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Esercitazioni diritto civile 2012 2013 28196859(4), Esercizi di Diritto dei contratti

Sentenze civilistiche, argomento: il contratto

Tipologia: Esercizi

2014/2015

Caricato il 27/02/2015

GianfrancoP.
GianfrancoP. 🇮🇹

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Scarica Esercitazioni diritto civile 2012 2013 28196859(4) e più Esercizi in PDF di Diritto dei contratti solo su Docsity! ESERCITAZIONI DI DIRITTO CIVILE CASI GIURISPRUDENZIALI - Interesse non patrimoniale Corte di Giustizia delle Comunità europee (Prima sezione) 14 ottobre 2004 - C- 36/02 - Abuso del diritto Cass. civ., sez. III, 18 settembre 2009, n. 20106 - Causa del contratto Cass. civ. sez. III, 8 maggio 2006, n. 10490 Cass civ. sez. III, 24 luglio 2007, n. 16315 - Regole di validità e regole di comportamento Cass. civ. sez. un., 19 dicembre 2007, n. 26725 Cass. civ. sez. III, 8 ottobre 2008, n. 24795 - Qualificazione del contratto Cass. civ., sez. un., 12 maggio 2008, n. 11656 - Predisposizione unilaterale del testo e clausole abusive Cass., ord. Sez. III, 26 settembre 2008, n. 24262 - Autonomia privata e crisi familiare Cass., 21 dicembre 2012, n. 23713 - Interpretazione del contratto e gradualismo Cass. civ., sez. II, 10 dicembre 2008, n. 29029 - Interpretazione del contratto secondo buona fede Cass., civ., sez. III, 18 maggio 2001, n. 6819 Cass., civ., sez. III, 5 marzo 2009, n. 5348 - Il contratto e la disciplina della privacy Cass. civ., sez. I, 19 novembre 2008, n. 27506 Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 2 Corte di Giustizia delle Comunità europee (Prima Sezione), 14 ottobre 2004 C-36/02, Omega - Oberbürgermeisterin der Bundesstadt Bonn Nel procedimento C-36/02, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell'art. 234 CE, dal Bundesverwaltungsgericht (Germania) con decisione 24 ottobre 2001, pervenuta in cancelleria il 12 febbraio 2002, nella causa Omega Spielhallen- und Automatenaufstellungs GmbH contro Oberbürgermeisterin der Bundesstadt Bonn, LA CORTE (Prima Sezione), composta dal sig. P. Jann, presidente di sezione, dai sigg. A. Rosas (relatore), S. von Bahr, dalla sig.ra R. Silva de Lapuerta e dal sig. K. Lenaerts, giudici, avvocato generale: sig.ra C. Stix-Hackl cancelliere: sig.ra M.-F. Contet, amministratore principale vista la fase scritta del procedimento e in seguito all'udienza del 4 febbraio 2004, viste le osservazioni presentate: – per l'Omega Spielhallen- und Automatenaufstellungs GmbH, dal sig. P. Tuxhorn, Rechtsanwalt; – per l'Oberbürgermeisterin der Bundesstadt Bonn, dal sig. F. Montag, Rechtsanwalt; – per il governo tedesco, dal sig. W.-D. Plessing, in qualità di agente; – per la Commissione delle Comunità europee, dalle sig.re M. Patakia e C. Schmidt, in qualità di agenti, Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 5 13 Per quanto riguarda l’applicazione del diritto comunitario, il giudice del rinvio ritiene che il provvedimento in esame incida sulla libera prestazione dei servizi prevista all’art. 49 CE. Infatti l’Omega avrebbe concluso un contratto di franchising con una società britannica, la quale sarebbe stata impossibilitata a fornire prestazioni al suo cliente tedesco mentre fornirebbe prestazioni simili nello Stato membro in cui ha sede. Si dovrebbe prevedere parimenti una violazione della libera circolazione delle merci di cui all’art. 28 CE, nei limiti in cui l’Omega desidera acquistare nel Regno Unito beni di equipaggiamento del suo «laserdromo», in particolare apparecchi laser da tiro. 14 Il giudice del rinvio considera che la causa principale dà occasione di precisare ulteriormente le condizioni cui il diritto comunitario assoggetta la restrizione di una determinata categoria di prestazioni di servizi o dell’importazione di determinati beni. Esso rileva che, secondo la giurisprudenza della Corte, gli ostacoli alla libera prestazione dei servizi che risultano da provvedimenti nazionali indifferentemente applicabili sono consentiti solo qualora tali provvedimenti siano giustificati da motivi imperativi d’interesse pubblico, qualora siano idonei ad assicurare il raggiungimento del fine da essi perseguiti e non eccedano quanto è a tal fine necessario. Ai fini della valutazione della necessità e della proporzionalità di tali provvedimenti è irrilevante che un altro Stato membro abbia emanato norme di tutela diverse (v. sentenze 21 settembre 1999, causa C-124/97, Läärä e a., Racc. pag.I-6067, punti 31, 35 e 36, e 21 ottobre 1999, causa C-67/98, Zenatti, Racc. pag. I-7289, punti 29, 33 e 34). 15 Il giudice del rinvio si domanda tuttavia se, alla luce della sentenza 24 marzo 1994, causa C-275/92, Schindler (Racc. pag. I-1039), una nozione comune del diritto in tutti gli Stati membri sia una condizione necessaria affinché tali Stati siano legittimati a limitare discrezionalmente una determinata categoria di prestazioni protette dal Trattato CE. Sulla base di una tale interpretazione della citata sentenza Schindler, il provvedimento controverso difficilmente potrebbe essere confermato se non fosse possibile dedurre una nozione comune del diritto per quanto riguarda la valutazione, negli Stati membri, dei giochi che simulano omicidi. 16 Esso rileva che le due sentenze citate, Läärä e a. e Zenatti, emanate successivamente alla citata sentenza Schindler, potrebbero dare l’impressione che la Corte non si è più rigidamente attenuta ad una nozione comune del diritto al fine di limitare la libera prestazione dei servizi. Se così fosse, il diritto comunitario non osterebbe, secondo il giudice del rinvio, a che il provvedimento in esame sia confermato. A seguito dell’importanza fondamentale del principio della dignità umana, in diritto comunitario come anche in diritto tedesco, non vi è luogo di interrogarsi ulteriormente sul carattere proporzionato della misura nazionale che limita la libera prestazione dei servizi. 17 Alla luce di ciò il Bundesverwaltungsgericht ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione: «Se sia compatibile con le disposizioni del Trattato che istituisce la Comunità economica europea relative alla libera prestazione dei servizi e alla libera circolazione delle merci il fatto che una determinata attività commerciale – nella specie la gestione di un cosiddetto “laserdromo”, dove vengono simulati omicidi – debba essere vietata ai sensi della normativa nazionale perché viola valori fondamentali costituzionalmente sanciti». Sulla ricevibilità della questione pregiudiziale Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 6 18 L’Oberbürgermeisterin di Bonn si interroga sulla ricevibilità della questione pregiudiziale e, più precisamente, sull’applicabilità delle norme di diritto comunitario relative alle libertà fondamentali nella presente controversia. A suo parere, il provvedimento di divieto adottato il 14 settembre 1994 non ha inciso su alcuna operazione a carattere trasfrontaliero e non ha dunque potuto limitare le libertà fondamentali garantite dal Trattato. La stessa rileva che, alla data di adozione di tale provvedimento, l’installazione che la Pulsar avrebbe offerto di fornire all’Omega non era ancora stata consegnata e quest’ultima non era obbligata da nessun contratto di franchising ad adottare la variante del gioco oggetto del divieto. 19 Occorre tuttavia rilevare che, in forza di una costante giurisprudenza, spetta unicamente ai giudici nazionali aditi, che debbono assumere la responsabilità della decisione giudiziaria, valutare, tenuto conto delle peculiarità di ogni causa, sia la necessità di una pronuncia in via pregiudiziale per essere posti in grado di statuire nel merito sia la pertinenza delle questioni sottoposte alla Corte. Pertanto, dal momento che le questioni sottoposte riguardano l’interpretazione del diritto comunitario, la Corte, in linea di principio, è tenuta a statuire (v., in particolare, sentenze 13 marzo 2001, causa C-379/98, PreussenElektra, Racc. pag. I-2099, punto 38; 22 gennaio 2002, causa C-390/99, Canal Satélite Digital, Racc. pag. I-607, punto 18; 27 febbraio 2003, causa C-373/00, Adolf Truley, Racc. pag. I-1931, punto 21; 22 maggio 2003, causa C-18/01, Korhonen e a., Racc. pag. I-5321, punto 19 e 29 aprile 2004, causa C-476/01, Kapper, Racc. pag. I-5205, punto 24). 20 Inoltre, emerge dalla stessa giurisprudenza che la Corte può rifiutare di pronunciarsi su una questione pregiudiziale sollevata da un giudice nazionale solo qualora risulti manifestamente che la richiesta interpretazione del diritto comunitario non ha alcuna relazione con l’effettività o con l’oggetto della causa principale oppure qualora il problema sia di natura ipotetica o infine la Corte non disponga degli elementi di fatto o di diritto necessari per fornire una soluzione utile alle questioni che le vengono sottoposte (v. citate sentenze PreussenElektra, punto 39, Canal Satélite Digital, punto 19; Adolf Truley, punto 22; Korhonen e a., punto 20, e Kapper, punto 25). 21 Ciò non si verifica nel caso di specie. Infatti, anche se emerge dal fascicolo che, al momento dell’adozione del provvedimento 14 settembre 1994, l’Omega non aveva ancora concluso formalmente contratti di fornitura o franchising con la società stabilita nel Regno Unito, basti constatare che tale provvedimento è in ogni caso, in considerazione del suo valore venturo e del contenuto del divieto che stabilisce, atto a limitare lo sviluppo futuro delle relazioni contrattuali tra le due parti. Non appare dunque in modo manifesto che la questione posta dal giudice del rinvio, che verte sull’interpretazione delle disposizioni del Trattato che garantiscono le libertà di prestazione dei servizi e di circolazione delle merci, non ha alcun rapporto con l’effettività o con l’oggetto della controversia principale. 22 Ne consegue che la questione pregiudiziale sottoposta dal Bundesverwaltungsgericht dev’essere dichiarata ricevibile. Sulla questione pregiudiziale 23 Con la sua questione pregiudiziale, il giudice del rinvio chiede, da un lato, se il divieto riguardante un’attività economica per ragioni di tutela dei valori fondamentali sanciti dalla Costituzione nazionale, come, in questo caso, la dignità umana, sia compatibile con il diritto comunitario e, dall’altro, se la facoltà di cui dispongono gli Stati membri di limitare, per tali Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 7 ragioni, determinate libertà fondamentali garantite dal Trattato, ossia le libertà di prestazione dei servizi e di circolazione delle merci, sia subordinata, come potrebbe indicare la citata sentenza Schindler, alla condizione che tale restrizione si basi su una concezione del diritto comune a tutti gli Stati membri. 24 In via preliminare si deve determinare entro quali limiti la restrizione constatata dal giudice del rinvio sia atta a colpire l’esercizio delle libertà di prestazione dei servizi e di circolazione delle merci, disciplinate da disposizioni del Trattato diverse. 25 A tale proposito si deve osservare che il provvedimento controverso, vietando all’Omega di gestire il suo «laserdromo» secondo il modello di gioco sviluppato dalla Pulsar e commercializzato legalmente da quest’ultima nel Regno Unito, in particolare mediante franchising, incide sulla libera prestazione di servizi garantita dall’art. 49 CE sia ai prestatori sia ai destinatari di tali servizi con sede in un altro Stato membro. Inoltre, nei limiti in cui lo sfruttamento del modello di gioco sviluppato dalla Pulsar implica l’uso di un equipaggiamento specifico, che è parimenti commercializzato legalmente nel Regno Unito, il divieto imposto all’Omega è tale da dissuadere quest’ultima dall’acquistare l’equipaggiamento in esame, violando così la libera circolazione delle merci garantita dall’art. 28 CE. 26 Si deve tuttavia rammentare che, qualora un provvedimento nazionale incida sia sulla libera prestazione dei servizi sia sulla libera circolazione delle merci, la Corte procede al suo esame, in linea di principio, solamente con riguardo ad una delle due dette libertà fondamentali qualora risulti che, alla luce delle circostanze della specie, una delle due sia del tutto secondaria rispetto all’altra e possa essere a questa ricollegata (v., in tal senso, sentenze Schindler, cit., punto 22; Canal Satélite Digital, cit., punto 31, e 25 marzo 2004, causa C- 71/02, Karner, Racc. pag. I-3025, punto 46). 27 Nelle circostanze della causa principale l’aspetto della libera prestazione dei servizi prevale su quello della libera circolazione delle merci. Infatti, l’Oberbürgermeisterin e la Commissione delle Comunità europee hanno sottolineato giustamente che il provvedimento controverso limita le importazioni di merci unicamente per quanto riguarda l’equipaggiamento specificamente concepito per la variante di gioco laser vietata e che ciò è conseguenza ineluttabile della restrizione imposta nei confronti delle prestazioni di servizi forniti dalla Pulsar. Di conseguenza, come ha osservato l’avvocato generale al paragrafo 32 delle sue conclusioni, non si deve esaminare in modo autonomo la compatibilità di tale provvedimento con le disposizioni del Trattato che disciplinano la libera circolazione delle merci. 28 In merito alla giustificazione della restrizione imposta dal provvedimento 14 settembre 1994 alla libera prestazione dei servizi, l’art. 46 CE, applicabile in materia ai sensi dell’art. 55 CE, ammette le restrizioni giustificate da motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica. Nella fattispecie emerge dal fascicolo che i motivi invocati dall’Oberbürgermeisterin per l’adozione del provvedimento di divieto menzionano espressamente il fatto che l’attività interessata costituisce un pericolo per l’ordine pubblico. Peraltro il riferimento ad un pericolo che minaccia l’ordine pubblico compare parimenti all’art. 14, n. 1, dell’OBG NW, che autorizza le autorità di polizia ad adottare le misure necessarie per prevenire tale pericolo. ESERCITAZIONI DI DIRITTO CIVILE CASI GIURISPRUDENZIALI - Interesse non patrimoniale Corte di Giustizia delle Comunità europee (Prima sezione) 14 ottobre 2004 - C- 36/02 - Abuso del diritto Cass. civ., sez. III, 18 settembre 2009, n. 20106 - Causa del contratto Cass. civ. sez. III, 8 maggio 2006, n. 10490 Cass civ. sez. III, 24 luglio 2007, n. 16315 - Regole di validità e regole di comportamento Cass. civ. sez. un., 19 dicembre 2007, n. 26725 Cass. civ. sez. III, 8 ottobre 2008, n. 24795 - Qualificazione del contratto Cass. civ., sez. un., 12 maggio 2008, n. 11656 - Predisposizione unilaterale del testo e clausole abusive Cass., ord. Sez. III, 26 settembre 2008, n. 24262 - Autonomia privata e crisi familiare Cass., 21 dicembre 2012, n. 23713 - Interpretazione del contratto e gradualismo Cass. civ., sez. II, 10 dicembre 2008, n. 29029 - Interpretazione del contratto secondo buona fede Cass., civ., sez. III, 18 maggio 2001, n. 6819 Cass., civ., sez. III, 5 marzo 2009, n. 5348 - Il contratto e la disciplina della privacy Cass. civ., sez. I, 19 novembre 2008, n. 27506 Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 2 Corte di Giustizia delle Comunità europee (Prima Sezione), 14 ottobre 2004 C-36/02, Omega - Oberbürgermeisterin der Bundesstadt Bonn Nel procedimento C-36/02, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell'art. 234 CE, dal Bundesverwaltungsgericht (Germania) con decisione 24 ottobre 2001, pervenuta in cancelleria il 12 febbraio 2002, nella causa Omega Spielhallen- und Automatenaufstellungs GmbH contro Oberbürgermeisterin der Bundesstadt Bonn, LA CORTE (Prima Sezione), composta dal sig. P. Jann, presidente di sezione, dai sigg. A. Rosas (relatore), S. von Bahr, dalla sig.ra R. Silva de Lapuerta e dal sig. K. Lenaerts, giudici, avvocato generale: sig.ra C. Stix-Hackl cancelliere: sig.ra M.-F. Contet, amministratore principale vista la fase scritta del procedimento e in seguito all'udienza del 4 febbraio 2004, viste le osservazioni presentate: – per l'Omega Spielhallen- und Automatenaufstellungs GmbH, dal sig. P. Tuxhorn, Rechtsanwalt; – per l'Oberbürgermeisterin der Bundesstadt Bonn, dal sig. F. Montag, Rechtsanwalt; – per il governo tedesco, dal sig. W.-D. Plessing, in qualità di agente; – per la Commissione delle Comunità europee, dalle sig.re M. Patakia e C. Schmidt, in qualità di agenti, Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 5 13 Per quanto riguarda l’applicazione del diritto comunitario, il giudice del rinvio ritiene che il provvedimento in esame incida sulla libera prestazione dei servizi prevista all’art. 49 CE. Infatti l’Omega avrebbe concluso un contratto di franchising con una società britannica, la quale sarebbe stata impossibilitata a fornire prestazioni al suo cliente tedesco mentre fornirebbe prestazioni simili nello Stato membro in cui ha sede. Si dovrebbe prevedere parimenti una violazione della libera circolazione delle merci di cui all’art. 28 CE, nei limiti in cui l’Omega desidera acquistare nel Regno Unito beni di equipaggiamento del suo «laserdromo», in particolare apparecchi laser da tiro. 14 Il giudice del rinvio considera che la causa principale dà occasione di precisare ulteriormente le condizioni cui il diritto comunitario assoggetta la restrizione di una determinata categoria di prestazioni di servizi o dell’importazione di determinati beni. Esso rileva che, secondo la giurisprudenza della Corte, gli ostacoli alla libera prestazione dei servizi che risultano da provvedimenti nazionali indifferentemente applicabili sono consentiti solo qualora tali provvedimenti siano giustificati da motivi imperativi d’interesse pubblico, qualora siano idonei ad assicurare il raggiungimento del fine da essi perseguiti e non eccedano quanto è a tal fine necessario. Ai fini della valutazione della necessità e della proporzionalità di tali provvedimenti è irrilevante che un altro Stato membro abbia emanato norme di tutela diverse (v. sentenze 21 settembre 1999, causa C-124/97, Läärä e a., Racc. pag.I-6067, punti 31, 35 e 36, e 21 ottobre 1999, causa C-67/98, Zenatti, Racc. pag. I-7289, punti 29, 33 e 34). 15 Il giudice del rinvio si domanda tuttavia se, alla luce della sentenza 24 marzo 1994, causa C-275/92, Schindler (Racc. pag. I-1039), una nozione comune del diritto in tutti gli Stati membri sia una condizione necessaria affinché tali Stati siano legittimati a limitare discrezionalmente una determinata categoria di prestazioni protette dal Trattato CE. Sulla base di una tale interpretazione della citata sentenza Schindler, il provvedimento controverso difficilmente potrebbe essere confermato se non fosse possibile dedurre una nozione comune del diritto per quanto riguarda la valutazione, negli Stati membri, dei giochi che simulano omicidi. 16 Esso rileva che le due sentenze citate, Läärä e a. e Zenatti, emanate successivamente alla citata sentenza Schindler, potrebbero dare l’impressione che la Corte non si è più rigidamente attenuta ad una nozione comune del diritto al fine di limitare la libera prestazione dei servizi. Se così fosse, il diritto comunitario non osterebbe, secondo il giudice del rinvio, a che il provvedimento in esame sia confermato. A seguito dell’importanza fondamentale del principio della dignità umana, in diritto comunitario come anche in diritto tedesco, non vi è luogo di interrogarsi ulteriormente sul carattere proporzionato della misura nazionale che limita la libera prestazione dei servizi. 17 Alla luce di ciò il Bundesverwaltungsgericht ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione: «Se sia compatibile con le disposizioni del Trattato che istituisce la Comunità economica europea relative alla libera prestazione dei servizi e alla libera circolazione delle merci il fatto che una determinata attività commerciale – nella specie la gestione di un cosiddetto “laserdromo”, dove vengono simulati omicidi – debba essere vietata ai sensi della normativa nazionale perché viola valori fondamentali costituzionalmente sanciti». Sulla ricevibilità della questione pregiudiziale Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 6 18 L’Oberbürgermeisterin di Bonn si interroga sulla ricevibilità della questione pregiudiziale e, più precisamente, sull’applicabilità delle norme di diritto comunitario relative alle libertà fondamentali nella presente controversia. A suo parere, il provvedimento di divieto adottato il 14 settembre 1994 non ha inciso su alcuna operazione a carattere trasfrontaliero e non ha dunque potuto limitare le libertà fondamentali garantite dal Trattato. La stessa rileva che, alla data di adozione di tale provvedimento, l’installazione che la Pulsar avrebbe offerto di fornire all’Omega non era ancora stata consegnata e quest’ultima non era obbligata da nessun contratto di franchising ad adottare la variante del gioco oggetto del divieto. 