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Dispense sulla grande trasformazione, Dispense di Sociologia Dei Processi Economici

La grande trasformazione- polanyi

Tipologia: Dispense

2010/2011

Caricato il 01/11/2011

enny89
enny89 🇮🇹

4.3

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Scarica Dispense sulla grande trasformazione e più Dispense in PDF di Sociologia Dei Processi Economici solo su Docsity! La grande trasformazione K. POLANYI, La grande trasformazione (The Great Transformation, 1944), tr. it., Torino, 2000. E’ uno dei non molti testi novecenteschi che hanno cambiato radicalmente il modo di vedere la storia e i rapporti tra la cultura, la politica e la vita materiale della società. La prima parte del libro, che espone i caratteri del sistema internazionale crollato con la “Grande Trasformazione” da cui il titolo, fa da preludio e si riallaccia alla terza, che espone le prospettive “attuali” (parliamo del 1944). Il sistema del XIX secolo si basava su quattro fondamenta:i) l’equilibrio del potere, che per un secolo impedì che “tra le grandi potenze” scoppiassero conflitti devastanti; ii) la base aurea internazionale; iii) il “mercato autoregolantesi” e iv) lo stato liberale. Il crollo della base aurea fu la causa scatenante decisiva della crisi (p. 5). La tesi fondamentale del libro è esposta chiaramente già a p. 6: “La nostra tesi è che l’idea di un mercato autoregolato implicasse una grossa utopia. Un’istituzione del genere non poteva esistere...senza annullare la sostanza umana e naturale della società; essa avrebbe distrutto l’uomo fisicamente e avrebbe trasformato il suo ambiente in un deserto. Era inevitabile che la società prendesse delle misure per difendersi, ma qualunque misura avesse preso, essa ostacolava l’autoregolazione del mercato, disorganizzava la vita industriale e metteva così in pericolo la società in un altro modo. Fu questo dilemma a spingere lo sviluppo del sistema di mercato in un solco preciso ed infine a far crollare l’organizzazione sociale che si basava su di esso”. Ma il crollo della nostra civiltà, se era determinato dal “fallimento dell’economia mondiale”, aveva in realtà la sua radice prima in “quel rivolgimeno sociale e tecnologico al quale era sorta nell’Europa occidentale l’idea di un mercato autoregolato” (p. 7). Ed è a quel rivolgimento, cioè alla rivoluzione industriale, che è dedicata la seconda e più importante parte del libro. La prima parte svolge un esame, indubbiamente un po’ troppo ottimistico, dei “cento anni di pace” dal 1815 al 1914, di cui individua i perni nel concerto o equilibrio di potere fra le grandi potenze, da un lato, e nell’attività della haute finance dall’altro; di fatto, entrambe cooperavano al mantenimento della pace in Europa. Il commercio era legato alla pace; ma esiziale agli interessi della finanza e del commercio non erano le guerre piccole, coloniali o fra piccole potenze, ma solo le guerre generali (p. 19). A sua volta, l’equilibrio europeo si ruppe alla fine dell’Ottocento, con la formazione di due blocchi di potenze ostili. E il crollo della base aurea internazionale fu il legame tra la disgregazione dell’economia mondiale alla fine del secolo e la “trasformazione di un’intera civiltà negli anni trenta” (p. 26). Gli anni Venti del Novecento videro una serie di svolte conservatrici che si contrapponevano alle rivoluzioni o insurrezioni verificatesi alla fine della I GM (“conservatorismo degli anni Venti”); seguirono dei cambiamenti radicali (“rivoluzione negli anni Trenta”), i cui momenti principali furono: “l’abbandono della base aurea da parte dell’Inghilterra, i piani quinquennali in Russia, il lancio del New Deal, la rivoluzione nazional-socialista in Germania, il crollo della Lega (= Società delle Nazioni) a vantaggio degli imperi autarchici.... Con il 1940, ogni traccia del sistema internazionale era scomparsa e a parte poche enclaves, le nazioni vivevano in una situazione internazionale completamente nuova” (p. 30). La causa della