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Etica Nicomachea, Appunti di Etica

Testo completo dell'Etica Nicomache di Aristotele

Tipologia: Appunti

2012/2013

Caricato il 12/12/2013

quercia94
quercia94 🇮🇹

4

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Scarica Etica Nicomachea e più Appunti in PDF di Etica solo su Docsity! Etica Nicomachea Etica Nicomachea Aristotele Libro I Libro II Libro III Libro IV Libro V Libro VI Libro VII Libro VIII Libro IX Etica Nicomachea Libro X A cura della prof.ssa Maria Elena Auxilia auxilia.m@libero.it ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO LIBRO I ARISTOTELE ETICA A NICOMACO LIBRO I 1. [Il bene è lo scopo]. [1094a] Si ammette generalmente che ogni tecnica praticata metodicamente, e, ugualmente, ogni azione realizzata in base a una scelta, mirino ad un bene: perciò a ragione si è affermato che il bene è "ciò cui ogni cosa tende" 1 . Ma tra i fini c’ un’evidente differenza: alcuni infatti sono attività, altri sono opere che da esse derivano. [5] Quando ci sono dei fini al di là delle azioni, le opere sono per natura di maggior valore delle attività. E poiché molte sono le azioni, le arti e le scienze, molti sono anche i fini: infatti, mentre della medicina il fine è la salute, dell’arte di costruire navi il fine è la nave, della strategia la vittoria, dell’economia la ricchezza. [10] Tutte le attività di questo tipo sono subordinate ad un’unica, determinata capacità: come la fabbricazione delle briglie e di tutti gli altri strumenti che servono per i cavalli è subordinata all’equitazione, e quest’ultima e ogni azione militare sono subordinate alla strategia, così allo stesso modo, altre attività sono subordinate ad attività diverse. In tutte, però, i fini delle attività architettoniche [15] sono da anteporsi a quelli delle subordinate: i beni di queste ultime infatti sono perseguiti in vista di quei primi. E non c’ alcuna differenza se i fini delle azioni sono le attività in sé, oppure qualche altra cosa al di là di esse, come nel caso delle scienze suddette. 2. [Il bene per l’uomo è l’oggetto della politica]. Orbene, se vi è un fine delle azioni da noi compiute che vogliamo per se stesso, mentre vogliamo tutti gli altri in funzione di quello, e se noi non [20] scegliamo ogni cosa in vista di un’altra (così infatti si procederebbe all’infinito, cosicché la nostra tensione resterebbe priva di contenuto e di utilità), è evidente che questo fine deve essere il bene, anzi il bene supremo. E non è forse vero che anche per la vita la conoscenza del bene ha un grande peso, e che noi, se, come arcieri, abbiamo un bersaglio, siamo meglio in grado di raggiungere ciò che dobbiamo? Se è [25] così, bisogna cercare di determinare, almeno in abbozzo, che cosa mai esso sia e di quale delle scienze o delle capacità sia l’oggetto. Si ammetterà che appartiene alla scienza più importante, cioè a quella che è architettonica in massimo grado. Tale è, manifestamente, la politica. Infatti, è questa che stabilisce quali scienze è necessario coltivare nelle città, [1094b] e quali ciascuna classe di cittadini deve apprendere, e fino a che punto; e vediamo che anche le più apprezzate capacità, come, per esempio, la strategia, l’economia, la retorica, sono subordinate ad essa. E poiché è essa che si serve di tutte le altre scienze e che stabilisce, [5] inoltre, per legge che cosa si deve fare, e da quali azioni ci si deve astenere, il suo fine abbraccerà i fini delle altre, cosicché sarà questo il bene per l’uomo. Infatti, se anche il bene è il medesimo per il singolo e per la città, è manifestamente qualcosa di più grande e di più perfetto perseguire e salvaguardare quello della città: infatti, ci si può, sì, contentare anche del bene di un solo individuo, [10] ma è più bello e più divino il bene di un popolo, cioè di intere città. La nostra ricerca mira appunto a questo, dal momento che è una ricerca "politica". 3. [Limiti metodologici della scienza politica]. La trattazione sarà adeguata, se avrà tutta la chiarezza compatibile con la materia che ne è l’oggetto: non bisogna infatti ricercare la medesima precisione in tutte le opere di pensiero, così come non si deve ricercarla in tutte le opere manuali. Il moralmente bello e il giusto, [15] su cui verte la politica, presentano tante differenze e fluttuazioni, che è diffusa l’opinione che essi esistano solo per convenzione, e non per natura. Una tale fluttuazione hanno anche i beni, per il fatto che per molta gente essi vengono ad essere causa di danno: infatti, è già capitato che alcuni siano stati rovinati dalla ricchezza, altri dal coraggio. Bisogna contentarsi, quando si parla di tali argomenti [20] con tali premesse, di mostrare la verità in maniera grossolana e approssimativa, e, quando si parla di cose solo per lo più costanti e si parte da premesse dello stesso genere, di trarne conclusioni dello stesso tipo . Allo stesso modo, quindi, è necessario2 che sia accolto ciascuno dei concetti qui espressi: è proprio dell’uomo colto, infatti, richiedere in ciascun campo tanta precisione [25] quanta ne permette la natura dell’oggetto, giacché è manifesto che sarebbe pressappoco la stessa cosa accettare che un matematico faccia dei ragionamenti solo probabili e richiedere dimostrazioni da un oratore. Ciascuno giudica bene ciò che conosce, e solo di questo è buon giudice. [1095a] Dunque, in ciascun campo giudica adeguatamente chi ha una preparazione specifica, ma è buon giudice in generale chi ha una preparazione globale. Perciò il giovane non è uditore adatto di una trattazione politica, giacché egli non ha esperienza delle azioni concretamente vissute, mentre è da queste che partono ed è su queste che vertono i presenti ragionamenti. Inoltre, essendo incline alle passioni, egli [5] ascolterà invano, cioè senza trarne giovamento, poiché il fine qui non è la conoscenza ma l’azione. Non fa alcuna differenza se egli è giovane per età o simile ad un giovane per carattere: la insufficienza non deriva dal tempo, ma dal vivere assecondando la passione e dal lasciarsi trascinare da qualsiasi tipo di attrazione. Per uomini simili la conoscenza risulta inutile, come per gli incontinenti; [10] per coloro invece che configurano ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO LIBRO I Bene supremo è, manifestamente, un che di perfetto. Per conseguenza, se vi è una qualche cosa che sola è perfetta, questa deve essere il bene che stiamo cercando, [30] ma se ve ne sono più, lo sarà la più perfetta di esse. Diciamo, poi, "più perfetto" ciò che è perseguito per se stesso in confronto con ciò che è perseguito per altro, e ciò che non è mai scelto in vista di altro in confronto con quelle cose che sono scelte sia per se stesse sia per altro; quindi diciamo perfetto in senso assoluto ciò che è scelto sempre per sé e mai per altro. Di tale natura è, come comunemente si ammette, la felicità, [1097b] perché la scegliamo sempre per se stessa e mai in vista di altro, mentre onore e piacere e intelligenza e ogni virtù li scegliamo, sì, anche per se stessi (sceglieremmo infatti ciascuno di questi beni anche se non ne derivasse nient’altro), ma li scegliamo anche in vista della felicità, [5] perché è per loro mezzo che pensiamo di diventar felici. La felicità, invece, nessuno la sceglie in vista di queste cose, né in generale in vista di altro. È manifesto che anche partendo dal punto di vista dell’autosufficienza si giunge allo stesso risultato: si ritiene infatti che il Bene perfetto sia autosufficiente. Ma intendiamo l’autosufficienza non in relazione ad un individuo nella sua singolarità, cioè a chi conduce una vita solitaria, ma in relazione anche ai genitori, [10] ai figli, alla moglie e, in generale, agli amici e ai concittadini, dal momento che l’uomo per natura è un essere che vive in comunità. A queste persone poi deve essere posto un limite. Se si estende questa considerazione agli antenati e ai discendenti e agli amici degli amici, si procede all’infinito. Ma questo va considerato in seguito. Per ora definiamo l’autosufficienza come ciò che, anche preso singolarmente, [15] rende la vita degna di essere scelta, senza che le manchi alcunché. Di tale natura noi pensiamo che sia la felicità. Inoltre pensiamo che la felicità sia il più degno di scelta tra tutti i beni, senza aggiunte (se fosse così, è chiaro che sarebbe più degna di scelta solo insieme con un altro bene, anche il più piccolo); infatti, quello che le fosse aggiunto sarebbe un sovrappiù di bene, e di due beni quello più grande è sempre più degno di scelta. [20] Per conseguenza la felicità è, manifestamente, qualcosa di perfetto e autosufficiente, in quanto è il fine delle azioni da noi compiute. Ma, certo, dire che la felicità è il bene supremo è, manifestamente, un’affermazione su cui c’ completo accordo; d’altra parte si sente il desiderio che si dica ancora in modo più chiaro che cosa essa è. Forse ci si riuscirebbe se si cogliesse la funzione [25] dell’uomo. Come, infatti, per il flautista, per lo scultore e per chiunque eserciti un’arte, e in generale per tutte le cose che hanno una determinata funzione ed un determinato tipo di attività, si ritiene che il bene e la perfezione consistano appunto in questa funzione, così si potrebbe ritenere che sia anche per l’uomo, se pur c’ una sua funzione propria. Forse, dunque, ci sono funzioni ed azioni proprie del falegname e del calzolaio, [30] mentre non ce n’ alcuna propria dell’uomo, ma è nato senza alcuna funzione specifica? Oppure come c’, manifestamente, una funzione determinata dell’occhio, della mano, del piede e in genere di ciascuna parte del corpo, così anche dell’uomo si deve ammettere che esista una determinata funzione oltre a tutte queste? Quale, dunque, potrebbe mai essere questa funzione? È manifesto infatti che il vivere è comune anche alle piante, mentre qui si sta cercando ciò che è proprio dell’uomo. [1098a] Bisogna dunque escludere la vita che si riduca a nutrizione e crescita. Seguirebbe la vita dei sensi, ma anch’essa è, manifestamente, comune anche al cavallo, al bue e ad ogni altro animale. Dunque rimane la vita intesa come un certo tipo di attività della parte razionale dell’anima (e di essa una parte è razionale in quanto è obbediente alla ragione, mentre l’altra [5] lo è in quanto possiede la ragione, cioè pensa). Poiché anche questa ha due sensi, bisogna considerare quella che è in atto, perché è essa che sembra essere chiamata vita nel senso più proprio. Se è funzione dell’anima dell’uomo l’attività secondo ragione o, quanto meno, non senza ragione, e se diciamo che nell’ambito di un genere è identica la funzione di un individuo e quella di un individuo di valore, come del citaredo e [10] del citaredo di valore, questo vale, dunque, in senso assoluto anche in tutti i casi, rimanendo aggiunta alla funzione l’eccellenza dovuta alla virtù: infatti, è proprio del citaredo suonare la cetra, e del citaredo di valore suonarla bene. Se è così, se poniamo come funzione propria dell’uomo un certo tipo di vita (appunto questa attività dell’anima e le azioni accompagnate da ragione) e funzione propria dell’uomo di valore attuarle bene [15] e perfettamente (ciascuna cosa sarà compiuta perfettamente se lo sarà secondo la sua virtù propria) ; se è15 così, il bene dell’uomo consiste in un’attività dell’anima secondo la sua virtù, e se le virtù sono più d’una, secondo la migliore e la più perfetta. Ma bisogna aggiungere: in una vita compiuta. Infatti, una rondine non fa primavera, né un sol giorno: così [20] un sol giorno o poco tempo non fanno nessuno beato o felice. Il bene, dunque, resti delineato in questo modo: è certo infatti che bisogna prima buttar giù un abbozzo e poi, in seguito, svilupparlo. Si può ritenere che chiunque è in grado di portare avanti e di delineare nei particolari gli elementi che si trovano bene impostati nell’abbozzo, e che il tempo conduce a ritrovarli o comunque è un buon aiuto; di qui sono derivati anche [25] i progressi delle arti: chiunque infatti può aggiungere ciò che manca. Bisogna ricordarsi anche di quello che si è già detto, cioè di non cercare la precisione allo stesso modo in tutte le cose, ma di cercarla in ciascun caso particolare secondo la materia che ne è il soggetto e per quel tanto che è proprio di quella determinata ricerca. Infatti, il falegname e il geometra [30] ricercano entrambi l’angolo retto, ma in maniera diversa: il primo lo ricerca per quel tanto che è utile alla sua opera, il secondo ne ricerca l’essenza o la differenza specifica, poiché è un uomo che contempla la verità. Alla stessa maniera bisogna procedere anche negli altri casi, affinché gli elementi accessori non soverchino l’opera principale. E non bisogna ricercare [1098b] la causa in tutte le cose in modo uguale, ma in alcune è sufficiente che venga messo adeguatamente in luce il fatto, come, per esempio, anche nel caso dei principi: il dato di fatto è un che di originario, cioè è un principio. Alcuni dei principi si giunge a vederli per induzione, altri per sensazione, altri mediante una specie di abitudine, altri ancora diversamente. [5] Bisogna, dunque, sforzarsi di tener dietro a ciascun tipo di principio in conformità con la sua natura, e impegnarsi a definirlo adeguatamente. I principi, ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO LIBRO I infatti, hanno un gran peso sugli sviluppi successivi: si ammette comunemente che il principio costituisce più che la metà del tutto, cioè che per suo mezzo diventano chiare molte delle cose che si vanno cercando. 