno dei rapporti previsti all'art. 22 (fori esclusivi) per i quali la giurisdizione del giudice è inderogabile. 24. Segue: le condizioni di validità della proroga di competenza. La norma pone alcune condizioni soggettive ed oggettive, nonché alcuni requisiti formali per la validità dell'accordo di proroga. Quanto alle prime, è richiesto che almeno una parte sia domiciliata in uno Stato dell'Unione. Un accordo intercorso fra due parti non domiciliate nella UE è nondimeno suscettibile di esplicare taluni effetti processuali: ai sensi dell'art. 23, par. 3, del regolamento, infatti, “i giudici degli altri Stati membri non possono conoscere della controversia fintantoché il giudice o i giudici la cui competenza è stata convenuta non abbiano declinato la competenza”. L'effetto dell'accordo di proroga, in questi casi, quindi, è che il primo giudice a pronunciarsi è il giudice dello Stato designato dalle parti. I giudici degli altri Stati membri, aventi titolo in base alla propria legge nazionale, potranno conoscere della controversia, solo dopo che il giudice designato dalle parti abbia dichiarato irricevibile da parte sua l'azione. Quanto all'oggetto della clausola, è richiesto che essa riguardi una sfera determinata di rapporti giuridici, e che la competenza possa essere attribuita a uno, ma anche a più giudici, purché sempre in maniera che questi siano determinati con certezza. I requisiti formali sono invece improntati al minore formalismo possibile, in quanto è ammessa non solo, com’è ovvio, la forma scritta, ma anche la conferma per iscritto di una clausola stipulata verbalmente. 25. Segue: gli effetti delle clausole di proroga. Quanto agli effetti della proroga convenzionale di competenza, si rileva come al par. 1 della disposizione citata sia stata aggiunta una frase, che dispone che la [50] successivamente l'attore non abbia omesso di prendere tutte le iniziative prescritte per la notificazione o comunicazione dell'atto stesso al convenuto; − con riguardo ai secondi, l’inizio viene fatto coincidere con il momento della ricezione dell'atto da parte dell'autorità deputata alla sua notifica o comunicazione, qualora l'atto debba essere notificato o comunicato prima del deposito, e sempre che l'attore non abbia omesso di prendere tutte le necessarie iniziative affinché l'atto sia depositato presso il giudice. Va rilevato infine che, come è precisato dallo stesso art. 30, i criteri da esso previsti per stabilire quale sia il giudice previamente adito, si applicano ai soli fini della sezione 9, dedicata appunto alla litispendenza e alla connessione. Siffatti criteri non vengono utilizzati, invece, con riferimento a tutti gli effetti processuali interni della domanda per i quali, pertanto, non rileva la nozione autonoma di litispendenza accolta nel regolamento, ma si continuerà a rinviare a quanto prevede l'ordinamento statale nell'ambito del quale volta a volta sia instaurato il procedimento. 30. La libera circolazione delle decisioni nello spazio giudiziario europeo. Il principio del mutuo riconoscimento. La libera circolazione delle decisioni in materia civile nello spazio giudiziario europeo è andata sempre più semplificandosi in virtù del principio della reciproca piena fiducia presupposta tra gli ordinamenti e tra i giudici dei diversi Stati membri. Il regolamento n. 44/2001, nel suo preambolo, al considerando n. 16, afferma: “La reciproca fiducia nella giustizia in seno alla Comunità implica che le decisioni emesse in un altro Stato membro siano riconosciute di pieno diritto, ossia senza che sia necessario esperire alcun procedimento, salvo che vi siano contestazioni”; e ancora al considerando n. 17: “La reciproca fiducia implica altresì che il procedimento inteso a rendere esecutiva, in un determinato Stato membro, una decisione emessa in un altro Stato membro, si svolga in modo efficace e rapido”. Reso automatico il riconoscimento delle decisioni provenienti dagli altri Stati membri, dunque, l'Unione Europea ha cercato di renderne più semplice e spedita l’esecuzione, ossia l’attribuzione alla sentenza straniera dell’idoneità a dar luogo all’esecuzione forzata. Invero, la disciplina prevista dal regolamento è ispirata alla netta distinzione tra l'aspetto del riconoscimento dell'efficacia del giudicato, che si prevede essere automatico, e quello dell'attribuzione di efficacia esecutiva delle sentenze straniere che richiede sempre la concessione dell’exequatur da parte dei giudici dello Stato in cui si vuole procedere all’esecuzione forzata. 31. Gli effetti del riconoscimento. Nel regolamento viene ribadito il principio del riconoscimento automatico degli effetti non esecutivi delle decisioni straniere (art. 33), in base al quale la decisione nazionale è provvista ipso iure di efficacia in ogni Stato membro senza che sia necessario il ricorso ad alcun procedimento. In questo modo, le decisioni degli Stati membri sono dotate di un particolare grado di stabilità che può essere negato solo se sussistono determinate condizioni ostative previste dal regolamento, mentre viene esclusa ogni possibilità di riesame del merito (artt. 36 e 45, par. 2). Il regolamento, per quanto riguarda gli effetti del riconoscimento, non fa riferimento al sistema teorico al quale dovrebbe ricollegarsi. È noto che al riguardo sono andate prendendo corpo due teorie: [51] − quella della “assimilazione degli effetti”, per la quale la decisione straniera una volta riconosciuta svolgerebbe nello Stato ad quem gli stessi effetti della decisione locale analoga; − quella della “estensione degli effetti”, secondo la quale la decisione straniera ha gli stessi effetti che produce nel Paese di origine. La Corte di giustizia si è mostrata favorevole al modello dell'estensione degli effetti: “il riconoscimento deve avere come effetto di attribuire alle decisioni l'autorità e l'efficacia che esse rivestono nello Stato in cui sono pronunciate”. La decisione straniera, dunque, non potrebbe avere nello Stato del riconoscimento e dell'esecuzione, come ha avuto modo di affermare la Corte di giustizia, effetti ulteriori o addirittura sconosciuti rispetto ad una corrispondente pronuncia locale (avvicinandosi in questo modo alla teoria dell'assimilazione). Questa soluzione viene definita “del doppio limite”: la decisione proveniente da uno Stato produrrebbe nello stato richiesto, secondo questa impostazione, solo quegli effetti che sono compatibili contemporaneamente sia con l’ordinamento di provenienza che con quello di destinazione, con esclusione di tutti gli altri. 