crisi, secondo P., è stata “la minaccia di crollo del sistema economico internazionale”, e in particolare l’insostenibilità della base aurea (che era forse, dice P., l’unico principio comune a uomini così dissimili come Hoover, Mussolini, Lenin e Churchill, p. 32): “la rottura del filo aureo fu il segnale della rivoluzione mondiale” (p. 35). “Le origini del cataclisma si trovavano nello sforzo utopistico di organizzare un sistema di mercato autoregolato” (p. 38). “La società di mercato era nata in Inghilterra e tuttavia fu sul continente che la sua debolezza generò le più tragiche complicazioni. Per capire il fascismo tedesco dobbiamo ritornare all’Inghilterra ricardiana; il diciannovesimo secolo, non si esagererà mai nell’affermarlo, fu il secolo dell’Inghilterra, la rivoluzione industriale fu un avvenimento inglese. Economia di mercato, libero scambio e base aurea furono invenzioni inglesi. Queste istituzioni crollarono ovunque negli anni venti.....Tuttavia, qualunque fosse lo scenario e il clima degli episodi finali, i fattori di lungo periodo che portarono al crollo di quella civiltà dovrebbero essere studiati nel luogo di nascita della rivoluzione industriale, l’Inghilterra” (p. 38). La rivoluzione industriale, dice P., fu “accompagnata da un catastrofico sconvolgimento delle vite della gente comune”: gli uomini vennero ridotti a “masse” e il vecchio tessuto sociale venne distrutto (p. 45). E di questo cambiamento gli unici a non accorgersi sono stati gli esponenti della filosofia liberale, che hanno propugnato inflessibilmente l’accantonamento della saggezza tradizionale (secondo cui, se un cambiamento è torppo rapido va rallentato per salvaguardare il benessere della comunità) in favore “di una mistica prontezza ad accettare le conseguenze sociali del miglioramento economico, qualunque esse potessero essere”. E il liberalismo ha fallito perché si è ostinato a valutare gli eventi dal punto di vista economico. A P. non sfugge il fatto che il saldo netto dei cambiamenti, dal punto di vista economico, è stato positivo. P. parte con l’esame delle recinzioni (enclosures) del periodo Tudor. Queste sono state un fattore di razionalizzazione dell’economia agraria, e dove le recinzioni non hanno dato luogo ad estensione dell’area destinata a pascolo, sono state altamente positive. Ma la politica, all’epoca, era consapevole delle conseguenze potenzialmente catastrofiche che un cambiamento troppo rapido avrebbe comportato (“una rivoluzione del ricco contro il povero”, p. 47); e la Corona agì efficacemente per rallentare il ritmo delle recinzioni. Eppure gli studiosi ottocenteschi hanno unanimemente condannato la politica dell’epoca per non aver compreso i fenomeni eocnomici in corso. Questo, dice P., è esattamente il contrario del vero. Non c’è dubbio che le recinzioni siano state, nel complesso, un progresso economico. Eppure, senza un intervento della politica, “il ritmo di quel progresso avrebbe potuto essere rovinoso... Da questo ritmo infatti dipendeva soprattutto la possibilità per coloro che venivano spossessati di adattarsi alle nuove condizioni senza danni fatali per la loro sostanza umana ed economica, fisica e morale” (p. 50). E l’Inghilterra sopportò senza grave danno il trauma delle recinzioni solo grazie alla politica dei Tudor e degli Stuart. E dopo due secoli il medesimo rischio si ripresentò: “un progresso su vastissima scala che creò un disastro senza precedenti nello stanzi,mento della gente comune. Prima che il processo fosse avanzato di molto i lavoratori erano stati ammucchiati assieme in nuovi luoghi di desolazione, le cosiddette città industriali dell’Inghilterra; la gente di campagna era stata disumanizzata e trasformata in abitanti di slums, la famiglia era sulla via della perdizione e grandi parti del paese scomparivano rapidamente sotto i cumuli di polvere di carbone e di detriti vomitati dal <<satanici opifici>>. Scrittori di tutte le posizioni e di tutte le parti... invariabilmente facevano riferimento alle condizioni