8. [La felicità implica, oltre alla virtù, anche beni esteriori]. Dobbiamo dunque indagare sul principio non solo sulla base di una conclusione logica [10] dedotta da premesse, bensì partendo anche da ciò che su di esso comunemente si dice: tutti i fatti sono in armonia con la verità, e la verità mostra presto la sua discordanza col falso. Poiché i beni sono stati divisi in tre gruppi, e poiché gli uni sono stati chiamati beni esteriori, gli altri beni dell’anima e beni del corpo, noi affermiamo che quelli dell’anima sono beni nel senso più proprio [15] e nel grado più elevato, poniamo tra i beni dell’anima le sue specifiche azioni e attività. Perciò la nostra affermazione sarà giusta, almeno se si segue questa opinione, che è antica ed ha ricevuto il consenso dei filosofi. Ed è corretto anche dire che il fine è costituito da certe azioni e attività, poiché così esso viene a trovarsi tra i beni dell’anima [20] e non tra quelli esteriori. S’accorda poi con la nostra definizione l’opinione che l’uomo felice è quello che vive bene ed ha successo: infatti la felicità è stata definita, pressappoco, come una specie di vita buona e di successo. È manifesto che gli elementi della felicità di cui si va in cerca si ritrovano tutti in quanto abbiamo detto. Infatti, alcuni ritengono che la felicità consista nella virtù, altri nella saggezza, altri in un certo tipo di sapienza; [25] per altri, poi, essa è o tutte queste cose insieme o una di queste in unione col piacere, o comunque non senza piacere; altri, infine, vi aggiungono anche la disponibilità di beni esteriori. Di alcune di queste opinioni ci sono sostenitori numerosi e antichi, di altre pochi ma famosi: è ragionevole pensare che né gli uni né gli altri siano completamente in errore, ma che essi colgano nel segno almeno in un punto, o anche nella maggior parte dei punti. [30] La nostra definizione dunque è in accordo con coloro che identificano la felicità con la virtù o con una virtù particolare, poiché l’attività secondo virtù è propria di una determinata virtù. Certo non è piccola la differenza se si pensa che il sommo bene consista in un possesso oppure in un uso, cioè in una disposizione oppure in una attività. Può essere, infatti, che la disposizione ci sia, [1099a] ma non compia alcun bene, come in chi dorme o in qualche altro modo è inattivo; ma per l’attività ciò non è possibile, giacché essa necessariamente agirà ed avrà successo. Come nelle Olimpiadi non sono i più belli e i più forti ad essere incoronati, [5] ma quelli che partecipano alle gare (infatti i vincitori sono tra questi), così nella vita è giusto che conseguano ciò che è bello e buono coloro che agiscono. La loro vita poi è per se stessa piacevole. Infatti il godere è proprio dell’anima, e per ciascuno è piacevole ciò di cui si dice che è amante: per esempio, un cavallo per l’amante dei cavalli, uno spettacolo [10] per l’amante degli spettacoli; allo stesso modo le cose giuste per l’amante della giustizia, e, in genere, le azioni conformi alla virtù per l’amante della virtù. Insomma, per la massa degli uomini le cose piacevoli sono in conflitto perché non sono tali per natura, mentre per gli amanti del bello sono piacevoli le cose che per natura sono piacevoli: tali sono le azioni secondo virtù, cosicché esse sono piacevoli sia per questi uomini sia [15] per se stesse. La vita di costoro, dunque, non ha bisogno del piacere come di qualcosa di accessorio, ma ha il piacere in se stessa. Oltre a quanto s’ detto, infatti, non è buono chi non compie con piacere le azioni buone: infatti nessuno direbbe giusto chi non compie con piacere azioni giuste, né liberale [20] chi non compie con piacere azioni liberali: lo stesso vale per le altre azioni buone. E se è così, le azioni secondo virtù saranno piacevoli per se stesse. Ma saranno di certo anche buone e belle, e in massimo grado piacevoli buone e belle, se è vero che giudica bene di loro l’uomo di valore: ed egli giudica come abbiamo detto 16 . Dunque, la felicità è insieme la cosa più buona, la più bella e la più piacevole, [25] qualità queste, che non devono essere separate come fa l’iscrizione di Delo: "La cosa più bella è la più grande giustizia; la cosa più buona è la salute; ma la cosa per natura più piacevole è raggiungere ciò che si desidera". Infatti, tutte queste qualità appartengono alle migliori attività: e queste, [30] o una sola tra loro, la migliore, noi diciamo essere la felicità. È manifesto tuttavia che essa ha bisogno, in più, dei beni esteriori, come abbiamo detto: è impossibile, infatti, o non è facile, compiere le azioni belle se si è privi di risorse materiali. Infatti, molte azioni si compiono [1099b] per mezzo degli amici, della ricchezza, del potere politico, come per mezzo di strumenti. E coloro che sono privi di alcuni di questi beni si trovano guastata la felicità: per esempio, se mancano di nobiltà, di prospera figliolanza, di bellezza; non può essere del tutto felice chi è affatto brutto d’aspetto, chi è di oscuri natali, o chi è solo e senza figli; [5] e certo lo è meno ancora chi ha figli o amici irrimediabilmente malvagi, o chi, pur avendoli buoni, li ha visti morire. Come dunque abbiamo detto, la felicità sembra aver bisogno anche di una simile prosperità esteriore; ragion per cui alcuni identificano la felicità con la fortuna 17 , mentre altri l’identificano con la virtù. 9. [Come si acquista la felicità?]. Di qui nasce anche la questione se la felicità si acquista mediante studio o per consuetudine, o [10] con qualche altro tipo di esercizio, ovvero derivi da un dono divino o addirittura dal caso. Se dunque c’ qualche altra cosa che sia dono degli dèi agli uomini, è ragionevole che anche la felicità sia un dono divino, tanto più che essa è il più grande dei beni umani. Ma questo potrà essere argomento più appropriato di un’altra ricerca; d’altra parte è manifesto che, se [15] anche non è un dono inviato dagli dèi ma nasce dalla virtù e da un certo tipo di apprendimento o di esercizio, la felicità appartiene alle realtà più divine, giacché il premio ed il fine della virtù è, manifestamente, un bene altissimo, cioè una realtà divina e beata. E si può dire che ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO LIBRO I sia accessibile a molti: infatti, con un po’ di studio e di applicazione, può appartenere a tutti coloro che non siano costituzionalmente inabili alla virtù. [20] Se è meglio essere felici in questo modo piuttosto che per caso, è ragionevole ammettere che (se è vero, come è vero, che le realtà secondo natura ricevono dalla natura stessa la maggior bellezza possibile) è così anche per le opere dell’arte e di ogni altra causa, e tanto più quanto migliore è la causa. Abbandonare al caso la cosa più grande e più bella sarebbe troppo sconveniente. [25] Ciò che andiamo cercando risulta chiaro anche dalla nostra definizione di felicità: si è detto infatti che essa è un certo tipo di attività dell’anima conforme a virtù. Di tutti gli altri beni alcuni le18 appartengono di necessità, altri invece hanno per natura un’utile funzione ausiliaria, a guisa di strumenti. E questo sarebbe in accordo anche con quello che abbiamo detto all’inizio : abbiamo infatti posto come [30]19 sommo bene il fine della scienza politica, ed essa pone la sua massima cura nel formare in un certo modo i cittadini, cioè nel renderli buoni e impegnati a compere azioni belle. È naturale, dunque, che non diciamo felice né un bue né un cavallo né alcun altro animale: nessuno di loro, infatti, è [1100a] in grado di aver parte in una attività simile. E per questa ragione neppure un bambino è felice, giacché non può ancora compiere nessuna di queste azioni a causa dell’età; e i bambini che chiamiamo felici sono tali nella speranza. La felicità, infatti, come abbiamo detto 20 , richiede virtù perfetta [5] e vita compiuta, giacché nel corso della vita si verificano molti cambiamenti e casi d’ogni genere, e può succedere che chi gode della massima prosperità precipiti in grandi disgrazie nella vecchiaia, come si racconta di Priamo nei poemi troiani: ma chi è stato vittima di simili sventure ed è morto miserevolmente, nessuno può chiamarlo felice. 10. [La virtù autentica, e quindi la felicità, dura fino alla morte]. [10] Dunque non potrà essere chiamato felice neppure un altro uomo, finché vive, e si dovrà attendere di vederne la fine, come vuole Solone ? E se anche si deve accettare questa posizione, forse che un uomo21 sarà felice solo quando sarà morto? O non è questa affermazione affatto assurda, soprattutto per noi che diciamo che la felicità è un’attività? E se, d’altra parte, non diciamo che è [15] felice chi è morto, e se non è questo che Solone vuol dire, ma che si può con sicurezza ritenere felice un uomo solo quando egli è ormai fuori dai mali e dalle disgrazie, anche questa posizione presenta un motivo di discussione. È infatti opinione corrente che anche per il morto ci siano male e bene, come per il vivo che non [20] ne abbia coscienza: per esempio, onore e disonore e successi e disgrazie dei figli ed in genere dei discendenti. Ma anche questo porta con sé una difficoltà: a chi è vissuto felicemente fino alla vecchiaia ed è altrettanto felicemente morto possono ancora capitare molti cambiamenti relativi ai discendenti, alcuni dei quali possono [25] essere buoni ed avere in sorte la vita che così si meritano, ad altri invece può succedere il contrario. È chiaro che i discendenti, nel susseguirsi delle generazioni, possono anche essere quanto mai diversi rispetto ai progenitori. Certo sarebbe assurdo che cambiasse insieme con loro anche il morto e divenisse ora felice, ed ora di nuovo miserevole; ma assurdo sarebbe anche [30] che la sorte dei discendenti non toccasse mai, neppure per un istante, i progenitori. Ma dobbiamo ritornare al problema precedente: infatti, sulla base della sua risoluzione si potrà mettere in luce anche quello che stiamo cercando ora. Se dunque si deve aspettare di vederne la fine e se solo allora si può dichiarare beato un uomo (non perché lo sia in quel momento, ma perché lo era prima), come può non essere assurdo se, quando è felice, [35] non gli si può attribuire con verità ciò che gli compete, per il fatto che non [1100b] si vuol chiamare beati coloro che sono ancora in vita a causa di possibili cambiamenti di situazione, cioè per il fatto che si pensa la felicità come qualcosa di stabile e per niente facile a mutare, mentre le vicende della vita spesso girano come una ruota intorno agli uomini? È chiaro infatti che, se noi seguiamo [5] le vicende della sorte, dovremo chiamare la stessa persona ora felice ed ora infelice, più volte, facendo dell’uomo felice una specie di camaleonte e basato su fondamenta marce. O non è forse un procedimento per niente corretto quello di tener dietro alle vicende della sorte? Infatti, non è in esse che stanno il bene e il male, ma la vita umana ha bisogno di questi apporti, come abbiamo detto , solo in via accessoria, [10] mentre essenziali per la felicità sono le22 attività conformi a virtù, e decisive per l’infelicità sono le attività contrarie alla virtù. Testimonia, poi, a favore della nostra definizione anche la difficoltà ora affrontata. Infatti, a nessuna delle funzioni umane appartiene la stabilità tanto quanto alle attività conformi a virtù si ritiene infatti che esse siano più persistenti persino delle scienze; [15] e di queste stesse quelle più pregevoli sono più stabili, per il fatto che le persone felici continuano a vivere in esse di preferenza e con la massima costanza. Questa, infatti, sembra essere la causa del fatto che della virtù non c’ oblio. La qualità cercata apparterrà dunque all’uomo felice, e questi sarà tale per tutta la vita, giacché sempre, o la maggior parte delle volte, egli farà o contemplerà [20] ciò che è conforme a virtù, sopporterà le vicende della sorte nel modo migliore, ed in ogni caso con la massima dignità, almeno chi è veramente buono, tetragono e senza fallo. Poiché molte cose avvengono per caso e differiscono per grandezza e piccolezza, i piccoli avvenimenti, sia quelli felici sia quelli disgraziati, è chiaro che non hanno [25] gran peso per la vita, mentre quelli grandi e numerosi, se sono favorevoli, renderanno la vita più felice (giacché per loro natura ne costituiscono un ornamento, ed il fruirne è cosa bella e di valore); se invece sono avversi angustiano e distruggono la beatitudine, giacché portano con sé sofferenze ed ostacolano molte attività. [30] Tuttavia anche in questi riluce la nobiltà, quando si sopportino di buon animo molte e grandi disgrazie, non già per insensibilità, ma perché si è generosi e magnanimi. D’altra parte, se sono le attività che determinano la vita, come abbiamo detto , nessun uomo23 felice ha l’eventualità di diventare miserevole, [35] giacché egli non compirà mai azioni odiose e vili. [1101a] Noi pensiamo, infatti, che l’uomo veramente buono e saggio sopporta dignitosamente tutte le vicende della sorte e tra le azioni che gli si prospettano compie sempre quelle più belle, come anche il buon ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO II) ARISTOTELE ETICA A NICOMACO LIBRO II 1. [La virtù ha per presupposto l’abitudine]. Du due tipi è, pertanto, la virtù: dianoetica [15] ed etica: quella dianoetica trae in buona parte la propria origine e la sua crescita dall’insegnamento, cosicché necessita di esperienza e di tempo; la virtù etica, invece, deriva dall’abitudine, dalla quale ha preso anche il nome con una piccola modificazione rispetto alla parola "abitudine" . Da ciò risulta anche chiaro che nessuna delle virtù etiche nasce in noi per natura:29 infatti, nulla [20] di ciò che è per natura può assumere abitudini ad essa contrarie: per esempio, la pietra che per natura si porta verso il basso non può abituarsi a portarsi verso l’alto, neppure se si volesse abituarla gettandola in alto infinite volte; né il fuoco può abituarsi a scendere in basso, né alcun’altra delle cose che per natura si comportano in un certo modo potrà essere abituata a comportarsi in modo diverso. Per conseguenza, non è né per natura né contro natura che le virtù nascono in noi, ma ciò avviene [25] perché per natura siamo atti ad accoglierle, e ci perfezioniamo, poi, mediante l’abitudine. Inoltre, di quanto sopravviene in noi per natura, dapprima portiamo in noi la potenza, e poi lo traduciamo in atto (come è chiaro nel caso dei sensi: giacché non è per il fatto di avere spesso visto e sentito che noi acquistiamo questi sensi, [30] ma viceversa noi li usiamo perché li possediamo, e non è che li possediamo per il fatto che li usiamo). Invece acquistiamo le virtù con un’attività precedente, come avviene anche per le altre arti. Infatti, le cose che bisogna avere appreso prima di farle, noi le apprendiamo facendole: per esempio, si diventa costruttori costruendo, e suonatori di cetra suonando la cetra. Ebbene, così anche [1103b] compiendo azioni giuste diventiamo giusti, azioni temperate temperanti, azioni coraggiose coraggiosi. Ne è conferma ciò che accade nelle città: i legislatori, infatti, rendono buoni i cittadini creando in loro determinate abitudini, e questo è il disegno di ogni [5] legislatore, e coloro che non lo effettuano adeguatamente sono dei falliti; in questo differisce una costituzione buona da una cattiva. Inoltre, ogni virtù si genera a causa e per mezzo delle stesse azioni per le quali anche si distrugge, proprio come ogni arte: infatti, è dal suonare la cetra che derivano sia i buoni sia i cattivi suonatori di cetra. Considerazione analoga vale anche [10] per i costruttori e per tutti gli altri artefici: costruendo bene diventeranno buoni costruttori, costruendo male diventeranno cattivi costruttori. Se non fosse così, infatti, non ci sarebbe affatto bisogno del maestro, ma tutti sarebbero per nascita buoni o cattivi artefici. Questo vale appunto anche per le virtù: infatti, a seconda di come ci comportiamo nelle relazioni d’affari [15] che abbiamo con gli altri uomini, diveniamo gli uni giusti gli altri ingiusti; a seconda di come ci comportiamo nei pericoli, cioè se prendiamo l’abitudine di aver paura oppure di aver coraggio, diventiamo gli uni coraggiosi, gli altri vili. Lo stesso avviene per i desideri e le ire: alcuni diventano temperanti e miti, altri intemperanti e iracondi, [20] per il fatto che nelle medesime situazioni gli uni si comportano in un modo, gli altri in un altro. E dunque, in una parola, le disposizioni morali derivano dalle azioni loro simili. Perciò bisogna dare alle azioni una qualità determinata, poiché le disposizioni morali ne derivano, di conseguenza, in modo corrispondente alle loro differenze. Non è piccola, dunque, la differenza tra l’essere abituati subito, fin da piccoli, in un modo piuttosto che in un altro; [25] al contrario, c’ una differenza grandissima, anzi è tutto. 