32. Le circostanze ostative al riconoscimento e all'esecuzione: il limite dell'ordine pubblico internazionale. Nell'ambito della disciplina del riconoscimento, le verifiche di compatibilità con l'ordinamento di ricezione rivestono sempre meno importanza e sono eccezionali rispetto alla regola del riconoscimento automatico. L'eventuale giudizio di accertamento delle condizioni del riconoscimento viene infatti previsto solo quando vi sia una contestazione in via principale (art. 33, par. 2) o in via incidentale in corso di causa davanti ad un giudice di uno Stato membro (art. 33, par. 3). La verifica dei requisiti per il riconoscimento è invece sempre necessaria quando venga proposto un ricorso contro la dichiarazione di esecutività pronunciata ai sensi dell'art. 41. I motivi che possono impedire il riconoscimento e l'esecuzione delle decisioni straniere sono previsti dagli artt. 34 e 35 e la loro elencazione è tassativa. In primo luogo, viene prevista la classica eccezione dell'ordine pubblico: dal riconoscimento non devono, infatti, derivare effetti manifestamente contrari all'ordine pubblico internazionale dello Stato richiesto. 33. Segue: la violazione dei diritti della difesa del convenuto contumace. La seconda condizione ostativa riguarda la violazione dei diritti della difesa del convenuto contumace nel processo estero e quindi la necessità del rispetto del principio del contraddittorio con riferimento all'obbligo di notificare l'atto in tempo utile. La verifica della tempestiva informazione del convenuto dell'atto introduttivo del procedimento giurisdizionale, di cui la decisione straniera costituisce l'esito, va fatta dal giudice sempre nella seconda fase del procedimento di esecuzione, quando la parte propone ricorso contro la dichiarazione di esecutività. Nella formulazione del regolamento si prevede che debba configurarsi come ipotesi ostativa riconoscimento “se la domanda giudiziale o un atto equivalente non è stato notificato o comunicato al convenuto contumace in tempo utile e in modo tale da poter presentare le proprie difese, eccetto qualora, pur avendone avuto la possibilità, egli non abbia impugnato la decisione”. La Corte di giustizia ha dichiarato che l'art. 34, punto 2, del regolamento n. 44/2001, deve essere interpretato nel senso che un convenuto ha la “possibilità” di impugnare una decisione contumaciale emessa nei suoi confronti solo se abbia [52] avuto effettivamente conoscenza del contenuto della decisione, conoscenza che può aver acquisito solo mediante notificazione o comunicazione effettuata in tempo utile per consentirgli di presentare le sue difese dinanzi al giudice dello Stato di origine. Potrà essere sufficiente una notifica anche non regolare sotto tutti i profili processuali, ma occorre, in ogni caso, che essa sia idonea a determinare nel convenuto una conoscenza del contenuto della decisione in tempo utile al fine di apprestare le proprie difese. 34. Segue: il contrasto tra sentenze ed altri motivi ostativi fondati sul controllo della competenza. I nn. 3 e 4 dell'art. 34 prevedono il contrasto tra giudicati come condizione ostativa al riconoscimento e alla dichiarazione di esecutività. Al par. 3 è stabilito come motivo di diniego il contrasto del provvedimento straniero con una decisione emessa tra le medesime parti nello Stato membro richiesto. Nessun rilievo ha poi l'anteriorità di una decisione rispetto all'altra. Il riconoscimento o la dichiarazione di esecutività vengono esclusi sia nel caso in cui la sentenza nazionale sia stata dichiarata prima che nel caso in cui sia stata emanata dopo di quella da riconoscere. A norma dell'art. 35 non sono infine riconosciute le decisioni che violino le disposizioni contenute nelle sezioni 3 (competenza in materia di contratto di assicurazione), 4 (competenza in materia di contratti conclusi dai consumatori) e 6 (competenze esclusive). In questi casi, pertanto, contrariamente a quello che è il principio fondamentale che è alla base del regolamento, vale a dire il divieto di controllare la competenza del giudice dello Stato di origine della sentenza, il giudice richiesto del riconoscimento dovrà vagliare la competenza del giudice straniero. 35. La procedura volta ad ottenere la dichiarazione di esecutività della decisione straniera o il riconoscimento in via principale in caso di contestazione della riconoscibilità: l'interesse della parte istante. Secondo il sistema del regolamento, il riconoscimento, come già si è detto, ha luogo in modo automatico (art. 33, par. 1), senza necessità di alcun intervento dell'autorità giudiziaria locale. La verifica dei requisiti per il riconoscimento è invece sempre necessaria quando venga proposto un ricorso contro la dichiarazione di esecutività pronunciata ai sensi dell'art. 41. In merito al riconoscimento è, tuttavia, prevista la possibilità che possa sorgere una contestazione in via principale o in via incidentale nel corso di una causa davanti ai giudici di uno Stato membro, sui requisiti di riconoscibilità (art. 33, parr. 2 e 3). Per questi casi e per i casi in cui vi sia contestazione sulla dichiarazione di esecutività della decisione straniera, il regolamento prevede (artt. 38 ss.) in modo dettagliato una medesima procedura semplificata e veloce da seguirsi. Nel caso di domanda di riconoscimento in via incidentale, ossia quando la decisione straniera viene presentata a fondamento dell'eccezione di cosa giudicata nel corso di un altro processo o a fondamento di una domanda pregiudiziale, la verifica della riconoscibilità della sentenza viene compiuta dal giudice della causa, riconoscendogli una competenza anche quando questi non l'avrebbe. Per il caso di richiesta del riconoscimento in via principale, il legislatore europeo ha stabilito che solo la parte che ha un proprio e specifico interesse a che la decisione venga dichiarata riconoscibile (e dunque a favore della quale è stata pronunciata), [55] regolamento. L'art. 47, par. 2, infatti, in modo esplicito dispone che la dichiarazione di esecutività implica l'autorizzazione a procedere a provvedimenti cautelari. Tale diritto permane, pertanto, anche se la dichiarazione di esecutività viene opposta. Il par. 1 dell'art. 47, poi, innovando rispetto alla convenzione, prevede che, “qualora una decisione debba essere riconosciuta in conformità del presente regolamento” e, quindi, anche prima e indipendentemente dalla concessione della clausola, “nulla osta a ché l'istante chieda provvedimenti provvisori o cautelari in conformità della legge dello Stato membro richiesto”. In questo caso, tuttavia, l'istante dovrà promuovere un'apposita azione cautelare, secondo la normativa dello Stato membro in cui vuole procedere e dimostrare la sussistenza dei normali requisiti necessari per la concessione di provvedimenti cautelari (in particolare, dovrà provare l'esistenza del solo periculum in mora, considerato che il fumus si ricava dalla decisione straniera). Il regolamento sottolinea così ancora una volta la presunzione di efficacia automatica della decisione straniera che viene a costituire titolo per l’adozione di simili provvedimenti. 