sociali durante la rivoluzione industriale come ad un vero abisso di degradazione umana” (p. 53). Le molte teorie addotte per spiegare questo fenomeno, dice P., non funzionano (la teoria dello “sfruttamento”, per es., non spiega come mai “i salari negli slums industriali erano più elevati di quelli di ogni altra area e che nel complesso continuarono a salire per un altro secolo”). La spiegazione di P. è che si trattò di uno sconvolgimento sociale, accompagnato peraltro dal progresso economico, e che contemporaneamente ”un meccanismo istituzionale completamente nuovo” e pericolosissimo fece la sua apparizione: la storia della civiltà del XIX secolo è “fatta di innumerevoli tentativi di proteggere la società contro le distruzioni di un simile meccanismo”. Questo meccanismo è il mercato autoregolamentato (p. 54), detto anche “economia di mercato”. Questa economia prende forma nel momento in cui macchine e imponenti complessi industriali cominciano ad essere impiegati nella produzione. La trasformazione “implica un cambiamento nelle motivazioni all’azione da parte dei membri della società: al motivo della sussistenza deve essere sostituito quello del guadagno” (p. 56). Tutto ciò è implicato dal termine “sistema di mercato”: la cui particolarità maggiore è che, una volta istituito, esso deve esser lasciato funzionare “senza interferenze esterne. I profitti non sono più garantiti ed il commerciante deve realizzarli sul mercato. Si deve anche permettere che i prezzi si regolino da soli, ed un tale sistema autoregolato di mercati è ciò che intendiamo per economia di mercato” (p. 56). Orbene, un tale sistema è completamente nuovo nella storia umana. “Il guadagno e il profitto nello scambio non hanno mai prima svolto una parte importante nell’economia, e per quanto l’istituzione del mercato fosse abbastanza comune a partire dalla tarda Età della Pietra, il suo ruolo era soltanto incidentale nei confronti della vita economcia” (p. 57). Ma questo è sempre stato negato dai teorici liberali: Smith diceva che la divisione del lavoro sociale dipendeva dall’esistenza del mercato, e parlava di una “propensione” dell’uomo al baratto, al commercio e allo scambio, mentre entrambe queste affermazioni sono del tutto false. Se storia ed etnografia conoscono svariate economie che comprendono mercati, esse non ne conoscono affatto, prima della Rivoluzione Industriale, che fossero “anche approssimativamente controllate e regolate dai mercati” (p. 58). A ciò P. fa seguire un profondo esame della letteratura sulle economie primitive, da cui si evince che “ l’economia dell’uomo, di regola, è immersa (embedded) nei suoi rapporti sociali. L’uomo non agisce in modo da salvaguardare il suo interesse individuale nel possesso dei beni materiali, agisce in modo da salvaguardare la sua posizione sociale, le sue pretese sociali, i suoi vantaggi sociali. Egli valuta i beni materiali solo nella misura in cui questi servano a questo fine” (p. 61). Tutto questo è dimnostrato dall’enorme importanza che in tante società ha il dono, il mostrarsi generosi. “E’ infatti su questo punto negativo che si trovano d’accordo gli etnografi moderni: l’assenza del motivo del guadagno, l’assenza del principio del lavoro per una remunerazione, l’assenza del principio del minimo sforzo ed in particolare, l’assenza di qualunque istituzione separata e distinta basata su motivi economici” (p. 62) I principi fondamentali dell’economia (la produttività del lavoro cominciò immediatamente a calare, con l’effetto che i già bassi salari cominciarono a scendere ulteriormente), per l’ovvia ragione che non distingueva tra disoccupai e infermi, vecchi e bambini, ed inoltre perché era inefficientemente gestita su base locale anziché nazionale (p. 121) I datori di lavoro esistevano già, ma con S. non esisteva ancora una classe di “lavoratori” (p. 103) “Fino al 1785 l’opinione pubblica inglese non si rendeva conto di alcun cambiamento fondamentale nella vita economica tranne che per un improvviso aumento del commercio