2. [Bisogna agire in modo da evitare sia l’eccesso sia il difetto]. Poiché, dunque, la presente trattazione non mira alla contemplazione come le altre (infatti, noi ricerchiamo non per sapere che cosa è la virtù, bensì per diventare buoni, giacché altrimenti la nostra ricerca non avrebbe alcuna utilità), è necessario esaminare ciò che riguarda [30] le azioni, per sapere come dobbiamo compierle: esse, infatti, determinano anche la natura delle disposizioni morali, come abbiamo detto 30 . Orbene, agire secondo la retta ragione è un principio comune 31 e sia dato per ammesso: se ne parlerà in seguito 32 , e si dirà sia che cos’ la retta ragione, sia in che modo si rapporta alle altre virtù. In via preliminare mettiamoci d’accordo sul punto seguente: [1104a] ogni discorso sulle azioni da compiere 33 deve essere fatto in maniera approssimativa e non con precisione rigorosa, secondo quanto dicemmo fin dall’inizio 34 , che cioè si deve esigere che i discorsi si conformino alla materia di cui trattano. Nel campo delle azioni e di ciò che è utile non c’ nulla di stabile, come pure [5] nel campo della salute. E se è tale la trattazione generale, precisione ancor minore ha la trattazione dei diversi tipi di casi particolari; infatti, essi non cadono sotto alcuna arte né sotto alcuna prescrizione tradizionale, ma bisogna sempre che sia proprio chi agisce che esamini ciò che è opportuno nella determinata circostanza, come avviene nel caso della medicina e [10] dell’arte della navigazione. Ma, benché la presente trattazione abbia tale carattere, pure dobbiamo sforzarci di dare il nostro contributo. Per prima cosa, dunque, bisogna considerare che tali cose per loro natura vengono distrutte dal difetto e dall’eccesso, come vediamo (giacché per cogliere ciò che non è manifesto bisogna valersi della testimonianza di ciò che è manifesto) nel caso della forza e della salute: [15] infatti, sia troppi sia troppo pochi esercizi distruggono la forza, e similmente bevande e cibi in quantità eccessiva o insufficiente distruggono la salute, mentre la giusta proporzione la produce, l’accresce e la preserva. Così, dunque, ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO II) avviene anche per la temperanza, il coraggio e le altre virtù. [20] Infatti, colui che tutto fugge e teme e nulla sopporta diventa vile, mentre colui che non ha paura proprio di nulla ma va incontro ad ogni pericolo diventa temerario; similmente anche chi si gode ogni piacere e non se ne astiene da alcuno diventa intemperante, chi, invece, fugge ogni piacere, come i rustici, diventa un insensibile. [25] Dunque, la temperanza ed il coraggio sono distrutti dall’eccesso e dal difetto, ma preservati dalla medietà. Ma non solo la nascita e l’accrescimento e la distruzione delle virtù hanno le stesse fonti e le stesse cause, bensì anche la loro attività consisterà nelle medesime azioni, poiché è così anche [30] per tutto ciò che è più manifesto, come, per esempio, per la forza: essa, infatti, nasce dall’assunzione di un abbondante nutrimento e dal fatto di sottoporsi a molte fatiche, e questo lo può fare soprattutto l’uomo forte. Così è anche per le virtù: è con l’astenerci dai piaceri che diventiamo temperanti, ed è [35] quando siamo divenuti tali che siamo massimamente in grado di astenercene. E similmente [1104b] anche per il coraggio: è con l’abitudine a sprezzare i pericoli e ad affrontarli che diventiamo coraggiosi, ed è quando siamo divenuti coraggiosi che siamo massimamente in grado di affrontare i pericoli. 3. [Relazione del piacere e del dolore con la virtù]. D’altra parte, bisogna porre come segno distintivo delle disposizioni morali il piacere ed il dolore che si aggiungono [5] alle azioni: infatti, colui che si astiene dai piaceri del corpo e gode proprio di questa stessa astinenza è temperante, colui che, invece, lo fa contro voglia è intemperante, e chi affronta i pericoli e ne gode o almeno non ne soffre è coraggioso, chi lo fa soffrendo è vile. La virtù etica, infatti, ha a che fare con piaceri e dolori, giacché (1) è a causa [10] del piacere che compiamo le azioni malvagie, ed è a causa del dolore che ci asteniamo da quelle belle. Perciò bisogna essere guidati in un certo modo subito, fin da piccoli, come dice Platone 35 , a godere e a soffrire di ciò che è conveniente: la retta educazione è, infatti, questa. (2) Inoltre, se le virtù hanno a che fare con azioni e passioni, e se ad ogni passione come ad ogni azione segue [15] piacere e dolore, anche per questo la virtù avrà a che fare con piaceri e dolori. (3) Lo rivelano anche le punizioni, in quanto si realizzano con questi mezzi: infatti le punizioni sono come una specie di cura, e la cura, per sua natura, si attua per mezzo dei contrari. (4) Inoltre, come anche recentemente dicevamo 36 , ogni disposizione dell’anima attua la sua natura in riferimento e in relazione a ciò da cui può essere naturalmente [20] resa peggiore o migliore: è a causa dei piaceri e dei dolori che gli uomini diventano malvagi, per il fatto che perseguono e fuggono o quei piaceri e dolori che non devono perseguire e fuggire, o quando non devono o nel modo in cui non devono, o secondo ciascuna delle altre distinzioni operate dalla definizione. Perciò ci sono alcuni 37 che definiscono le virtù come stati di impassibilità [25] e di riposo: definizione non buona, perché parlano in senso assoluto, senza aggiungere "come si deve" e "come non si deve" e "quando si deve", e così via. Resta stabilito, dunque, che la virtù è tale capacità di compiere le azioni migliori in relazione a piaceri e dolori, il vizio il contrario. Ma che la virtù abbia a che fare con piaceri e dolori può venirci chiarito anche dai seguenti argomenti. (5) [30] Tre sono infatti i motivi per la scelta e tre i motivi per la repulsione: il bello, l’utile, il piacevole e i loro contrari, il brutto, il dannoso, il doloroso. Rispetto a tutto questo l’uomo buono tende ad agire rettamente, mentre il malvagio tende ad errare, e soprattutto in relazione al piacere: esso, infatti, è comune [35] agli animali, e si accompagna a tutto ciò che dipende dalla scelta: [1105a] anche il bello e l’utile, infatti, si rivelano piacevoli. (6) Inoltre, la tendenza al piacere è cresciuta con tutti noi fin dall’infanzia: perciò è difficile toglierci di dosso questa passione, incrostata com’ con la nostra vita. (7) Anzi, chi più chi meno, misuriamo anche le nostre azioni [5] con il metro del piacere e del dolore. Per questo, dunque, è necessario che tutta la nostra trattazione si riferisca a questi oggetti: infatti, non è di poca importanza per le azioni godere o soffrire bene o male. (8) Inoltre, poi, è più difficile combattere il piacere che l’impulsività, come dice Eraclito 38 , ed è in relazione a ciò che è più difficile che nascono, sempre, arte e virtù: [10] e, infatti, in questo caso il bene è migliore. Cosicché è anche per questa ragione che tutta la trattazione, sia dal punto di vista della virtù sia dal punto di vista della politica, riguarda piaceri e dolori, giacché chi ne usa bene sarà buono, e chi ne usa male cattivo. Teniamo per detto, dunque, che la virtù ha a che fare con piaceri e dolori, che le azioni da cui nasce sono anche quelle che [15] la fanno crescere, e che, se compiute diversamente, la fanno perire, e che le azioni da cui è nata sono le stesse in cui anche si attua. 4. [Condizioni dell’azione morale]. Si potrebbe porre la questione in che senso noi diciamo che, necessariamente, è compiendo azioni giuste che si diventa giusti, e temperanti compiendo azioni temperate: se, infatti, si compiono azioni giuste e temperate, [20] si è già giusti e temperanti, allo stesso modo che se si compiono azioni secondo le regole della grammatica e della musica, si è grammatici e musici. Ma non si dovrà rispondere che le cose non stanno così neanche nel campo delle arti? Infatti, è possibile fare qualcosa secondo le regole della grammatica sia per caso sia per suggerimento d’altri. Dunque "grammatico" uno sarà solo quando abbia fatto qualcosa secondo le regole della grammatica e lo abbia fatto [25] da grammatico, cioè in virtù della scienza grammaticale che possederà in se stesso. Inoltre, non c’ neppure somiglianza tra il caso delle arti e quello delle virtù. I prodotti delle arti hanno il loro valore in se stessi: basta, dunque, che essi abbiano determinate caratteristiche. Invece le azioni che traggono origine dalle virtù non basta che abbiano un determinato carattere [30] per essere compiute con giustizia o con temperanza, ma occorre anche che chi le compie le compia possedendo una certa disposizione: innanzi tutto deve conoscerle, poi deve sceglierle, e ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO II) sceglierle per se stesse; infine, in terzo luogo, deve compierle con una disposizione d’animo ferma ed immutabile. Queste condizioni [1105b] non entrano nel conto per il possesso delle altre arti, tranne il sapere stesso: mentre per il possesso delle virtù il sapere vale poco o nulla, le altre condizioni non poco ma tutto possono, se è vero che è dal compiere spesso azioni giuste e temperate che [5] deriva il possesso delle virtù corrispondenti. Così, dunque, le opere si dicono giuste e temperate quando sono tali quali le compirebbe l’uomo giusto e il temperante: ma giusto e temperante è non chi semplicemente le compie, bensì chi le compie anche nel modo in cui le compiono gli uomini giusti e temperanti. È dunque esatto dire che [10] il giusto diviene tale col compiere azioni giuste e il temperante col compiere azioni temperate: e senza compiere queste azioni nessuno avrà neppure la prospettiva di diventare buono. Ma i più non fanno queste cose, e rifugiandosi invece nella teoria credono di filosofare e che così diverranno uomini di valore; così facendo assomigliano a quei [15] malati che ascoltano, sì, attentamente i medici, ma non fanno nulla di quanto viene loro prescritto. Così, dunque, quelli non guariranno il loro corpo se si cureranno in questo modo, né questi la loro anima se faranno filosofia in questo modo. 5. [Le virtù sono disposizioni dell’anima]. Dopo di ciò bisogna esaminare che cos’ la virtù. Poiché, dunque, [20] gli atteggiamenti interni all’anima sono tre, passioni capacità disposizioni, la virtù deve essere uno di questi. Chiamo passioni il desiderio, l’ira, la paura, la temerarietà, l’invidia, la gioia, l’amicizia, l’odio, la brama, la gelosia, la pietà, e in generale tutto ciò cui segue piacere o dolore. Chiamo, invece, capacità ciò per cui si dice che noi possiamo provare delle passioni, per esempio, ciò per cui [25] abbiamo la possibilità di adirarci o di addolorarci o di sentir pietà. Disposizioni, infine, quelle per cui ci comportiamo bene o male in rapporto alle passioni: per esempio, in rapporto all’ira, se ci adiriamo violentemente o debolmente ci comportiamo male, se invece teniamo una via di mezzo ci comportiamo bene. E similmente anche in rapporto alle altre passioni. Passioni, dunque, non sono né le virtù né i vizi, perché non è per le passioni che siamo chiamati [30] uomini di valore o miserabili, bensì per le virtù ed i vizi, e perché non è per le passioni che siamo lodati e biasimati (infatti non si loda né chi prova paura né chi si adira, né si biasima chi semplicemente si adira, [1106a] ma chi si adira in un certo modo), mentre siamo lodati o biasimati per le virtù ed i vizi. Inoltre, ci adiriamo o proviamo paura senza una scelta, mentre le virtù sono un certo tipo di scelta o non sono senza una scelta. Oltre a questo si dice che siamo mossi secondo le passioni, [5] ma che secondo le virtù ed i vizi non siamo mossi, ma posti in una certa disposizione. Perciò essi non sono neppure delle capacità. Infatti non siamo chiamati buoni o cattivi, né siamo lodati o biasimati per il semplice fatto di poter provare delle passioni; inoltre, abbiamo per natura la capacità di esserlo, [10] ma non diventiamo buoni o cattivi per natura: abbiamo parlato di questo prima 39 . Se dunque le virtù non sono né passioni né capacità, rimane che siano delle disposizioni. Ciò che è la virtù dal punto di vista del genere, è stato detto. 6. [Le virtù sono disposizioni a scegliere il giusto mezzo]. Ma non dobbiamo soltanto dire che la virtù è una disposizione, bensì anche [15] che specie di disposizione è. Bisogna dire, dunque, che ogni virtù ha come effetto, su ciò di cui è virtù, di metterlo in buono stato e di permettergli di compiere bene la sua funzione specifica: per esempio, la virtù dell’occhio rende valenti l’occhio e la sua funzione specifica: noi, infatti, vediamo bene per la virtù dell’occhio. Similmente la virtù del cavallo rende il cavallo [20] di valore e buono per la corsa, per portare il suo cavaliere e per resistere ai nemici. Se dunque questo vale per tutti i casi, anche la virtù dell’uomo deve essere quella disposizione per cui l’uomo diventa buono e per cui compie bene la sua funzione. Come questo sarà possibile, già l’abbiamo detto ; [25] ma sarà chiaro, inoltre, se considereremo quale è la natura specifica della virtù stessa. In ogni40 cosa, dunque, che sia continua, cioè divisibile, è possibile prendere il più, il meno e l’uguale, e questo sia secondo la cosa stessa sia in rapporto a noi: l’uguale è qualcosa di mezzo tra eccesso e difetto. Chiamo, poi, [30] mezzo della cosa ciò che è equidistante da ciascuno degli estremi, e ciò è uno e identico per tutti; e mezzo rispetto a noi ciò che non è né in eccesso né in difetto: ma questo non è uno né identico per tutti. Per esempio, se dieci è tanto e due è poco, come mezzo secondo la cosa si prende sei, giacché esso supera ed è superato in uguale misura. [35] E questo è un mezzo secondo la proporzione aritmetica. Invece, il mezzo in rapporto a noi non deve essere preso in questo modo: [1106b] infatti, se per un individuo dieci mine di cibo sono molto e due sono poco, non per questo il maestro di ginnastica prescriverà sei mine: infatti, può darsi che anche questa quantità, per chi deve ingerirla, sia troppo grande oppure troppo piccola: infatti per Milone sarebbe poco, per un principiante di ginnastica sarebbe molto. Similmente nel caso della41 corsa e [5] della lotta. Così, dunque, ogni esperto evita l’eccesso e il difetto, ma cerca il mezzo e lo preferisce, e non il mezzo in rapporto alla cosa ma il mezzo in rapporto a noi. Se, dunque, è così che ogni scienza compie bene la sua funzione, tenendo di mira il mezzo e riconducendo ad esso le sue opere (donde l’abitudine [10] di dire delle cose ben riuscite che non c’ nulla da togliere e nulla da aggiungere, in quanto l’eccesso e il difetto distruggono la perfezione, mentre la medietà la preserva), se i buoni artigiani, come noi affermiamo, lavorano tenendo di mira il mezzo, e se la virtù è più esatta e [15] migliore di ogni arte, come anche la natura, essa dovrà tendere costantemente al mezzo. Intendo la virtù etica: essa, infatti, ha a che fare con passioni ed azioni, ed in queste ci sono un eccesso, un difetto e il mezzo. Per esempio, temere, ardire, desiderare, adirarsi, aver pietà, e in generale provar piacere [20] e dolore è possibile in maggiore o minore misura, e in entrambi i casi non bene. Al contrario, provare queste passioni quando è il momento, ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO II) che chi tende al mezzo prenda innanzi tutto le distanze da ciò che gli è più contrario, come consiglia anche Calipso: "fuori da questo fumo, fuori dal vortice tieni la nave" .51 Infatti, dei due estremi uno è più colpevole, l’altro meno. Poiché, dunque, cogliere il mezzo è cosa estremamente difficile, dobbiamo affidarci, [35] come si dice, alla seconda navigazione e scegliere il minore dei mali: [1109b] ed il miglior modo di farlo sarà questo che noi indichiamo. Dobbiamo, poi, indagare su ciò a cui noi stessi siamo portati: alcuni di noi, infatti, sono per natura inclini a certe cose, altri ad altre: e questo sarà riconoscibile [5] dal piacere e dal dolore che nascono in noi. E dobbiamo spingerci nella direzione contraria: infatti è allontanandoci molto dall’errore che giungeremo al giusto mezzo, come fanno coloro che raddrizzano i legni storti. Infine, e soprattutto, bisogna in ogni cosa stare in guardia di fronte al piacevole ed al piacere, poiché non siamo imparziali quando lo giudichiamo. Ciò dunque che provarono gli anziani del popolo nei confronti di Elena , [10] dobbiamo provarlo anche noi nei confronti del piacere, e in52 tutte le circostanze ripeterci le loro parole: se infatti lo congediamo così, saremo meno soggetti ad errare. Facendo così, per dirla in breve, avremo le maggiori possibilità di raggiungere il giusto mezzo. Certo questo è difficile, soprattutto nei singoli casi. [15] Infatti, non è facile determinare come e con chi e in quali casi e per quanto tempo si debba essere in collera, giacché anche noi talora lodiamo coloro che restano al di sotto del mezzo e li chiamiamo bonari, talora invece lodiamo quelli che sfogano la rabbia e li chiamiamo virili. Ma colui che devia poco dal bene, né quando [20] eccede né quando difetta è biasimato; ma lo è chi devia maggiormente, giacché quest’ultimo non passa inosservato. Ma fino a che punto e in che misura è biasimevole non è facile determinarlo col ragionamento: niente di diverso, infatti, avviene nel campo degli oggetti sensibili: tali oggetti rientrano nell’ambito dei fatti particolari ed il giudizio su di essi spetta alla sensazione. Tutto questo, dunque, rende evidente che la disposizione mediana è in tutte le circostanze degna di lode, ma che talora [25] dobbiamo inclinare verso l’eccesso, talora verso il difetto, giacché è in questa maniera che raggiungeremo il giusto mezzo e il bene con la più grande facilità. ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO III) ARISTOTELE ETICA A NICOMACO LIBRO III 1. [Gli atti umani sono volontari o involontari?]. [30] Giacché, dunque, la virtù ha a che vedere sia con passioni sia con azioni, e giacché per le passioni e le azioni volontarie ci sono la lode e il biasimo, mentre per le involontarie c’ il perdono, e talora anche la pietà, definire il volontario e l’involontario è indubbiamente necessario per coloro che studiano la virtù, e utile anche ai legislatori per stabilire [35] le ricompense onorifiche e le punizioni. Si ammette, dunque, comunemente, che sono involontari gli atti [1110a] compiuti per forza o per ignoranza. Forzato è l’atto il cui principio è esterno, tale cioè che chi agisce, ovvero subisce, non vi concorre per nulla: per esempio, se si è trascinati da qualche parte da un vento o da uomini che ci tengono in loro potere. Le azioni che si compiono per paura di mali più grandi oppure per [5] qualcosa di bello (per esempio, nel caso in cui un tiranno ci ordinasse di compiere qualche brutta azione tenendo in suo potere i nostri genitori e i nostri figli, sì che se noi la compiamo essi si salveranno, se no, morranno) è discutibile se siano involontarie o volontarie. Qualcosa di simile accade anche quando si gettano fuori bordo i propri averi durante le tempeste, giacché in generale nessuno butta via [10] volontariamente, ma chiunque abbia senno lo fa per salvare se stesso e tutti gli altri. Simili azioni, dunque, sono miste, ma assomigliano di più a quelle volontarie, giacché sono fatte oggetto di scelta nel momento determinato in cui sono compiute e il fine dell’azione dipende dalle circostanze. Per conseguenza, anche il volontario e l’involontario devono essere determinati in riferimento al momento in cui si agisce. [15] In questo caso si agisce volontariamente, giacché il principio che muove come strumenti le parti del corpo in simili azioni è nell’uomo stesso: e le cose di cui ha in se stesso il principio, dipende da lui farle o non farle. Tali azioni, dunque, sono volontarie, anche se in assoluto forse sono involontarie, giacché nessuno sceglierebbe alcuna delle azioni di tal genere per se stessa. Per [20] azioni simili talora si è anche lodati, quando si sopporta qualcosa di brutto o di doloroso in cambio di cose grandi e belle; in caso contrario si è biasimati, giacché sopportare le cose più vergognose per niente di bello o di proporzionato è da uomo miserabile. In alcuni casi, poi, non si dà lode, ma perdono: quando uno compie [25] un’azione che non deve, ma per evitare mali che oltrepassano l’umana natura e che nessuno potrebbe sopportare. Ma ad alcuni atti, senza dubbio, non è possibile lasciarsi costringere, ma piuttosto bisogna morire pur tra terribili sofferenze: infatti, i motivi che hanno costretto l’Alcmeone di Euripide 53 ad uccidere la propria madre sono manifestamente risibili. È difficile, talvolta, discernere [30] che cosa ed a quale costo si deve scegliere e che cosa e per qual vantaggio si deve sopportare, ma ancor più difficile perseverare nelle decisioni prese: come, infatti, per lo più, ciò che ci aspetta è doloroso, ciò cui si è costretti è vergognoso, ragion per cui si meriterà lode o biasimo a seconda che ci si sia lasciati costringere oppure no. [1110b] Quali azioni, dunque, si devono chiamare forzate? Non dovremo dire che in senso assoluto lo sono quando la causa risiede in circostanze esterne e quando chi agisce non vi concorre per niente? Le azioni che per se stesse sono involontarie, ma che in un determinato momento ed in cambio di determinati vantaggi sono fatte oggetto di scelta, ed il cui principio è interno a chi agisce, [5] per se stesse sono, sì, involontarie, ma, in quel determinato momento e per quei determinati vantaggi, sono volontarie. E assomigliano di più a quelle volontarie, poiché le azioni fanno parte delle cose particolari, e queste sono volontarie. D’altra parte, quali cose bisogna scegliere ed in cambio di quali altre non è facile stabilire, giacché nei casi particolari ci sono molte differenze. Se si dicesse che le cose piacevoli e le cose belle [10] sono costrittive (in quanto costringono dall’esterno), tutte le azioni sarebbero, da quel punto di vista, forzate, giacché è in vista del piacevole e del bello che tutti gli uomini fanno tutto quello che fanno. E quelli che agiscono per forza e contro voglia agiscono con sofferenza, mentre quelli che agiscono per il piacevole ed il bello lo fanno con piacere. D’altra parte, è ridicolo accusare le circostanze esterne e non se stessi se si è facile preda di cose di tale natura, e anzi considerare causa [15] delle belle azioni se stessi, delle brutte, invece, l’attrattiva dei piaceri. Dunque, sembra che l’atto forzato sia quello il cui principio è esterno, senza alcun concorso di colui che viene forzato. Ciò che si compie per ignoranza è tutto non volontario, ma è involontario quando provoca dispiacere e rincrescimento. Infatti, l’uomo che ha fatto [20] una cosa qualsiasi per ignoranza, senza provare alcun disagio per la sua azione, non ha agito volontariamente, in quanto, almeno, non sapeva quello che faceva, ma neppure involontariamente, in quanto, almeno, non prova dispiacere. Dunque, di coloro che agiscono per ignoranza, quello che non prova rincrescimento può essere chiamato, poiché è diverso, agente non volontario; infatti, poiché il secondo differisce dal primo, è meglio che abbia un suo nome proprio. D’altra parte [25] sembra che vi sia differenza anche tra agire per ignoranza e agire ignorando: infatti, chi è ubriaco o adirato non si ritiene che agisca per ignoranza ma per ubriachezza o per ira, tuttavia senza sapere ciò che fa, ma ignorandolo. Dunque, ogni uomo malvagio ignora quel che deve fare e ciò da cui si deve astenere, ed è per questo errore che si diventa ingiusti e, in generale, [30] viziosi. Ma il termine "involontario" non vuole essere usato nel caso in cui uno ignora ciò che gli conviene: infatti, l’ignoranza nella scelta non è causa dell’involontarietà dell’atto, ma della sua perversità, e neppure l’ignoranza dell’universale ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO III) (per questa, anzi, si è biasimati); ma causa dell’involontarietà dell’atto è l’ignoranza delle circostanze particolari [1111a] nelle quali e in relazione alle quali si compie l’azione: in questi casi, infatti, si trovano pietà e perdono, perché è ignorando qualcuno di questi particolari che si agisce involontariamente. Dunque, non sarà certo male definire la natura ed il numero di questi particolari: chi è che agisce, che cosa fa, qual è l’oggetto o l’ambito dell’azione, e talora anche [5] con quale mezzo (per esempio, con quale strumento) agisce, in vista di qual risultato (per esempio, per salvare qualcuno), e in che modo (per esempio, pacatamente oppure violentemente). Tutte queste cose, dunque, nessuno, se non è pazzo, potrebbe ignorarle; ed è chiaro che non si può ignorare l’agente: infatti, come si può ignorare, se non altro, se stessi? Uno potrebbe ignorare ciò che sta facendo: per esempio, quando dicono che qualcosa è loro scappato di bocca parlando, oppure che non sapevano che erano dei segreti, [10] come disse Eschilo dei misteri 54 , oppure che, volendo solo fare una dimostrazione, hanno lasciato andare lo strumento, come diceva quello che aveva lasciato scattare la catapulta. Potrebbe anche capitare che uno scambi il proprio figlio per un nemico, come Merope 55 , e che prenda per smussata una lancia appuntita, oppure per pietra pomice la pietra dura; e che facendo bere qualcuno per salvarlo lo faccia morire; e che volendo afferrare la mano dell’avversario, [15] come coloro che lottano con le sole mani 56 , lo ferisca. Per conseguenza, poiché l’ignoranza può riguardare tutte queste circostanze di fatto in cui si attua l’azione, si ritiene comunemente che chi ne ignora qualcuna agisca involontariamente, e soprattutto se ne ignora le più importanti; e si ritiene che le più importanti circostanze di fatto in cui si attua l’azione siano il ciò che si fa ed il risultato in vista di cui lo si fa. Tale è, dunque, l’ignoranza per cui un atto si chiama involontario; [20] ma bisogna, inoltre, che l’atto sia spiacevole ed increscioso. Poiché è involontario ciò che si fa per forza e per ignoranza, si dovrà ritenere che il volontario è quello il cui principio sta in colui stesso che agisce, conoscendo le circostanze particolari in cui si attua l’azione. Infatti, senza dubbio, non è giusto dire che [25] sono involontari gli atti compiuti per impulsività o per desiderio. In tal caso, infatti, ne deriverebbe innanzi tutto che nessuno degli altri animali agirebbe spontaneamente 57 , né lo potrebbero i fanciulli; in secondo luogo, non facciamo volontariamente nessuna delle azioni che hanno come causa impulsività e desiderio, oppure quelle belle le facciamo volontariamente e quelle brutte involontariamente? O non è ridicolo, dal momento che una sola è la causa di tutte? Ma è certo assurdo [30] dire involontarie quelle azioni che dobbiamo appetire: e noi abbiamo il dovere di adirarci per certe cose e di desiderare certe altre, per esempio salute e istruzione. D’altra parte, si riconosce anche che gli atti involontari sono penosi, mentre quelli compiuti per assecondare un desiderio sono piacevoli. Inoltre, che differenza c’, quanto alla involontarietà, tra gli errori commessi per calcolo e quelli commessi per impulsività? Si devono, infatti, evitare sia gli uni sia gli altri; [1111b] d’altra parte si riconosce che le passioni irrazionali non sono meno umane, sicché sono proprie dell’uomo anche le azioni che derivano da impulsività e da desiderio. È, dunque, assurdo porle come involontarie. 2. [La scelta]. Definiti e il volontario e l’involontario, [5] si va avanti con la trattazione della scelta , giacché si ritiene che58 essa sia molto intimamente connessa con la virtù e che permetta di giudicare il carattere meglio che non le azioni. La scelta, dunque, è manifestamente qualcosa di volontario, ma non si identifica con esso, perché il volontario ha un’estensione maggiore: infatti, anche i bambini e gli altri animali hanno in comune con gli uomini la possibilità di agire volontariamente, ma non quella di scegliere, e degli atti repentini [10] diciamo che sono volontari, ma non che derivano da una scelta. Coloro che sostengono che la scelta è desiderio o impulsività o volontà o una specie di opinione, non sembra che parlino correttamente. Infatti, la scelta non è comune anche agli esseri irrazionali, mentre desiderio ed impulsività sì. E l’incontinente agisce perché appetisce, ma non perché sceglie; l’uomo continente, al contrario, agisce [15] per una scelta e non per desiderio. Inoltre, un desiderio può essere contrario ad una scelta, ma non ad un altro desiderio. E il desiderio ha per oggetto il piacevole ed il doloroso, mentre la scelta non ha per oggetto né il doloroso né il piacevole. Ancor meno è impulsività: infatti, le azioni compiute per impulsività, è ammesso comunemente, non derivano proprio per niente da una scelta. Ma, certo, non è neppure volontà, [20] benché le sia manifestamente affine. Infatti non ci può essere scelta dell’impossibile, e se uno dicesse che lo fa oggetto della propria scelta farebbe la figura dell’insensato. Invece c’ volontà anche dell’impossibile, per esempio dell’immortalità. Inoltre, la volontà riguarda anche quelle cose che non possono essere fatte dallo stesso che le vuole, per esempio che un certo attore o un certo atleta riescano vincitori; [25] invece nessuno sceglie simili cose, ma solo quelle che si pensa di poter fare personalmente. Inoltre, la volontà ha come oggetto piuttosto il fine, la scelta, invece, i mezzi: per esempio, noi vogliamo star bene di salute e scegliamo i mezzi per star bene; vogliamo essere felici e diciamo appunto che lo vogliamo, ma è stonato dire che lo scegliamo. In generale, infatti, [30] sembra che la scelta riguardi solo le cose che dipendono da noi. Dunque, non può essere neppure un’opinione, poiché si ammette che l’opinione riguardi ogni specie di oggetto, quelli eterni ed impossibili non meno di quelli che dipendono da noi: ed essa si distingue secondo il falso ed il vero, non secondo il bene ed il male, mentre la scelta si distingue piuttosto secondo questi ultimi. Dunque, [1112a] nessuno, certo, può dire che si identifica con l’opinione in generale. Ma neppure con un certo tipo di opinione: infatti, è con lo scegliere il bene o il male che determiniamo la nostra qualità morale, e non con l’averne una certa opinione. E noi scegliamo di conseguire o di evitare qualcosa di bene o di male, mentre un’opinione l’abbiamo su che cos’ una cosa o a chi giova o in che modo: [5] non abbiamo certo l’opinione di conseguirla o di evitarla. E poi la scelta è lodata, per il fatto di avere l’oggetto che si deve piuttosto che ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO III) volontari, ma per alcuni anche quelli del corpo, ed a loro li rinfacciamo. Infatti, nessuno biasima quelli che sono brutti per natura, ma quelli che lo sono per mancanza di ginnastica [25] e per trascuratezza. E similmente anche nel caso di debolezza e di mutilazione: nessuno, infatti, rimprovererebbe uno che è cieco per natura o per malattia o per