39. Riconoscimento ed esecuzione di atti pubblici e transazioni. Il regolamento, come già la convenzione di Bruxelles, accomuna alle decisioni anche atti diversi. Prevede, infatti, all'art. 57, norme sul riconoscimento e l'esecuzione di atti pubblici autentici formati ed aventi efficacia esecutiva e delle transazioni giudiziarie, concluse davanti al giudice nel corso di un processo ed aventi efficacia esecutiva nello Stato membro di origine. I motivi ostativi all'esecuzione sono ridotti alla sola contrarietà dell’atto con l'ordine pubblico dello Stato richiesto. 40. La proposta di revisione del regolamento n. 44/2001: gli obiettivi dell'opera di revisione. La Commissione del diritto internazionale, con la proposizione il 14 dicembre 2010 di una proposta di regolamento al Parlamento europeo e al Consiglio, ha ritenuto opportuno procedere ad alcune modifiche del regolamento n. 44/2001 e al suo ammodernamento giacché, se è vero che questo strumento, come anche la convenzione di Bruxelles che lo ha preceduto, ha trovato ampia applicazione nello spazio dell'Unione e si è rivelato un mezzo di grande efficacia per la risoluzione delle controversie transfrontaliere, tuttavia le sue norme uniformi in tema di giurisdizione, di riconoscimento ed esecuzione delle decisioni, hanno dato luogo a qualche problema di applicazione. Si tratta di problemi che si sono evidenziati in particolare attraverso la giurisprudenza della Corte di giustizia. Quattro sono stati gli obiettivi prioritari che la Commissione ha individuato: 1. eliminare l’exequatur; 2. migliorare il coordinamento tra il regolamento e il procedimento arbitrale; 3. chiarire e rendere più efficaci le regole di scelta del foro; 4. disciplinare l'accesso alla giustizia nelle controversie relative a convenuti domiciliati all'estero. 41. L'abolizione dell’exequatur. Il primo obiettivo nasce dall'esigenza di favorire al massimo la circolazione delle decisioni nello spazio integrato dell'Unione, al fine di garantire una rapida soluzione [56] delle controversie in modo che i cittadini europei, quando fanno valere i loro diritti all'estero, possano evitare tempi lunghi e costi, difficilmente comprensibili in uno spazio giudiziario integrato e che costituiscono un ostacolo in un mercato unico. La proposta prevede all'art. 38 che una decisione giudiziaria, in una materia rientrante nel campo di applicazione del regolamento, resa esecutiva nello Stato membro in cui è stata pronunciata, sia eseguita in tutta l'Unione Europea senza procedure intermedie. L'abolizione dell’exequatur viene accompagnata da un sistema di misure di garanzia a tutela dei diritti della difesa della parte contro la quale viene chiesta l'esecuzione. A questo fine, la parte contro la quale viene chiesta l'esecuzione, ha a disposizione tre principali rimedi per impedirla: a) in primo luogo, può contestare la decisione nel suo Stato di origine se non era stata informata del procedimento in tale Stato, non essendole stato notificato l'atto d'inizio del processo o un documento equivalente in tempo utile in modo da consentirle di presentare le proprie difese. Tale rimedio è previsto anche nel caso in cui la parte contro la quale viene chiesta l'esecuzione non abbia potuto difendersi per motivi di forza maggiore o per circostanze eccezionali, per ragioni a lei non imputabili. b) Un altro rimedio straordinario permette al convenuto di contestare, questa volta nello Stato membro dell'esecuzione, ogni difetto procedurale che può essersi verificato durante il processo davanti al giudice di origine e che può aver violato i suoi diritti fondamentali ad una giusta difesa. Per l'Italia organo competente sarebbe la Corte d'appello. c) Un terzo rimedio, da esperirsi avanti all'autorità dello Stato dell'esecuzione, permette al convenuto di bloccare l'esecuzione della decisione nel caso in cui questa sia incompatibile con un'altra decisione pronunciata tra le stesse parti nello Stato membro dell'esecuzione o in precedenza in un altro Stato membro o in un terzo Stato, ma che presenti le condizioni per essere riconosciuta nello Stato dell'esecuzione. Tutte queste garanzie previste a tutela della parte contro la quale viene chiesta l'esecuzione, sono volte a compensare l'abolizione delle cause ostative all'esecuzione previste dal regolamento n. 44/2001. 42. Segue: la necessità di migliorare l'efficacia delle regole di scelta del giudice. Gli accordi di scelta del foro hanno una grande rilevanza pratica nel commercio internazionale ed è per questo che nel processo di revisione del regolamento si è sottolineata la necessità di rafforzare la loro efficacia. La proposta introduce due emendamenti per migliorare l’effettività della scelta ed evitare che le relative clausole siano pregiudicate da azioni abusive portate avanti a Tribunali non competenti. Il primo, al fine di dare pieno effetto alla volontà delle parti ed evitare tattiche dilatorie, afferma che il giudice designato nell'accordo di scelta del foro concluso tra le parti si pronuncia per primo sulla propria competenza e qualsiasi altro giudice adito sospende il procedimento finché non sia accertata la competenza del giudice prescelto. Questa soluzione è già prevista nel testo attuale del regolamento n. 44/2001 (art. 23, par. 3), però solo nel caso in cui nessuna parte sia domiciliata in uno Stato membro. Si tratta tuttavia di una disposizione che potrebbe presentare il rischio, in caso di un accordo invalido, di far accertare l'invalidità da un foro non competente. [57] L'art. 23 presenta poi un'altra novità: viene introdotta una norma di conflitto uniforme che prevede che l'accordo di scelta del foro deve essere valido, quanto alla sua sostanza, secondo la legge dello Stato membro il cui foro è stato prescelto dalle parti. 