e lo sviluppo della miseria” (p. 115): e l’inquietante compresenza di boom commerciale e difficoltà per i poveri fu una delle motivazioni della nascita dell’economia politica moderna (p. 118). Con costernazione dgli osservatori più sensibili, “ricchezze inaudite apparivano come inseparabili da una miseria altrettanto inaudita. Gli studiosi proclamavano all’unisono che era stata scoperta una scienza che poneva le leggi che governavano il mondo degli uomini... Fu per ordine di queste leggi che la compassione fu allontanata dai cuori e che una stoica determinazione di rinunciare alla solidarietà umana in nome della massima felicità per il maggior numero di persone, acquistò la dignità di una religione secolare” (p. 130). Molti uomini politici erano convinti che solo le leggi sui poveri (tra cui appunto S.) avessero salvato l’Inghilterra da una rivoluzione come quella francese (p. 119). Ma S. cessò perché “fece precipitare una catastrofe sociale”. Il disastro no consisteva tanto nelle condizioni di vita precarie, quanto nel fatto (morale) che l’uomo costretto a vivere e lavorare nelle città veniva disumanizzato, in quanto mancava di “uno status cui aggrapparsi, una struttura formata dai suoi parenti o compagni, per cui combattere e riguadagnare la propria anima”, condizione che gli sarebbe stata concessa solo quando il lavoratore si fosse “costituito come classe”; invece, con S., non era un lavoratore ma un mendicante. “S. era un mezzo infallibile di demoralizzazione popolare” (p. 126). Fu l’abolizione di S., dice P., a segnare “ la vera data di nascita della classe operaia moderna, il cui interesse immediato la destinava a diventare la protettrice della società contro i pericoli intrinseci della civiltà delle macchine”, tanto che “l’odio per l’assistenza pubblica, la sfiducia nell’azione dello stato, l’insistenza sulla rispettabilità e sulla propria autonomia, rimasero per generazioni caratteristiche del lavoratore inglese” (p. 128-9). L’economia politica sorge da una riflessione su questi problemi. Ma P. accenna anche al naturalismo di Townsend, che aveva analizzato la società umana sulla base del “modello” dell’isola Juan Fernàndez (quella di Robinson), abitata solo da capre e cani, dove l’equilibrio si mantiene grazie alla pura e semplice forza della fame. Il paragone con la natura non avrebbe potuto essere più vistoso. Attenzione alla differenza: Hobbes diceva che l’uomo è lupo per l’uomo, è vero, però intendeva dire che “al di fuori della società gli uomini si comportano come lupi e non perché vi fosse qualche fattore biologico che gli uomini e i lupi avevano in comune”; quindi occorreva un governo. Townsend sosteneva il contrario: come sull’isola non c’era bisogno di governo per mantenere in equilibrio cani e capre, così tra gli uomini non c’era bisogno di alcun governo, sarebbero bastati i morsi della fame: “Hobbes aveva sostenuto la necessità di un despota perché gli uomini erano come bestie, Townsend insisteva sul fatto che in realtà essi erano bestie e che proprio per questa ragione era necessario soltanto un minimo di governo. Da questo nuovo punto di vista una società poteva essere considerata come formata da due razze: proprietari e lavoratori. Il numero di questi ultimi era limitato dalla quantità di cibo e fino a che la proprietà era in salvo, la fame li avrebbe indotti a lavorare” (p. 145). Ciò pareva che andasse benissimo alla nuova società. “Accadde così che gli economisti abbandonarono i fondamenti umanistici di Adam Smith ed incorporarono quelli di Townsend. La legge della popolazione di Malthus e la legge dei rendimenti decrescenti di Ricardo... facevano della fecondità dell’uomo e della fertilità della terra gli elementi costitutivi del nuovo campo la cui esistenza era stata scoperta. La società economica era emersa come distinta dallo stato politico” (p. 146). “Tuttavia ancora per un’altra generazione il sistema dei sussidi protesse i confini del villaggio dall’attrazione degli alti salari urbani” (p. 282). “Con l’abolizione