ferita, ma piuttosto ne avrebbe compassione; ognuno, invece, biasimerebbe chi fosse cieco per abuso di vino o per qualche altra intemperanza. Dunque, dei vizi del corpo quelli che dipendono da noi vengono biasimati, ma quelli che non dipendono da noi, no. Se è [30] così, anche negli altri casi i vizi che ricevono biasimo dipenderanno da noi. Se, poi, si dicesse che tutti tendono a ciò che a loro appare bene, senza però essere padroni di quell’apparire, ma il fine appare a ciascuno, [1114b] caso per caso, tale quale ciascuno anche è, risponderemmo che, se dunque ciascuno per sé è in qualche modo causa della sua disposizione, sarà in qualche modo causa anche di quell’apparire. E se no, nessuno è per sé causa del suo cattivo comportamento, ma compie queste cattive azioni per ignoranza del fine, [5] credendo che da esse gli deriverà il massimo bene, e la tensione verso il fine non è frutto di una scelta personale, ma esige che uno sia nato, per così dire, con una capacità visiva che gli permetterà di giudicare rettamente e di scegliere ciò che è veramente bene; ed è ben dotato chi ha ricevuto buona dalla natura questa capacità visiva: essa, infatti, è la cosa più grande e più bella, e cosa che non è possibile [10] prendere o imparare da altri, ma che uno possederà tale e quale l’ha ricevuta dalla nascita, e l’essere questa dalla nascita buona e bella costituirà la perfetta e vera "buona natura". Se, dunque, questo è vero, perché mai la virtù dovrà essere volontaria più che non il vizio? Ad entrambi infatti, sia al buono sia al cattivo, il fine appare allo stesso modo [15] e si trova posto per entrambi per natura o come che sia, ed essi, poi, tutto il resto compiono riferendosi a quello in un modo o nell’altro. Dunque, sia nel caso che il fine non si riveli per natura a ciascuno nella sua determinatezza, ma che qualcosa dipenda anche dall’uomo stesso, sia nel caso che il fine sia fornito dalla natura, per il fatto che l’uomo di valore compie tutti gli altri atti volontariamente, la virtù è volontaria, ed anche il vizio [20] non sarà meno volontario: in modo simile, infatti, anche al vizioso compete il determinarsi per se stesso nelle azioni anche se non nel fine. Se dunque, come si dice, le virtù sono volontarie (ed infatti noi stessi siamo in qualche modo concausa delle nostre disposizioni, e per il fatto di avere certe qualità poniamo un certo fine corrispondente), anche i vizi saranno volontari: la situazione, [25] infatti, è la stessa. Dunque, delle virtù in generale abbiamo detto in abbozzo quale è il loro genere, cioè che sono delle medietà e delle disposizioni, che per se stesse ci fanno compiere le azioni da cui esse appunto derivano, che dipendono da noi e sono volontarie, e che ci fanno agire così come ordina la retta ragione. [30] Ma le azioni e le disposizioni non sono volontarie allo stesso modo: infatti, siamo padroni delle azioni dal principio alla fine, in quanto ne conosciamo le singole circostanze; delle disposizioni, invece, siamo padroni solo dell’inizio, [1115a] in quanto non ci è noto il loro graduale accrescimento, come nel caso delle malattie. Ma poiché dipende da noi farne questo o quest’altro uso, per questa ragione sono volontarie. Riprendendo il discorso su ciascuna virtù, diciamo quale è la loro natura, [5] quali oggetti riguardano e in qual modo: ed insieme sarà chiaro anche quante sono. E innanzi tutto trattiamo del coraggio. 6. [II coraggio]. Che, dunque, il coraggio sia una medietà tra paura e temerarietà, è già risultato chiaro. Ed è evidente che noi abbiamo paura delle cose temibili e che queste sono, per dirla semplicemente, dei mali: perciò si definisce la paura come aspettativa di un male. [10] Orbene, noi temiamo tutti i mali, come, per esempio, disonore, povertà, malattia, mancanza di amici, morte, ma non si ritiene che l’uomo coraggioso sia tale in rapporto a tutti i mali. Ci sono alcuni mali, infatti, che bisogna temere, e che è bello temere, e brutto il non temere, come il disonore, giacché chi lo teme è un uomo per bene e riservato, chi non lo teme, invece, è impudente. [15] L’impudente è da alcuni chiamato coraggioso, ma per metafora, perché ha qualcosa di simile al coraggioso: anche il coraggioso, infatti, è uno che non ha paura. La povertà, certo, non bisogna temerla, né la malattia, né, in genere, tutto quanto non deriva dal vizio, né è causato da chi agisce. Ma neppure chi non ha paura di fronte a queste cose è coraggioso. Tuttavia, noi chiamiamo così anche questo per somiglianza: [20] alcuni, infatti, pur essendo vili nei pericoli della guerra, sono tuttavia liberali e affrontano coraggiosamente la perdita della loro ricchezza. Certamente neppure chi tema un oltraggio ai propri figli od alla moglie, o chi tema l’invidia o qualche cosa di questo genere, è un vile; né è coraggioso, se ha ardire mentre sta per essere fustigato. Dunque, in relazione a quali oggetti, tra quelli temibili, si determina [25] l’uomo coraggioso? Non è, forse, di fronte a quelli più grandi? Nessuno, infatti, più di lui, è in grado di sopportare ciò che ispira timore. Ma la cosa che suscita la paura più grande è la morte: essa è, infatti, un termine, e si ritiene che per chi è morto non vi sia più nulla di bene né di male. Ma neppure in ogni circostanza in cui si presenti la morte, come, per esempio, in mare o nelle malattie, l’uomo si determina come coraggioso. In quali circostanze allora? Non sarà [30] nelle circostanze più belle? Tali sono le circostanze della morte in guerra, cioè nel pericolo più grande e più bello. E corrispondenti ad esse sono anche gli onori per ciò concessi nelle città ed alla corte dei monarchi. In conclusione, si chiamerà propriamente coraggioso colui che sta senza paura di fronte ad una morte bella, e di fronte a tutte le circostanze che costituiscono rischio immediato che conduce ad una tale morte: di questo tipo sono [35] soprattutto le situazioni di guerra. Tuttavia, l’uomo coraggioso resta senza paura anche in mare [1115b] e nelle malattie, ma non allo stesso modo degli uomini di mare: gli uomini coraggiosi, infatti, non sperano nella salvezza e disprezzano una simile morte, mentre gli uomini di mare sono pieni di speranza, sulla base della loro esperienza. Nello stesso tempo, poi, si mostrano coraggiosi anche nelle circostanze in cui c’è ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO III) bisogno di vigore, [5] oppure in cui è bello morire: ma, in tali tipi di morte, non c’ né una cosa né l’altra. 7. [Bellezza morale del coraggio]. Ciò che suscita paura non è la stessa cosa per tutti gli uomini; ma noi diciamo che c’ qualcosa che suscita paura anche al di sopra delle forze umane. Questo, dunque, fa paura a chiunque: a chiunque, almeno, abbia senno. Ma le cose a misura d’uomo differiscono per grandezza, cioè per il fatto di essere [10] più grandi o più piccole; allo stesso modo anche le cose che ispirano ardire. L’uomo coraggioso è impavido quanto può esserlo un uomo. Temerà, dunque, anche le cose a misura d’uomo, ma vi farà fronte come si deve e come vuole la ragione, in vista del bello, perché questo è il fine della virtù. È possibile temere queste cose di più e di meno, ed inoltre temere le cose non temibili come se lo fossero. [15] L’errore si produce o perché si teme ciò che non si deve, o perché si teme nel modo in cui non si deve, o perché non è il momento, o per qualche motivo simile: lo stesso vale anche per le cose che ispirano ardire. Orbene, colui che affronta, pur temendole, le cose che si deve, e che corrispondentemente ha ardire come e quando si deve, è coraggioso: infatti, [20] il coraggioso patisce e agisce secondo il valore delle circostanze e come prescrive la ragione. Il fine di ogni attività è quello che è conforme alla disposizione da cui essa procede: dunque, anche per il coraggioso. Il coraggio, poi, è una cosa bella: tale, quindi, sarà anche il suo fine, giacché ogni cosa si definisce in base al suo fine. Dunque, è in vista del bello morale che il coraggioso affronta le situazioni temibili e compie le azioni che derivano dal coraggio. Di coloro che peccano per eccesso, colui che pecca per mancanza di paura [25] non ha nome (abbiamo detto in precedenza che molte qualità non hanno nome) ma sarebbe un uomo folle o un insensibile se non temesse nulla, né terremoto né flutti, come dicono dei Celti: colui invece che eccede nell’ardire di fronte a cose temibili è temerario. Si ritiene comunemente che il temerario sia anche un millantatore, [30] cioè uno che simula coraggio: come il coraggioso è realmente di fronte alle cose temibili, così il temerario vuole apparire: in ciò che può, quindi, lo imita. Perciò i più di loro sono una mescolanza di viltà e temerarietà, giacché in queste situazioni si mostrano coraggiosi, ma non sanno affrontare quelle realmente temibili. Chi eccede nel temere è vile, perché teme ciò che non si deve [35] e come non si deve, e tutte le caratteristiche di questo genere gli competono di conseguenza. [1116a] Difetta anche nell’ardire, ma ciò che è più evidente è che eccede nel temere nelle situazioni dolorose. Certo il vile è una specie di uomo senza speranza, giacché ha paura di tutto. Il coraggioso, invece, è tutto il contrario: l’avere ardire, infatti, è proprio dell’uomo ricco di speranza. Il vile, dunque, [5] il temerario e il coraggioso hanno rapporto coi medesimi oggetti, ma vi si rapportano in modo differente: i primi, infatti, peccano per eccesso e per difetto, quest’ultimo invece si tiene nel mezzo e si comporta come si deve. I temerari, inoltre, sono precipitosi, e, mentre prima che i pericoli si presentino, li vogliono, quando i pericoli sono attuali si tirano indietro: i coraggiosi, invece, sono risoluti nei fatti e calmi prima. [10] Dunque, come abbiamo detto, il coraggio è una medietà che ha per oggetto cose che suscitano ardire e cose che suscitano paura, nelle circostanze che abbiamo indicato, e le sceglie e le affronta perché è bello il farlo, o perché è brutto il non farlo. Il morire per fuggire la povertà o l’amore o una sofferenza qualsiasi non è da uomo coraggioso, ma piuttosto da vile: infatti, è una debolezza quella di fuggire i travagli, e chi in tal caso affronta la morte [15] non lo fa perché è bello, ma per fuggire un male. 8. [Cinque disposizioni impropriamente denominate coraggio]. II coraggio, dunque, ha queste caratteristiche; ma si chiamano coraggio anche altre disposizioni, distinte in cinque specie. (1) Innanzi tutto il coraggio civile, giacché è quello che assomiglia di più al coraggio vero e proprio. Infatti, si ritiene comunemente che i cittadini affrontino i pericoli a causa delle pene e dei biasimi stabiliti dalle leggi, ed a causa degli onori: [20] per questo si ritiene che i più coraggiosi siano quelli presso i quali i vili sono infamati ed i coraggiosi onorati. Uomini di questo tipo rappresenta anche Omero, per esempio un Diomede e un Ettore: "Polidamante per primo mi coprirà d’infamia" 64 e [25] "Dirà Ettore un giorno, parlando fra i Teucri: "Da me travolto il Titide..."" .65 Questa specie di coraggio è quella che assomiglia di più a quella descritta precedentemente, perché nasce da virtù: nasce, infatti, da pudore e da desiderio di bello (cioè d’onore), e dal desiderio di evitare il biasimo, che è brutto. Si potrebbero porre nella medesima specie [30] anche coloro che sono forzati dai loro capi al medesimo comportamento; ma sono di qualità inferiore perché lo fanno non per pudore ma per paura, e per fuggire non ciò che è brutto ma ciò che è doloroso: li forzano infatti i loro signori, come Ettore "Ma chi scoprirò che vuole lungi dalla battaglia starsene [...], questi [35] non potrà più sfuggire i cani... " .66 E i capi che assegnano loro i posti, e che li battono se indietreggiano, [1116b] fanno la stessa cosa, e così pure coloro che li schierano davanti ai fossati o cose simili, giacché tutti costoro li forzano. Invece bisogna essere coraggiosi non per forza, ma perché è bello. (2) Anche l’esperienza di simili categorie di pericoli si pensa comunemente che sia coraggio: di qui anche Socrate giunse a pensare [5] che il coraggio è una scienza . E coraggiosi alcuni si mostrano in certe cose,67 ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO III) altri in altre: nei pericoli della guerra i soldati di professione, giacché si ritiene che in guerra vi siano molti falsi allarmi, che soprattutto i soldati di professione sanno cogliere a colpo d’occhio. Appaiono, quindi, coraggiosi, perché gli altri non conoscono la natura dei fatti. Inoltre, in base all’esperienza sono capaci, più di ogni altro, di infliggere colpi senza riceverne, [10] perché sono abili nell’uso delle armi e ne possiedono di tali, quali sono probabilmente le più adatte sia per infliggere colpi sia per non riceverne; combattono, quindi, come uomini armati contro uomini inermi e come atleti allenati contro dilettanti: in effetti, nelle competizioni atletiche non sono i più coraggiosi ad essere i migliori combattenti, ma [15] quelli che hanno la forza più grande e che si trovano nelle migliori condizioni fisiche. I soldati di professione diventano vili, invece, quando il pericolo avanza e quando sono inferiori per numero e per armamento: sono i primi, infatti, a fuggire, mentre le truppe formate da cittadini muoiono sul posto, come accadde anche presso il tempio di Hermes . Per questi uomini, infatti, è brutto fuggire, [20] e la morte è preferibile ad un simile mezzo di68 salvezza; quelli, invece, anche all’inizio dell’azione affrontano il pericolo solo perché credono di essere più forti; ma quando si rendono conto della realtà fuggono, perché temono la morte più dell’onta. L’uomo coraggioso, invece, non è di tal fatta. (3) Anche l’impulsività viene ricondotta al coraggio: si ritiene, infatti, che siano coraggiosi anche quelli che agiscono per impulsività, [25] come le bestie quando si gettano contro coloro che le hanno ferite, per il fatto che anche gli uomini coraggiosi sono impulsivi. L’impulsività è lo slancio più impetuoso contro i pericoli; di qui anche Omero: "egli infuse forza alla loro impulsività" , e "destò ardore e impulsività" , e "un aspro69 70 ardore salì alle narici" 71 , e "il sangue gli ribollì" 72 . Tutte queste espressioni sembrano infatti significare [30] il risveglio dell’impulsività e l’impeto. Orbene, i coraggiosi agiscono per amore del bello, e l’impulsività coopera con loro; le bestie invece, agiscono per il dolore, per il fatto di essere state colpite o spaventate, dal momento che, quando sono nella foresta, non aggrediscono. Non è, dunque, coraggio il loro, [35] quando si slanciano verso il pericolo, spinte dalla sofferenza o dall’impulsività, senza prevedere nessuno dei rischi, poiché in questo modo, allora, sarebbero coraggiosi anche gli asini quando hanno fame: anche se vengono percossi [1117a] non si allontanano dal pascolo. Anche gli adulteri, sotto la spinta del desiderio, compiono molte azioni audaci. Il più naturale, poi, sembra essere il coraggio che nasce dall’impulsività; [5] e, se all’impulsività si aggiunge una scelta e la consapevolezza del fine, sembra essere il coraggio propriamente detto. Anche gli uomini, dunque, quando sono adirati, soffrono, e quando si vendicano provano piacere; ma coloro che combattono per questi motivi sono, sì, battaglieri, ma non propriamente coraggiosi, giacché non combattono per il bello né come prescrive la ragione, bensì sotto la spinta della passione; tuttavia, hanno qualcosa che è molto vicino al vero coraggio. (4) Certo, neppure gli uomini fiduciosi [10] sono coraggiosi; infatti, per il fatto di aver vinto spesso e molti nemici, hanno ardire nei pericoli: hanno una certa somiglianza con i coraggiosi, perché entrambi sono ardimentosi, ma, mentre i coraggiosi sono ardimentosi per le ragioni sopra esposte, questi lo sono per il fatto che credono di essere i più forti e di non poter subire alcun danno. (Nello stesso modo si comportano anche gli ubriachi, [15] perché diventano fiduciosi. Quando, invece, le cose non vanno in questo modo, essi fuggono.) Al contrario, proprio dell’uomo coraggioso è, come abbiamo detto, affrontare ciò che è o appare temibile all’uomo, perché è bello farlo ed è brutto il non farlo. Perciò si ritiene che sia proprio di un uomo anche più coraggioso restare senza paura e senza turbamento nei pericoli improvvisi più che non in quelli previsti, [20] giacché ciò che dipende di meno dalla preparazione deriva di più dalla disposizione. Infatti, i pericoli prevedibili uno può anche farli oggetto di una scelta in base ad un calcolo e ad un ragionamento, ma quelli improvvisi si affrontano secondo la propria disposizione. (5) Appaiono coraggiosi anche coloro che non riconoscono il pericolo, e non sono lontani dagli uomini fiduciosi, pur essendo inferiori in quanto non hanno la stima di sé che invece quelli possiedono. Perciò resistono [25] per un certo tempo: ma quelli che si sono ingannati, quando vengono a sapere o sospettano che le cose stanno diversamente, fuggono. Cosa che capitò agli Argivi quando si imbatterono nei Laconi scambiati per Sicioni 73 . Si è detto, dunque, quale è la natura dei coraggiosi, e di quelli che comunemente passano per coraggiosi. 