19 Occorre tuttavia rilevare che, in forza di una costante giurisprudenza, spetta unicamente ai giudici nazionali aditi, che debbono assumere la responsabilità della decisione giudiziaria, valutare, tenuto conto delle peculiarità di ogni causa, sia la necessità di una pronuncia in via pregiudiziale per essere posti in grado di statuire nel merito sia la pertinenza delle questioni sottoposte alla Corte. Pertanto, dal momento che le questioni sottoposte riguardano l’interpretazione del diritto comunitario, la Corte, in linea di principio, è tenuta a statuire (v., in particolare, sentenze 13 marzo 2001, causa C-379/98, PreussenElektra, Racc. pag. I-2099, punto 38; 22 gennaio 2002, causa C-390/99, Canal Satélite Digital, Racc. pag. I-607, punto 18; 27 febbraio 2003, causa C-373/00, Adolf Truley, Racc. pag. I-1931, punto 21; 22 maggio 2003, causa C-18/01, Korhonen e a., Racc. pag. I-5321, punto 19 e 29 aprile 2004, causa C-476/01, Kapper, Racc. pag. I-5205, punto 24). 20 Inoltre, emerge dalla stessa giurisprudenza che la Corte può rifiutare di pronunciarsi su una questione pregiudiziale sollevata da un giudice nazionale solo qualora risulti manifestamente che la richiesta interpretazione del diritto comunitario non ha alcuna relazione con l’effettività o con l’oggetto della causa principale oppure qualora il problema sia di natura ipotetica o infine la Corte non disponga degli elementi di fatto o di diritto necessari per fornire una soluzione utile alle questioni che le vengono sottoposte (v. citate sentenze PreussenElektra, punto 39, Canal Satélite Digital, punto 19; Adolf Truley, punto 22; Korhonen e a., punto 20, e Kapper, punto 25). 21 Ciò non si verifica nel caso di specie. Infatti, anche se emerge dal fascicolo che, al momento dell’adozione del provvedimento 14 settembre 1994, l’Omega non aveva ancora concluso formalmente contratti di fornitura o franchising con la società stabilita nel Regno Unito, basti constatare che tale provvedimento è in ogni caso, in considerazione del suo valore venturo e del contenuto del divieto che stabilisce, atto a limitare lo sviluppo futuro delle relazioni contrattuali tra le due parti. Non appare dunque in modo manifesto che la questione posta dal giudice del rinvio, che verte sull’interpretazione delle disposizioni del Trattato che garantiscono le libertà di prestazione dei servizi e di circolazione delle merci, non ha alcun rapporto con l’effettività o con l’oggetto della controversia principale. 22 Ne consegue che la questione pregiudiziale sottoposta dal Bundesverwaltungsgericht dev’essere dichiarata ricevibile. Sulla questione pregiudiziale 23 Con la sua questione pregiudiziale, il giudice del rinvio chiede, da un lato, se il divieto riguardante un’attività economica per ragioni di tutela dei valori fondamentali sanciti dalla Costituzione nazionale, come, in questo caso, la dignità umana, sia compatibile con il diritto comunitario e, dall’altro, se la facoltà di cui dispongono gli Stati membri di limitare, per tali Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 7 ragioni, determinate libertà fondamentali garantite dal Trattato, ossia le libertà di prestazione dei servizi e di circolazione delle merci, sia subordinata, come potrebbe indicare la citata sentenza Schindler, alla condizione che tale restrizione si basi su una concezione del diritto comune a tutti gli Stati membri. 24 In via preliminare si deve determinare entro quali limiti la restrizione constatata dal giudice del rinvio sia atta a colpire l’esercizio delle libertà di prestazione dei servizi e di circolazione delle merci, disciplinate da disposizioni del Trattato diverse. 25 A tale proposito si deve osservare che il provvedimento controverso, vietando all’Omega di gestire il suo «laserdromo» secondo il modello di gioco sviluppato dalla Pulsar e commercializzato legalmente da quest’ultima nel Regno Unito, in particolare mediante franchising, incide sulla libera prestazione di servizi garantita dall’art. 49 CE sia ai prestatori sia ai destinatari di tali servizi con sede in un altro Stato membro. Inoltre, nei limiti in cui lo sfruttamento del modello di gioco sviluppato dalla Pulsar implica l’uso di un equipaggiamento specifico, che è parimenti commercializzato legalmente nel Regno Unito, il divieto imposto all’Omega è tale da dissuadere quest’ultima dall’acquistare l’equipaggiamento in esame, violando così la libera circolazione delle merci garantita dall’art. 28 CE. 26 Si deve tuttavia rammentare che, qualora un provvedimento nazionale incida sia sulla libera prestazione dei servizi sia sulla libera circolazione delle merci, la Corte procede al suo esame, in linea di principio, solamente con riguardo ad una delle due dette libertà fondamentali qualora risulti che, alla luce delle circostanze della specie, una delle due sia del tutto secondaria rispetto all’altra e possa essere a questa ricollegata (v., in tal senso, sentenze Schindler, cit., punto 22; Canal Satélite Digital, cit., punto 31, e 25 marzo 2004, causa C- 71/02, Karner, Racc. pag. I-3025, punto 46). 27 Nelle circostanze della causa principale l’aspetto della libera prestazione dei servizi prevale su quello della libera circolazione delle merci. Infatti, l’Oberbürgermeisterin e la Commissione delle Comunità europee hanno sottolineato giustamente che il provvedimento controverso limita le importazioni di merci unicamente per quanto riguarda l’equipaggiamento specificamente concepito per la variante di gioco laser vietata e che ciò è conseguenza ineluttabile della restrizione imposta nei confronti delle prestazioni di servizi forniti dalla Pulsar. Di conseguenza, come ha osservato l’avvocato generale al paragrafo 32 delle sue conclusioni, non si deve esaminare in modo autonomo la compatibilità di tale provvedimento con le disposizioni del Trattato che disciplinano la libera circolazione delle merci. 28 In merito alla giustificazione della restrizione imposta dal provvedimento 14 settembre 1994 alla libera prestazione dei servizi, l’art. 46 CE, applicabile in materia ai sensi dell’art. 55 CE, ammette le restrizioni giustificate da motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica. Nella fattispecie emerge dal fascicolo che i motivi invocati dall’Oberbürgermeisterin per l’adozione del provvedimento di divieto menzionano espressamente il fatto che l’attività interessata costituisce un pericolo per l’ordine pubblico. Peraltro il riferimento ad un pericolo che minaccia l’ordine pubblico compare parimenti all’art. 14, n. 1, dell’OBG NW, che autorizza le autorità di polizia ad adottare le misure necessarie per prevenire tale pericolo. Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 10 sfruttamento commerciale di giochi di simulazione di omicidi sia vietata da un provvedimento nazionale adottato per motivi di salvaguardia dell’ordine pubblico perché tale attività viola la dignità umana. Sulle spese 42 Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute per presentare osservazioni alla Corte, diverse da quelle delle dette parti, non possono dar luogo a rifusione. Per questi motivi, la Corte (Prima Sezione) dichiara: Il diritto comunitario non osta a che un’attività economica consistente nello sfruttamento commerciale di giochi di simulazione di omicidi sia vietata da un provvedimento nazionale adottato per motivi di salvaguardia dell’ordine pubblico perché tale attività viola la dignità umana. Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 11 Cass., sez. III, 18-09-2009, n. 20106 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Tra il 1992 ed il 1996 gli attuali ricorrenti, tutti ex concessionari della Renault Italia spa, furono revocati dalla stessa società, sulla base della facoltà di recesso ad nutum previsto dall'art. 12 del contratto di concessione di vendita. Poichè in tale condotta fu ravvisato un comportamento abusivo, e comunque illecito da parte della Renault Italia spa, fu fondata la Associazione Concessionari Revocati, con lo scopo di "programmare, provvedere, sviluppare, organizzare, gestire ogni iniziativa ed attività idonea alla tutela e difesa, nonchè alla rappresentanza, dei diritti dei Concessionari d'auto revocati dalle case automobilistiche (concessionari) aventi sede nel territorio (OMISSIS)". L'Associazione ed i concessionari revocati convenivano, quindi, la Renault Italia spa davanti al tribunale di Roma, allo scopo di ottenere la declaratoria di illegittimità del recesso per abuso del diritto, e la conseguente condanna della Renault Italia spa al risarcimento dei danni subiti per effetto dell'abusivo recesso. Renault Italia spa si costituiva chiedendo il rigetto della domanda, con la condanna alle spese. Il tribunale, con sentenza in data 11.6.2001, rigettava la domanda compensando le spese. Ad eguale conclusione perveniva la Corte d'Appello che, con sentenza del 13.1.2005, rigettava gli appelli proposti dall'Associazione e dai concessionari, che condannava al pagamento delle spese. Riteneva, in particolare, la Corte di merito che la previsione del recesso ad nutum in favore della Renault Italia rendesse superfluo ogni controllo causale sull'esercizio di tale potere. Hanno proposto ricorso principale per cassazione affidato a cinque motivi illustrati da memoria i soggetti indicati in epigrafe. Resiste con controricorso la Renault Italia spa che ha, anche, proposto ricorso incidentale affidato ad un motivo. MOTIVI DELLA DECISIONE Preliminarmente, i ricorsi - principale ed incidentale - vanno riuniti ai sensi dell'art. 335 c.p.c.. Ricorso principale. Con il primo motivo i ricorrenti principali denunciano la violazione e falsa applicazione dell'art. 216 c.p.c. in relazione all'art. 158 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 4). Sostengono che la sentenza impugnata sia affetta da nullità per vizi relativi alla costituzione del giudice, vale a dire per "mancanza di collegialità nella decisione testimoniata dal fatto che la sentenza impugnata risulta estesa il 28 settembre 2004, ossia molto prima che fosse tenuta la camera di consiglio del 12 ottobre 2004". Il motivo non è fondato. L'apposizione in calce alla sentenza della data del 28 settembre 2004, invece di quella del 12 ottobre 2004 (data in cui si è tenuta la camera di consiglio) risulta frutto di un semplice errore materiale, posto che - come risulta dagli atti - nella data del 28 settembre 2004 la Corte di merito si era già riunita in camera di consiglio per l'esame dell'appello. Peraltro, l'errore materiale commesso è stato emendato attraverso il procedimento di correzione ex artt. 287 e 288 c.p.c., con ordinanza emessa in data 25.5.2005 - a seguito di scioglimento della riserva adottata all'udienza collegiale del 24.5.2005 - del seguente tenore " corregge la sentenza della Corte di Appello di Roma n. 136 depositata il 13 gennaio 2005 nel senso che dove è scritto, alla fine della sentenza e dopo la parola Roma, "28 settembre 2004" deve intendersi scritto "12 ottobre 2004", disponendo che la cancelleria effettui l'annotazione di rito". Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 12 La correzione così effettuata rende inammissibile la censura, posto che i ricorrenti non denunciano la correttezza del procedimento adottato, di correzione dell'errore materiale contenuto nella sentenza impugnata. Con il secondo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle clausole generali della buona fede, ed in particolare sulla pretesa insindacabilità degli atti di autonomia privata e della conseguente non applicabilità della figura dell'abuso del diritto all'esercizio del recesso ad nutum (art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 1175 e 1375 c.c.). Con il terzo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c.; contraddittorietà della motivazione sul punto (art. 360 c.p.c., n. 5). Con il quarto motivo denunciano la violazione e falsa applicazione delle disposizioni sull'agenzia ed errata valutazione della giurisprudenza tedesca in materia (art. 360 c.p.c., n. 3). Il secondo, terzo e quarto motivo, investendo profili che si presentano connessi in ordine alle questioni prospettate, vanno esaminati congiuntamente. Essi sono fondati, nei limiti di cui in motivazione, per le ragioni che seguono. Costituiscono principii generali del diritto delle obbligazioni quelli secondo cui la parti di un rapporto contrattuale debbono comportarsi secondo le regole della correttezza (art. 1175 c.c.) e che l'esecuzione dei contratti debba avvenire secondo buona fede (art. 1375 c.c.). In tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all'esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione ed, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase (Cass. 5.3.2009 n. 5348; Cass. 11.6.2008 n. 15476). Ne consegue che la clausola generale di buona fede e correttezza è operante, tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell'ambito del singolo rapporto obbligatorio (art. 1175 cod. civ.), quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all'esecuzione del contratto (art. 1375 cod. civ.). I principii di buona fede e correttezza, del resto, sono entrati, nel tessuto connettivo dell'ordinamento giuridico. L'obbligo di buona fede oggettiva o correttezza costituisce, infatti, un autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale, la cui costituzionalizzazione è ormai pacifica (v. in questo senso, fra le altre, Cass. 15.2.2007 n. 3462). Una volta collocato nel quadro dei valori introdotto dalla Carta costituzionale, poi, il principio deve essere inteso come una specificazione degli "inderogabili doveri di solidarietà sociale" imposti dall'art. 2 Cost., e la sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge. In questa prospettiva, si è pervenuti ad affermare che il criterio della buona fede costituisce strumento, per il giudice, atto a controllare, anche in senso modificativo od integrativo, lo statuto negoziale, in funzione di garanzia del giusto equilibrio degli opposti interessi. La Relazione ministeriale al codice civile, sul punto, così si esprimeva: (il principio di correttezza e buona fede) "richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore", operando, quindi, come un criterio di reciprocità. In sintesi, disporre di un potere non è condizione sufficiente di un suo legittimo esercizio se, nella situazione data, la patologia del rapporto può essere superata facendo ricorso a rimedi che incidono sugli interessi contrapposti in modo più proporzionato. In questa ottica la clausola generale della buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. è stata utilizzata, anche nell'ambito dei diritti di credito, per scongiurare, per es. gli abusi di posizione dominante. La buona fede, in sostanza, serve a mantenere il rapporto giuridico nei binari dell'equilibrio e della proporzione. Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 15 In questa prospettiva i due principii si integrano a vicenda, costituendo la buona fede un canone generale cui ancorare la condotta delle parti, anche di un rapporto privatistico e l'interpretazione dell'atto giuridico di autonomia privata e, prospettando l'abuso, la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per i quali essi sono conferiti. Qualora la finalità perseguita non sia quella consentita dall'ordinamento, si avrà abuso. In questo caso il superamento dei limiti interni o di alcuni limiti esterni del diritto ne determinerà il suo abusivo esercizio. Alla luce di tali principii e considerazioni svolte deve, ora, esaminarsi la sentenza, in questa sede, impugnata. La struttura argomentativa della sentenza si sviluppa secondo i seguenti passaggi logici: 1) il giudice non ha alcuna possibilità di controllo sull'atto di autonomia privata; "2) la previsione contrattuale del recesso ad nutum dal contratto non consente, quindi, da parte del giudice, il sindacato su tale atto, non essendo necessario alcun controllo causale circa l'esercizio del potere, perchè un tale potere rientra nella libertà di scelta dell'operatore economico in un libero mercato; 3) La Renault Italia non doveva tenere conto anche dell'interesse della controparte o di interessi diversi da quello che essa aveva alla risoluzione del rapporto"; 4) la insussistenza di un'ipotesi di recesso illegittimo comporta la non pertinenza del richiamo agli artt. 1175 e 1375 c.c.; 5) i principii di correttezza e buona fede non creano obbligazioni autonome, ma rilevano soltanto per verificare il puntuale adempimento di obblighi riconducibili a determinati rapporti; 6) Non sono presenti nel caso in esame i principi enucleati dalla giurisprudenza in tema di abuso del diritto; e ciò perchè "La sussistenza di un atto di abuso del diritto (speculare ai cosiddetti atti emulativi) postula il concorso di un elemento oggettivo, consistente nell'assenza di utilità per il titolare del diritto, e di un elemento soggettivo costituito dall'animus nocendi, ossia l'intenzione di nuocere o di recare molestia ad altri"; 7) "Il mercato, concepito quale luogo della libertà di iniziativa economica (garantita dalla Costituzione), presuppone l'esistenza di soggetti economici in grado di esercitare i diritti di libertà in questione e cioè soggetti effettivamente responsabili delle scelte d'impresa ad essi formalmente imputabili. La nozione di mercato libero presuppone che il gioco della concorrenza venga attuato da soggetti in grado di autodeterminarsi"; 8) Alla libertà di modificare l'assetto di vendita, da parte della Renault Italia spa, conseguiva che il recesso ad nutum rappresentava, per il titolare di tale facoltà, il mezzo più conveniente per realizzare tale fine: non sussiste, quindi, l'abuso"; 9) La impossibilità di ipotizzare "un potere del giudice di controllo diretto sugli atti di autonomia privata, in mancanza di un atto normativo che specifichi come attuare tale astratta tutela", produce, come effetto, quello della introduzione di "un controllo di opportunità e di ragionevolezza sull'esercizio del potere di recesso; al che consegue una valutazione politica, non giurisdizionale dell'atto"; 10) La impossibilità di procedere ad un giudizio di ragionevolezza in ambito privatistico e, particolarmente, "in ambito contrattuale in cui i valori di riferimento non sono unitari, ma sono addirittura contrapposti e la composizione del conflitto avviene proprio seguendo i parametri legali dell'incontro delle volontà su una causa eletta dall'ordinamento come meritevole di tutela" fa sì che "Solo allorchè ricorrono contrasti con norme imperative, può essere sanzionato l'esercizio di una facoltà, ma al di fuori di queste ipotesi tipiche, normativamente previste, residua la più ampia libertà della autonomia privata". Le affermazioni contenute nella sentenza impugnata non sono condivisibili sotto diversi profili. Punto di partenza dal quale conviene prendere le mosse è quello che non è compito del giudice valutare le scelte imprenditoriali delle parti in causa che siano soggetti economici, scelte che sono, ovviamente, al di fuori del sindacato giurisdizionale. Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 16 Diversamente, quando, nell'ambito dell'attività imprenditoriale, vengono posti in essere atti di autonomia privata che coinvolgono - ad es. nei contratti d'impresa - gli interessi, anche contrastanti, delle diverse parti contrattuali. In questo caso, nell'ipotesi in cui il rapporto evolva in chiave patologica e sia richiesto l'intervento del giudice, a quest'ultimo spetta di interpretare il contratto, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti. Ciò vuoi significare che l'atto di autonomia privata è, pur sempre, soggetto al controllo giurisdizionale. Gli strumenti di interpretazione del contratto sono rappresentati: il primo, dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate; con la conseguente preclusione del ricorso ad altri criteri interpretativi, quando la comune volontà delle parti emerga in modo certo ed immediato dalle espressioni adoperate, e sia talmente chiara da precludere la ricerca di una volontà diversa; con l'adozione eventuale degli altri criteri interpretativi, comunque, di natura sussidiaria. Ma il contratto e le clausole che lo compongono - ai sensi dell'art. 1366 c.c. - debbono essere interpretati anche secondo buona fede. Non soltanto. Il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve accompagnare il contratto nel suo svolgimento, dalla formazione all'esecuzione, ed, essendo espressione del dovere di solidarietà fondato sull'art. 2 Cost., impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire nell'ottica di un bilanciamento degli interessi vicendevoli, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di norme specifiche. La sua violazione, pertanto, costituisce di per sè inadempimento e può comportare l'obbligo di risarcire il danno che ne sia derivato (v. anche S.U. 15.11.2007 n. 23726; Cass. 22.1.2009 n. 1618; Cass. 6.6.2008 n. 21250; Cass. 27.10.2006 n. 23273; Cass. 7.6.2006 n. 13345; Cass. 11.1.2006 n. 264). Il criterio della buona fede costituisce, quindi, uno strumento, per il giudice, finalizzato al controllo - anche in senso modificativo o integrativo - dello statuto negoziale; e ciò quale garanzia di contemperamento degli opposti interessi (v. S.U. 15.11.2007 n. 23726 ed i richiami ivi contenuti). Il giudice, quindi, nell'interpretazione secondo buona fede del contratto, deve operare nell'ottica dell'equilibrio fra i detti interessi. Ed è su questa base che la Corte di merito avrebbe dovuto valutare ed interpretare le clausole del contratto - in particolare quella che prevedeva il recesso ad nutum - anche al fine di riconoscere l'eventuale diritto al risarcimento del danno per l'esercizio di tale facoltà in modo non conforme alla correttezza ed alla buona fede. Sotto questo profilo, pertanto, dovrà essere riesaminato il materiale probatorio acquisito. In sostanza la Corte di merito - di fronte ad un recesso non qualificato - non poteva esimersi dal valutare le circostanze allegate dai destinatari dell'atto di recesso, quali impeditive del suo esercizio, o quali fondanti un diritto al risarcimento per il suo abusivo esercizio. Anche con riferimento all'abuso del diritto, le indicazioni fornite dalla Corte di merito non possono essere seguite. Il controllo del giudice sul carattere abusivo degli atti di autonomia privata è stato pienamente riconosciuto dalla giurisprudenza consolidata di questa Corte di legittimità, cui si è fatto cenno. La conseguenza è l'irrilevanza, sotto questo aspetto, delle considerazioni svolte in tema di libertà economica e di libero mercato. Nessun dubbio che le scelte decisionali in materia economica non siano oggetto di sindacato giurisdizionale, rientrando nelle prerogative dell'imprenditore operante nel mercato, che si assume il rischio economico delle scelte effettuate. Ma, in questo contesto, l'esercizio del potere contrattuale riconosciutogli dall'autonomia privata, deve essere posto in essere nel rispetto di determinati canoni generali - quali quello Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 17 appunto della buona fede oggettiva, della lealtà dei comportamenti e delle correttezza - alla luce dei quali debbono essere interpretati gli stessi atti di autonomia contrattuale. Ed il fine da perseguire è quello di evitare che il diritto soggettivo, che spetta a qualunque consociato che ne sia portatore, possa sconfinare nell'arbitrio. Da ciò il rilievo dell'abuso nell'esercizio del proprio diritto. La libertà di scelta economica dell'imprenditore, pertanto, in sè e per sè, non è minimamente scalfita; ciò che è censurato è l'abuso, ma non di tale scelta, sebbene dell'atto di autonomia contrattuale che, in virtù di tale scelta, è stato posto in essere. L'irrilevanza, per il diritto, delle ragioni che sono a monte della conclusione ed esecuzione di un determinato rapporto negoziale, non esclude - ma anzi prevede - un controllo da parte del giudice, al fine di valutare se l'esercizio della facoltà riconosciuta all'autonomia contrattuale abbia operato in chiave elusiva dei principii espressione dei canoni generali della buona fede, della lealtà e della correttezza. Di qui il rilievo riconosciuto dall'ordinamento - al fine di evitare un abusivo esercizio del diritto - ai canoni generali di interpretazione contrattuale. Ed in questa ottica, il controllo e l'interpretazione dell'atto di autonomia privata dovrà essere condotto tenendo presenti le posizioni delle parti, al fine di valutare se posizioni di supremazia di una di esse e di eventuale dipendenza, anche economica, dell'altra siano stati forieri di comportamenti abusivi, posti in essere per raggiungere i fini che la parte si è prefissata. Per questa ragione il giudice, nel controllare ed interpretare l'atto di autonomia privata, deve operare ed interpretare l'atto anche in funzione del contemperamento degli opposti interessi delle parti contrattuali. Erra, pertanto, il giudice di merito quando afferma che vi è un'impossibilità di procedere ad un giudizio di ragionevolezza in ambito contrattuale, escludendo che lo stesso possa controllare l'esercizio del potere di recesso; ritenendo che, diversamente si tratterebbe di una valutazione politica. Il problema non è politico, ma squisitamente giuridico ed investe i rimedi contro l'abuso dell'autonomia privata e dei rapporti di forza sul mercato, problemi questi che sono oggetto di attenzione da parte di tutti gli ordinamenti contemporanei, a causa dell'incremento delle situazioni di disparità di forze fra gli operatori economici. Al giudicante è richiesta, attraverso il controllo e l'interpretazione dell'atto di recesso - al fine di affermarne od escluderne il suo esercizio abusivo, condotto alla luce dei principii più volte enunciati - proprio ed esclusivamente una valutazione giuridica. Le considerazioni tutte effettuate consentono, quindi, di concludere che la Corte di merito abbia errato quando ha adottato le seguenti proposizioni argomentative: 1) che la sussistenza di un atto di abuso del diritto sia soltanto speculare agli atti emulativi e postuli il concorso di un elemento oggettivo, consistente nell'assenza di utilità per il titolare del diritto, e di un elemento soggettivo costituito dall'animus nocendi; 2) che, stabilito che la Renault Italia era libera di modificare l'assetto di vendita, il recesso ad nutum era il mezzo più conveniente per realizzare tale fine; al che conseguirebbe l'insussistenza dell'abuso; 3) che, una volta che l'ordinamento abbia apprestato un dato istituto, spetta all'autonomia delle parti utilizzarlo o meno; 4) che non sussista la possibilità di utilizzare un giudizio di ragionevolezza in ambito privatistico - in particolare contrattuale - in cui i valori di riferimento non solo non sono unitari, ma sono addirittura contrapposti; 5) che nessuna valutazione delle posizioni contrattuali delle parti - soggetti deboli e soggetti economicamente "forti" -, anche con riferimento alle condizioni tutte oggetto della previsione contrattuale, rientri nella sfera di valutazione complessiva del Giudicante. La Corte di merito ha affermato che l'abuso fosse configurabile in termini di volontà di nuocere, ovvero in termini di "neutralità"; nel senso cioè che, una volta che l'ordinamento aveva previsto il mezzo (diritto di recesso) per conseguire quel dato fine (scioglimento dal contratto di concessione di vendita), erano indifferenti le modalità del suo concreto esercizio. Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 20 Sentenza n. 10490 dell'8 maggio 2006 (Sezione Terza Civile, Presidente R. Preden, Relatore G. Travaglino) Suprema Corte di Cassazione Sezione III Civile Sentenza 8 maggio 2006, n. 10490 (Presidente R. Preden, Relatore G. Travaglino) Svolgimento del processo Con atto di citazione notificato il 31 marzo 1994 N.U. evocò in giudizio dinanzi al tribunale di Milano la S.p.a. Gerolimich in liquidazione, esponendo: - di aver stipulato con la convenuta, in data 20.2.1989, nella qualità di amministratore della s.a.s. "Business Gain", un primo contratto di consulenza (avente ad oggetto la valutazione di progetti industriali e di acquisizione di azienda), cui era aveva fatto seguito una seconda convenzione negoziale, sempre conclusa con la Gerolomich in data 3.7.1992, con la quale gli veniva riconosciuto, per dette prestazioni, un compenso annuo di L. 240.000.000; - di essere stato inserito, nell'ambito di tale incarico, tra i componenti degli organi di amministrazione di alcune società facenti capo alla Gerolomich; - di avere emesso, il 31.10.1992, una fattura per l'importo di L. 140.000.000 relativo al periodo aprile 1992 - febbraio 1993; - di non aver ricevuto il saldo delle proprie competenze da parte della convenuta che, con lettera del 21.1.1993, aveva invece contestato l'esecuzione delle prestazioni, mentre egli si era reso nelle more cessionario dalla Business Gain dei crediti sopra indicati. Nel costituirsi in giudizio, la società convenuta eccepì, tra l'altro, che tutte le attività svolte dal N., sì come descritte nell'atto di citazione, erano da ritenersi tout court assorbite nei compiti a lui spettanti in relazione alle cariche ricoperte nei consigli di amministrazione delle società a lei collegate, rilevando altresì che la "Business Gain" non aveva mai svolto alcuna reale attività, essendo viceversa un mero schermo societario fittiziamente creato per eludere norme fiscali e contributive. Il tribunale, ritenuto che il contratto fosse stato stipulato, in realtà, direttamente tra la società convenuta ed il N., e rilevato che nessuna oggettiva diversità era dato rinvenire tra le prestazioni rese da quest'ultimo in esecuzione del predetto contratto e i compiti da lui svolti nella veste di Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 21 componente del consiglio di amministrazione della Gerolomich (identici essendo l'oggetto sociale di quest'ultima e l'oggetto del contratto di consulenza stipulato con il N.), rigettò la domanda, ritenendo nullo il duplice negozio di consulenza per difetto di causa. Il gravame proposto dal N. avverso tale pronuncia venne rigettato dalla Corte di appello di Milano, che, per quanto ancora di rilievo in sede di giudizio di legittimità, ebbe ad osservare: - che, pur vera la affermazione dell'appellante secondo cui i due contratti stipulati con la Gerolomich costituivano "l'uno la prosecuzione dell'altro", elementi fattuali inconfutabili (tra i quali, l'accettazione della proposta contrattuale da parte del N. spedita ad un indirizzo diverso dalla sede sociale della Business Gain e il tenore letterale della proposta stessa, ove il N. in prima persona scriveva: "per la collaborazione ... mi riconoscerete un compenso ... comprensivo delle spese da me sostenute") rendevano evidente come proprio l'appellante fosse il soggetto che, direttamente e personalmente, assumeva le obbligazioni derivanti dal contratto; - che, comunque, nel corso del giudizio, non era mai stata contestata l'osservazione, svolta dal tribunale, secondo cui le prestazioni oggetto del contratto erano state opera esclusiva del N. e non di altri soggetti della s.a.s. Business Gain (società che, d'altronde, risultava costituita soltanto da membri della famiglia di, quest'ultimo), di talchè, al di là della formale intestazione del contratto del 3.7.1992, l'effettivo contraente era da considerarsi proprio N.U.; - che, per le ragioni esposte dallo stesso N., il secondo contratto costituiva la prosecuzione del precedente accordo negoziale stipulato il 20.2.1989, accordo da ritenersi a sua volta concluso personalmente dall'appellante e, di conseguenza, soggettivamente simulato; - che le attività di prestazione contemplate nei due contratti non apparivano sostanzialmente diverse da quelle svolte dal N. nella qualità di amministratore presso le società del gruppo Gerolmich, sicchè, dalla identità di oggetto tra attività di amministratore ed attività di consulenza, discendeva la nullità del contratto "per mancanza di giustificazione concreta". Per la cassazione della sentenza della corte d'appello milanese ricorre oggi dinanzi a questa Corte N.U.. Resiste con controricorso la Gerolomich Le parti hanno entrambe depositato tempestive memorie. Motivi della decisione Il ricorso, articolato in sei motivi di doglianza, è infondato e va, pertanto, rigettato. Con il primo motivo, si lamenta violazione ed errata applicazione dell'art. 102 c.p.c. - mancata integrazione del contraddittorio nella pronuncia di simulazione soggettiva. Il motivo è destituito di giuridico fondamento. Difatti, secondo la prevalente (anche se non unanime) giurisprudenza di questa Corte di legittimità, la struttura litisconsortile del procedimento di accertamento della fattispecie della simulazione (assoluta o relativa) è a dirsi necessaria soltanto nelle ipotesi in cui detto accertamento abbia a realizzarsi in via principale, e non anche (come nella specie) incidenter tantum, nell'ambito di altro e diverso procedimento (nella specie, di accertamento della nullità di un contratto per impossibilità giuridica dell'oggetto ovvero, più correttamente, per difetto di giustificazione causale concreta dell'atto): in tali sensi, si sono, difatti, espresse le sentenze n. 3727 del 2003, 10841 del 2000, 6214 Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 22 del 1998 di questa Corte, ed a questa giurisprudenza il collegio ritiene di aderire. Con il secondo motivo è lamentata la violazione ed errata applicazione degli artt. 1417, 2122, 2729 c.c., sulla prova della simulazione. Il motivo, prima ancora che privo di pregio giuridico nel merito (esistendo in atti, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, la prova documentale della simulazione relativa soggettiva, costituita dalla dichiarazione unilaterale del N., di cui è cenno in narrativa, che, al di là della sua natura e funzione tipica di elemento della fattispecie contrattuale conclusasi con la Gerolimich, integra altresì gli estremi del negozio unilaterale di accertamento implicito della consumata interposizione fittizia) deve ritenersi inammissibile in rito. La (astratta) possibilità di un suo accoglimento, difatti, si infrange in limine contro il consolidato principio, a più riprese affermato da questa Corte, della autosufficienza del ricorso, che deve, come noto, contenere tutti gli elementi utili a valutare il contenuto e la fondatezza dei rilievi mossi alla pronuncia di merito impugnata: ebbene, a fronte della specifica affermazione che si legge in sentenza (folio 6), secondo la quale "in causa non è stata poi contestata l'affermazione fatta dal tribunale che le prestazioni oggetto del contratto siano state svolte esclusivamente dall'appellante e non da altri soggetti della "Business Gain", sarebbe stato preciso onere del ricorrente riprodurre, in parte qua, gli atti difensivi dei precedenti gradi di giudizio funzionali alla dimostrazione che tale questione era, viceversa, stata puntualmente e tempestivamente sollevata in quella sede. La totale assenza, in seno all'odierno ricorso, del benchè minimo cenno a tali atti processuali ha, come inevitabile conseguenza, la declaratoria di inammissibilità del motivo. Con il terzo motivo, il ricorrente si duole della violazione ed errata applicazione degli artt. 1312, 2331, 2359 c.c. - carenza di motivazione sull'identità fra la consulenza a Gerolimich e le cariche nelle società del gruppo. Con il quarto motivo, si lamenta, ancora, il vizio di carente e contraddittoria motivazione circa la gratuità dell'incarico all'ing. N.. I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente, attesane la intrinseca connessione, sono infondati. Essi ripropongono, sotto le vesti del difetto di motivazione, questioni di fatto e di interpretazione contrattuale istituzionalmente devolute, in via esclusiva, al giudice del merito. Ma il procedimento ermeneutico adottato dai giudici milanesi con riferimento al contenuto del complesso tessuto negoziale per il quale è processo, alla luce di una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice, si sottrae a qualsivoglia sindacato di legittimità che, come noto, non può investire il risultato interpretativo in sè, che appartiene all'ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma esclusivamente il rispetto dei canoni legali di ermeneutica e la coerenza e logicità della motivazione addotta (così, tra le tante, di recente, Cass. n. 2074/2002), canoni, nella specie, ampiamente rispettati: l'indagine sul contenuto, la portata, il significato delle convenzioni negoziale intercorse tra le parti, risulta, difatti, perfettamente conforme a diritto, e la critica della ricostruzione della volontà negoziale sì come operata, nella specie, dal giudice di merito si traduce, in realtà, nella mera prospettazione di una diversa (e più gradita) valuta-zione degli stessi elementi di fatto da quegli esaminati. Con il quinto motivo viene contestato il vizio di violazione ed errata applicazione dell'art. 1418 c.c.. per essere stata predicata la fattispecie della nullità "sopravvenuta" - in alternativa, la violazione e Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 25 contraenti adottando quella determinata, specifica (a suo modo unica) convenzione negoziale. Così rottamente intesa la nozione di causa del negozio, appare allora evidente come, nel caso che ci occupa, sia proprio il difetto di causa a viziare irrimediabilmente di nullità il contratto di consulenza, intesa per causa lo scambio di quella ben identificata attività consulenziale, già simmetricamente e specularmene svolta in adempimento dei propri doveri di amministratore, con il compenso preteso dal N.. Con il sesto motivo, infine, il ricorrente si duole infine di una pretesa carenza e contraddittorietà di motivazione in punto di negazione del corrispettivo consulenziale anche per 11 periodo non coincidente con la carica amministrativa. Il motivo è del tutto inammissibile, ponendo, da un canto, questioni affatto nuove rispetto a quelle affrontate e decise dalla corte meneghina in sentenza, difettando, dall'altro, del già sopra ricordato requisito della autosufficienza, poichè manca del tutto la pur necessaria trascrizione, in parte qua, dei passi salienti e rilevanti dei relativi atti scritti. Il ricorso è, pertanto, rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo che segue. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di Cassazione, che si liquidano in complessivi Euro 7.100,00 di cui 100,00 per spese generali. Così deciso in Roma, il 25 gennaio 2006. Depositato in Cancelleria il 8 maggio 2006. Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 26 SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE III CIVILE Sentenza 24 luglio 2007, n. 16315 Svolgimento del processo Con atto di citazione notificato il 24/10/1998 la società X. s.r.l. proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo nei suoi confronti emesso, su richiesta della società Y. s.a.s., emesso dal Giudice di Pace di Pescara ed avente ad oggetto il pagamento dell'indennità convenzionalmente pattuita per il recesso dal contratto di viaggio "tutto compreso" per due persone nell'isola di Cuba, eccependo che la disdetta della prenotazione da parte del proprio cliente era stata determinata da forza maggiore, per essere in atto in quel periodo nell'isola di Cuba un'epidemia di "dengue" emorragico. In via subordinata chiedeva che venisse disposta la riduzione del quantum dovuto. Chiamato in causa dalla X. s.r.l., in garanzia, anche il sig. V.G., per conto del quale essa aveva "prenotato" il pacchetto turistico de quo, che aderiva alle difese svolte dalla società chiamante precisando di avere con la medesima consensualmente risolto il contratto per il viaggio a Cuba "sostituendolo" con altro da svolgersi in Messico, con sentenza del 9/12/1999 l'adito giudice accoglieva l'opposizione, e per l'effetto revocava l'emesso decreto ingiuntivo. Il gravame interposto dalla Y. s.a.s. nella resistenza della X. e del V. veniva successivamente rigettato dal Tribunale di Pescara, che riteneva peraltro nel caso ricorrere non già un'ipotesi di sopravvenuta impossibilità della prestazione ex art. 1463 c.c., come ritenuto dal giudice di prime cure, bensì di impossibilità sopravvenuta della Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 27 prestazione meramente parziale, ai sensi dell'art. 1464 c.c., legittimante la scelta tra riduzione del prezzo e recesso dal contratto. Avverso la suddetta sentenza del Giudice dell'appello la società Y. s.a.s. propone ora ricorso per Cassazione, affidato a 2 motivi, illustrati da memoria. Resiste con controricorso la società X. s.r.l.. Motivi della decisione Con il 1^ motivo la società ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 1256, 1463 e 1464 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia, in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Si duole essere stata nel caso erroneamente ritenuta integrata un'ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione, tale viceversa non essendo la "prestazione dedotta in contratto" (nella specie il viaggio ed il soggiorno nella destinazione pattuita), in difetto di "prova alcuna dell'esistenza di provvedimenti di interdizione o di restrizione ai flussi turistici per la destinazione prescelta, ovvero dell'oggettiva impossibilità di raggiungere e soggiornare nella città di Santiago de Cuba". Lamenta che si sono a tale stregua privilegiate piuttosto le "finalità ulteriori" in base alle quali l'acquirente del "pacchetto turistico" si è nel caso indotto ad esercitare il "recesso" dal contratto, indebitamente assegnandosi rilievo a mere "soggettive valutazioni circa l'opportunità e la convenienza di effettuare il viaggio (non volendo egli esporsi neppure a rischi modesti)", anzichè all'"effettiva impossibilità di fruire dei servizi offerti dall'organizzazione in conformità del contratto". Si duole che non si sia tenuto conto come già "dalla comunicazione in data 17.7.1997 dell'Ambasciata di Cuba a Roma (doc. 2 del fascicolo di primo grado)", e quindi in epoca precedente all'esercizio del recesso", la situazione sanitaria risultava essere "totalmente sotto controllo, e ricondotta in condizioni di normalità", essendosi altresì trascurato di considerare che "il dengue emorragico è malattia endemica nell'isola di Cuba, mai debellata. Non a caso il Ministero degli Esteri italiano non ha mai diramato alcuna Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 30 assicurare che quella vacanza sarebbe stata poi fruita in condizioni di ordinaria tranquillità, secondo i canoni di valutazione propri di un turista medio". A tale stregua, attesa l'accertata sussistenza di una epidemia di dengue emorragico nell'isola di Cuba, nel confermare "in diritto" la "decisione del Giudice di Pace, che aveva "ritenuto (art. 1463 c.c.) essere divenuta impossibile la complessiva prestazione cui era tenuta la X.", traendone "la duplice conseguenza" che la medesima "doveva essere ritenuta liberata da quella prestazione e ..., al tempo stesso, non poteva pretendere alcuna controprestazione dalla Aternum", il Giudice dell'appello ha considerato come invero "più proprio" il "riferimento all'art. 1464 c.c. (in luogo dell'art. 1463 c.c.)", atteso che la prestazione della X. era divenuta solo parzialmente impossibile, nel senso che quella poteva, sì, assicurare lo svolgimento del soggiorno, ma non anche adeguati standard di sicurezza sanitaria: in questo caso, quindi, l'altro contraente aveva facoltà di scegliere tra la riduzione del prezzo ed il recesso dal contratto (così come è poi in concreto accaduto), se non avesse avuto interesse a quella prestazione monca". Ha al riguardo sottolineato il tribunale che "il V. si recava a Cuba per un viaggio di piacere", sicchè l'accertata sussistenza di un "focolaio endemico non ... ancora completamente debellato" non consentiva invero al predetto di poter compiutamente godere della prestazione dovutagli, residuando "il pericolo di contrarre la malattia, specialmente in considerazione del fatto che essa, propagandosi con la puntura d'insetti, da un canto non consente alcuna efficace e tranquillizzante forma di difesa e, dall'altro, può in breve tempo propagarsi anche in zone che erano rimaste fino a quel momento immuni". A tale stregua, il Giudice dell'appello ha ritenuto in effetti giustificata la "scelta" del medesimo di "non volersi esporre neppure ad un rischio di modesta entità". Orbene, va anzitutto posto in rilievo come risulti corretta la qualificazione operata dal giudice dell'appello della vicenda posta nella specie in essere dalle parti in termini di contratto viaggio vacanza "tutto compreso" (cd. "pacchetto turistico" o package) previsto dal D.Lgs. n. 111 del 1995, ed ora trasfuso nel D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 82 e segg. (cd. Codice del Consumo). Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 31 Ipotesi che va invero distinta dal contratto di organizzazione (art. 5 e segg.) o di intermediazione (art. 17 e segg.) di viaggio (CCV) di cui alla Conv. Bruxelles del 23/4/1970 (resa esecutiva con L. 27 dicembre 1977, n. 1084), in base al quale un operatore turistico professionale si obbliga verso corrispettivo a procurare uno o più servizi di base (trasporto, albergo, ecc.) per l'effettuazione di un viaggio o di un soggiorno. Rispetto a quest'ultimo, in cui le prestazioni ed i servizi si profilano come separati, e vengono in rilievo diversi tipi di rapporto, prevalendo gli aspetti dell'organizzazione e dell'intermediazione (cfr. Cass., 17/7/2001, n. 9691; Cass., 6/11/1996, n. 9643), con applicazione in particolare della disciplina del trasporto (v. Cass., 6/11/1996, n. 9643; Cass., 26/6/1964, n. 1706) ovvero - in difetto di diretta assunzione da parte dell'organizzatore dell'obbligo di trasporto dei clienti - del mandato senza rappresentanza o dell'appalto di servizi (v. Cass., 23/4/1997, n. 3504; Cass., 6/1/1982, n. 7; Cass., 28/5/1977, n. 2202), ed al di là del diverso ambito di applicazione derivante dai (differenti) limiti territoriali, il contratto di viaggio vacanza "tutto compreso" (o di package) si caratterizza sia sotto il profilo soggettivo che per l'oggetto e la finalità. Il "pacchetto turistico", che può essere dall'organizzatore alienato direttamente o tramite un venditore (D.Lgs. n. 111 del 1995, art. 3,comma 2, ora trasfuso nel D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 83, comma 2, - Codice del consumo -), risulta infatti dalla prefissata combinazione di almeno due degli elementi costituiti dal trasporto, dall'alloggio e da servizi turistici agli stessi non accessori (itinerario, visite, escursioni con accompagnatori e guide turistiche, ecc.) costituenti parte significativa del "pacchetto turistico", con durata superiore alle 24 ore ovvero estendentesi per un periodo di tempo comportante almeno una notte (D.Lgs. n. 111 del 1995, art. 2 e segg., ora trasfuso nell'art. 84 del Codice del Consumo). La pluralità di attività e servizi che compendiano la prestazione valgono in particolare a connotare la finalità che la stessa è volta a realizzare. Il trasporto o il soggiorno o il servizio alberghiero assumono infatti al riguardo rilievo non già singolarmente e separatamente considerati bensì nella loro unitarietà funzionale, non potendo al riguardo prescindersi dalla considerazione dei medesimi alla stregua della "finalità turistica" che la prestazione complessa di cui si sostanziano appunto quali elementi costitutivi è funzionalmente volta a soddisfare. Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 32 I plurimi aspetti e profili in cui viene a compendiarsi la complessa prestazione ideata ed organizzata dal cd. tour operator sono infatti funzionalizzati al soddisfacimento dei profili - da apprezzarsi in condizioni di normalità avuto riguardo alle circostanze concrete del caso - di relax, svago, ricreativi, ludici, culturali, escursionistici, ecc. in cui si sostanzia la "finalità turistica", o lo "scopo di piacere" assicurato dalla vacanza, che il turista- consumatore in particolare persegue nell'indursi alla stipulazione del contratto di viaggio vacanza "tutto compreso". Diversamente da quanto sostenuto dall'odierna ricorrente, la suddetta "finalità turistica" (o "scopo di piacere") non costituisce pertanto un irrilevante motivo del contratto de quo. La "finalità turistica" non si sostanzia infatti negli interessi che rimangono nella sfera volitiva interna dell'acquirente il package costituendo l'impulso psichico che lo spingono alla stipulazione del contratto, ma viene ad (anche tacitamente) obiettivarsi in tale tipo di contratto, divenendo interesse che lo stesso è funzionalmente volto a soddisfare, pertanto connotandone la causa concreta (cfr. Cass., 25/5/2007, n. 12235; Cass., 8/5/2006, n. 10490). Causa concreta che, da un canto, vale a qualificare il contratto, determinando l'essenzialità di tutte le attività ed i servizi strumentali alla realizzazione del preminente scopo vacanziero, e cioè il benessere psico-fisico che il pieno godimento della vacanza come occasione di svago e di riposo è volto a realizzare. Da altro canto, assume rilievo quale criterio di adeguamento del contratto. La causa concreta viene a rivestire, come non si è mancato di osservare in dottrina, decisiva rilevanza altresì in ordine alla sorte della vicenda contrattuale, in ragione di eventi sopravvenuti che si ripercuotono sullo svolgimento del rapporto, quali ad es. l'impossibilità o l'aggravio della prestazione, l'inadempimento, ecc.. Eventi negativamente incidenti sull'interesse creditorio (nel caso, turistico) sino a farlo venire del tutto meno laddove - in base a criteri di normalità avuto riguardo alle circostanze concrete del caso - essi depongano per l'impossibilità della relativa realizzazione. In tal caso, il venir meno dell'interesse creditorio determina invero l'estinzione del rapporto obbligatorio, in ragione del sopravvenuto difetto dell'elemento funzionale (art. 1174 c.c.). Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 35 normativamente non specificamente prevista, costituisce - analogamente all'impossibilità di esecuzione della prestazione - (autonoma) causa di estinzione dell'obbligazione. Nella vicenda che ne occupa, secondo quanto accertato dai Giudici di merito l'epidemia di dengue emorragico in atto nell'isola di Cuba ha invero indubbiamente determinato nell'acquirente del "pacchetto turistico" tutto compreso de quo il venir meno dell'interesse pratico che la relativa complessa prestazione era, nella sua unitaria considerazione, nel caso funzionalmente volta a soddisfare. Premesso che (anche) l'impossibilità della esecuzione della prestazione complessa del contratto di viaggio vacanza "tutto compreso" o package è da valutarsi avuto riguardo allo "scopo turistico" che il medesimo è funzionalizzato a soddisfare, va sottolineato come nell'impugnata sentenza risulti in effetti posto in rilievo che il contratto de quo "si sostanziava non nella semplice messa a disposizione di un pacchetto turistico ma nella necessità di assicurare che quella vacanza sarebbe stata poi fruita in condizioni di ordinaria tranquillità, secondo i canoni di valutazione propri di un turista medio". Il Giudice dell'appello, nell'escludere la ricorrenza nel caso dell'ipotesi di sopravvenuta impossibilità di esecuzione della prestazione ai sensi dell'art. 1463 c.c., viceversa ravvisata dal Giudice di prime cure, ha ritenuto nella specie configurabile un'ipotesi di impossibilità parziale ex art. 1464 c.c., della prestazione, in presenza di prestazione ravvisata effettuabile pur se "monca", stante l'accertata mancanza degli "adeguati standard di sicurezza sanitaria". Orbene, anche la parziale impossibilità sopravvenuta della prestazione di cui all'art. 1464 c.c., appare invero nel caso non correttamente evocata. L'epidemia di dengue emorragico costituisce infatti evento determinante non già il deterioramento o la riduzione della prestazione (v. Cass., 17/7/1987, n. 6299) bensì il venir meno del normale standard di sicurezza sanitaria del luogo di esecuzione della prestazione turistica. Nella situazione nel caso determinatasi, certamente non deponente per la normalità delle condizioni igienico-sanitarie dell'Isola di Cuba, l'esecuzione della prestazione turistica è venuta a risultare infatti comunque inidonea al soddisfacimento dell'interesse del V. al godimento della vacanza "tutto compreso" nei suoi molteplici aspetti di relax, svago, Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 36 culturali, ecc., pienamente godibili solamente in presenza delle imprescindibili condizioni di sicurezza sanitaria, secondo i normali standard del luogo di destinazione prescelto, come dai Giudici del merito correttamente posto in rilievo nel sottolineare che l'accertata sussistenza di "focolaio endemico non ... ancora completamente debellato" non rispondeva alla "necessità di assicurare che quella vacanza sarebbe stata poi fruita in condizioni di ordinaria tranquillità, secondo i canoni di valutazione propri di un turista medio". Tale mancanza ha nella specie inciso, in termini di relativo venir meno, sull'interesse creditorio del suindicato acquirente del "pacchetto turistico", con conseguente sopravvenuta irrealizzabilità della causa concreta del contratto de quo dal medesimo stipulato. Alla stregua di quanto sopra esposto va allora affermato che è piuttosto la sopravvenuta impossibilità (non ascrivibile alle parti) di utilizzazione della prestazione in argomento da parte del V. a venire nel caso propriamente in rilievo. Nell'adeguatamente valorizzare l'interesse creditorio e la causa concreta del contratto di package anche sotto il profilo della sorte del rapporto obbligatorio e della vicenda contrattuale, tale figura non privilegia invero la "impossibilità del raggiungimento delle soggettive finalità ulteriori del creditore", e pertanto i motivi, attribuendo decisivo rilievo al suo "sopravvenuto sgradimento" per "la destinazione prescelta per il viaggio", ma consente di valorizzare gli specifici ed essenziali interessi perseguiti mediante la stipulazione di tale tipo di contratto, che ne integrano la causa concreta. Inconfigurabili soluzioni estreme come quella prevista all'art. 1463 c.c., la figura della sopravvenuta impossibilità di utilizzazione della prestazione si rivela istituto dotato di flessibilità, là dove consente di pervenire, nel coerente contemperamento delle diverse esigenze, a soluzioni differenti in presenza di situazioni diverse, senza che le parti incorrano in responsabilità. Lo "scopo turistico" consente infatti di spiegare come la relativa persistenza giustifichi l'esecuzione del contratto in favore del turista che intenda usufruirne, anche a costo di correre il rischio di contrarre il morbo, senza esporre il tour operator alle conseguenze dell'inadempimento in cui incorrerebbe laddove intendesse non darvi più attuazione. E al Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 37 contempo permette al turista che come nella specie quel rischio non voglia viceversa correre di non avvalersi della prestazione senza essere comunque tenuto alla corresponsione del corrispettivo. Emerge con tutta evidenza a tale stregua come, quand'anche obiettivamente eseguibili il trasporto ed il soggiorno nella loro autonoma e separata considerazione, la complessa prestazione del contratto di viaggio vacanza "tutto compreso" in questione risulta nel caso divenuta per il V. inutilizzabile, stante la non disponibilità del medesimo ad usufruirne anche a rischio della contrazione del morbo. Rischio che, diversamente da quanto sembra invero in qualche modo adombrare l'odierno ricorrente laddove si duole che "il recesso del viaggiatore era stato dettato esclusivamente da sue soggettive valutazioni circa l'opportunità e la convenienza di effettuare il viaggio (non volendo egli esporsi neppure a rischi modesti...."), certamente al medesimo non può invero, quand'anche - in ipotesi - minimo, "imporsi" di correre. Essendo la prestazione de qua divenuta inidonea a soddisfare l'interesse creditorio, l'estinzione dello stipulato contratto in argomento per irrealizzabilità della causa concreta comporta, va infine sottolineato, l'esonero delle parti dalle rispettive obbligazioni. Il debitore non è pertanto più tenuto ad eseguirla, ed il creditore non ha l'onere di accettarla. Non vi è pertanto luogo nel caso alla corresponsione dell'indennità per il recesso di cui alla evocata disciplina in tema di contratto di viaggio (C.C.V.). Va, d'altro canto, posto al riguardo in rilievo che il principio di buona fede oggettiva o correttezza (quale generale principio di solidarietà sociale che trova applicazione a prescindere alla sussistenza di specifici obblighi contrattuali, imponendo al soggetto di mantenere nei rapporti della vita di relazione un comportamento leale, specificantesi in obblighi di informazione e di avviso, nonchè volto alla salvaguardia dell'utilità altrui nei limiti dell'apprezzabile sacrificio, dalla cui violazione conseguono profili di responsabilità in ordine ai falsi affidamenti anche solo colposamente ingenerati nei terzi) impone invero al creditore di avvisare il debitore dell'inutilità della prestazione, essendo in difetto tenuto al risarcimento dei danni (cfr. Cass., 27/10/2006, n. 23273; Cass., 20/2/2006, n. 3651). Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 40 G.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GUIDO D'AREZZO 32, presso lo studio dell'avvocato CAVALIERE Alberto, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati FRANCESCO DENOZZA, VITTORIO ALLAVENA, giusta procura speciale in atti; - ricorrente - contro SAN PAOLO IMI S.P.A., in persona dell'Amministratore delegato pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PUCCINI 10, presso lo studio dell'avvocato FERRI Giancarlo, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato GINO CAVALLI, giusta delega in calce al controricorso; - controricorrente - avverso la sentenza n. 1477/01 della Corte d'Appello di TORINO, depositata il 10/11/01; udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 23/10/07 dal Consigliere Dott. Renato RORDORF; uditi gli avvocati Francesco DENOZZA, Gino CAVALLI; udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. NARDI Vincenzo, che ha concluso per la risoluzione della questione nel senso che l'inosservanza degli obblighi informativi stabiliti dalla L. n.1 del 1991, art. 6, non è causa di nullità dei contratti di compravendita di valori mobiliari. Fatto SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Il 21 agosto 1995 il presidente del Tribunale di Torino, accogliendo un ricorso proposto dall'Istituto Bancario San Paolo (cui è poi succeduta la San Paolo IMI s.p.a., e che in prosieguo sarà comunque indicato solo come San Paolo), ingiunse con decreto al Sig. G.L. di pagare all'istituto ricorrente la somma di L. 427.168.304, costituente il saldo debitorio di un conto corrente al quale accedeva una linea di credito per operazioni in valuta e per operazioni su titoli derivati. L'ingiunto propose opposizione ed, oltre a sollevare contestazioni sulla ritualità del procedimento monitorio, sull'addebito della commissione di massimo scoperto, sulla decorrenza e sulla misura degli interessi convenzionali applicati, eccepì che ai crediti della banca derivanti dall'esecuzione di contratti in questione non competeva azione per il pagamento, trattandosi di negozi assimilabili al gioco o alla scommessa e perciò rientranti nella previsione dell'art. 1933 c.c.. In corso di causa sostenne, poi, che il passivo accumulato sul conto era frutto di operazioni finanziarie nel compimento delle quali l'istituto di credito era venuto meno ai doveri impostigli dall'art. 6 dell'allora vigente L. n. 1 del 1991, perchè aveva suggerito investimenti estremamente rischiosi senza adeguata informazione per il cliente ed in eccesso rispetto alle disponibilità finanziarie del medesimo e perchè aveva agito in conflitto d'interessi con il cliente medesimo. Eccepì quindi la nullità dei Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 41 contratti stipulati con il San Paolo e chiese la condanna in proprio favore di detto istituto al risarcimento dei danni. L'opposizione fu accolta dal tribunale, con conseguente revoca del decreto ingiuntivo, solo per i profili attinenti alla commissione di massimo scoperto ed alla decorrenza degli interessi. Le ulteriori ragioni addotte dall'opponente non furono invece ritenute fondate ed il medesimo opponente fu perciò condannato al pagamento del debito capitale indicato nel ricorso monitorio, oltre agli interessi al tasso convenzionale richiesto. Il gravame proposto contro tale decisione dal Sig. G. fu rigettato dalla Corte d'appello di Torino con sentenza depositata il 10 novembre 2001. La corte piemontese ritenne infondata l'eccezione di nullità dei contratti aventi ad oggetto le operazioni finanziarie in questione osservando che le violazioni dedotte in causa riguardavano la condotta prenegoziale dell'istituto di credito, oppure obblighi legali accessori afferenti all'adempimento dei contratti già conclusi, ma non potevano riflettersi sulla validità di detti contratti. Escluse che alle menzionate operazioni potesse applicarsi la previsione dell'art. 1933 c.c., rientrando esse tra quelle che la L. n. 1 del 1991, art. 23, espressamente sottrae alla citata previsione del codice. Stimò inammissibili, perchè generiche, le doglianze riguardanti la ritualità del procedimento monitorio e la misura degli interessi debitori. Dichiarò inammissibile la domanda di risarcimento dei danni in quanto proposta tardivamente solo in corso di causa. Seguì la condanna dell'appellante alle spese del grado, comprensive di compensi professionali liquidati però non secondo i dettami della tariffa forense, ritenuta inapplicabile alla stregua dei principi desumibili dal Trattato dell'Unione europea, bensì sulla base dei parametri posti dall'art. 2233 c.c., comma 2. Avverso tale sentenza il Sig. G. ha proposto ricorso per Cassazione articolato in cinque motivi ed illustrato poi con memoria. Ha resistito con controricorso e memoria il San Paolo. Con ordinanza n. 3684 del 16 febbraio 2007, la prima sezione civile di questa corte ha rilevato che, nella sentenza della stessa prima sezione del 29 settembre 2005, n. 19024, è stato escluso che l'inosservanza degli obblighi informativi stabiliti dalla L. n. 1 del 1991, art. 6, possa cagionare la nullità del negozio, poichè quegli obblighi informativi riguardano Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 42 elementi utili per la valutazione della convenienza dell'operazione e la loro violazione non da luogo