43. Segue: le controversie contro convenuti non domiciliati nel territorio di uno Stato membro. Con la revisione, si è ritenuto opportuno estendere l'ambito di applicazione personale delle norme sulla competenza anche a convenuti domiciliati in Paesi terzi. All'art. 4, par. 2, è stata così aggiunta una disposizione che riguarda le persone non domiciliate in uno Stato membro. Viene previsto che esse possono essere chiamate avanti al giudice di uno Stato membro solo in forza delle regole stabilite nelle sezioni 2 e 8 del capitolo II. La sezione n. 2 è quella che contiene le norme relative ai fori speciali in materia di: contratti di compravendita e di servizi; delitti o quasi delitti; diritti reali o possesso di proprietà mobiliari; risarcimento danni o condanna alla restituzione derivante da una sentenza penale; liti che riguardano operazioni di una sede secondaria, di un'agenzia e di una succursale; controversie relative al salvataggio di una nave. La sezione n. 8 rappresenta una novità creando due nuovi criteri di giurisdizione che funzionano nel caso in cui nessun giudice di uno Stato membro abbia giurisdizione in forza delle disposizioni del regolamento. Il primo criterio prevede la competenza del giudice del luogo, in uno Stato membro, in cui si trovano i beni appartenenti al convenuto, purché il loro valore non sia sproporzionato rispetto al valore della lite e la controversia abbia un sufficiente legame con tale Stato. In forza del secondo criterio, il giudice di uno Stato membro ha, in casi eccezionali, la giurisdizione se in uno Stato terzo non sussiste alcun altro foro che garantisca il diritto ad un equo processo e sempre che la lite abbia un sufficiente legame con lo Stato membro interessato. Questo criterio, tutelando il diritto ad un equo processo, è particolarmente importante per le imprese che investono in Stati con sistemi giuridici arretrati. LA LEGGE APPLICABILE ALLE OBBLIGAZIONI CONTRATTUALI 1. L’iter che ha portato all’adozione del regolamento (CE) Roma I. Con riferimento alle obbligazioni contrattuali, nel quadro della politica dell'Unione di cooperazione giudiziaria in materia civile, il Parlamento europeo e il Consiglio hanno adottato il regolamento n. 593/2008 del 17 giugno 2008 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, chiamato Roma I. La trasformazione del diritto internazionale privato degli Stati europei in diritto espresso da fonti dell'Unione è stata d'altronde considerata necessaria al fine di assicurare il rispetto di fondamentali garanzie giuridiche in uno spazio integrato, nonché atta a “favorire la prevedibilità dell’esito delle controversie giudiziarie, la certezza circa la legge applicabile e la libera circolazione delle sentenze”. 2. La convenzione di Roma e il suo residuo campo di applicazione. L'idea di fare della convenzione di Roma del 1980 uno strumento comunitario ha trovato la sua base giuridica nell'art. 61, lett. c) e nell'art. 65, del trattato che istituisce la Comunità europea. Come abbiamo già ricordato, la convenzione ha [60] 6. Il campo di applicazione del regolamento. Il regolamento all'art. 1 delimita il proprio campo di applicazione e prevede che la disciplina uniforme si applichi quando vi sia la presenza contestuale di tre condizioni generali e precisamente: a) quando ricorrano circostanze che comportino un conflitto di leggi, quando si è quindi nel campo del diritto internazionale privato; b) quando si verta in tema di obbligazioni contrattuali; c) quando si tratti di obbligazioni in materia civile e commerciale. In linea con quanto previsto nei regolamenti Bruxelles I e Roma II, si specifica che il regolamento non si applica alla materia fiscale, doganale e amministrativa. L'art. 1, par. 2, invece, elenca le materie escluse dall'ambito di applicazione del regolamento. Come nella convenzione di Roma, sono escluse: a) le questioni relative allo stato e alla capacità delle persone fisiche; b) le obbligazioni derivanti da rapporti familiari o da rapporti che secondo la legge ad essi applicabile, abbiano effetti comparabili, comprese le obbligazioni alimentari. La disposizione rappresenta un evidente riferimento alle forme di unioni civili diverse dal matrimonio, oggetto, in alcuni ordinamenti nazionali, di riconoscimento e tutela. c) Le obbligazioni derivanti da regimi patrimoniali tra i coniugi: per questa materia è in corso di elaborazione un apposito strumento dell'Unione Europea. d) Le obbligazioni derivanti da assegni, cambiali, vaglia cambiari ed altri strumenti negoziabili; e) i compromessi, le clausole compromissorie e le convenzioni sul foro competente; f) le questioni inerenti al diritto delle società. g) Le questioni relative alla rappresentanza volontaria; h) i contratti aventi ad oggetto la Cost. di trust; i) le obbligazioni precontrattuali, che ha permesso di chiarire definitivamente la natura della culpa in contrahendo, qualificata come extracontrattuale. La Corte infatti ha precisato che la nozione di obbligazione contrattuale deve essere interpretata in maniera autonoma quale “obbligo liberamente assunto da una parte nei confronti di un'altra”, e come tale il pregiudizio derivante da una rottura ingiustificata delle trattative non riveste natura contrattuale non sussistendo un impegno liberamente assunto dalle parti. Quanto all'ambito applicativo soggettivo, il regolamento si applica a tutti gli Stati membri ad eccezione della Danimarca, per la quale continua quindi ad applicarsi la convenzione di Roma. 7. Il carattere erga omnes del regolamento. Infine, ricordiamo che, analogamente alla convenzione di Roma, il regolamento non comporta che la sua applicazione sia circoscritta alle situazioni nelle quali vi sia una qualche connessione con uno degli Stati membri (per esempio la residenza di una delle parti) o nei casi in cui il diritto richiamato sia quello di uno Stato dell'Unione. Anche il regolamento Roma I mantiene, dunque, il carattere universale, erga omnes: il suo art. 2 stabilisce, infatti, che la legge designata si applica anche ove essa non sia quella di uno Stato membro. In conclusione, dunque, tutti gli Stati membri, ad eccezione della Danimarca, applicano la disciplina prevista dal regolamento per individuare la legge applicabile [61] alle obbligazioni contrattuali che rientrano nel suo perimetro di applicazione, indipendentemente dal fatto che la fattispecie sia del tutto interna all'Unione o che riguardi anche o solo Stati non membri. Le norme di conflitto nazionali sono dunque sostituite dal regolamento. 8. La scelta della legge applicabile al contratto: la libertà di scelta della legge applicabile al contratto. Il regolamento ha ribadito la centralità del principio dell'autonomia della volontà, ossia il potere riconosciuto ai contraenti di scegliere la legge applicabile al proprio rapporto. L'art. 3 del regolamento conferma i principi sui quali si è fondata la convenzione: l'autonomia della volontà, come criterio di collegamento, è assai ampia; non viene richiesto alcun elemento di contatto tra la legge scelta e il contratto; le parti possono scegliere un ordinamento statale che non presenti alcun legame con il contratto (art. 3, par. 4). Esse non sono obbligate a motivare la propria scelta ed è consentito il frazionamento del contratto, come è previsto all'art. 3, par. 1, terza frase, in forza del quale, i contraenti “possono designare la legge applicabile a tutto il contratto ovvero ad una parte soltanto di esso”. Lo stesso art. 3 stabilisce la possibilità di modificare la legge applicabile anche in un momento successivo alla conclusione del contratto stesso (art. 3, par. 2). A quest'ultimo riguardo sono sorti dubbi in relazione all'eventuale effetto retroattivo di questa scelta di legge. La dottrina più autorevole ha ritenuto possibile l'efficacia ex tunc di questo tipo di scelta. Appare logico, comunque, che un accordo successivo che muti la lex contractus debba essere espresso: non dovrebbe quindi essere ammissibile un accordo implicito. Il regolamento, all'art. 3, par. 5, in merito alla determinazione dell'ordinamento in base al quale valutare l'accordo sulla scelta delle parti, segue la soluzione della convenzione di Roma: il pactum de lege utenda non è regolato dalla lex fori, bensì dalla medesima legge che regola l'obbligazione contrattuale per quanto concerne l'esistenza e la validità del consenso, la forma del contratto e la capacità dei contraenti. L'art. 20 del regolamento Roma I, come già l'art. 15 della convenzione, chiarisce che il richiamo fatto alla legge di un Paese si riferisce a tutte le norme giuridiche sostanziali che vigono in tale Paese, escluse quelle di diritto internazionale privato. 