9. [Il coraggio: osservazioni conclusive]. Se il coraggio è in rapporto con temerarietà e paura, il rapporto [30] non è lo stesso nei due casi, ma riguarda soprattutto le cose che fanno paura. Infatti, è coraggioso chi in queste situazioni rimane imperturbabile, e di fronte ad esse si comporta come si deve, più di quanto non faccia chi si trova in situazioni che ispirano ardire. È, dunque, per il fatto di affrontare le situazioni dolorose, come si è detto, che tali uomini vengono chiamati coraggiosi. Perciò il coraggio comporta anche dolore ed è giusto che venga lodato: infatti, è più difficile [35] affrontare le situazioni dolorose che astenersi dai piaceri. [1117b] Tuttavia si riconoscerà che il fine che il coraggio permette di raggiungere è piacevole, ma che è oscurato dalle circostanze, come avviene anche nelle gare ginniche. Per i pugilatori il fine per cui combattono è piacevole (ciò per cui combattono è la corona e gli onori), ma il ricevere colpi è doloroso, dal momento che sono [5] di carne, e penoso è tutto l’allenamento. E poiché le cose dolorose sono molte, mentre il fine è piccola cosa, esso sembra non avere niente di piacevole. Se, dunque, la situazione è tale anche nel caso del coraggio, la morte e le ferite saranno dolorose per l’uomo coraggioso, che le subirà contro voglia, ma le affronterà perché è bello affrontarle, ovvero perché è brutto non farlo. E [10] quanto più completa sarà la virtù che possiede e quanto più sarà felice, tanto più soffrirà di fronte alla morte: è per un uomo simile, soprattutto, che la vita è degna di essere vissuta, ed è lui che sarà privato dalla morte dei beni più grandi, e lo sa; e ciò ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO IV) ARISTOTELE ETICA A NICOMACO LIBRO IV 1. [La liberalità]. Adesso trattiamo della liberalità. Generalmente si crede che essa sia la medietà concernente i beni materiali. Infatti, si loda l’uomo liberale non nelle azioni di guerra, né in quelle per cui viene lodato l’uomo temperante, né, inoltre, nelle decisioni giudiziali, [25] bensì in riferimento al dare e al ricevere beni materiali, e soprattutto in riferimento al dare. Denominiamo, poi, beni materiali tutte le cose il cui valore si misura in denaro. La prodigalità e l’avarizia sono eccessi e difetti che riguardano i beni materiali. E mentre attribuiamo il termine avarizia sempre a coloro che si preoccupano dei beni materiali più di quanto bisogna, [30] talora applichiamo il termine prodigalità comprendendo insieme più significati: chiamiamo, infatti, prodighi gli incontinenti e coloro che scialacquano per soddisfare la loro intemperanza. Perciò si ritiene comunemente che siano affatto miserabili, giacché hanno molti vizi insieme. Dunque, la loro denominazione non è appropriata: infatti "prodigo" vuol significare chi ha un vizio solo e determinato, quello di mandare in rovina il patrimonio. [1120a] Infatti, prodigo è chi si rovina da se stesso, e la distruzione del patrimonio si ritiene che sia una specie di rovina di se stessi, dal momento che è esso che rende possibile vivere. Per conseguenza, è in questo senso che prendiamo il termine "prodigalità". Delle cose, poi, che hanno un uso, si può usare sia bene sia male. Ora, [5] la ricchezza appartiene alle cose di cui si fa uso, e di ciascuna cosa fa l’uso migliore colui che ne ha la virtù relativa: dunque, anche della ricchezza farà il migliore uso possibile chi ha la virtù relativa ai beni materiali; e costui è l’uomo liberale. Ma l’uso dei beni materiali si ritiene che consista nello spendere e nel donare, mentre il prenderli e il custodirli sono piuttosto un possesso. [10] Perciò è più proprio dell’uomo liberale il donare a chi si deve che non il prendere di dove si deve, ovvero il non prendere di dove non si deve. È infatti caratteristico della virtù più fare il bene che non il riceverlo, e compiere belle azioni più che non compierne di cattive. E non è difficile vedere che il donare implica fare il bene e compiere belle azioni, il prendere implica [15] ricevere il bene e non comportarsi male. Inoltre la riconoscenza va a chi dona, non a chi prende, ed ancor più la lode. Ed è più facile non prendere che donare: si è meno disposti a cedere del proprio che a non prendere dall’altrui. E liberali sono chiamati quelli che donano; quelli che non prendono ciò che non devono [20] non sono lodati dal punto di vista della liberalità, bensì dal punto di vista della giustizia, e quelli che prendono ciò che devono non sono lodati affatto. Gli uomini liberali, poi, sono amati quasi di più di tutti quelli che sono amati per la virtù, perché sono benefici, e l’essere benefici consiste nel donare. Le azioni virtuose sono belle ed hanno come fine il bello. E l’uomo liberale, dunque, donerà in vista del bello [25] ed in maniera corretta: donerà, cioè, a chi si deve e nella quantità e nel momento in cui si deve, ed osserverà tutte le altre condizioni che il donare rettamente implica; e lo farà con piacere, o almeno senza pena: infatti, ciò che è conforme a virtù è piacevole o senza pena, anzi non è affatto penoso. Colui che dona, invece, a chi non si deve, o dona non in vista del bello ma per qualche altro motivo, non potrà essere chiamato liberale, ma in qualche altro modo. Né [30] si potrà chiamare liberale chi dona con pena: egli, infatti, anteporrà i suoi beni alla bella azione, e questo non è da uomo liberale. Né prenderà di dove non si deve: un simile prendere non è, infatti, proprio di un uomo che non stima i beni materiali. Né sarà liberale chi sollecita beni per sé, giacché non è proprio di chi fa il bene il farsi beneficiare senza scrupoli. Invece prenderà di dove si deve, per esempio dalla sua proprietà privata, [1120b] non perché è bello, ma perché è necessario al fine di avere di che donare. Né trascurerà i suoi beni personali, se non altro perché vuole con essi provvedere agli altri. Né donerà a chi capita, per avere di che donare a chi si deve, nel tempo e nel luogo in cui è bello donare. È affatto [5] caratteristico dell’uomo liberale persino eccedere nel donare, in modo da lasciare a se stesso la parte minore dei suoi beni: infatti, è proprio del liberale non guardare a se stesso. La liberalità, poi, si determina a seconda del patrimonio: infatti, il carattere liberale del dono non sta nella quantità di ciò che è donato, ma nella disposizione d’animo di colui che dona, e questa spinge a donare in proporzione al patrimonio. Per conseguenza, nulla impedisce [10] che sia più liberale chi dona di meno, se per donare attinge da un patrimonio più piccolo. Si ritiene comunemente che siano più liberali coloro che non si sono procurati da sé il patrimonio, ma lo hanno ereditato: infatti, non hanno esperienza dell’indigenza ed inoltre tutti gli uomini amano di più ciò che è opera loro, come i genitori ed i poeti. D’altra parte, non è facile arricchirsi [15] per un uomo liberale, poiché non è portato a prendere né a conservare, ma a dar via, e non apprezza i beni materiali per se stessi, ma come mezzi per poter donare. Perciò si rimprovera la fortuna, perché coloro che ne sono più degni meno arricchiscono. Ma questo succede non senza ragione: non è possibile che possieda dei beni chi non si preoccupa di averne, come succede [20] anche in tutte le altre cose. Se non altro, il liberale non donerà a chi non si deve né quando non si deve, e così via; infatti non agirebbe più conformemente alla liberalità, e se spendesse per queste cose le sue sostanze, non ne avrebbe per spenderle per ciò che si deve. Come, infatti, si è detto, è liberale chi spende in proporzione al proprio patrimonio e per ciò che si deve: chi, invece, eccede, [25] è prodigo. Perciò non chiamiamo prodighi i tiranni: infatti, non sembra che sia facile che col donare e con lo spendere possano superare la grandezza della loro proprietà. Poiché, dunque, la liberalità è la medietà relativa al donare e al prendere beni materiali, l’uomo liberale donerà e spenderà per ciò che si deve e quanto si deve, allo stesso modo nelle piccole [30] ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO IV) che nelle grandi cose, e questo farà con piacere; e prenderà di dove si deve e quanto si deve. Poiché, infatti, la sua virtù è la medietà relativa al donare e al prendere, il liberale farà entrambe le cose come si deve: al donare in modo conveniente consegue anche un prendere convenientemente, mentre un prendere diversamente è il suo contrario. Ordunque, le proprietà che si implicano sono presenti insieme nello stesso uomo, mentre è chiaro che per quelle contrarie non è così. [1121a] D’altra parte, se gli accadrà di spendere più del dovuto o più di ciò che è bello, ne soffrirà, ma moderatamente e come si deve: è tipico della virtù, infatti, provar piacere e dolore per ciò che si deve e come si deve. Infine, l’uomo liberale è molto accomodante per quanto riguarda i beni materiali: [5] infatti, è capace di subire ingiustizia, se non altro perché non stima i beni materiali, e perché soffre di più se non dà qualcosa di dovuto di quanto non si addolori se dà qualcosa di non dovuto, anche se così dispiace a Simonide . Il prodigo, invece, erra anche in77 queste cose: non prova, infatti, né piacere né dolore di ciò per cui si deve, né nel modo in cui si deve: ma sarà più chiaro per chi ci seguirà. [10] Abbiamo dunque detto che la prodigalità e l’avarizia sono eccessi e difetti, ed in due cose, nel donare e nel prendere, giacché comprendiamo anche lo spendere nel donare. Orbene, la prodigalità eccede nel donare e nel non prendere, mentre difetta nel prendere; l’avarizia, invece, difetta nel donare, [15] ma eccede nel prendere, eccetto che nelle piccole cose. I due aspetti della prodigalità stanno raramente insieme: non è facile, infatti, per chi non prende da nessuna parte, donare a tutti, giacché le risorse vengono presto a mancare a coloro che donano, se sono dei privati, che sono i soli che comunemente si ritiene siano prodighi. Tuttavia, chi possedesse entrambi gli aspetti della prodigalità sarebbe ritenuto non poco migliore [20] dell’avaro. Egli, infatti, può essere guarito dall’età e dalla povertà, e può giungere alla medietà. Ha infatti i tratti dell’uomo liberale, giacché dona e non prende, ma nessuna delle due cose fa come si deve, cioè non le fa bene. Se, dunque, prendesse questa abitudine o comunque cambiasse comportamento, sarebbe un uomo liberale: allora donerà a chi si deve [25] e non prenderà di dove non si deve. Proprio per questo si ritiene che non sia cattivo di carattere: non è, infatti, da uomo perverso ed ignobile eccedere nel donare e nel non prendere, bensì da stupido. Chi è prodigo in questo modo si ritiene che sia molto migliore dell’avaro per le ragioni dette, e perché quello benefica molta gente, questo, invece, nessuno, [30] neppure se stesso. Ma la maggior parte dei prodighi, come si è detto, giungono al punto di prendere di dove non si deve e, da questo punto di vista, sono degli avari. Diventano molto disponibili a prendere per il fatto di voler spendere, ma di non poterlo fare facilmente, perché le sostanze vengono loro meno rapidamente. Sono quindi costretti a procacciarsele altrove. [1121b] Nello stesso tempo, è anche perché non si preoccupano per niente di ciò che è bello che prendono con noncuranza e da ogni parte: desiderano infatti donare, ma non ha alcuna importanza per loro il modo con cui attingono e la fonte da cui attingono. Perciò neppure le loro donazioni sono liberali: infatti, non sono moralmente belle, né hanno come scopo il bello, [5] né sono fatte come si deve ma, talvolta, rendono ricchi uomini che dovrebbero rimanere poveri, e, mentre non darebbero nulla a uomini di carattere misurato, agli adulatori, invece, o a chi procura loro qualche altro piacere, donano molto. Proprio per questo la maggior parte di loro sono anche intemperanti, giacché spendono facilmente e sono scialacquatori per soddisfare le loro intemperanze, e, poiché non vivono per [10] ciò che è moralmente bello, sono proclivi ai piaceri. Il prodigo, quindi, quando rimane senza guida, si rivolge all’avarizia ed alla intemperanza, mentre quando gli capita di trovare chi si prende cura di lui può giungere al giusto mezzo e al comportamento dovuto. L’avarizia, invece, è incorreggibile (si ritiene, infatti, che la vecchiaia ed ogni specie di impotenza rendano avari), ed è più connaturale agli uomini [15] che non la prodigalità: la gente, infatti, ama di più possedere beni materiali che non donarli. L’avarizia, inoltre, ha una grande estensione e presenta molti aspetti: si ritiene, infatti, che molti siano i modi di essere avari. Poiché consiste di due elementi, difetto nel dare ed eccesso nel prendere, non in tutti si realizza integralmente, ma talora si scinde, [20] e alcuni eccedono nel prendere, mentre altri difettano nel dare. Infatti, quelli che rientrano in queste denominazioni, per esempio, tirchi spilorci taccagni, tutti difettano nel dare, ma non aspirano ai beni altrui né vogliono prenderseli; gli uni per una certa onestà e per un certo ritegno di fronte alle brutte azioni [25] (si pensa infatti che alcuni, o almeno loro dicono così, custodiscano gelosamente i loro beni per non trovarsi mai costretti a compiere qualche brutta azione; e a questi appartiene pure chi risparmia anche un grano di comino ed ogni tipo del genere: e prende il nome dall’eccesso che consiste nel non donare nulla); gli altri, invece, si astengono dai beni altrui per paura, pensando che non è facile che uno si impadronisca dei beni degli altri [30] senza che gli altri si impadroniscano dei suoi: a loro, quindi, non piace né prendere né donare. Altri, al contrario, eccedono nel prendere, in quanto prendono tutto e da ogni parte, come, per esempio, coloro che esercitano mestieri sordidi: i ruffiani e tutti i loro simili, e gli usurai che prestano piccole somme a grande interesse. [1122a] Tutti costoro, infatti, prendono di dove non si deve e nella quantità che non si deve. Elemento comune a costoro è poi, manifestamente, la sordida cupidigia di guadagno: tutti, infatti, affrontano il disonore in vista di un guadagno, anche se piccolo. Coloro, infatti, che traggono grossi guadagni di dove non si deve, e non fanno ciò che si deve, non [5] li chiamiamo avari (per esempio, i tiranni che saccheggiano e spogliano i templi), ma, piuttosto, malvagi, empi, ingiusti. Tuttavia, il giocatore d’azzardo, il ladro e il pirata appartengono alla classe degli avari: sono, infatti, sordidamente cupidi di guadagno. È, infatti, in vista del guadagno che gli uni e gli altri si danno da fare ed affrontano il disonore, e, [10] mentre questi ultimi affrontano i più grossi rischi in vista del bottino, i primi traggono guadagni dagli amici, ai quali invece si dovrebbe donare. Gli uni e gli altri, dunque, in quanto vogliono trarre profitti di dove non si deve, sono sordidamente avidi di guadagno; e, per conseguenza, tutti questi modi di prendere sono propri dell’avarizia. A ragione, dunque, si dice che l’avarizia è il contrario della liberalità: infatti, è un male più grande [15] della ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO IV) prodigalità, e si pecca di più per avarizia che non per prodigalità, come noi l’abbiamo descritta. Orbene, tanto basti sull’argomento della liberalità e dei vizi a lei opposti. 