a mancanza del consenso, e perchè la nullità del contratto per contrarietà a norme imperative postula una violazione attinente ad elementi intrinseci della fattispecie negoziale, relativi alla struttura o al contenuto del contratto, e non invece all'illegittimità della condotta tenuta nel corso delle trattative ovvero in fase di esecuzione, a meno che questa sanzione non sia espressamente prevista anche in riferimento a dette ipotesi. Nella citata ordinanza della prima sezione è stato però manifestato il dubbio che il principio dianzi ricordato, quantunque corrispondente ad un tradizionale filone giurisprudenziale, non sia coerente con i presupposti da cui muovono molteplici altre decisioni di questa corte: la quale ha ravvisato ipotesi di nullità c.d. virtuale del contratto in caso di mancanza di autorizzazione a contrarre o di mancanza di necessari requisiti soggettivi di uno dei contraenti, in caso di contratti concepiti in modo da sottrarre una delle parti agli obblighi di controllo su di essa gravanti o da consentire l'aggiramento di divieti a contrarre, ed in caso di circonvenzione d'incapace. Situazioni, queste, nelle quali è appunto la violazione di norme imperative concernenti la fase precontrattuale o le modalità esecutive del rapporto contrattuale a venire in evidenza. D'altronde - ha osservato ancora l'ordinanza - il tradizionale principio di non interferenza delle regole di comportamento con quelle di validità del negozio, cui la citata sentenza n. 19024/05 si ispira, appare incrinato da molteplici recenti interventi del legislatore, che assegnano rilievo al comportamento contrattuale delle parti anche ai fini della validità del contratto: tali la L. n. 192 del 1998, art. 9, in tema di abuso di dipendenza economica nei contratti di subfornitura di attività produttive, l'art. 52, comma 3, del codice del consumo (D.Lgs. n. 206 del 2005), in tema di contratti stipulati telefonicamente, l'art. 34 del citato codice, in tema di clausole vessatorie, il D.Lgs. n. 231 del 2002, art. 7, in tema di clausola di dilazione dei termini di pagamento, e la L. n. 287 del 1990, art. 3, in tema di clausole imposte con abuso di posizione dominante. Il ricorso è stato perciò rimesso alle sezioni unite, sia per dirimere il ravvisato contrasto di giurisprudenza sull'interferenza tra regole di comportamento e regole di validità del contratto, sia comunque perchè si tratta di questione di massima e di particolare importanza. Diritto MOTIVI DELLA DECISIONE Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 45 di natura negoziale, costituiscono pur sempre il momento attuativo del precedente contratto d'intermediazione. Gli obblighi di comportamento cui alludono le citate disposizioni della L. n. 1 del 1991, art. 6 (non diversamente, del resto, da quelli previsti dall'art. 21 del più recente D.Lgs. n. 58 del 1998), tutti in qualche modo finalizzati al rispetto della clausola generale consistente nel dovere per l'intermediario di comportarsi con diligenza, correttezza e professionalità nella cura dell'interesse del cliente, si collocano in parte nella fase che precede la stipulazione del contratto d'intermediazione finanziaria ed in altra parte nella fase esecutiva di esso. Attiene evidentemente alla fase prenegoziale l'obbligo di consegnare al cliente il documento informativo menzionato nella lett. b) della citata disposizione dell'art. 6, ed attiene sempre a tale fase preliminare il dovere dell'intermediario di acquisire le informazioni necessarie in ordine alla situazione finanziaria del cliente, come prescritto dalla successiva lett. d), così da poter poi adeguare ad essa la successiva operatività. Ma doveri d'informazione sussistono anche dopo la stipulazione del contratto d'intermediazione, e sono finalizzati alla sua corretta esecuzione: tale è il dovere di porre sempre il cliente in condizione di valutare appieno la natura, i rischi e le implicazioni delle singole operazioni d'investimento o di disinvestimento, nonchè di ogni altro fatto necessario a disporre con consapevolezza dette operazioni (art. cit., lett. e), e tale è il dovere di comunicare per iscritto l'esistenza di eventuali situazioni di conflitto d'interesse, come condizione per poter eseguire ugualmente l'operazione se autorizzata (lett. g). Nè può seriamente dubitarsi che anche l'obbligo dell'intermediario di tenersi informato sulla situazione del cliente, in quanto funzionale al dovere di curarne diligentemente e professionalmente gli interessi, permanga attuale durante l'intera fase esecutiva del rapporto e si rinnovi ogni qual volta la natura o l'entità della singola operazione lo richieda, per l'ovvia considerazione che la situazione del cliente non è statica bensì suscettibile di evolversi nel tempo. Attengono poi del pari al momento esecutivo del contratto i doveri di contenuto negativo posti a carico dell'intermediario: quelli di non consigliare e di non effettuare operazioni di frequenza o dimensione eccessive rispetto alla situazione finanziaria del cliente (lett. f). 1.3. Il ricorrente sostiene che, nella specie, il San Paolo ha violato alcune delle disposizioni sopra ricordate. L'istituto bancario, infatti, avrebbe suggerito, e poi direttamente eseguito in veste di controparte, operazioni nelle quali aveva un interesse conflittuale con quello del cliente (con violazione, dunque, della lett. g del citato art. 6), ed avrebbe consigliato ed eseguito operazioni eccessivamente rischiose, se rapportate alla Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 46 situazione patrimoniale del medesimo cliente (con violazione, dunque, della lett. f del medesimo articolo). Su tale presupposto il ricorrente afferma che i contratti mediante i quali il San Paolo ha, di volta in volta, compiuto dette operazioni sono da ritenere nulli, in quanto contrari a norme imperative, non potendosi condividere l'assunto della corte d'appello secondo cui la violazione delle norme sopra richiamate potrebbe generare, eventualmente, una responsabilità risarcitoria o esser causa di risoluzione dei contratti in questione, ma non anche determinarne la nullità ai sensi dell'art. 1418 c.c.. E' specificamente su questo punto, come già accennato, che è stato sollecitato l'intervento in chiave nomofilattica delle sezioni unite. Giova però preliminarmente chiarire, a tal proposito, che nel caso in esame non si ravvisa la necessità di comporre un contrasto giurisprudenziale derivante dalla presenza di precedenti difformi decisioni delle sezioni semplici sulla questione di diritto appena riferita, perchè le diverse decisioni menzionate nell'ordinanza di rimessione hanno ad oggetto questioni diverse, nessuna della quali (ad eccezione di quella trattata nella sentenza del 29 settembre 2005, n. 19024, di cui si dirà) investe specificamente il tema della presente causa. La circostanza che tutte o alcune tra tali precedenti sentenze possano, per certi aspetti, risultare più o meno coerenti con principi di diritto sottesi ad altre pronunce non è sufficiente ad identificare un contrasto di giurisprudenza in senso proprio. Essa è però certamente sintomo del fatto che ci si trova in presenza di una questione di massima e particolare importanza, appunto perchè chiama in causa profili di principio: ciò che, d'altronde, è confermato anche dall'incertezza affiorata sul punto nella giurisprudenza di merito. Nel prosieguo della presente sentenza non ci si soffermerà perciò tanto sull'esame dei singoli precedenti di questa corte in cui l'ordinanza di rimessione ha ravvisato il preteso contrasto di giurisprudenza, ma si affronterà direttamente la questione controversa, muovendo dall'unico precedente in termini già prima ricordato. Va da sè che le conclusioni cui si perverrà, nella misura in cui risulteranno idonee a fornire chiarimenti su questioni di principio suscettibili altresì di riflettersi su decisioni aventi oggetto ed ambiti diversi, potranno giovare a meglio definire la giurisprudenza di questa corte in termini anche più generali. Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 47 1.4. Si deve certamente convenire - ed anche l'impugnata sentenza d'altronde ne conviene - sul fatto che le norme dettate dalla citata L. n. 1 del 1991, art. 6 (al pari di quelle che le hanno poi sostituite) hanno carattere imperativo: nel senso che esse, essendo dettate non solo nell'interesse del singolo contraente di volta in volta implicato ma anche nell'interesse generale all'integrità dei mercati finanziari (come è ora reso esplicito dalla formulazione del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 21, lett. a, ma poteva ben ricavarsi in via d'interpretazione sistematica già nel vigore della legislazione precedente), si impongono inderogabilmente alla volontà delle parti contraenti. Questo rilievo, tuttavia, non è da solo sufficiente a dimostrare che la violazione di una o più tra dette norme comporta la nullità dei contratti stipulati dall'intermediario col cliente. E' ovvio che la loro violazione non può essere, sul piano giuridico, priva di conseguenze - e se ne dirà - ma non è detto che la conseguenza sia necessariamente la nullità del contratto. Innanzitutto, è evidente che il legislatore - il quale certo avrebbe potuto farlo e che, nella medesima legge, non ha esitato ad altro proposito a farlo - non ha espressamente stabilito che il mancato rispetto delle citate disposizioni interferisce con la fase genetica del contratto e produce l'effetto radicale della nullità invocata dai ricorrenti. Non si tratta quindi certamente di uno di quei casi di nullità stabiliti dalla legge ai quali allude l'art. 1418 c.c., comma 3. Neppure i casi di nullità contemplati dal comma 2 dell'articolo da ultimo citato, però, sono invocabili nella situazione in esame. E' vero che tra questi casi figura anche quello della mancanza di uno dei requisiti indicati dall'art. 1325, e che il primo di tali requisiti è l'accordo delle parti. Ma, ove pure si voglia ammettere che nella fase prenegoziale la violazione dei doveri di comportamento dell'intermediario sopra ricordati siano idonei ad influire sul consenso della controparte contrattuale, inquinandolo, appare arduo sostenere che sol per questo il consenso manca del tutto; ed i vizi del consenso - se pur di essi si possa parlare - non determinano la nullità del contratto, bensì solo la sua annullabilità, qualora ricorrano le condizioni previste dall'art. 1427 c.c. e segg.. Resta però da considerare l'ipotesi che, in casi come quello di cui qui si discute, la nullità possa dipendere dall'applicazione della disposizione dettata dal comma 1 del citato art. Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 50 che il legislatore possa isolare specifiche fattispecie comportamentali, elevando la relativa proibizione al rango di norma di validità dell'atto, ma ciò fa ricadere quelle fattispecie nella già ricordata previsione del terzo (non già del comma 1) del citato art. 1418 c.c.. Si tratta pur sempre, in altri termini, di disposizioni particolari, che, a fronte della già ricordata impostazione del codice, nulla consente di elevare a principio generale e di farne applicazione in settori nei quali analoghe previsioni non figurano, tanto meno quando - come nel caso in esame - l'invocata nullità dovrebbe rientrare nella peculiare categoria delle cosiddette nullità di protezione, ossìa nullità di carattere relativo, che già di per sè si pongono come speciali. 1.7. Quanto appena osservato, naturalmente, non esaurisce affatto il tema, perchè occorre ancora chiedersi se una regola diversa non viga proprio nello specifico settore del diritto dei mercati finanziari. Prima di rispondere a questo quesito, e restando per un momento ancora sul piano dei principi generali, giova però aggiungere che tanto l'impugnata sentenza della corte d'appello di Torino, quanto la più volte menzionata sentenza di questa Corte n. 19024 del 2005, sembrano individuare le norme imperative la cui violazione determina la nullità del contratto essenzialmente in quelle che si riferiscono alla struttura o al contenuto del regolamento negoziale delineato dalle parti. Ma - si obietta - la giurisprudenza ha in passato spesse volte individuato ipotesi di nullità nella violazione di norme che invece riguardano elementi estranei a quel contenuto o a quella struttura: per esempio, in caso di mancanza di una prescritta autorizzazione a contrarre o di clausole concepite in modo da consentire l'aggiramento di divieti a contrarre (cfr., tra le altre, Cass. 19 settembre 2006, n. 20261; Cass. 10 maggio 2005, n. 9767;Cass. 16 luglio 2003, n. 11131) o di mancanza di necessari requisiti soggettivi di uno dei contraenti (cfr., tra le altre, Cass. 3 agosto 2005, n 16281; Cass. 18 luglio 2003, n. 11247; Cass. 5 aprile 2001, n. 5052; Cass. 15 marzo 2001, n, 3753; e Cass. 7 marzo 2001, n. 3272) oppure in caso di contratti le cui clausole siano tali da sottrarre una delle parti agli obblighi di controllo su di essa gravanti (cfr.Cass. 8 luglio 1983, n. 4605), ed inoltre in caso di circonvenzione d'incapace (cfr. Cass. 23 maggio 2006, n. 12126; Cass. 27 gennaio 2004, n. 1427; e Cass. 29 ottobre 1994, n. 8948). Tralasciando la circonvenzione d'incapace, con riferimento alla quale occorrerebbe forse rimeditare se ed entro quali limiti l'illiceità penale della condotta basti a giustificare Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 51 l'ipotizzata nullità del contratto sotto il profilo civile, tali esempi (ed altri analoghi che si potrebbero fare) stanno certamente a dimostrare che l'area delle norme inderogabili, la cui violazione può determinare la nullità del contratto in conformità al disposto dell'art. 1418 c.c., comma 1, è in effetti più ampia di quanto parrebbe a prima vista suggerire il riferimento al solo contenuto del contratto medesimo. Vi sono ricomprese sicuramente anche le norme che, in assoluto, oppure in presenza o in difetto di determinate condizioni oggettive o soggettive, direttamente o indirettamente, vietano la stipulazione stessa del contratto: come è il caso dei contratti conclusi in assenza di una particolare autorizzazione al riguardo richiesta dalle legge, o in mancanza dell'iscrizione di uno dei contraenti in albi o registri cui la legge eventualmente condiziona la loro legittimazione a stipulare quel genere di contratto, e simili. Se il legislatore vieta, in determinate circostanze, di stipulare il contratto e, nondimeno, il contratto viene stipulato, è la sua stessa esistenza a porsi in contrasto con la norma imperativa; e non par dubbio che ne discenda la nullità dell'atto per ragioni - se così può dirsi - ancor più radicali di quelle dipendenti dalla contrarietà a norma imperativa del contenuto dell'atto medesimo. Neppure in tali casi, tuttavia, si tratta di norme di comportamento afferenti alla concreta modalità delle trattative prenegoziali o al modo in cui è stata data di volta in volta attuazione agli obblighi contrattuali gravanti su una delle parti, bensì del fatto che il contratto è stato stipulato in situazioni che lo avrebbero dovuto impedire. E conviene anche osservare che, pur quando la nullità sia fatta dipendere dalla presenza nel contratto di clausole che consentono o suggeriscono comportamenti contrari al precetto di buona fede o ad altri inderogabili precetti legali, non è il comportamento in concreto tenuto dalla parte a provocare la nullità del contratto stesso, bensì il tenore della clausola in esso prevista. 1.8. Tanto chiarito, sul piano generale, è tempo di tornare alla domanda se, nello specifico settore dell'intermediazione finanziaria, sia eventualmente riscontrabile un principio di segno diverso, tale cioè da derogare al criterio di distinzione sopra tracciato tra norme di comportamento e norme di validità degli atti negoziali e da condurre ad una differente conclusione. La risposta dev'essere negativa. Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 52 In detto settore non è dato assolutamente rinvenire indici univoci dell'intenzione del legislatore di trattare sempre e comunque le regole di comportamento, ivi comprese quelle concernenti i doveri d'informazione dell'altro contraente, alla stregua di regole di validità degli atti. La difesa di parte ricorrente ha inteso trarre argomento dalla previsione di nullità dei contratti di prestazione a distanza dei servizi finanziari, contemplata dal D.Lgs. 19 agosto 2005, n. 190, art. 16, comma 4, per il caso in cui il fornitore ostacoli l'esercizio del diritto di recesso da parte del contraente ovvero non rimborsi le somme da questi eventualmente pagate, oppure violi gli obblighi informativi precontrattuali in modo da alterare significativamente la rappresentazione delle caratteristiche del servizio. Ma, oltre ad essere di molto successiva ai fatti di causa, detta previsione resta sistematicamente isolata nel nostro ordinamento e presenta evidenti caratteri di specialità, che non consentono di fondare su di essa nessuna affermazione di principio. Se si ha poi riguardo, in modo particolare, al tenore letterale delle norme dettate per disciplinare l'attività ed i contratti delle società d'intermediazione mobiliare, si constata immediatamente come il legislatore abbia espressamente ipotizzato alcune ipotesi di nullità, afferenti alla forma ed al contenuto pattizio dell'atto (L. n. 1 del 1991, art. 8, u.c., ed ora al D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23, commi 1, 2 e 3, ed art. 24, u.c.), nessuna delle quali appare tuttavia riconducibile alla violazione delle regole di comportamento gravanti sull'intermediario in tema di informazione del cliente e di divieto di operazioni in conflitto d'interessi o inadeguate al profilo patrimoniale del cliente medesimo. Situazioni, queste ultime, che il legislatore ha invece evidentemente tenuto in considerazione per i loro eventuali risvolti in tema di responsabilità, laddove ha espressamente posto a carico dell'intermediario l'onere della prova di aver agito con la necessaria diligenza (L. n. 1 del 1991, art. 13, u.c., ora sostituito dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23, u.c.). Nè giova appellarsi alla valenza generale dell'interesse alla correttezza del comportamento degli intermediari finanziari, per i riflessi che ne possono derivare sul buon funzionamento dell'intero mercato. Alla tutela di siffatto interesse sono preordinati il sistema dei controlli facenti capo all'autorità pubblica di vigilanza ed il regime delle sanzioni che ad esso accede, ma nulla se ne può dedurre in ordine alla pretesa nullità dei singoli contratti sul piano del diritto civile, tanto più che questa dovrebbe pur sempre logicamente esser concepita in termini di nullità di protezione, ossia di nullità relativa Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 55 di non fare, la cui violazione si traduce nella stipulazione di altrettanti contratti vietati da norma imperativa: il che, per quanto sopra detto, dovrebbe colpire alla radice gli atti vietati, rendendoli illeciti e perciò nulli. A siffatto rilievo si deve però opporre che, come già in precedenza chiarito, il compimento delle operazioni di cui si tratta, ancorchè queste possano a loro volta consistere in atti di natura negoziale (ma è significativo che la norma le definisca col generico termine di "operazioni") si pone pur sempre come momento attuativo di obblighi che l'intermediario ha assunto all'atto della stipulazione col cliente del "contratto quadro". Il divieto di compiere operazioni inadeguate o in conflitto d'interessi attiene, perciò, anch'esso -lo si è già notato - alla fase esecutiva di detto contratto, costituendo, al pari del dovere d'informazione, una specificazione del primario dovere di diligenza, correttezza e professionalità nella cura degli interessi del cliente. Il modo stesso in cui la norma è formulata e l'esplicito accostamento dei suaccennati doveri di informazione e di cura dell'interesse del cliente, nel compimento delle singole operazioni, denota come il legislatore abbia qui sempre voluto contemplare obblighi di comportamento precontrattuali e contrattuali, non già regole di validità del contratto (sia esso il contratto d'intermediazione finanziaria o i singoli negozi con cui a quello vien data esecuzione); ed è appena il caso di osservare che, sotto tal profilo, è del tutto irrilevante la circostanza che l'operazione compiuta dall'intermediario sia consistita nel procurarsi da terzi i valori o gli strumenti finanziari ordinatigli dal cliente oppure nel fornirli egli stesso, trattandosi di varianti esecutive che non incidono sull'obbligo di diligenza cui l'intermediario è tenuto e che, ai fini del presente discorso, lasciano intatta la natura esecutiva dell'operazione da lui compiuta. 