9. Segue: l'esclusione della possibilità di estendere la scelta di legge a norme di origine non statale. Nei negoziati per la formazione del regolamento, un intenso dibattito si era sviluppato in merito alla possibilità che la scelta delle parti ricadesse su un diritto di origine non statale. Anche nella fase di elaborazione della convenzione di Roma, gli estensori ne avevano discusso, ma non avevano ricompreso nella scelta di legge una tale facoltà: i contratti in cui fosse stata espressa una volontà del genere sarebbero stati soggetti alla legge applicabile in mancanza di scelta, a norma dell'art. 4 della convenzione, e sarebbe spettato a tale legge definire il ruolo assegnato alle norme non statali del commercio internazionale. Secondo la convenzione, dunque, la legge designata deve appartenere ad un ordinamento statale ed i principi e le regole del commercio internazionale possono essere applicati solo se richiamati dal diritto statale o da convenzioni internazionali. Va tuttavia notato che negli anni successivi all'adozione dello strumento convenzionale si è assistito ad un progressivo maggior riconoscimento alle [62] manifestazioni di volontà nel senso ora richiamato e si è cominciato a ritenere che la scelta di norme non statali o il richiamarsi ad una convenzione internazionale potessero essere considerati come electio legis ai sensi dell'art. 3 della convenzione di Roma. Tuttavia, in sede di negoziati, la questione si è rivelata tutt'altro che semplice e il legislatore europeo ha propeso alla fine per la non inclusione all'interno del regolamento di una siffatta previsione. Probabilmente, escludere l’electio legis nei confronti del diritto non statale, potrà portare, come conseguenza, ad un sempre più frequente ricorso all'arbitrato internazionale a scapito del ricorso alla giurisdizione ordinaria. 10. Segue: la scelta implicita della legge applicabile. In merito al problema di vedere quando una volontà non espressa possa essere ritenuta esistente, i diversi ordinamenti si presentano con soluzioni divergenti. Uno degli aspetti più dibattuti durante i negoziati per l'adozione del regolamento Roma I, è stato quello di stabilire se l'inserimento nel contratto di una clausola di scelta del foro competente, vale a dire l'accordo tra le parti volto a conferire ad uno o più organi giurisdizionali di uno Stato membro la competenza esclusiva a giudicare sulle controversie riguardanti il contratto, potesse rappresentare una scelta implicita della legge di quello stesso Paese quale legge destinata a regolare il contratto. Va osservato preliminarmente che in alcuni Stati la corrispondenza tra scelta del Tribunale davanti al quale portare l'eventuale controversia e scelta di legge viene considerata quasi automatica, mentre in altri l’electio fori deve essere accompagnata da ulteriori indizi perché sia riconoscibile una scelta tacita della legge del giudice. Un altro aspetto sul quale si è sviluppato il dibattito, ha riguardato il problema di vedere se si potesse ravvisare una scelta implicita di legge quando le parti abbiano richiamato all'interno di un contratto una determinata disposizione di una legge nazionale. Il tema è stato da tempo al centro di ampie discussioni in dottrina e su di esso la giurisprudenza europea è divisa. Nella proposta iniziale della Commissione, a proposito dell'elezione del foro si prevedeva che essa comportasse una presunzione di scelta implicita della lex fori: si prevedeva, vale a dire, che se le parti si fossero accordate per attribuire la competenza ad un tribunale di un determinato Stato per decidere delle controversie riguardanti il contratto, tale comportamento avrebbe indicato in modo automatico la scelta del diritto materiale di tale Stato quale legge destinata a regolare il contratto. La disposizione era stata subito oggetto di diverse critiche che portarono, alla fine, ad abbandonare la presunzione introdotta a favore dell’attuale formulazione dell'art. 3, par. 1, seconda frase, che così recita: “La scelta è espressa o risulta chiaramente dalle disposizioni del contratto o dalle circostanze del caso”. Dell'anzidetta presunzione, tuttavia, è rimasta traccia nel considerando n. 12 volto a chiarire che un accordo tra le parti, al fine di attribuire ad uno o più organi giurisdizionali di uno Stato membro competenza esclusiva a conoscere delle liti riguardanti il contratto, “dovrebbe essere uno dei fattori di cui tenere conto nello stabilire se la scelta della legge risulta in modo chiaro”. In passato, considerate le incertezze della giurisprudenza in materia, si era auspicata l'adozione nel regolamento di una norma chiarificatrice in merito ai requisiti minimi richiesti per poter considerare valida una scelta tacita. Tuttavia, la formulazione generica della disposizione relativa al modo di manifestare la volontà, [65] che si tratta della nozione, utilizzata dallo stesso regolamento al par. 3 dell'art. 3 nel caso di un contratto puramente interno ad uno Stato. Tale nozione, come abbiamo già detto, è diversa da quella delle norme di applicazione necessaria, previste all'art. 9 del regolamento, che sono norme, comunque inderogabili dalla volontà delle parti, ma dotate rispetto alle prime di un maggior grado di imperatività e che non rientrano, pertanto, nell'ambito di applicazione di questa disposizione. In conclusione, la ratio dell'art. 3, par. 4, è quella di far salva la libertà delle parti di accordarsi anche sulla legge di un Paese terzo, con cui la fattispecie non presenti punti di contatto e, nello stesso tempo, di evitare che tale accordo costituisca un modo per aggirare le norme protettive del diritto dell’Unione Europea. 