di Speenhamland facevano per la prima volta la loro comparsa i disoccupati... La crudeltà perversa consisteva proprio nell’emancipazione del lavoratore con il fine dichiarato di rendere efficace la minaccia della morte per fame” (p. 283). La cosa interessante è stata che i fatti, all’epoca, sembravano dsre ragione a chi sosteneva che i salari erano mantenuti in basso da una ferrea legge, nonostante la crescita economica complessiva. In realtà il basso livello dei salari era causato principalmente dal sistema di Speenhamland, ma Ricardo e Malthus non se ne avvidero (p. 156-7). Smith era stato assai più profondo quando aveva escluso che una società potesse prosperare se la maggioranza dei suoi membri era povera e miserabile; ma le apparenze nel vigore di Speenhamland erano contro di lui. E l’economia classica fu così indotta a costruire la sua teoria sulla base di un’apparenza fuorviante (p. 157). “Il vero significato del tormentoso problema della miseria veniva ora rivelato: la società economica era sottoposta a leggi che non erano leggi umane” (p. 159). E l’onestà intellettuale imponeva, a persone che avevano opinioni diversissime come Burke e Bentham, Malthus e Ricardo, di ammettere la necessità di abolire le leggi sui poveri. Soltanto un uomo percepiva la gravità dei pericoli: Robert Owen, che non aveva perso di vista i nessi tra società e economia e metteva in guardia contro i gravi pericoli delle industrie “quando siano lasciate al loro progresso naturale” (p. 162). Ma neppure lui prevedeva “che l’autodifesa della società che egli invocava si sarebbe dimostrata incompatibile col funzionamento del sistema economico stesso” (p. 164). Il liberalismo trionfò, dice P., solo circa nel 1830 e immediatamente abolì le Poor Law e il sistema di Speenhamland. “Il libero commercio internazionale implicava niente meno che un atto di fede. Le sue implicazioni erano assolutamente fuori dell’usuale. Voleva dire che l’Inghilterra avrebbe dovuto dipendere per i suoi rifornimenti alimentari da fonti d’oltremare, che avrebbe se necessario sacrificato la propria agricoltura e che sarebbe entrata in una nuova forma di vita nella quale sarebbe stata una parte di qualche unità mondiale vagamente concepita per il futuro; che questa comunità monetaria avrebbe dovuto essere pacifica o che altrimenti avrebbe dovutoi essere resa sicura dalla potenza della flotta, ed inoltre che la nazione inglese avrebbe affrontato le prospettive di continue trasformazioni industriali nella ferma fiducia nella propria superiore inventiva e capacità produttiva” (p. 176-7). Una società di mercato deve necessariamente essere estesa a livello globale, implicando contemporaneamente il libero scambio internazionale, e la creazione del mercato del lavoro e della moneta su base aurea (p. 177-8). Invece, dice P., “non vi era nulla di naturale nel laissez-faire. I mercati liberi non avrebbero mai potuto esistere se si fossero lasciate le cose al loro corso. Così come le manifatture del cotone, la principale industrtia del libero scambio, furono create con l’aiuto di tariffe protettive, premi di esportazione e sussidi salariali indiretti, lo stesso laissez-faire fu attuato dallo stato... Il laissez-faire non era un metodo per conseguire qualcosa ma era la cosa da conseguire” (p. 178). [Ma questa è un’argomentazione speciosa: il laissez- faire è un’idea sui rapporti tra stato e economia, e non ha molto senso pretendere che essa si possa affermare “naturalmente”. Come si fanno a rimuovere i vincoli alla libertà economica senza l’intervento dello stato? Anche la successiva tesi di P. - “mentre l’economia del laissez-faire era il prodotto di una deliberata azione da parte dello stato, le successive limitazioni al laissez-faire iniziarono in modo spontaneo. Il laissez-faire era pianificato, la pianificazione non lo era”, p. 180 - non è convincente. Al di là del fatto che sia giusto dire che la “pianificazione”, cioè i limiti al mercato, non fu oggetto di una strategia concordata -come invece