1.11. In conclusione, va perciò enunciato il principio per cui la violazione dei doveri d'informazione del cliente e di corretta esecuzione delle operazioni che la legge pone a carico dei soggetti autorizzati alla prestazione dei servizi d'investimento finanziario può dar luogo a responsabilità precontrattuale, con conseguente obbligo di risarcimento dei danni, ove tali violazioni avvengano nella fase precedente o coincidente con la stipulazione del contratto d'intermediazione destinato a regolare i successivi rapporti tra le parti; può invece dar luogo a responsabilità contrattuale, ed eventualmente condurre alla risoluzione del predetto contratto, ove si tratti di violazioni riguardanti le operazioni d' investimento o disinvestimento compiute in esecuzione del contratto d'intermediazione finanziaria in questione. In nessun caso, in difetto di previsione normativa in tal senso, la violazione dei Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 56 suaccennati doveri di comportamento può però determinare la nullità del contratto d'intermediazione, o dei singoli atti negoziali conseguenti, a norma dell'art. 1418 c.c., comma 1. L'impugnata sentenza della corte d'appello non si è discostata da siffatto principio ed il primo motivo di ricorso non può perciò trovare accoglimento. 2. Col secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell'art. 1933 c.c., nonchè vizi di omessa pronuncia e difetti di motivazione. Afferma che la disposizione dettata dal citato art. 1933, in forza di quando stabilito dalla L. n. 1 del 1991, art. 23, risulta inapplicabile ai soli contratti uniformi a termine stipulati nei mercati regolamentati. Essa, quindi, contrariamente a quanto ritenuto dalla corte d'appello, avrebbe dovuto trovare applicazione nel caso di specie, in cui si trattava di contratti non corrispondenti ad alcuno dei tipi previsti dalla normativa secondaria di settore, stipulati al di fuori del mercato di borsa. 2.1. Anche questo motivo di ricorso appare infondato. E' assorbente rilevare, in proposito, anzitutto che la mera presenza in un contratto di un intento speculativo o di un certo grado di alea non vale a renderlo assimilabile ad un giuoco o ad una scommessa, cui sia applicabile il regime giuridico dettato dal citato art. 1933 c.c.; inoltre che, quando pure di vero e proprio gioco o scommessa si tratti, l'anzidetta norma è invocabile solo a condizione che vi sia stata partecipazione consapevole al gioco o alla scommessa di tutte le parti del rapporto (cfr., in argomento, Cass. 2 settembre 2004, n. 17689). Ciò premesso, occorre subito osservare che l'acquisto e la vendita a termine di valuta e le altre operazioni finanziarie di cui nel presente caso si discute, pur comportando sicuramente un certo grado di alea e pur potendo essere anche ispirati da intenti speculativi da parte di chi quelle operazioni abbia disposto, non sono di per sè necessariamente riducibili ad una scommessa sul futuro andamento dei tassi di cambio, potendo altrettanto ragionevolmente fungere da strumenti di stabilizzazione del rischio. Da quanto riportato nell'impugnata sentenza non si ricava che, nella specie, le operazioni intraprese avessero caratteristiche incompatibili con lo scopo di copertura da rischi e tanto meno, quindi, si ricava che nel giudizio di merito sia stata raggiunta la prova che il San Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 57 Paolo fosse consapevole di essere entrato con il Sig. G. in un rapporto di gioco o scommessa. Tanto basta a rendere non applicabile nella fattispecie in esame della previsione del citato art. 1933. 3. Il terzo motivo di ricorso è volto a denunciare la violazione degli artt. 633 e 125 c.p.c., oltre che vizi di motivazione dell'impugnata pronuncia. Nega infatti il ricorrente che le censure formulate nell'atto d'appello in ordine alla ritualità dell'ingiunzione ed al difetto di valida pattuizione di interessi convenzionali fossero generiche, in rapporto alle apodittiche affermazioni contenute su tali punti nella sentenza di primo grado. 3.1. Neppure tale doglianza è meritevole di accoglimento. Va premesso che i rilievi riguardanti la ritualità del procedimento monitorio sono superati dall'intervenuta revoca del decreto ingiuntivo e dal fatto che la condanna al pagamento di una somma di denaro è stata pronunciata all'esito di un giudizio di opposizione da considerarsi, per questo profilo, del tutto equivalente ad un ordinario giudizio di cognizione. Quanto agli altri rilievi, va detto che l'inammissibilità di motivi d'appello che si sostanzino nel generico richiamo alle difese di primo grado non è sanata dall'asserita insufficienza della motivazione in base alla quale quelle difese siano state rigettate dal giudice a quo. Vi osta pur sempre il principio della specificità dei motivi di gravame: principio che assolve alla duplice funzione di delimitare l'estensione del perciò postula la specificazione, sia pure in forma succinta, degli errori attribuiti alla sentenza di primo grado, ivi compreso eventualmente quello consistente proprio nell'insufficienza della motivazione posta a sostegno della decisione di rigetto. 4. Il quarto motivo di ricorso mette in discussione la declaratoria d'inammissibilità della domanda di risarcimento dei danni proposta dal Sig. G.. Declaratoria che il ricorrente, denunciano la violazione degli artt. 183 e 189 c.p.c., nonchè vizi di motivazione della sentenza impugnata, ritiene errata perchè la corte d'appello non ha considerato che i fatti posti a base della pretesa risarcitoria formalizzata in corso di causa erano già stati sostanzialmente riferiti nell'atto introduttivo, che la domanda non poteva pertanto considerarsi davvero nuova e che, comunque, la tacita accettazione del contraddittorio ad Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 60 ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso proposto da: LOCAT SPA, in persona del procuratore avv. S.A., elettivamente domiciliata in ROMA VIA POMPEO MAGNO 1, presso lo studio dell'avvocato ZINCONE ANDREA, difesa dall'avvocato BUIZZA RICCARDO, giusta delega in atti; - ricorrente - contro TIPOGRAFIA DANUBIO ANTONINO & C. SNC di Danubio Antonino, in persona del legale rappresentante D.A., elettivamente domiciliata in ROMA VIA OSLAVIA 39/F, presso lo studio dell'avvocato BIANCO GIUSEPPE, che la difende unitamente agli avvocati CAROLA FERRARIS, EMANUELE DE PAOLA, giusta delega in atti; - controricorrente - avverso la sentenza n. 1019/04 della Corte d'Appello di MILANO, terza sezione civile, emessa il 24/02/04, depositata il 9/04/04, R.G. 3912/02; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/07/08 dal Consigliere Dott. Donato CALABRESE; udito l'Avvocato Andrea ZINCONE (per delega Avv. Riccardo BUIZZA, depositata in udienza); udito l'Avvocato Giuseppe BIANCO; udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PRATIS Pierfelice, che ha concluso per il rigetto del ricorso. Fatto SVOLGIMENTO DEL PROCESSO La Tipografia Danubio Antonino e C. snc con citazione del dicembre 1999 conveniva davanti al Tribunale di Milano la Locat spa, esponendo di avere concluso con quest'ultima in data 8.4.1997 un contratto di locazione finanziaria avente ad oggetto una macchina da stampa per un corrispettivo di L. 245.536.058. Assumeva al riguardo di non aver potuto godere delle agevolazioni previste dalla L. n. 341 del 1995, e precisamente di un credito d'imposta pari al 33% del valore del finanziamento in leasing, e attribuiva la relativa responsabilità alla società di leasing sulla base del fatto che alla data di stipulazione del contratto di leasing tali agevolazioni erano sospese e che Locat non l'aveva informata di ciò. Chiedeva, quindi, la condanna della Locat ai sensi dell'art. 1337 c.c. al risarcimento del danno, quantificato nell'importo pari alla mancata agevolazione, successivamente estesa - la domanda - anche ai sensi dell'art. 1338 c.c.. La soc. Locat si costituiva contestando le pretese avversarie, in particolare la configurabilità di una responsabilità precontrattuale a fronte di un contratto poi regolarmente concluso. Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 61 Deduceva, peraltro, che l'attrice aveva esonerato essa società di leasing da ogni responsabilità per l'eventuale mancata concessione e/o erogazione e/o sospensione di contributi richiesti. Il Tribunale con sentenza dell'8.4.2002 rigettava la domanda. L'appello proposto dalla Tipografia Danubio era accolto con sentenza del 9.4.2004 dalla Corte d'appello di Milano, che condannava la Locat al pagamento della somma di Euro 30.086,16 nonchè di quella di Euro 258,23 oltre interessi dalla domanda. Avverso questa sentenza la Locat spa ha proposto ricorso per cassazione in base a quattro motivi. Ha resistito la Tipografia Danubio Antonino e C. snc di Danubio Antonino con controricorso. La ricorrente ha depositato memoria. Diritto MOTIVI DELLA DECISIONE Per la sua antecedenza logico-giuridica precede l'esame del quarto motivo del ricorso, col quale la Locat spa, denunciando la violazione dell'art. 345 c.p.c. e vizi della motivazione, lamenta che la Corte d'appello di Milano non ha considerato che in appello la Tipografia Danubio ha proposto una nuova domanda di responsabilità di essa Locat a titolo contrattuale mai nemmeno accennata nel giudizio di primo grado. La doglianza non è comunque fondata, poichè emerge chiaramente dalla motivazione della sentenza il riconoscimento di una responsabilità extracontrattuale, e non contrattuale. La Corte milanese difatti ha evidenziato che la Tipografia Danubio ha insistito, con l'atto di appello, nella impostazione giuridica della propria domanda ritenendo che, poichè il provvedimento di sospensione dell'elargizione de:i contributi previsti dalla L. n. 266 del 1997 era antecedente (di quattro mesi) alla stipulazione del contratto, la condotta infedele della locatrice andava qualificata in termini di responsabilità precontrattuale. Con il primo motivo - quindi - si denuncia la violazione e/o erronea applicazione degli artt. 1337 e 1338 c.c., nonchè motivazione insufficiente e contraddittoria. La ricorrente sostiene che la Corte territoriale ha fondato la sua decisione sfavorevole alla Locat, oltre che sull'erronea applicabilità dell'art. 1337 c.c., una volta che il contratto sia concluso, sull'ulteriore erronea applicabilità dell'art. 1338 c.c., posto che la mancata concessione dei Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 62 contributi sperati dalla Tipografia Danubio non ha minimamente intaccato la validità e l'efficacia del contratto di leasing. Anche questo motivo non è fondato. Si è ormai chiarito - come è stato osservato - che l'ambito di rilevanza della regola posta dall'art. 1337 c.c. va ben oltre l'ipotesi della rottura ingiustificata delle trattative e assume il valore di una clausola generale, il cui contenuto non può essere predeterminato in maniera precisa, ma certamente implica il dovere di trattare in modo leale, astenendosi da comportamenti maliziosi o anche solo reticenti e fornendo alla controparte ogni dato rilevante, conosciuto o anche solo conoscibile con l'ordinaria diligenza, ai fini della stipulazione del contratto (Cass. n. 19024/2005). La violazione, pertanto, dell'obbligo di comportarsi secondo buona fede nello svolgimento della trattative e nella formazione del contratto assume rilievo non soltanto nel caso di rottura ingiustificata delle trattative e, quindi, di mancata conclusione del contratto o di conclusione di un contratto invalido o inefficace (artt. 1338 e 1398 c.c.), ma anche quando il contratto concluso sia valido e tuttavia risulti pregiudizievole per la parte vittima dell'altrui comportamento scorretto (stessa Cass. 19024/05; e in tal senso, ancorchè in relazione ad altra situazione di specie, Cass. S.U. n. 26725/2007). In tal caso, invero, che la stipula del contratto sia avvenuta successivamente è irrilevante, giacchè il comportamento illegittimo altrui si è già verificato nella fase delle trattative. Alla luce dei detti principi non può dunque che rilevarsi che la Corte d'appello milanese, alla stregua di un incensurabile apprezzamento di fatto, ha adeguatamente ritenuto che il comportamento della Locat costituisse una violazione del canone di buona fede di cui all'art. 1337 e 1338 c.c. poichè i contributi agevolati previsti dalla L. n. 341 del 1995 - per i quali la Tipografia Danubio si era indotta (come emerge dalla prima e dall'ultima parte della sentenza impugnata) alla stipulazione del contratto di locazione finanziaria del (OMISSIS) - erano già stati sospesi con D.M. 23 dicembre 1996, ovvero a far data dal 1.1.1997, quindi quattro mesi prima della conclusione del contratto. Con ciò, omettendo cioè di informare la controparte circa la già avvenuta sospensione dei contributi fiscali (ed anzi "assicurando il contraente della possibilità del ricorso alla citate agevolazioni fiscali"), la Locat ha infatti posto in essere un comportamento colposamente Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 65 Cass. civ., sez. un., 12 maggio 2008, n. 11656 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE CIVILI Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. CARBONE Vincenzo - Primo Presidente - Dott. IANNIRUBERTO Giuseppe - Pres. di sezione - Dott. DI NANNI Luigi Francesco - Consigliere - Dott. MORELLI Mario Rosario - Consigliere - Dott. CICALA Mario - Consigliere - Dott. FINOCCHIARO Mario - Consigliere - Dott. SEGRETO Antonio - rel. Consigliere - Dott. AMOROSO Giovanni - Consigliere - Dott. TIRELLI Francesco - Consigliere - ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso proposto da: HERMES S.R.L. in liquidazione, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata n ROMA, PIAZZA B. CAIROLI 6, presso lo studio dell'avvocato ALFA GUIDO, che la rappresenta e difende, giusta delega a margine del ricorso; - ricorrente - contro REGIONE CALABRIA, in persona del Presidente della Giunta Regionale pro tempore elettivamente i domiciliata in ROMA, VIA ARNO 6, presso lo studio dell'avvocato MORCAVALLO ORESTE, che la rappresenta e difende, giusta delega a margine del controricorso; - controricorrente - avverso la sentenza n. 46/06 della Corte d'Appello di CATANZARO, depositata il 13/02/06; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/04/08 dal Consigliere Dott. Antonio SEGRETO; uditi gli avvocati ALFA Guido, MORCAVALLO Oreste; udito il P.M. in persona dell'Avvocato Generale Dott. IANNELLI Domenico, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso (giurisdizione dell'ago). Fatto SVOLGIMENTO DEL PROCESSO La società Hermes s.r.l. con citazione notificata il 17.4.2003, conveniva davanti al Tribunale di Catanzaro la regione Calabria per sentirla condannare al pagamento della somma di Euro 21.179.800,00, oltre accessori, a titolo di responsabilità precontrattuale, o, in subordine, al pagamento della somma di Euro 6.507.300,00, oltre accessori, a titolo di indebito arricchimento per l'acquisizione di elaborati contrattuali. Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 66 Assumeva l'attrice che era proprietaria di un terreno in località (OMISSIS) di Catanzaro, su cui aveva diritto, in forza di convenzione con il Comune, a realizzare un complesso edilizio composto da 418 alloggi; che la regione Calabria con Delib. Giunta 16 ottobre 2001, n. 873, pubblicava sulla G.U. un avviso al fine di esperire una ricerca di mercato finalizzata all'acquisizione in locazione con eventuale opzione di acquisto, ovvero all'acquisto anche per cosa futura e/o mediante leasing di un complesso immobiliare esistente o da realizzare in Catanzaro da destinare agli uffici regionali; che l'offerta presentata da essa Hermes per la costruzione di un complesso immobiliare con tali caratteristiche veniva giudicata come la più idonea da apposita commissione; che, con Delib. 4 novembre 2002, la Giunta regionale approvava la stipulazione di un contratto di compravendita del complesso immobiliare da costruire, in base ad allegato schema contrattuale, al quale l'attrice dichiarava di aderire; che con Delib. 17 dicembre 2002, n. 1238, la giunta regionale ritirava la precedente deliberazione e con Delib. 27 dicembre 2002, n. 1239, manifestava la propria intenzione di procedere all'acquisto dell'area ed - in mancanza all'espropriazione, realizzando successivamente il complesso immobiliare con la procedura di finanza di progetto di cui alla L. n. 109 del 1994, art. 37 bis; che essa attrice, riservandosi ogni azione per i danni subiti dalle determinazioni regionali, cedeva l'area con atto notarile, in vista della possibilità di esperire una procedura di finanza di progetto nel termine del 28.2.2003; che, essendo inutilmente scaduto tale termine, si vedeva costretta ad adire il tribunale per il risarcimento del danno da responsabilità contrattuale provocato della regione, ex art. 1337 c.c., per avere quest'ultima ingiustificatamente rifiutato di stipulare il contratto di vendita di cosa futura, pur avendo ingenerato in essa attrice un affidamento che l'aveva indotta a sopportare ingenti spese di progettazione ed a rinunziare alla realizzazione del complesso edilizio residenziale, ed in via gradata per il danno da indebito arricchimento per aver la regione utilizzato gli elaborati progettuali e di studio da essa attrice predisposti. Si costituiva la Regione Calabria, che resisteva alla domanda, eccependo, in via pregiudiziale, il difetto di giurisdizione. Il Tribunale di Catanzaro, con sentenza n. 46/2005, dichiarava il difetto di giurisdizione dell'AGO in favore del giudice amministrativo. Su appello della s.r.l. Kermes, la corte di appello di Catanzaro, con sentenza n. 46 del 13.2.2006, rigettava l'appello. Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 67 Riteneva la corte di merito che, nonostante il contrario assunto dell'appellante, la sua domanda risarcitoria si riconnetteva all'emanazione di atti amministrativi (delibere del 17 e del 27.12.2002), con cui veniva ritirata in autotutela per vizi di legittimità (violazione di normativa comunitaria e di contabilità pubblica) la Delib. novembre 2002 ed erano disposti l'acquisizione dell'area ed il project financing; che nella fattispecie la regione aveva dato corso ad una "procedura di affidamento di lavori, servizi o forniture"; che la regione era tenuta nella scelta del contraente all'applicazione della normativa comunitaria o al rispetto del procedimento di evidenza pubblica; che la regione aveva indetto una pubblica gara finalizzata all'acquisto di immobili da destinare ad uffici regionali; che le offerte erano state valutate da una commissione; che nella specie era, quindi, applicabile la L. n. 205 del 2000, art. 6 che conferisce al giudice amministrativo la giurisdizione esclusiva nelle ipotesi di affidamento di lavori; che nella fattispecie; trattandosi di esecuzione di opera rispondente ad esigenze della P.A. aggiudicatrice, doveva ritenersi che trattavasi di appalto pubblico di lavoro; che nella fattispecie il contratto allegato alla Delib. 4 novembre 2002, n. 119 aveva solo il nomen iuris di vendita di cosa futura, trattandosi invece di appalto di opera pubblica, poichè era previsto un acconto in corso d'opera, un termine di ultimazione dei lavori e che gli impianti tecnici fossero eseguiti a regola d'arte. Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione la Hermes s.r.l.. Resiste con controricorso la regione Calabria. Entrambe le parti hanno presentato memorie. Diritto MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dei principi generali in materia di riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo e delle norme di cui agli artt. 2043 e 1337 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 1 e 3. Assume la ricorrente che nel caso di specie non viene in contestazione la legittimità di atti amministrativi, ma soltanto che, avendo la regione agito iure privatorum, a seguito di un avviso di ricerca di mercato, abbia poi omesso di dar corso alla stipulazione del contratto di compravendita di cosa futura, nonostante l'affidamento ingenerato in ordine alla Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 70 Va, anzitutto, premesso che con la Delib. n. 873 del 2001 relativa alla ricerca di mercato per l'acquisizione(sia pure attraverso varie formule) di un complesso edilizio e con quella del 4.11.2002, n. 1010, di approvazione della stipulazione del contratto di compravendita secondo lo schema contrattuale allegato, l'amministrazione effettuava la scelta di operare iure privatorum, secondo valutazioni di sua competenza che si inquadravano nei poteri conferitile dalla L. n. 241 del 1990, art. 1. Avendo ad oggetto tali delibere la ricerca e poi l'acquisizione di un complesso edilizio sul libero mercato si è fuori dalla fattispecie di cui al D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 33 come modificato dalla L. n. 205 del 2000, art. 7. Quanto al primo punto, su cui si basa la statuizione della sentenza impugnata, va osservato, ai fini della giurisdizione, che la controversia non investe la legittimità di atti amministrativi posti in essere dalla regione: la ricorrente infatti non lamenta che alcuna delle delibere indicate sia illegittima ovvero che non sia stata data esecuzione a quelle delibere. Le deliberazioni sono riportate come momento formativo della volontà dell'ente, la quale, per effetto di tali delibere, prima si era formata nel senso di addivenire alla stipulazione di un contratto di acquisto di cosa futura e successivamente nel senso contrario per l'acquisto (o espropriazione) della sola area e per la successiva realizzazione dell'opera con la procedura della finanza di progetto. La ricorrente appunto lamenta che in un primo momento l'ente aveva trattato per un contratto di acquisto di cosa futura ed in questo senso aveva creato un affidamento nella conclusione di tale contratto e che in un momento successivo aveva interrotto la fase di conclusione, a suo parere ingiustificatamente. La domanda, quindi, si fonda, come previsto dal paradigma normativo di cui all'art. 1337 c.c., sul comportamento tenuto nei confronti di essa attrice dalla contraente regione nella fase formativa del contratto, per quanto in esecuzione di dette delibere. 