13. La legge applicabile in mancanza di scelta (art. 4): cenni sul sistema adottato dalla convenzione di Roma. Prima di esaminare le soluzioni disciplinate dall'art. 4 del regolamento relative ai criteri di determinazione della legge applicabile ai contratti in mancanza di scelta, ci pare opportuno premettere, al fine della migliore comprensione delle soluzioni accolte, alcuni cenni sul sistema adottato dalla convenzione di Roma, anche se da esso il regolamento si distacca. Abbiamo già ricordato che la convenzione, in mancanza di scelta delle parti, adotta in primo luogo, il principio di prossimità, prevedendo che quando le parti non abbiano operato alcuna scelta, si applichi la legge del Paese con il quale lo stesso contratto presenta il collegamento più stretto (art. 4, par. 1). La convenzione di Roma, per aiutare il giudice a stabilire la legge applicabile e per ancorare il contratto al Paese nel quale esso esplica la sua funzione economica e sociale, ha posto, accanto ad alcune presunzioni particolari, la presunzione generale della prestazione caratteristica (art. 4, par. 2), stabilendo che si presume che il contratto presenti il collegamento più stretto con il Paese in cui la parte tenuta a fornire la prestazione caratteristica ha, all'atto della conclusione del contratto, la propria residenza abituale. Ai parr. 3 e 4 dell'art. 4 della convenzione vengono stabilite poi due presunzioni specifiche: la prima è quella del luogo di situazione dell'immobile e si riferisce ai contratti che hanno per oggetto un diritto reale sull'immobile o il diritto di utilizzare un immobile, la seconda è quella della sede principale del vettore ed è prevista per il contratto di trasporto merci. Infine, in forza del par. 5, dell'art. 4 della convenzione, le indicazioni presuntive, previste ai parr. 2, 3 e 4, vengono superate quando la fattispecie, tenuto conto di tutte le circostanze del caso, risulti più strettamente connessa ad uno Stato diverso. Si tratta di una sorta di clausola di eccezione che permette all'interprete di tornare alla norma generale. In questo modo, il giudice, si distacca dalle presunzioni stabilite nei parr. precedenti e determina egli stesso, con grande discrezionalità, l’ordinamento collegato con il contratto in modo più significativo. 14. Segue: i criteri adottati dal regolamento. I contratti nominati. Con riferimento all'individuazione della legge applicabile, il principio di prossimità non ha più un ruolo principale, ma solo quello di criterio residuale. In primo luogo, l'art. 4 fa salva l'applicazione degli artt. da 5 a 8, i quali prevedono regole speciali per determinare la legge applicabile a specifiche categorie di contratti (trasporto, contratti conclusi da consumatori, assicurazione e individuali di lavoro), caratterizzate, come diremo, dal fine che perseguono, consistente nella tutela e protezione della parte debole. [66] La disciplina della legge applicabile in mancanza di scelta, poi, è diversa a seconda che riguardi i contratti elencati nel par. 1 o i contratti non inclusi in tale elencazione. Nel primo caso, l'art. 4, par. 1, detta una serie di criteri di collegamento specifici ed automatici, anzi di presunzioni, per determinate tipologie di contratti, previste in modo dettagliato ai punti da a) ad h) del par. 1 dell'art. 4. In particolare, per i contratti di vendita di beni mobili è stabilita l'applicazione della legge del Paese in cui il venditore ha la residenza abituale (lett. a), mentre i contratti di prestazione di servizi sono disciplinati dalla legge del Paese nel quale il prestatore di servizi ha la residenza abituale (lett. b). I contratti relativi ai beni immobili sono regolati dalla legge del Paese nel quale l'immobile è situato (lett. c). È poi stabilito che il contratto di franchising sia regolato dalla legge del Paese nel quale l'affiliato ha la residenza abituale (lett. e), mentre il contratto di distribuzione sia retto dalla legge del Paese nel quale il distributore ha la residenza abituale (lett. f). 15. Segue: i contratti non nominati e quelli complessi. Il par. 2 regola due differenti ipotesi: − quella dei contratti non compresi nell'elencazione del par. 1; − quella dei contratti misti, ossia contratti complessi idonei a ricadere in più categorie di cui alle lettere da a) ad h) del medesimo par. 1. Per entrambe le categorie è stabilito il ricorso alla legge del Paese nel quale la parte che deve fornire la prestazione caratteristica ha, al momento della conclusione del contratto, la propria residenza abituale. Per i contratti complessi, il considerando n. 19, vista la difficoltà di stabilire qual è la prestazione caratteristica tra le prestazioni dovute, afferma che tale prestazione dovrebbe essere quella determinata in funzione del “baricentro” del contratto. Il suggerimento, a dire il vero, non appare chiaro, per quanto sembri forse riferirsi ad un criterio comparativo volto ad individuare la prestazione principale. Va rilevato che il regolamento prevede una nozione autonoma di residenza abituale (art. 19), intendendo con essa il luogo in cui si trova l'amministrazione centrale nel caso di società, associazioni o persone giuridiche, e la sede principale di attività nel caso di una persona fisica che agisca nell'ambito della sua attività professionale. Va notato che l'art. 19 non offre alcuna indicazione circa la residenza abituale della persona fisica che non agisca nell'ambito della propria attività professionale. 16. Segue: il criterio del collegamento più stretto alla base della clausola di salvaguardia (art. 4, par. 3) e della norma di chiusura (art. 4, par. 4). Il par. 3 dell'art. 4 detta una norma, fondata sul criterio del collegamento più stretto, che in qualche misura attenua la rigidità delle disposizioni previste ai parr. 1 e 2. Esso prevede: “se dal complesso delle circostanze del caso risulta chiaramente che il contratto presenta collegamenti manifestamente più stretti con un Paese diverso da quello indicato ai parr. 1 o 2, si applica la legge di tale diverso Paese”. Come risulta da questa disposizione non vi sono dubbi che il collegamento più stretto venga comunque a rappresentare una vera e propria eccezione, essendo consentito ricorrere a questa clausola solo in via del tutto eccezionale, considerato che la norma utilizza i due avverbi “chiaramente” e “manifestamente”. Infine, il par. 4 detta una norma di chiusura anch'essa fondata sul criterio del collegamento più stretto. Viene, infatti, previsto che, qualora la legge applicabile non possa essere determinata a norma dei parr. 1 e 2, il contratto è disciplinato [67] dalla legge del Paese con il quale presenta il collegamento più stretto (art. 4, par. 4). Tale criterio conserva quindi una funzione solo residuale. 