2. [La magnificenza]. Si ammetterà che a questo deve seguire la trattazione della magnificenza. Si ritiene, infatti, che anch’essa sia una virtù in rapporto ai beni materiali, [20] ma non si estende come la liberalità a tutti i tipi di azione che hanno per oggetto beni materiali, bensì solo alle spese: in queste, però, supera la liberalità per grandezza. Infatti, come il nome stesso suggerisce, è una maniera conveniente di spendere in grande. Ma la grandezza è relativa: infatti, la spesa non è la stessa per chi è incaricato di armare una trireme [25] e per chi deve guidare una sacra legazione. La convenienza, dunque, è relativa a chi spende ed alle circostanze e all’oggetto della spesa. Chi, invece, spende in cose piccole o medie secondo che esse meritano non si chiama magnifico (come l’uomo del detto 78 "spesso ho donato al vagabondo"), bensì solo colui che spende in grandi cose. Infatti, mentre l’uomo magnifico è liberale, l’uomo liberale non è necessariamente magnifico. [30] Il difetto di tale disposizione d’animo si chiama meschinità, l’eccesso volgarità, mancanza di gusto e simili, disposizioni, queste ultime, che non eccedono in grandezza in relazione a ciò che si deve, bensì che fanno sfoggio in cose per cui non si deve o in maniera in cui non si deve: di esse parleremo in seguito. Il magnifico è simile ad un conoscitore, perché [35] è in grado di vedere la convenienza e fare grandi spese con gusto. [1122b] Come, infatti, dicemmo all’inizio 79 , la disposizione viene definita dalle sue attività e dai suoi oggetti. Ora, le spese dell’uomo magnifico sono grandi e convenienti. Tali, dunque, saranno anche le sue opere: così, infatti, la spesa sarà grande e conveniente all’opera da compiere. Come l’opera [5] deve essere degna della spesa, così anche la spesa deve essere degna dell’opera, o perfino superarla. Il magnifico farà spese di tal genere in vista di ciò che è moralmente bello, perché questo è comune a tutte le virtù. Inoltre, le farà con piacere e con profusione di mezzi, giacché la minuziosità nei conti è qualcosa di meschino. E si porrà il problema di come ottenere il risultato più bello e più conveniente, piuttosto che di quanto costerà [10] e di come spendere il meno possibile. L’uomo magnifico è, dunque, necessariamente anche liberale. Infatti, anche l’uomo liberale spenderà ciò che si deve e come si deve; ma, in queste spese legittime, è la grandezza che è tipica dell’uomo magnifico, in quanto la magnificenza è appunto la grandezza della liberalità relativa a queste spese, e con una spesa uguale renderà l’opera più magnifica. Infatti, [15] il valore di ciò che si possiede e quello di un’opera non sono lo stesso. Il possesso più prezioso, infatti, è quello che ha il massimo valore commerciale, come, per esempio, l’oro, mentre l’opera più preziosa è quella che è grande e bella (la contemplazione di una simile opera, infatti, suscita ammirazione, ed è appunto ciò che è magnifico che suscita ammirazione): ora, il valore dell’opera, la sua magnificenza, sta nella sua grandezza. La magnificenza, poi, ha come oggetto le spese che noi chiamiamo spese onorevoli (per esempio, quelle che si fanno [20] per gli dèi, offerte votive, costruzione di templi, sacrifici, e similmente per ogni aspetto del culto religioso), e tutte quelle che si ha l’ambizione di fare per l’interesse comune (per esempio, secondo me, quando si pensa di dover allestire con splendore un coro o una trireme, oppure anche di offrire un banchetto pubblico). Ora, in tutti questi casi, come si è detto, la valutazione della spesa è rapportata a chi la fa ed è relativa alla persona che la fa [25] ed ai mezzi che questa ha: infatti, le spese devono essere degne dei suoi mezzi, e convenire non solo all’opera ma anche a chi la compie. Perciò un povero non potrà essere magnifico, perché non ha di che fare grandi spese in modo conveniente: e chi ci prova è sciocco, perché ciò va al di là delle sue possibilità finanziarie e del suo dovere, mentre conforme a virtù è solo ciò che viene compiuto rettamente. [30] Ora, tali spese convengono a coloro che possiedono adeguati mezzi, sia che li abbiano acquisiti personalmente, sia che li abbiano ricevuti in eredità dagli avi, sia che derivino loro da altre relazioni, e poi ai nobili, alle persone illustri e così via, perché tutte queste condizioni comportano grandezza e prestigio. Soprattutto di questa natura è dunque l’uomo magnifico, ed è in spese di questo genere che consiste la magnificenza, come [35] s’ detto: spese molto grandi e molto onorevoli. Nelle spese private, invece, la magnificenza si deve manifestare in quelle che [1123a] si fanno una volta sola, come, per esempio, un matrimonio o una situazione del genere, e in quelle che interessano tutta la città o le persone di rango, e quando si accolgono e si congedano ospiti stranieri, cioè quando si offrono e si contraccambiano doni. Infatti, non è per se stesso che spende l’uomo magnifico, bensì [5] per l’interesse comune, e i suoi doni hanno qualcosa di simile alle offerte votive. E caratteristico dell’uomo magnifico anche arredare la sua casa in modo conveniente alla propria ricchezza (anche una bella casa è un ornamento), e spendere soprattutto per opere durevoli (che sono le più belle), e, in ogni caso, spendere quanto conviene. Infatti, non sono le stesse cose che convengono [10] agli dèi ed agli uomini, per un tempio e per una tomba. E poiché ogni tipo di spesa può essere grande nel suo genere, e la più magnifica in generale è la grande spesa per una grande cosa, ma in circostanze determinate la grande spesa per oggetti determinati, c’ anche differenza tra la grandezza dell’opera e quella della spesa. Infatti, la più bella palla o il più bel secchiello [15] hanno il carattere della magnificenza come dono per un bambino, benché il loro prezzo sia piccolo e misero. Per questa ragione, caratteristico dell’uomo magnifico è che, qualunque sia il genere delle cose che fa, le fa con magnificenza (ché una simile azione non può essere facilmente superata) ed in modo adeguato al valore della spesa. Tale è, dunque, l’uomo magnifico. Chi, invece, eccede ed è volgare, [20] eccede in quanto spende più del dovuto, come s’ detto. Infatti, nelle piccole occasioni di spesa spende molto e fa uno sfarzo stonato, come, per esempio, quando fa di una colazione fra amici un banchetto di nozze, e quando deve allestire il coro per una commedia lo introduce nella pàrodo ornato di porpora, come fanno i Megaresi. E tutto questo farà non [25] in vista di ciò che è bello, ma per ostentare la ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO IV) moderato, come abbiamo detto anche nella prima trattazione. Ma è chiaro che, poiché "essere amante di questo o di quello" si dice in molti sensi, noi non [15] sempre riferiamo alla stessa cosa l’espressione "amante degli onori" (ambizioso), ma quando lo lodiamo lo riferiamo all’amare l’onore più che non faccia la massa, quando lo biasimiamo lo riferiamo all’amare l’onore più di quanto si deve. Ma poiché questa medietà non ha nome, i due estremi sembra che se ne disputino il posto come se fosse vacante. Ma nelle cose in cui c’ eccesso e difetto c’ anche il mezzo: ora, si desidera l’onore sia di più sia di meno di quanto [20] si deve; dunque, è possibile desiderarlo anche come si deve: e quindi viene lodata questa disposizione, che è una medietà senza nome relativa all’onore. Confrontata con l’ambizione, appare mancanza di ambizione; ma, confrontata con la mancanza di ambizione, appare ambizione; confrontata con entrambe, sembra essere in certo qual modo sia l’una sia l’altra. E sembra che questo avvenga anche nel caso delle altre virtù. Ma qui la contrapposizione [25] appare tra gli estremi per il fatto che il mezzo non ha un proprio nome. 5. [La bonarietà]. La bonarietà è la medietà riguardo ai sentimenti d’ira; ma, poiché il mezzo è senza nome e quasi senza nome sono anche gli estremi, noi attribuiamo al mezzo il nome di "bonarietà", benché essa inclini verso il difetto, che non ha nome. Ma l’eccesso si potrebbe chiamare irascibilità. [30] Infatti, qui la passione è l’ira, e le cause che la producono sono molte e diverse. Orbene, colui che si adira per ciò che si deve e con chi si deve, ed inoltre come e quando e per quanto tempo si deve, viene lodato: costui, dunque, sarà un uomo bonario, se è vero che la bonarietà viene lodata. Il bonario, infatti, vuole essere imperturbabile, cioè non lasciarsi trascinare dalla passione, [35] bensì adirarsi nel modo, per i motivi e per il tempo che la ragione prescrive. [1126a] Ora, comunemente si ritiene che egli pecchi piuttosto per difetto: l’uomo bonario infatti non è vendicativo, ma piuttosto portato al perdono. Il difetto, invece, che sia una specie di indifferenza all’ira o quello che vi pare, viene biasimato. Infatti, quelli che non si adirano per i motivi per cui [5] si deve passano per sciocchi, e anche quelli che non si adirano nel modo in cui si deve, né quando né con chi si deve. Si ritiene allora che un tale uomo non sia sensibile né provi dolore, e, poiché non si adira, che non sia capace di difendersi. D’altra parte, sopportare di essere trascinato nel fango e sorvolare se vi sono trascinati gli amici, è atteggiamento da schiavi. L’eccesso, poi, si verifica in tutti i modi (ci si può adirare, infatti, con chi non si deve, [10] per motivi per cui non si deve, di più, più rapidamente e per più tempo di quanto si deve); tuttavia, se non altro, non tutti questi eccessi si presentano nella medesima persona. Non sarebbe, infatti, possibile, giacché il male distrugge anche se stesso, e quando è totale diventa insopportabile. Orbene, gli irascibili si adirano rapidamente e con chi non si deve e per motivi per cui non si deve, e più di quanto [15] si deve, ma la loro ira rapidamente anche cessa: e questo è il lato più bello del loro carattere. Questo, poi, accade loro perché non trattengono l’ira, ma per la loro vivacità reagiscono in modo che sia chiaro, e poi la loro ira cessa. I collerici, poi, sono eccessivamente vivaci e si adirano contro tutto ed in ogni occasione: di qui il loro nome. I rancorosi [20] sono difficili da riconciliare e restano adirati per molto tempo, giacché trattengono l’impulso. Ma la quiete in loro ritorna quando abbiano reso la pariglia: la vendetta, infatti, fa cessare l’ira, producendo in loro un piacere al posto del dolore precedente. Se questo, invece, non avviene, sentono il peso del loro risentimento, perché, non essendo esso manifesto, nessuno cerca di persuaderli a calmarsi, e d’altra parte digerire [25] l’ira in se stessi richiede tempo. Tali uomini sono molto molesti a se stessi e agli amici più stretti. Chiamiamo poi "difficili" quelli che si inquietano per motivi per cui non si deve, di più e per più tempo di quanto si deve, e non cambiano sentimento senza aver vendicato o punito l’offesa ricevuta. Alla bonarietà, poi, contrapponiamo soprattutto l’eccesso, [30] perché è più frequente: il desiderio di vendetta è più umano, e gli uomini difficili sono quelli che si adattano peggio alla vita sociale. Ciò che abbiamo detto in precedenza 84 risulta chiaro anche da ciò che diciamo ora. Non è facile, in effetti, determinare come, con chi, per quali motivi e per quanto tempo ci si debba adirare e fino a che punto si fa bene o si sbaglia. [35] Chi, infatti, devia di poco, sia nel senso del più sia nel senso del meno, non viene biasimato; talora, infatti, coloro che difettano li lodiamo [1126b] e li diciamo bonari, e diciamo virili quelli che si adirano, intendendo che essi sono capaci di comandare. Per conseguenza, quanto e come uno debba trasgredire per dover essere biasimato non è facile stabilire col ragionamento: son cose che rientrano nell’ambito dei fatti particolari, ed il giudizio su di esse spetta alla sensazione. Ma almeno questo [5] è chiaro, che lodevole è la disposizione di mezzo, secondo la quale ci adiriamo con chi si deve, per i motivi per cui si deve, come si deve e così via, mentre gli eccessi e i difetti sono biasimevoli, e poco se sono piccoli, di più se sono più grandi, e molto se sono molto grandi. È chiaro, quindi, che bisogna attenersi alla disposizione di mezzo. [10] Si consideri concluso il discorso sulle disposizioni relative all’ira. 6. [L’affabilità]. Nelle compagnie, nel vivere insieme, nei rapporti reciproci attraverso le parole e le azioni, alcuni sono ritenuti compiacenti, cioè quelli che per far piacere lodano tutto e non contraddicono in nulla, ma pensano loro dovere non procurare alcuna molestia a quelli che incontrano; altri che, al contrario dai precedenti, [15] contraddicono in tutto e non si rendono conto per niente di procurare molestia, sono chiamati scorbutici e litigiosi. Che, dunque, le suddette disposizioni sono da biasimare è chiaro; ed è chiaro che è da lodare quella di mezzo, in conformità con la quale si accetterà ciò che si deve e come si deve, e ci si inquieterà allo stesso modo. Ad essa non è stato dato un nome, [20] ma ciò a cui somiglia di più è l’amicizia. Infatti, colui che si conforma a questa disposizione mediana è quel tipo di uomo che noi vogliamo intendere quando diciamo ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO IV) "buon amico", se si aggiunge l’affetto. Essa, poi, differisce dall’amicizia, perché è priva di sentimento e di affetto per coloro con cui è in relazione: infatti, non è per l’amore o per l’odio che si accetta come si deve ciascun tipo di comportamento, ma per il fatto di avere questa disposizione. [25] Ci si comporterà allo stesso modo, infatti, con