sostenevano gli autori ultraliberali criticati da P. alle pp.184 ss., che sostengono l’esistenza di una “cospirazione antiliberale”-, resta che, concordata o meno che fosse la strategia, i limiti al mercato non sono meno artificiali del mercato stesso.] P. spiega che le reazioni al liberalismo furono universali e di natura sostanzialmente simile: controlli sulle condizioni di lavoro e sugli orari nelle fabbriche, assicurazioni sociali ecc. si affermarono dappertutto e più o meno contemporaneamente. In altre parole, sia per affermare il mercato autoregolato sia per eliminarlo, è necessario l’intervento dello stato (p. 192). Interessanti anche le pagine sull’identità di vedute di liberali e marxisti sul conflitto delle classi e sul fatto che il protezionismo ottocentesco era stato il frutto di un’azione di classe (p. 195) nonché sul fatto che l’importanza delle classi nel mutamento storico è esagerata (mentre gli interessi di classe sono “ il veicolo naturale del mutamento socale e politico”, invece la causa ultima del mutamento “è determinata tuttavia da forze esterne... la <<sfida>> è rivolta alla società nel suo complesso, la <<risposta>> giunge attraverso gruppi, settori e classi”: p. 196). E inoltre non è vero che gli interessi di una classe siano “essenzialmente economici... Le motivazioni degli individui sono solo eccezionalmente determinate dalla necessità di soddisfare bisogni naturali... Le questioni puramente economiche... sono incomparabilmente meno rilevanti per il comportamento di classe che non quelle del riconoscimento sociale” (p. 197). Questa è stata la ragione del protezionismo: “proprio perché il mercato minacciava non gli interessi economici ma gli interessi sociali di diverse sezioni trasversali della popolazione, persone appartenenti a vari strati economici univano inconsapevolmente le loro forze per affrontare il pericolo” (p. 199). La difesa dei liberali contro questa teoria è di negare che la rivoluzione industriale fosse una catastrofe. E in effetti, dal punto di vista economico certamente non lo fu, dice P. (p. 201). Ma il fatto è che “in realtà una calamità sociale è soprattutto un fenomeno culturale e non economico” (p. 201). E questi fenomeni, rari all’interno delle singole civiltà, sono al contrario comuni nei contatti fra civiltà. Il colonialismo ne è un esempio eloquente (p. 202). Alcune tribù africane di oggi si trovano in condizioni simili, dice P., a quelle dei lavoratori inglesi della rivoluzione industriale: essi vivono in un “vuoto culturale”: “le loro arti sono decadute, le condizioni politiche e sociali della loro esistenza sono state distrutte” (p. 203: ma certo che le considerazioni di P. sul vuoto lasciato nella vita delle tribù indigene dalla scomparsa delle guerre intertribali - p. 363 - lasciano perplessi). Il fatto è che “niente ottenebra la nostra visione sociale altrettanto efficacemente quanto il pregiudizio economico... Se lo sfruttamento è definito in termini strettamente economici come una permanente inadeguatezza dei rapporti di scambio, rimane dubbioo se di fatto vi è stato sfruttamento.” Quel che viene distrutto sono le istituzioni fondamentali della società e così il modo di vivere tradizionale scompare (p. 205). Così P. ammette che la colonizzazione dell’India può anche essere stata benefica (ed anzi, “nel lungo periodo”, lo è stata “certamente”), ma ha condotto alla sua disorganizzazione sociale e quindi fu gettata “ in preda alla miseria e alla degradazione” (p. 206) Inizialmente le limitazioni del mercato del lavoro furono opera non del proletariato, non ancora costituito come classe, ma dei proprietari terrieri, dei “reazionari illuminati” che nel 1847 imposero la legge sulle dieci ore. Solo alla fine del Quaranta, con l’inizio del “periodo aureo del capitalismo”, la classe operaia cominciò a prendere coscienza di se stessa (e pensare che già nel 1832 era stata esclusa dal voto: p. 214). “Soltanto quando le classi lavoratrici ebbero accettato i principi di un’economia capitalistica e