17. Segue: riassumendo. Ricapitolando, dunque, il sistema previsto dal regolamento è così articolato: − si applicano criteri di collegamento rigidi ed automatici per le otto categorie di contratti contemplate nel par. 1, con possibilità di ricorso alla clausola di salvaguardia di cui al par. 3; − se il contratto da regolare non rientra in nessuna delle anzidette categorie o se gli elementi del contratto sono contemplati da più di una delle lettere da a) a h) del par. 1, si applica la legge della residenza abituale del prestatore caratteristico sempre con possibilità di ricorso alla clausola di salvaguardia di cui al par. 3; − si applica infine il criterio del collegamento più stretto per i contratti nei quali la legge applicabile non possa essere determinati in base alle regole principali di cui ai parr. 1 e 2; − per le categorie di contratti caratterizzati dal fine di tutelare la parte debole si applicano le regole speciali previste dagli artt. da 5 a 8. 18. I contratti di trasporto. Va premesso che gli artt. da 5 a 8 del regolamento dettano una disciplina specifica per alcune categorie di contratti. Le disposizioni, pertanto, entrano in gioco solo quando la fattispecie rientri senza dubbio nella norma; in presenza di incertezze, come ha avuto modo di affermare la Corte di giustizia, si deve invece applicare la norma generale e, pertanto, l'art. 4 del regolamento. La legge applicabile ai contratti di trasporto è disciplinata all'art. 5 che distingue tra contratti di trasporto merci (par. 1) e contratti di trasporto di persone (par. 2). Con riferimento alla normativa prevista al par. 2, si tratta di una disposizione che, stabilendo la possibilità di scelta di legge e, in mancanza, l'applicazione della legge della residenza abituale del passeggero (sebbene in presenza di determinate condizioni), vuole garantire un adeguato livello di tutela dei passeggeri. Per il contratto di trasporto merci, è invece stabilito che, in mancanza di scelta delle parti, è applicabile la legge del Paese in cui il vettore ha la propria residenza abituale (per la quale, rammentiamo, l'art. 19 detta una nozione autonoma). Occorre però che in tale Paese sia situato il luogo di consegna o ricezione della merce o la residenza abituale del mittente. Qualora tale condizione non sia soddisfatta, si applicherà la legge del Paese in cui si trova il luogo di consegna convenuto dalle parti. Va notato che il considerando n. 22 contiene una nozione autonoma di vettore, da intendersi come il contraente che assume l'incarico di trasportare i beni, indipendentemente dal fatto che effettui direttamente o meno il trasporto. Nello stesso considerando il mittente viene definito come la persona che conclude un contratto di trasporto con il vettore. L'art. 5, par. 3 prevede poi una clausola di salvaguardia o di eccezione in base alla quale, qualora le parti non abbiano scelto la legge applicabile e il contratto presenti collegamenti manifestamente più stretti con un altro Paese, sia la legge di questo Paese a trovare applicazione. Per quanto riguarda i contratti di trasporto di passeggeri, il regolamento, come abbiamo già detto, prevede che la legge regolatrice sia quella designata dalla volontà delle parti, ma introduce una limitazione alla libertà di scelta, in quanto essa [70] collegamento più stretto con un altro Paese, si applica la legge di questo altro Paese (art. 7, par. 2). Per i contratti di assicurazione diversi da quelli relativi ai grandi rischi, quando il rischio sia ubicato nel territorio dell'Unione, la legge applicabile è quella scelta dalle parti. L'art. 7, par. 3 prevede, tuttavia, alcune limitazioni alla possibilità di scelta della legge da parte dei contraenti. Si tratta di restrizioni che vogliono favorire sul piano della legge applicabile la parte più debole tenendo conto del rischio che questa si trovi ad accordarsi sulla designazione di una legge regolatrice per sé svantaggiosa. La scelta può riguardare, infatti, soltanto leggi di Stati con i quali il rapporto contrattuale presenti un collegamento obiettivo e, precisamente: a) la legge di uno Stato membro nel quale il rischio è situato al momento della conclusione del contratto; b) la legge del Paese nel quale il contraente assicurato ha la residenza abituale; c) nei casi di assicurazione sulla vita, la legge dello Stato membro in cui il contraente assicurato ha la cittadinanza; d) per i contratti limitati ad eventi che si verifichino in un dato Stato membro, diverso dallo Stato membro in cui il rischio è situato, la legge di tale Stato membro; e) se il contraente assicurato esercita un'attività commerciale o industriale o una professione liberale e il contratto di assicurazione copre due o più rischi che riguardano tali attività e sono situati in Stati membri diversi, potrà scegliersi la legge di uno degli Stati membri interessati o la legge del Paese nel quale il contraente assicurato ha la residenza abituale. In ogni caso, in mancanza di scelta, il criterio di collegamento è costituito dalla legge dello Stato membro nel quale il rischio è situato al momento della conclusione del contratto (par. 3). 22. La disciplina della legge applicabile ai contratti di lavoro (art. 8). I contratti individuali di lavoro, disciplinati nel regolamento all'art. 8, presentano soluzioni in linea di continuità con la convenzione di Roma. La norma disciplina, come nella convenzione, soltanto la legge applicabile ai contratti individuali di lavoro subordinato. Non vi è alcun riferimento alla contrattazione collettiva e ai rapporti di lavoro autonomo. Si tratta di una disposizione che è volta a tutelare la parte debole. Il criterio della volontà delle parti continua a rivestire un ruolo centrale nella materia, naturalmente nel rispetto delle norme “alle quali non è permesso derogare convenzionalmente” applicabili nell'ordinamento che sarebbe stato competente in mancanza di optio legis. La novità introdotta dal regolamento concerne l'ampliamento della nozione di luogo abituale di lavoro che viene configurata sulla scorta della giurisprudenza della Corte di giustizia. In caso di mancanza di scelta, infatti, il par. 2 dell'art. 8 prevede i criteri sussidiari del luogo nel quale o “a partire dal quale”, in esecuzione del contratto, il lavoratore compie abitualmente il suo lavoro. L'aggiunta dell'espressione “o, in mancanza, a partire dal quale” consente di applicare il criterio di collegamento del luogo di svolgimento abituale dell'attività lavorativa anche ai contratti dei marittimi e degli aeroportuali che sono diretti da una base fissa. Qualora la legge applicabile non possa essere determinata a norma del par. 2, si applica, in rapporto di concorso successivo, la legge del Paese in cui si trova la sede che ha proceduto all'assunzione del lavoratore (par. 3). [71] Inoltre, nel regolamento, è mantenuta la presenza del collegamento più stretto quale criterio atto a superare la legge individuata in base ai criteri precedenti, qualora dall’esame delle circostanze risulti che il contratto sia più strettamente collegato con un altro Paese. A questo fine, sarà opportuno valutare elementi quali la residenza abituale o il domicilio del lavoratore, la sede amministrativa del datore di lavoro, nonché la lingua utilizzata nel contratto. 