4.3. Osserva questa Corte che il punto relativo al "se ed in quali termini tali delibere potessero legittimamente realizzare l'affidamento assunto dell'attrice e giustificare il comportamento della regione di interruzione della contrattazione" è questione che può Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 71 attenere al merito della controversia sulla pretesa responsabilità precontrattuale, ma non alla giurisdizione. La domanda risarcitoria proposta dall'attuale appellante prescinde dalla demolizione giuridica di determinazioni amministrative, in quanto ciò che si controverte attiene al danno (asseritamente) subito dalla Società attrice in base ad un contegno posto dall'Amministrazione in violazione delle regole che tutelano il legittimo affidamento delle parti in una trattativa precontrattuale. 5.1. Si pone quindi la questione della responsabilità precontrattuale della P.A.. La giurisprudenza solo con la sentenza n. 1675/1961 delle SS. UU. della Cassazione riconobbe la configurabilità della responsabilità precontrattuale in capo alla Pubblica amministrazione, affermando che compito del giudice di merito non è quello di valutare se il soggetto amministrativo sia stato un corretto amministratore, bensì se sia stato un corretto contraente. Il limite fondamentale di questa prima - pur importante - pronuncia fu quello di ritenere sussistente la culpa in contrahendo della Pubblica amministrazione in caso di recesso senza giustificato motivo da una trattativa privata (c.d. pura), cioè solo nei casi in cui la Pubblica amministrazione si spoglia dei propri poteri pubblicistici ed opera come un qualunque altro soggetto (con la conseguenza che nelle ipotesi successivamente sempre più ricorrenti - a seguito delle impostazioni di matrice comunitaria - di trattativa privata preceduta da gara informale non potevano applicarsi i principi civilistici della culpa in contrahendo). Per le procedure di gara (aperte o ristrette), invece, la giurisprudenza continuava ad operare un distinguo: in particolare, se l'illecito era avvenuto prima o dopo l'aggiudicazione. La giurisprudenza riteneva, infatti, che la responsabilità poteva essere affermata solo dopo l'aggiudicazione di una gara. Questa Corte, nel negare la qualità di contraente al mero partecipante alla gara, anteriormente all'aggiudicazione (donde l'affermazione della normale non applicabilità, in tale fase, della responsabilità precontrattuale della Pubblica amministrazione ai sensi dell'art. 1337 c.c.) ha tuttavia ammesso che, una volta intervenuta l'aggiudicazione, Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 72 l'aggiudicatario dovesse ormai ritenersi parte a tutti gli effetti (Cass., SS.UU. civ., 26 maggio 1997 n. 4673). Già prima delle innovazioni del 1998-2000 la giurisprudenza era, dunque, approdata alla conclusione della possibilità dell'applicazione delle regole in tema di responsabilità precontrattuale alla Pubblica amministrazione committente, ancorchè solo dopo l'aggiudicazione, nella fase intercorrente tra l'aggiudicazione e la stipula del contratto. Il dibattito sull'ammissibilità della responsabilità precontrattuale della Pubblica Amministrazione nell'ambito dell'attività negoziale si è arricchito a seguito delle note riforme del 1998-2000. Un'ulteriore spinta innovativa è derivata dalla nota pronuncia n. 500/1999 di queste Sezioni Unite sulla risarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi. 5.2. Si ammette oggi pacificamente la configurabilità di una responsabilità precontrattuale a carico anche della P.A., poichè anche a suo carico grava l'obbligo giuridico sancito dall'art. 1337 c.c. di comportarsi secondo buona fede durante lo svolgimento delle trattative, perchè con l'instaurarsi delle medesime sorge tra le parti un rapporto di affidamento che l'ordinamento ritiene meritevole di tutela. Pertanto, se durante tale fase formativa del negozio una parte viola il dovere di lealtà e correttezza ponendo in essere comportamenti che non salvaguardano l'affidamento della controparte (anche colposamente, in quanto non occorre un particolare comportamento oggettivo di malafede, nè la prova dell'intenzione di arrecare pregiudizio all'altro contraente) in modo da sorprendere la sua fiducia sulla conclusione del contratto, essa risponde per responsabilità precontrattuale. Invero - pur trascurando in questa primo approccio, l'indagine circa la possibilità di qualificare il rapporto de quo in termini di appalto pubblico di lavori, servizi o forniture - è assorbente il rilievo che la pretesa risarcitoria va posta nel quadro dell'art. 2043 c.c. (al quale il precetto dell'art. 1337 c.c. si collega). La giurisdizione, quindi, ove si dovesse riscontrare che manchi una norma attributiva al giudice amministrativo della giurisdizione esclusiva nella materia in esame, è devoluta alla cognizione del giudice ordinario senza che assuma rilievo la qualificazione della situazione Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 75 modi, ovvero a prezzi, condizioni e tempi inaccettabili per il più solerte perseguimento dell'interesse pubblico. Ne consegue la necessità che l'amministrazione valuti preventivamente la possibilità di ricorrere alle procedure ordinarie di realizzazione delle opere pubbliche, e ove ne verifichi la non praticabilità in relazione a specialissime, motivate e documentate esigenze di celerità, funzionalità ed economicità, potrà scegliere di acquisire l'immobile secondo il meccanismo della compravendita. 7.2. Occorre, quindi, esaminare se nella fattispecie il contratto in fieri avesse ad oggetto un appalto o una vendita di cosa futura. A tal fine va ribadito che di nessun rilievo è, ai fini della giurisdizione, accertare se sussistevano le condizioni per la Regione per poter utilizzare il contratto di compravendita di cosa futura, per poter procedere in autotutela a "ritirare" la delibera che aveva dato inizio ai contatti, e se la controparte avesse conoscenza di eventuali illegittimità procedimentali e quale rilievo ciò avesse nella fattispecie. In questa sede relativa all'accertamento della pretesa violazione dei principi sulla giurisdizione, occorre solo acclarare se il contratto in corso di formazione in questione integrasse un contratto di appalto di lavori o di compravendita di cosa futura, poichè solo questo determina l'applicabilità o meno della giurisdizione esclusiva del GA, anche per la responsabilità precontrattuale. 7.3. Comunemente si sostiene che la vendita ha per oggetto un dare, mentre l'appalto ha per oggetto un facere. La prima è diretta ad un trasferimento, mentre il secondo è inteso in primis alla produzione di un opus, mediante un'attività elaboratrice. L'uno presuppone l'esistenza attuale della cosa; l'altro l'inesistenza ed è posto in essere per produrla. Il problema si complica allorchè si tratta di vendita di cosa futura (art. 1472 c.c.) e cioè di bene non ancora esistente, segnatamente allorchè si tratti un prodotto d'opera non ancora realizzato e per l'esistenza del quale occorre l'attività strumentale positiva dell'alienante. Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 76 Anche in relazione a questo tipo di vendita si ritiene dalla dottrina maggioritaria e dalla giurisprudenza che si versi in ipotesi di contratto ab inizio perfetto, ricorrendo in esso tutti gli elementi essenziali del contratto, ma ad effetti obbligatori, poichè il momento traslativo sussisterà solo allorchè la cosa sia venuta ad esistenza: l'esigenza di tutelare il compratore contro il rischio del perimento dell'opera che si trovi ancora nella sfera di controllo dell'alienante induce a ritenere che l'opera debba ritenersi esistente solo al momento del suo completamento (Cass. 18.5.2001 n. 6851; Cass. n. 8118/1991; Cass. n. 3854/1989). 7.4. I criteri di distinzione proposti sono sostanzialmente due. Un primo criterio di distinzione, che può definirsi obbiettivo, propone di distinguere l'appalto dalla compravendita di cosa futura in base alla prevalenza quantitativa dell'elemento lavoro sull'elemento materia (il principio è applicato soprattutto in materia tributaria, essendo il criterio seguito dal D.P.R. n. 633 del 1972, Cass. sez. 5^, n. 9320/2006). Si è validamente obbiettato, allorchè tale criterio è stato trasferito fuori dall'area tributaria, che non è la prevalenza quantitativa del lavoro sulla materia che ha valore decisivo, ma il modo come il lavoro è considerato dalle parti. Il secondo criterio di distinzione tra i due contratti è quello subiettivo, alla stregua del quale dovrà vedersi in che modo le parti hanno considerato l'opera, se cioè in sè stessa o in quanto prodotto necessario di un'attività e quindi se la volontà delle parti aveva ad oggetto un dare o un facere. Il criterio subiettivo è quello più seguito dalla giurisprudenza (Cass. 20.10.1997 n. 10256; Cass. 19.11.2002, n. 16319; Cass. 2.8.2002, n. 11602). Per volontà delle parti deve intendersi non l'intenzione soggettiva, cioè l'opinione che esse abbiano avuto della natura del rapporto, ma l'intento empirico tipico in cui si inquadra la volontà che le muove. E' stato già rilevato che il privato non è padrone delle conseguenze giuridiche dei negozi che compie, le quali si producono vi legis e non vi voluntatis. Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 77 La cosiddetta libertà contrattuale dei privati comincia e termina con la creazione dell'elemento di fatto del negozio e cioè con la manifestazione di un determinato intento empirico. L'effetto giuridico è indipendente dalla rappresentazione che se ne faccia l'agente, il quale nessuna diretta influenza potrà esercitare su di esso. Quando perciò si propone di far richiamo alla volontà delle parti per qualificare il negozio, per volontà delle parti si deve intendere il dato dell'intento empirico che le parti hanno dimostrato di voler conseguire: se tale intento empirico coincide con quello della vendita, nel senso che il conseguimento della cosa costituisce la vera ed unica finalità del negozio ed il lavoro sia solo il mezzo per produrla, si ha vendita di cosa futura; se coincide con quello proprio dell'appalto, nel senso che l'attività realizzatrice della cosa sia la vera finalità del negozio, si ha appalto. 7.5. In giurisprudenza è stato più volte deciso che il contratto avente ad oggetto il trasferimento della proprietà di un'area edificabile in cambio di un fabbricato o di alcune sue parti da costruire sulla stessa superficie a cura e con i mezzi del cessionario, può integrare sia un contratto di permuta di un bene esistente con un bene futuro, sia un contratto misto, costituito con gli elementi della vendita e dell'appalto. Si configura il primo contratto se il sinallagma negoziale sia consistito nel trasferimento reciproco della proprietà attuale con la cosa futura (ipotesi la quale si verifica anche se si sia previsto il pagamento di un conguaglio in denaro, non incidendo tale clausola sulla causa tipica del negozio di permuta) e l'obbligo di erigere l'edificio sia restato su un piano accessorio e strumentale, mentre si ravvisa l'altro contratto, qualora la costruzione del fabbricato sia stata al centro della volontà delle parti e l'alienazione dell'area abbia costituito soltanto il mezzo per conseguire l'obiettivo primario (Cass. 09/11/2005, n. 21773; Cass. 12/04/2001, n. 5494; Cass. 24/01/1992, n. 811; Cass. n. 13 del 1990, Cass. n. 5147 del 1987). 7.6. Ritengono queste S.U. di dover aderire a tale orientamento consolidato, anche in tema di differenza tra vendita di cosa futura ed appalto. Pertanto il contratto avente ad oggetto la cessione di un fabbricato non ancora realizzato, con previsione dell'obbligo del cedente - che sia proprietario anche del terreno su cui l'erigendo fabbricato insisterà - di eseguire i lavori necessari al fine di completare il bene e Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 80 Già dal modo di "porsi sul mercato" con tale "ricerca di mercato" emerge che la regione mirava ad acquisire il godimento di un immobile (come diritto personale o come contenuto del diritto di proprietà) tramite preventiva locazione, anche finanziaria, con diritto di riscatto ovvero con acquisto di cosa futura, e non l'attività realizzatrice di un appaltatore. 8.2. Infondato è l'assunto della sentenza impugnata, secondo cui con lo schema della vendita di cosa futura sarebbe incompatibile la previsione di acconti. Incompatibile con la vendita di cosa futura non è l'acconto di per sè, quanto la previsione di acconti in corso d'opera in relazione a stati di avanzamento dei lavori, propri, invece dell'appalto. Mentre nell'appalto l'acconto si giustifica in virtù del SAL e dunque di una parziale esecuzione dell'oggetto del contratto, nella vendita di cosa futura l'adempimento dell'alienante si configura solo con il completamento del bene, per cui antecedentemente non è previsto un pagamento per un "parziale" adempimento. Sennonchè nello schema di contratto allegato alla Delib. n. 119 del 2002 il pagamento di 14 milioni di Euro è previsto non come "acconto d'opera", ma come anticipazione di pagamento di parte del prezzo finale. 8.3. Egualmente infondato è l'assunto della sentenza impugnata, secondo cui la previsione di un termine di ultimazione dei lavori sarebbe tipica dell'appalto e normalmente estranea all'ipotizzato contratto di vendita. Infatti, allorchè la vendita di cosa futura preveda che la cosa venga ad esistenza attraverso il comportamento dell'alienante e che, quindi, sia pure quale elemento accessorio, sia prevista un'attività di questi, è perfettamente conciliabile con tale schema contrattuale la fissazione di un termine entro cui detta cosa futura debba venire ad esistenza. 8.4. Neppure è elemento, che milita necessariamente per la qualificazione dello schema contrattuale come appalto, l'obbligo assunto dall'attrice di realizzare gli impianti a perfetta regola d'arte, in quanto anche nella vendita di cosa futura devono essere preventivamente individuate le caratteristiche tecniche dell'opera da realizzare, analogamente quanto alla costituzione di una commissione di esperti per verificare la "regolare esecuzione del Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 81 contratto", in quanto l'intervento di detta commissione, non è stato previsto come controllo in corso d'opera, quale quello che effettua il direttore dei lavori della stazione appaltante o l'ingegnere capo, ma dopo la realizzazione e consegna dell'opera. Non potendo tale commissione incidere nel momento del facere, il ruolo ad essa spettante è solo quello di verifica dell'opera compiuta, che è perfettamente conciliabile con la vendita di cosa futura. Inoltre nella fattispecie si tratta di commissione paritetica, composta da rappresentati di entrambi le parti, mentre tali non sono i controlli svolti in corso di contratto di appalto. Ritenuti, quindi, insussistenti gli elementi posti dalla sentenza impugnata a base della qualificazione del contratto in questione quale contratto di appalto, vanno ora esaminati, quali sono gli elementi che fanno qualificare detto contratto come contratto di vendita di cosa futura. 8.5. E' vero che il nomen iuris dato dalle parti allo schema contrattuale in questione di per sè non è rilevante e neppure lo è l'art. 4 nella parte in cui dichiara che "le parti convengono espressamente che il presente contratto si configura come acquisto di cosa futura, anche agli effetti dell'art. 1472 c.c.", per le ragioni già dette, secondo cui ciò che conta non è l'intenzione soggettiva delle parti sulle conseguenze giuridiche delle volontà espresse, ma l'intento empirico di tale manifestazioni di volontà. In questo senso sono quindi rilevanti l'art. 2, in cui la Hermes dichiara di trasferire la piena proprietà del complesso immobiliare da realizzare in Catanzaro e la Regione Calabria dichiara di acquistare tale bene; l'art. 3, in cui le parti dichiarano che oggetto del trasferimento sono l'appezzamento del terreno, i manufatti e le opere da realizzare; l'art. 4, nella parte in cui le parti specificano che la proprietà dei beni sarà trasferita alla regione solo nel momento in cui il complesso viene ad esistenza. 8.6. Quanto all'interpretazione delle clausole contrattuali va, anzitutto, rilevato che l'art. 1362 c.c., allorchè nel comma 1 prescrive all'interprete di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole, non svaluta l'elemento letterale del contratto, anzi intende ribadire che, qualora la lettera della convenzione, per le espressioni usate, rilevi con chiarezza ed univocità la volontà dei contraenti e non vi è divergenza tra la lettera e lo spirito della convenzione, una diversa Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 82 interpretazione non è ammissibile; soltanto quando le espressioni letterali del contratto non sono chiare, precise ed univoche, è consentito al giudice ricorrere agli altri elementi interpretativi indicati dagli artt. 1362 e ss. c.c., che hanno carattere sussidiario (Cass. 22/02/2007, n. 4176; Cass. 1.4.1993, n. 3936). Pertanto, nella ricerca della comune intenzione dei contraenti, il primo e principale strumento dell'operazione interpretativa, è costituito dalle parole ed espressioni del contratto e, qualora queste siano chiare e dimostrino un'intima ratio, il giudice non può ricercarne una diversa, venendo così a sovrapporre la propria soggettiva opinione all'effettiva volontà dei contraenti (Cass. 22/12/2005, n. 28479; 03/12/2004, n. 22781; Cass. 22.4.1995, n. 4563). 8.7. Nella fattispecie, come risulta sia dall'avviso di ricerca di mercato che dallo schema del contratto, l'interesse dell'amministrazione non era tanto quello di ottenere il suolo per una successiva trasformazione del medesimo, quanto l'acquisizione di un edificio già realizzato rispetto al quale sia l'acquisto del suolo che il lavoro del costruttore appaiono come elementi indispensabili, ma comunque accessori, rispetto all'oggetto effettivo del contratto. Peraltro, come si è visto, a fronte della ritenuta natura del contratto come compravendita di cosa futura, non avrebbe mai potuto sussistere solo un contratto di appalto, in quanto il terreno era della stessa Hermes (ipotetica appaltatrice) ed il contratto in questione sarebbe stato un contratto di appalto di opera pubblica su terreno di proprietà dello stesso appaltatore, ma un contratto misto di vendita con effetti reali di bene esistente (il terreno) e di contestuale appalto per la realizzazione dell'edificio. Sennonchè, come detto, dall'art. 2 del contratto emerge che l'intento delle parti non era quello di trasferire la sola proprietà del terreno ma anche quella dell'intero complesso da realizzare e che lo stesso trasferimento della proprietà del terreno sarebbe avvenuto in una alla proprietà del complesso immobiliare, allorchè esso sarebbe stato ultimato. 