le trade-unions ebbero come loro principale preoccupazione il tranquillo funzionamento dell’industria, le classi medie concessero il diritto di voto ai lavoratori più agiati” (p. 221). Il risultato, comunque, fu chiaro: “la rottura del mercato di quel fattore della produzione noto come forza lavoro” (p. 226): il mercato poteva sopravvivere “soltanto a condizione che i salari e le condizioni di lavoro, i livelli e le regolamentazioni fosseri tali da salvaguardare il carattere umano di quella che si presumeva una merce e cioè il lavoro”: lo scopo delle leggi sul lavoro era esattamente quello di interferire con il mercato del aavoro (p. 227). Quanto alla terra, la resistenza fu opposta innanzitutto dalla common law; la resistenza fu vinta, ma immediatamente vennero le riforme, come le misure di igiene e salubrità degli edifici rurali. E l’opposizione alla commerciabilità della terra fu il collante fra le classi agrarie, l’esercito e l’alto clero: questo spiega l’importanza, specie sul Continente, delle classi agrarie. Così alla fine un compromesso fu trovato: “Una delle funzioni della reazione fu considerata quella di tenere al loro posto le clasis lavoratrici in modo che i mercati non fossero in preda al panico” (p. 238) Infine, a sua volta un mercato della moneta-merce” è incompatibile con la produzione industriale. “L’espansione della produzione e del commercio non accompagnata da un aumento della quantità di moneta determinerà una caduta nel livello dei prezzi... la scarsità di moneta era una delle grandi e permanenti lagnanze delle comunità mercantili del diciottesimo secolo” (p. 246). Ed ecco che si sviluppò la moneta-segno (token money) “per proteggere il commercio dalle deflazioni forzate che accompagnavano l’uso del numerario quando il volume dell’attività economica si gonfiava. Nessuna economia di mercato era possibile senza l’interferenza di una simile moneta artificiale”. Il problema giunse alla ribalta con la necessità di cambi stabili e la conseguente creazione della base aurea al tempo delle guerre napoleoniche. Il problema è che la moneta-merce (la moneta aurea) era vitale per il commercio estero, ma esiziale per il commercio interno (che aveva bisogno di una moneta-segno). Come rimediare? Venne creato il sistema delle banche centrali che “mitigò notevolmente questo difetto”, consentendo di assorbire e distribuire meglio l’urto della deflazione (p. 247). L’effetto fu analogo a quello dei limiti alla commerciabilità del lavoro e della terra: “Le banche centrali ridussero l’automatismo della base aurea ad una semplice apparenza. Questo significò una valuta guidata centralmente” (p. 249). “Non è possibile nessuna economia di mercato separata dalla sfera politica e tuttavia era una costruzione di questo tipo che stava alla base dell’economia classica a partire da David Ricardo e senza la quale i suoi concetti ed assunti erano incomprensibili.” La grande importanza delle banche centrali “stava nel fatto che la politica monetaria veniva così riportata nella sfera della politica. La salvezza fu data dalla coesistenza di moneta-segno nazionale e moneta aurea internazionale” (p. 253). Eppure il crollo fu più repentino e più grave nel campo monetario: nulla di simile all’abbandono della base aurea da parte dell’Inghilterra nel 1931 (e degli USA nel 1933) accadde negli altri mercati “fittizi” (p. 254); e “il crollo finale della base aurea rappresentò anche il fallimento definitivo dell’economia di mercato” (p. 255). In effetti “la nuova unità nazionale e la nuova moneta nazionale erano inseparabili” (p. 259): il protezionismo interno ed esterno, sociale e nazionale tendeva a fondersi: “politicamente l’identità della nazione era determinata dal governo, economicamente dalla banca centrale” (p. 261). Di qui, dall’identità dei fenomeni, anche la “sconcertante somiglianza nello schema di avvenimenti che... tra il 1879 e il 1929 dilagarono su gran parte del mondo” (p. 266). Le tensioni erano
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