23. Consenso e validità del contratto. L'art. 10 del regolamento fa disciplinare l'esistenza e la validità sostanziale del contratto o di una sua disposizione dalla legge che sarebbe applicabile in virtù del regolamento medesimo se il contratto o la disposizione fossero validi. Si tratta di una norma con una portata molto ampia perché concerne: − l'esistenza del contratto (e quindi anche la formazione del mutuo consenso tra le parti), i vizi del consenso; − i requisiti di validità sostanziale del contratto; − le cause di invalidità connesse all'oggetto o alla causa del contratto; − la disciplina della simulazione e della frode alla legge. Non sono compresi nel campo di applicazione della norma i requisiti disciplinati da altre norme del regolamento, come quelli relativi alla validità formale del contratto (art. 11) e alle condizioni di invocabilità di una situazione di incapacità (art. 13). 24. Interpretazione, esecuzione, estinzione, rilevanza di inadempimento e nullità del contratto. L'art. 12 del regolamento stabilisce l'ambito di applicazione della legge individuata dalle norme del regolamento stesso quale legge applicabile al contratto (lex contractus o lex causae). La norma riporta un elenco esemplificativo in cinque punti delle questioni da regolare. − La lett. a) relativa all'interpretazione del contratto, vale a dire alla comprensione della volontà delle parti sul piano negoziale, ma anche con riferimento alla qualificazione del contratto medesimo. − La lett. b) sottopone alla lex contractus l'esecuzione delle obbligazioni che dal contratto discendono e “la questione della diligenza con la quale va eseguita la prestazione, i limiti entro cui l'obbligazione deve essere eseguita da un terzo, le condizioni per l'esecuzione dell'obbligazione”. − La lett. c) menziona le conseguenze dell'inadempimento totale o parziale delle obbligazioni che discendono dal contratto e si riferisce, pertanto, alle questioni attinenti alla responsabilità contrattuale, l'eccezione di inadempimento, la quantificazione del danno, la rilevanza dell'elemento soggettivo della parte inadempiente, le cause di esonero dalla responsabilità, la risoluzione del contratto. − La lett. d) prevede che la legge che regola il contratto regoli i diversi modi di estinzione dell'obbligazione diversi dalla sua esecuzione. Vengono così sottoposti alla lex contractus le ipotesi di prescrizione, di decadenza, di rinuncia al credito e l'accordo delle parti per estinguere il contratto. − La lett. e) che sottopone alla legge regolatrice del contratto le conseguenze della nullità del contratto e, quindi, le restituzioni alle quali le parti sono obbligate in seguito alla constatazione della nullità. 25. Esclusione delle questioni concernenti la capacità dei contraenti. La tutela di chi contrae con un incapace. [72] Nel regolamento Roma I sono escluse tutte le questioni che concernono la capacità sia delle persone fisiche che delle persone giuridiche. All'art. 13 si prevede che se i contraenti persone fisiche si trovano in uno stesso Paese, l'incapacità derivante da una legge diversa da quella del luogo in cui il contratto è concluso non è opponibile alla controparte, tranne nel caso in cui quest'ultima fosse a conoscenza di tale incapacità o l'avesse ignorata soltanto per imprudenza. Con questa disposizione, il regolamento, come già la convenzione di Roma, vuole ridurre il possibile rischio che il contratto debba essere considerato invalido per l'incapacità del contraente persona fisica. Si favorisce in questo modo la certezza dei rapporti commerciali transnazionali e si tutela la buona fede di chi ha concluso un contratto con un incapace. La disposizione ha, infatti, il fine di evitare che la persona fisica, capace secondo la legge del Paese ove è stato concluso il contratto, invochi la sua incapacità risultante da un'altra diversa legge, e la conseguente invalidità del contratto, per nuocere alla controparte che non sapeva di avere concluso un contratto con un incapace. Con riferimento alla capacità giuridica delle società, delle associazioni e delle persone giuridiche in genere, la capacità dei contraenti andrà valutata in forza delle norme di diritto internazionale privato degli Stati membri. Come abbiamo detto, l'art. 13 riguarda contratti tra persone che si trovano nello stesso Paese, pertanto, l'eccezione non è contemplata per i contratti a distanza. 26. I requisiti di forma. Qualche modifica rispetto alla convenzione di Roma riguarda la legge regolatrice della forma del contratto. La convenzione, all'art. 9, prevede un concorso alternativo di criteri di collegamento, ispirato al principio del favor validitatis, al fine di facilitare le relazioni commerciali transnazionali. La norma distingue tra: − contratti conclusi tra soggetti che si trovano nello stesso Paese, che sono validi se soddisfano i requisiti formali previsti dalla legge che, secondo la convenzione, regola la sostanza dell'atto (vale a dire la legge che disciplinerebbe il contratto se esso fosse valido quanto alla forma) oppure se soddisfano i requisiti previsti dalla legge del luogo di conclusione; − contratti conclusi tra soggetti (o i loro rappresentanti) che si trovano in Paesi diversi, per i quali, oltre alla legge regolatrice della sostanza del contratto, in via alternativa è prevista l'applicazione della legge dei Paesi in cui le parti si trovano al momento della conclusione del contratto. Il regolamento, all'art. 11, rispetto alla convenzione di Roma, amplia l’intervento delle leggi applicabili. Nel caso, infatti, di contratto concluso tra persone, o i loro intermediari, che si trovano in Paesi diversi al momento della conclusione, viene prevista, per valutare la validità della forma, anche l'applicazione della legge della residenza abituale di una delle parti in tale momento (art. 11, par. 2). Questa innovazione risponde all'esigenza di tener conto del numero sempre crescente dei contratti conclusi a distanza per i quali i criteri previsti dalla convenzione di Roma non erano di agevole utilizzo. L'art. 11, par. 5, in deroga ai parr. da 1 a 4, sottopone i requisiti di forma dei contratti aventi ad oggetto beni immobili alla legge del Paese in cui l'immobile è situato, a condizione che: − tali requisiti si applichino indipendentemente dal Paese in cui il contratto è stato concluso e dalla legge che disciplina il contratto;
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