8.8. In merito al passaggio di proprietà dell'opera nell'appalto di costruzione di immobili, la dottrina, che se ne è occupata, ritiene condivisibilmente che, se il suolo è di proprietà del committente, l'opera nasce di sua proprietà per accessione; se invece il terreno è dell'appaltatore (o perchè già suo o perchè l'abbia acquistato ai fini dell'esecuzione del Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 85 Con unico complesso motivo il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione dell'art. 1341 c.c., e art. 1469 c.c. e ss. Si duole che il Giudice non abbia considerato la natura processuale della disposizione di cui all'art. 1469 bis c.c., comma 3, n. 19, prevedente la inderogabilità - a pena di inefficacia - del foro del consumatore, che impedisce in via generale al professionista di radicare il giudizio in un luogo diverso da quello in cui il convenuto ha la propria residenza o domicilio, salva l'ipotesi di clausola che risulti frutto di trattativa individuale ex art. 1469 ter c.c., comma 4. Lamenta che nella specie la clausola n. 7, ove risulta indicata la competenza del foro di Modena per ogni controversia relativa allo stipulato contratto, non ha costituito oggetto di trattativa individuale, in quanto approvata per iscritto congiuntamente ad altre clausole del pari richiamate, con modalità pertanto inidonea a suscitare l'attenzione del contraente. Si duole che erroneamente il Giudice abbia ritenuto "l'aggiunta a penna" della clausola di deroga del foro del consumatore come idonea a dimostrare "la esistenza della libera autodeterminazione delle parti" al riguardo; e che del pari erroneamente il giudice abbia ritenuto a lui incombere la prova dell'"assenza di trattative" in merito, in violazione di quanto viceversa "espressamente previsto dall'art. 1469 c.c., comma 5". Pone conclusivamente alla Corte i seguenti quesiti. a) Se nelle controversie tra consumatore e professionista la disposizione dettata dall'art. 1469 bis c.c., comma 3, si interpreta nel senso che il legislatore ha stabilito la competenza territoriale esclusiva del Giudice del luogo in cui il consumatore ha la residenza o il domicilio elettivo, presumendosi vessatoria la clausola che stabilisca come sede del foro competente una diversa località (al riguardo evoca la massima posta da Cass., Sez. Un., 1/10/2003, n. 14669). b) Se per superare la presunzione di vessatorietà della clausola che stabilisce, come sede del foro competente a decidere le controversie tra professionista e consumatore, una località diversa da quella della residenza o del domicilio elettivo di quest'ultimo, il professionista ha l'onere di provare che la clausola con cui è stato pattuito un foro non coincidente con uno di quelli speciali alternativi normativamente previsti in materia di controversie aventi ad oggetto obbligazioni contrattuali è stata oggetto di trattativa Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 86 individuale con il consumatore (e al riguardo fa richiamo al principio enunziato da Cass. 29/9/2004, n. 19591). c) Se la trattativa specifica che deve riguardare la clausola vessatoria ai danni del consumatore può consistere nella mera approvazione per iscritto della clausola stessa ovvero deve consistere in una partecipazione attiva del consumatore sin dalla fase della predisposizione della clausola; e se in mancanza di prova di tale trattativa la clausola vessatoria è nulla. d) Se nel contratto concluso mediante moduli o formulari per disciplinare in modo uniforme determinati rapporti contrattuali, disponendo l'art. 1469 ter c.c., commi 4 e 5, che non sono vessatorie le clausole o gli elementi di clausola che siano stati oggetto di trattativa individuale, sia il professionista a dover provare che, malgrado da egli unilateralmente predisposte, le, clausole hanno costituito oggetto di specifica trattativa individuale (e al riguardo fa espresso richiamo a quanto affermato da Cass. 28/6/2005, n. 13890). e) Se il richiamo cumulativo di tutte le condizioni generali di contratto costituisca specifica approvazione per iscritto delle clausole vessatorie ai fini e per gli effetti di cui all'art. 1341 c.c., comma 2, ovvero sia necessario che la clausola onerosa per la parte che ad essa si assoggetta sia chiaramente e autonomamente evidenziata dalla parte che l'ha predisposta, solamente in tale ipotesi potendo ritenersi assolto l'obbligo di informazione sul contenuto della stessa per averla resa conoscibile a colui che l'ha sottoscritta; e se il richiamo in blocco di tutte le condizioni generali di contratto, con indiscriminata sottoscrizione delle medesime apposta sotto la relativa elencazione in base al mero numero d'ordine, sia o meno idonea a determinare, ai sensi dell'art. 1341 c.c., comma 2, la validità- efficacia di quelle vessatorie, qual è la clausola sulla deroga convenzionale all'ordinaria competenza territoriale (e al riguardo fa specifico richiamo a Cass., 14/6/1999, n. 5832). Il ricorso dovrà essere dichiarato fondato nei termini di seguito indicati. Come si evince dalla impugnata sentenza trattasi di domanda di annullamento per dolo o risoluzione del contratto tra le parti stipulato ed avente ad oggetto "un trattamento di epilazione radiale", da effettuarsi presso la sede di Napoli della società MEDIKAL CONSULTING s.r.l., alla cui stipulazione l'odierno ricorrente G. è stato "indotto dalla Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 87 pubblicità diramata sull'emittente (OMISSIS)", al fine di "ottenere l'eliminazione permanente di peluria diffusa in tutto il corpo". Contratto dal Giudice di merito qualificato come "sussumibile" nei c.d. contratti del consumatore. A tale stregua, oltre alla disciplina in tema di condizioni generali di contratto di cui all'art. 1341 c.c. e ss., trova applicazione anche la disciplina di tutela del consumatore. Disciplina dettata dal Capo 14 bis del c.c., ed ora dal D.Lgs. n. 206 del 2005 (c.d. Codice del consumo). Ai sensi dell'art. 1469 bis c.c., comma 3, n. 19, ora riversato nel D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 33, comma 2, lett. u), la competenza per territorio del Giudice va determinata con riferimento al luogo di residenza o domicilio elettivo del consumatore (v. Cass., 28/6/2005, n. 13890). Orbene, il foro del consumatore è invero esclusivo e speciale, sicchè deve presumersi la vessatorietà della clausola che stabilisca come sede del foro competente una località diversa da quella della residenza o del domicilio elettivo del consumatore, anche se il foro competente coincida con uno dei fori legali di cui agli artt. 18 e 20 c.p.c., (cfr. Cass. 23/2/2007, n. 4208). Ai fini della deroga del foro del consumatore è allora in ogni caso insufficiente la specifica approvazione per iscritto ex art. 1341 c.c., comma 2. Essendo ai sensi dell'art. 1469 bis c.c., comma 3, n. 19, ed ora del D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 33, comma 2, lett. u), la clausola che stabilisca come sede del foro competente una località diversa da quella della residenza o del domicilio elettivo del consumatore presuntivamente vessatoria, trova infatti comunque applicazione anche la richiamata disciplina in tema di contratti del consumatore. Disciplina di tutela altra e diversa da quella dettata all'art. 1341 c.c. e ss., la cui applicazione rimane esclusa solamente ove la clausola (o parte di essa) abbia costituito oggetto di trattativa individuale ex art. 1469 ter c.c., comma 4, e D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 34, comma 4. Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 90 E ciò, si noti, quand'anche (ma trattasi di circostanza invero non emergente dall'impugnata sentenza) tale aggiunta risulti di scrittura autografa del consumatore. Vale esemplificativamente osservare che, come posto in rilievo in dottrina, nella circolare ABI del 23 febbraio 1996 si suggeriva alle banche di adottare (anche) tale espediente proprio al fine di precostituirsi la prova della trattativa. Va al riguardo sottolineato che per esplicita previsione normativa (art. 1469 ter c.c., u.c., e D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 34, comma 5), nei contratti del consumatore conclusi mediante moduli o formulari predisposti per disciplinare in maniera uniforme determinati rapporti contrattuali, incombe invero sul professionista l'onere di provare che pur se da egli predisposte le clausole che ne costituiscono il contenuto hanno formato oggetto di specifica trattativa con il consumatore. Il positivo assolvimento da parte del professionista di tale onere probatorio comporta l'esclusione dell'applicazione della disciplina di protezione in argomento, e l'assoggettamento del contratto alle regole dettate dal codice in tema di contratto in generale, oltre che di quelle proprie del tipo negoziale adottato dalle parti nel singolo caso. Le richiamate norme fanno specifico ed espresso riferimento esclusivamente ai contratti conclusi mediante moduli o formulari predisposti per disciplinare in maniera uniforme determinati rapporti contrattuali, laddove nessuna regola particolare è invece al riguardo dettata con riferimento al contratto individualmente negoziato. Un tanto non consente tuttavia ad inferire che per questi ultimi incomba al consumatore che agisce in giudizio dare la prova negativa della "assenza di trattativa". Atteso che come sopra esposto quest'ultima non costituisce invero un elemento costitutivo della vessatorietà da considerarsi a carico dell'attore quale prius logico rispetto alla verifica della sussistenza del significativo squilibrio in cui riposa l'abusività della clausola e del contratto, bensì rileva quale presupposto oggettivo di esclusione dell'applicazione della disciplina di tutela in questione, al consumatore che agisce in giudizio per la declaratoria di inefficacia della clausola in base alla regola generale ex art. 2697 c.c., incombe di allegare che ricorrono i presupposti ed i requisiti necessari e sufficienti per pervenire alla declaratoria domandata, e cioè che il contratto è stato predisposto dal professionista, il quale lo utilizza nel quadro della sua attività professionale, e che le clausole costituenti il Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 91 contenuto del contratto corrispondono a quelle vessatorie di cui all'art. 1469 bis c.c., comma 3, o D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 33, comma 2, (ovvero art. 36, comma 2). Spetta viceversa al professionista dare la prova dei fatti impeditivi o modificativi, e pertanto la prova positiva dello svolgimento della trattativa e della relativa idoneità, in quanto caratterizzata dagli imprescindibili requisiti più sopra indicati, ad atteggiarsi a presupposto di esclusione dell'applicazione della normativa in argomento (cfr. Cass. 28/6/2005, n. 13890). Avuto riguardo ai contratti del consumatore, in base ad una scelta di carattere sicuramente qualitativo il legislatore ha infatti posto l'onere della prova in capo alla parte - il professionista- che in base al ruolo svolto (anche) nel rapporto contrattuale ha senz'altro maggiore possibilità di fornirla. Al 3^ quesito il ricorrente pone anche la questione se in mancanza di prova della trattativa la clausola derogatoria della competenza sia "nulla". A tale quesito non può darsi invero risposta, atteso che con il regolamento di competenza possono farsi valere solamente questioni concernenti l'individuazione del Giudice competente a conoscere della causa, al fine di evitare che la sua designazione sia ulteriormente posta in discussione nell'ambito della stessa controversia, e del sistema di rilevazione di tale competenza (cfr. Cass., 7/2/2006, n. 2591; Cass. Sez. Un., 11/10/2002, n. 14569). Alla stregua di quanto sopra rilevato ed esposto ai suindicati quesiti andrà pertanto data risposta, assorbita ogni altra e diversa questione, con l'enunziazione dei seguenti principi. 1) Nelle controversie tra consumatore e professionista, ai sensi del D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 33, comma 2, lett. u), (e già dell'art. 1469 bis c.c., comma 3, n. 19) la competenza territoriale esclusiva spetta al Giudice del luogo in cui il consumatore ha la residenza o il domicilio elettivo, presumendosi vessatoria la clausola che statuisca come sede del foro competente una località diversa. 2) Ai sensi del D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 34, comma 5, (e già dell'art. 1469 bis c.c., comma 5), incombe al consumatore che agisce in giudizio per la declaratoria di inefficacia della clausola di allegare e provare che ricorrono i presupposti ed i requisiti necessari e Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 92 sufficienti per pervenire alla declaratoria domandata, e cioè che il contratto è stato predisposto dal professionista, il quale lo utilizza nel quadro della sua attività professionale, e che le clausole costituenti il contenuto del contratto corrispondono a quelle vessatorie di cui del D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 33, comma 2, (e già dell'art. 1469 bis c.c., comma 3). Spetta viceversa al professionista dare la prova dei fatti impeditivi o modificativi, e pertanto la prova positiva dello svolgimento della trattativa e della relativa idoneità (in quanto caratterizzata dagli imprescindibili requisiti della individualità, serietà ed effettività) ad escludere l'applicazione della disciplina di tutela del consumatore posta dal Codice del consumo (e già dall'art. 1469 bis c.c. e ss.). 3) L'aggiunta a penna della clausola nell'ambito di testo contrattuale dattiloscritto o la mera approvazione per iscritto della clausola sono inidonee ai fini della prova positiva della trattativa, sia quale fatto storico che della relativa effettività, e pertanto dell'idoneità della medesima a precludere l'applicabilità della disciplina di tutela del consumatore posta dal Codice del consumo (e già dall'art. 1469 bis c.c. e ss.). 4) Il richiamo in blocco di tutte le condizioni generali di contratto e la sottoscrizione indiscriminata di esse apposta sotto la relativa elencazione in base al mero numero d'ordine è inidonea a determinare, ai sensi dell'art. 1341 c.c., comma 2, l'efficacia della clausola vessatoria (rectius, onerosa) di deroga all'ordinaria competenza territoriale, essendo a tal fine necessario che la stessa risulti dal predisponente chiaramente e autonomamente evidenziata e dall'aderente specificamente ed autonomamente sottoscritta. Alla stregua di quanto sopra osservato e degli enunziati principi va ulteriormente precisato che nel caso è da ritenersi applicabile la disciplina dettata dal Codice del consumo. Come questa Corte ha già avuto modo di affermare il principio della perpetuatio iurisdictionis posto dall'art. 5 c.p.c., nel testo novellato dalla L. n. 353 del 1990, art. 2, comporta l'irrilevanza dei mutamenti legislativi come nella specie successivi alla proposizione della domanda solamente nel caso che alla stregua dei medesimi il Giudice adito risulti privato della competenza (o della giurisdizione) spettantegli al tempo dell'introduzione della domanda, e non anche laddove la competenza (o della Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 95 di clausola contrattuale di proroga della competenza incombe al medesimo dare la prova positiva che tale clausola è stata oggetto di trattativa idonea - in quanto caratterizzata dagli imprescindibili requisiti della individualità, serietà ed effettività - ad escludere l'applicazione della disciplina di tutela del consumatore posta dal Codice del consumo (e già dall'art. 1469 bis c.c. e ss.). Laddove - diversamente dall'ipotesi in esame - sia viceversa il consumatore, convenuto avanti a foro diverso da quello suo proprio, a sollevare questione di incompetenza territoriale del Giudice avanti al quale è stato tratto, al medesimo incombe di allegare che trattasi di controversia concernente contratto concluso mediante sottoscrizione di moduli o formulari predisposti per disciplinare in maniera uniforme determinati rapporti contrattuali, spettando al professionista, che contrappone la sussistenza di una clausola di deroga al foro del consumatore, dare la prova positiva che tale clausola è stata oggetto di trattativa idonea -in quanto caratterizzata dagli imprescindibili requisiti della individualità, serietà ed effettività - ad escludere l'applicazione della disciplina di tutela del consumatore posta dal Codice del consumo (e già dall'art. 1469 bis c.c. e ss.). 3) La regola di ripartizione dell'onere probatorio indicata sub 2) si applica anche al contratto concluso in maniera diversa dalla sottoscrizione di moduli o formulari predisposti per disciplinare in maniera uniforme determinati rapporti contrattuali. 4) Ai sensi del D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 34, comma 5, (e già dell'art. 1469 ter c.c., comma 5), spetta al professionista, che intende far valere un contratto concluso mediante sottoscrizione di moduli o formulari predisposti per disciplinare in maniera uniforme determinati rapporti contrattuali dare la prova positiva che le clausole (diverse da quella di deroga al foro del consumatore) sono state oggetto di trattativa idonea - in quanto caratterizzata dagli imprescindibili requisiti della individualità, serietà ed effettività - ad escludere l'applicazione della disciplina di tutela del consumatore posta dal Codice del consumo (e già dall'art. 1469 bis c.c. e ss.). Ove sia il consumatore ad agire in giudizio per la declaratoria di inefficacia di una clausola vessatoria o abusiva, al medesimo incombe allegare che la clausola accede a contratto concluso mediante sottoscrizione di moduli o formulari predisposti per disciplinare in maniera uniforme determinati rapporti contrattuali. Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 96 Spetta viceversa al professionista dare la prova dei fatti impeditivi o modificativi, e pertanto la prova positiva dello svolgimento della trattativa e della relativa idoneità - in quanto caratterizzata dagli imprescindibili requisiti della individualità, serietà ed effettività - ad escludere l'applicazione della disciplina di tutela del consumatore posta dal Codice del consumo (e già dall'art. 1469 bis c.c. e ss.). 5) La regola di ripartizione dell'onere probatorio indicata sub 4) si applica anche al contratto concluso in maniera diversa dalla sottoscrizione di moduli o formulari predisposti per disciplinare in maniera uniforme determinati rapporti contrattuali, sicchè spetta al professionista dare la prova positiva che le clausole sono state oggetto di trattativa idonea - in quanto caratterizzata dagli imprescindibili requisiti della individualità, serietà ed effettività - ad escludere l'applicazione della disciplina di tutela del consumatore posta dal Codice del consumo (e già dall'art. 1469 bis c.c. e ss.); incombe al consumatore che agisce in giudizio per la declaratoria di inefficacia di una clausola vessatoria o abusiva (diversa da quella di deroga al foro del consumatore) allegare che ricorrono i presupposti ed i requisiti necessari e sufficienti per pervenire alla declaratoria domandata, e cioè che il contratto è stato predisposto dal professionista, il quale lo utilizza nel quadro della sua attività professionale, e che le clausole costituenti il contenuto del contratto corrispondono a quelle vessatorie di cui del D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 33, comma 2, (e già dell'art. 1469 bis c.c., comma 3); spetta invece al professionista dare la prova dei fatti impeditivi o modificativi, e pertanto la prova positiva dello svolgimento di trattativa idonea - in quanto caratterizzata dagli imprescindibili requisiti della individualità, serietà ed effettività - ad escludere l'applicazione della disciplina di tutela del consumatore posta dal Codice del consumo (e già dall'art. 1469 bis c.c. e ss.). 6) L'aggiunta a penna della clausola nell'ambito di testo contrattuale dattiloscritto o la mera approvazione per iscritto di una clausola sono inidonee ai fini della prova positiva della trattativa, sia quale fatto storico che della relativa effettività, e pertanto dell'idoneità della medesima a precludere l'applicabilità della disciplina di tutela del consumatore posta dal Codice del consumo (e già dall'art. 1469 bis c.c. e ss.). 7) In mancanza della prova della trattativa, in base al D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 36, comma 1, le clausole considerate vessatorie ai sensi degli artt. 33 e 34, sono mille, mentre il contratto rimane valido per il resto. Esercitazioni di diritto civile a.a. 2012/2013 97 8) Il richiamo in blocco di tutte le condizioni generali di contratto e la sottoscrizione indiscriminata di esse apposta sotto la relativa elencazione in base al mero numero d'ordine è inidonea a determinare, ai sensi dell'art. 1341 c.c., comma 2, l'efficacia della clausola vessatoria (rectius, onerosa) di deroga all'ordinaria competenza territoriale, essendo a tal fine necessario che la stessa risulti dal predisponente chiaramente e autonomamente evidenziata, e dall'aderente specificamente ed autonomamente sottoscritta. In accoglimento del ricorso deve essere pertanto dichiarata la competenza per territorio del Tribunale di Salerno. Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte dichiara la competenza per territorio del Tribunale di Salerno. Condanna la intimata al pagamento delle spese del procedimento di regolamento, che liquida in complessivi Euro 1.100,00, di cui Euro 1.000,00, per onorari, oltre a spese generali ed accessori come per legge. Così deciso in Roma, il 3 luglio 2008. Depositato in Cancelleria il 26 settembre 2008
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