sconosciuti e con conoscenti, con familiari e con estranei, salvo a comportarsi in ciascun tipo di relazione come a questa si conviene: non è conveniente, infatti, avere la stessa cura o la stessa preoccupazione per familiari e per forestieri. In generale, dunque, si è detto che quest’uomo si comporterà in compagnia come si deve, ma sarà riferendosi al bello e all’utile che egli mirerà [30] a non dare molestia o a rendersi gradevole agli altri. Sembra, infatti, che tale virtù riguardi i piaceri e i dolori che si producono nelle compagnie: prova repulsione per tutte quelle compagnie in cui per lui non è bello o è dannoso rendersi gradevole, e preferisce riuscire molesto. Se, invece, a chi la compie l’azione porta vergogna, e vergogna non piccola, oppure danno, mentre il contrastarla porta [35] solo un piccolo dolore, non vi acconsentirà, ma vi si opporrà. Avrà, poi, rapporti differenti con persone di rango elevato e con gente qualsiasi, [1127a] con le persone più note e con quelle meno note, e così via, a seconda delle altre distinzioni, attribuendo a ciascuna categoria di persone ciò che si conviene. Ritiene preferibile in sé rendersi gradevole e stare attento a non risultare molesto, tenendo come guida le conseguenze, quando queste sono più importanti del piacere e del dolore, [5] cioè il bello e l’utile. Inoltre, in vista di un grande piacere futuro saprà arrecare anche piccole molestie. Tale è, dunque, l’uomo che qui occupa la posizione di mezzo, la quale però non ha nome. Di coloro che si rendono gradevoli agli altri, quello che mira ad essere piacevole senz’altro scopo è un uomo compiacente, ma quello che lo fa per procurarsi qualche vantaggio, sia in denaro sia in beni acquistabili col denaro, [10] è un adulatore. Chi, invece, è sgradevole in tutti i casi si è detto che è scorbutico e litigioso. Gli estremi, infine, sembrano a prima vista contrapposti tra di loro, per il fatto che il mezzo non ha un proprio nome. 7. [La sincerità]. Pressappoco nel medesimo campo sta anche la medietà tra millanteria e ironia: ma anche questa è anonima. Non è poi tanto male esaminare anche [15] tali disposizioni: anzi, conosceremo meglio ciò che riguarda il carattere, conducendo un esame particolareggiato, e saremo più persuasi che le virtù sono delle medietà, vedendo con uno sguardo d’insieme che è così in tutti i casi. Di coloro che nella vita di relazione impostano i loro rapporti in funzione del piacere e del dolore si è già parlato 85 . Parliamo ora di coloro che sono veraci o mentitori [20] allo stesso modo sia nelle parole sia nelle azioni, sia in ciò che pretendono di essere. Come si ritiene comunemente, dunque, il millantatore è uno che fa mostra di titoli di merito che non possiede o di più grandi di quelli che possiede; l’ironico, al contrario, nega i titoli di merito che ha o li attenua: infine, chi sta nel mezzo, schietto com’, è sincero sia nella vita sia nelle parole, [25] riconoscendo i titoli di merito che possiede, senza aumentarli né diminuirli. Ma in ciascuna di queste disposizioni è possibile agire sia per qualche scopo sia per nessuno scopo. Quale ciascun uomo è, tali sono le cose che dice e fa, cioè tale è il modo in cui vive, a meno che non agisca in vista di un qualche fine particolare. Per se stessa, poi, la falsità è cattiva e biasimevole, mentre la verità è per se stessa bella e [30] lodevole. Così anche l’uomo sincero, poiché sta nel mezzo, è lodevole, mentre gli uomini falsi, in entrambi i sensi suddetti, sono biasimevoli, ma è più biasimevole il millantatore. Parliamo ora dell’uno e dell’altro, e per primo dell’uomo sincero. Non parliamo, infatti, di chi è sincero nei rapporti d’affari, né nelle situazioni pertinenti all’ingiustizia o alla giustizia (questo infatti riguarderà un’altra virtù), [1127b] ma di chi è sincero nelle cose in cui, non avendovi lui alcun interesse, è sincero sia nelle parole sia nella vita, solo perché per intrinseca disposizione è fatto così. Si riconoscerà, poi, che un uomo simile è virtuoso. Infatti, colui che ama la verità ed è sincero in ciò che non ha importanza, sarà ancor più sincero [5] in ciò che ha importanza: si guarderà infatti come da qualcosa di brutto dalla menzogna, che egli eviterebbe d’altra parte anche per se stessa: ed un uomo simile è lodevole. Egli, poi, inclina piuttosto verso l’attenuazione che non verso l’esagerazione della verità: questo, infatti, è più conveniente, per il fatto che gli eccessi sono spiacevoli. Colui, poi, che pretende di avere meriti più grandi di quelli che gli competono, [10] senza avere alcun fine in vista, è simile ad un uomo dappoco (altrimenti non godrebbe del falso), ed è manifestamente più fatuo che cattivo: se invece ha in vista un fine particolare, chi lo fa in vista della gloria o dell’onore non è troppo biasimevole (è il caso del millantatore), ma chi lo fa per denaro o per ciò che procura denaro, è più vergognoso (d’altra parte il millantatore è tale non sulla base di una potenzialità, ma sulla base di una scelta: [15] egli, infatti, è millantatore come conseguenza di una sua disposizione, cioè perché è fatto così). Così anche il mentitore: uno è tale perché gli piace la menzogna in sé, l’altro perché desidera fama o guadagno. Coloro che si vantano per desiderio di gloria fingono di avere meriti tali da suscitare lodi o felicitazioni, quelli invece che lo fanno per desiderio di guadagno fingono di avere meriti da cui il prossimo può trarre vantaggio e [20] di cui è possibile tenere nascosta la mancanza; per esempio, l’essere indovino, sapiente, medico. Per questa ragione i più simulano tali cose e se ne vantano, perché in loro ci sono le caratteristiche suddette. Gli ironici, invece, poiché dicono meno della realtà, sono manifestamente più raffinati nei loro costumi: si ritiene, infatti, che non parlino in vista di un guadagno, bensì per evitare l’ostentazione. [25] E, soprattutto, costoro negano di possedere titoli di merito, come faceva, per esempio, anche Socrate. Coloro, poi, che negano di possedere anche meriti piccoli ed evidenti sono chiamati impostori e sono più spregevoli. E talora si tratta manifestamente di millanteria, come, per esempio, nel caso dell’abbigliamento degli Spartani, giacché sia l’eccesso sia l’esagerato difetto sono segni di millanteria. Coloro, invece, [30] che usano l’ironia con misura e che dissimulano meriti che non sono troppo comuni ed evidenti, sono manifestamente dei raffinati. Infine, ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO IV) è il millantatore che manifestamente si contrappone all’uomo sincero, perché è peggiore dell’ironico. 8. [Il garbo]. Nella vita, poi, c’ anche il riposo, ed in questo c’ posto per la distrazione accompagnata da divertimento: si ritiene comunemente che anche qui ci sia [1128a] un modo conveniente di stare in compagnia, e cose da dire, ma anche cose da ascoltare, come si deve. È evidente che anche in questo campo ci sono eccesso e difetto rispetto ad un giusto mezzo. Coloro, dunque, che esagerano nel far ridere sono ritenuti [5] buffoni e volgari, perché si affaticano a far ridere ad ogni costo, e cercano più di far ridere che di dire cose decorose e di non offendere colui che viene preso in giro. D’altra parte, quelli che non dicono essi stessi nulla che faccia ridere ma si irritano con coloro che lo fanno, sono stimati rozzi e duri. Infine, quelli [10] che scherzano con gusto sono chiamati spiritosi, in quanto sono versatili 86 , giacché le facezie, si pensa, sono dei movimenti del carattere, e, come si giudicano i corpi dai loro movimenti, così si giudicano anche i caratteri. E siccome il piacere di ridere è diffuso, e la maggior parte della gente si diverte a scherzare e a motteggiare più che non si debba, anche i buffoni [15] vengono chiamati spiritosi, perché sono divertenti: ma che questi differiscono, e non poco, dagli spiritosi veri, è chiaro da quanto abbiamo detto. Alla disposizione di mezzo appartiene anche il garbo: è proprio dell’uomo garbato dire e ascoltare solo le cose che si intonano al carattere di un uomo virtuoso e libero. Ci sono, infatti, cose che un tale uomo può convenientemente dire [20] o ascoltare a mo’ di scherzo, e lo scherzo dell’uomo libero differisce da quello dell’uomo servile, come pure lo scherzo dell’uomo bene educato differisce da quello dell’uomo privo di educazione. Questa differenza si può vedere anche dal confronto delle commedie antiche con le moderne: per gli autori antichi era divertente la battuta oscena, per i moderni piuttosto il sottinteso: e non è piccola la differenza tra questi due atteggiamenti [25] dal punto di vista del decoro. Dobbiamo, dunque, definire il buon motteggiatore col fatto che dice cose non sconvenienti ad un uomo libero, o col fatto che non affligge, anzi rallegra chi l’ascolta? O anche tale caratteristica rimane indeterminata? Infatti, per uno è odiosa o piacevole una cosa, per un altro un’altra. Ma le cose che dice accetterà anche di ascoltarle, giacché si ritiene che ciò che tollera di ascoltare egli possa anche farlo. Ma non per questo scherzerà sempre, [30] perché il motteggio è una specie di oltraggio, ed alcune forme di oltraggio sono proibite dai legislatori; forse si sarebbe dovuto proibire anche il motteggiare. Per conseguenza, l’uomo raffinato e libero avrà questa disposizione, perché egli è legge a se stesso. Tale è dunque l’uomo del giusto mezzo, uomo di garbo o uomo di spirito che dir si voglia. Il buffone, invece, è schiavo del suo desiderio di far ridere, e non risparmia né se stesso [35] né gli altri pur di suscitare il riso, [1128b] e dice cose, nessuna delle quali l’uomo raffinato direbbe; anzi, alcune di esse non le ascolterebbe neppure. Il rustico, poi, è inadatto a tali compagnie: non vi contribuisce in niente ed è sgradevole a tutti. Il riposo, poi, ed il divertimento si ritiene che siano necessari nella vita. [5] Nella vita corrente, dunque, tre sono le medietà di cui abbiamo parlato, e tutte riguardano i rapporti reciproci fatti di parole e di azioni. Ma differiscono perché una riguarda la verità, le altre due il piacere. Di quelle che riguardano il piacere, infine, una si manifesta nei divertimenti, l’altra nelle compagnie che si costituiscono nelle altre occasioni della vita. 9. [Il pudore]. [10] Per quanto riguarda il pudore, non conviene parlarne come di una virtù, giacché assomiglia ad una passione più che ad una disposizione morale. Viene definito, comunque, come una specie di paura del disonore, e produce effetti molto simili a quelli della paura di fronte ai pericoli: infatti, coloro che si vergognano arrossiscono, mentre quelli che temono la morte impallidiscono. Dunque, [15] entrambi hanno manifestamente carattere fisico, in qualche modo; il che, si pensa, è tipico più della passione che non della disposizione morale. Questa passione, d’altra parte, non si addice ad ogni età, ma solo alla giovinezza. Noi pensiamo infatti che i giovani debbano essere pudichi per il fatto che, vivendo di passione, commettono molti errori, ma che ne sarebbero trattenuti dal pudore. E noi lodiamo i giovani pudichi, mentre [20] nessuno loderebbe un uomo maturo per il fatto che è sensibile alla vergogna: noi pensiamo, infatti, che un uomo maturo non dovrebbe fare nulla di cui si debba vergognare. Infatti, la vergogna non è tipica dell’uomo virtuoso, se è vero che essa nasce per effetto delle cattive azioni (tali azioni non si devono commettere; se poi alcune azioni sono brutte veramente ed altre lo sono solo secondo l’opinione della gente, non fa alcuna differenza: non si devono commettere né le une né le altre, [25] in modo da non dover provar vergogna). Invece è proprio dell’uomo dappoco avere una natura tale da commettere qualche azione vergognosa. Ed avere una disposizione di carattere per cui si prova vergogna se si è commessa un’azione vergognosa, e pensare che per questo si è un uomo virtuoso, è assurdo: il pudore, infatti, si riferisce ad atti volontari, e l’uomo virtuoso non commetterà mai cattive azioni volontariamente. Solo per un’ipotesi [30] il pudore potrebbe essere virtuoso: nel caso in cui uno si vergogni delle proprie azioni; ma questo non può verificarsi nel campo delle virtù. Infine, se l’impudenza, cioè il non vergognarsi di commettere azioni brutte, è una cosa miserabile, non per questo sarà virtuoso il vergognarsi di commettere azioni simili. Anche la continenza non è una virtù, bensì una specie di mescolanza di virtù e di vizio: [35] ma di lei si darà spiegazione in seguito . La giustizia sarà ora il tema della nostra trattazione.87 ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO V) 3. [La giustizia distributiva]. [10] Poiché l’uomo ingiusto, e così ciò che è ingiusto, non rispetta l’uguaglianza, è chiaro che c’ anche qualcosa di mezzo tra gli estremi disuguali. E questo è l’uguale, giacché in ogni tipo di azione in cui ci sono il più ed il meno c’ anche l’uguale. Se, dunque, l’ingiusto è il disuguale, il giusto è l’uguale; cosa che tutti riconoscono anche senza bisogno di un ragionamento. Ma poiché l’uguale è medio, il giusto dovrà essere un certo tipo di medio. [15] Ma l’uguale presuppone almeno due termini. Pertanto, necessariamente, il giusto è insieme medio e uguale, e relativo, cioè è giusto per certe persone; e, in quanto è medio, è medio tra certi estremi (e questi sono il più e il meno); in quanto, invece, è uguale, è uguaglianza di due cose; in quanto è giusto, lo è per certe persone. Il giusto, quindi, implica necessariamente almeno quattro termini: infatti, le persone per le quali il giusto è tale [20] sono due, e due sono le cose in cui si realizza. E l’uguaglianza dovrà essere la stessa, tra le persone come tra le cose: infatti, il rapporto tra le cose deve essere lo stesso che quello tra le persone. Se queste, infatti, non sono uguali, non avranno cose uguali; ma le lotte e le recriminazioni è allora che sorgono: o quando persone uguali hanno o ricevono cose non uguali, o quando persone non uguali hanno o ricevono cose uguali. Questo risulta [25] chiaro anche dal principio della distribuzione secondo il merito. Tutti, infatti, concordano che il giusto nelle distribuzioni deve essere conforme ad un certo merito, ma poi non tutti intendono il merito allo stesso modo, ma i democratici lo intendono come condizione libera, gli oligarchici come ricchezza o come nobiltà di nascita, gli aristocratici come virtù. In conclusione, il giusto è un che di proporzionale. [30] Infatti, la proporzionalità è una proprietà non solo del numero astratto, ma anche del numero in generale: la proporzione è un’uguaglianza di rapporti 98 , e implica almeno quattro termini. Che la proporzione discreta implichi almeno quattro termini è chiaro. Ma anche la proporzione continua ne ha quattro 99 : essa, infatti, impiega un termine come se fossero due, cioè lo prende due volte. [1131b] Esempio: A sta a B, come B sta a C. Dunque B è stato menzionato due volte, cosicché, se si pone B due volte, i termini in proporzione saranno quattro. E anche il giusto implica almeno quattro termini, e il rapporto è lo stesso, [5] giacché sia le persone sia le cose sono messe in rapporto allo stesso modo. Dunque, il termine A starà al termine B, come C a D, e quindi, scambiando i medi 100 , A starà a C, come B a D. Anche le somme degli antecedenti con i conseguenti sono nello stesso rapporto la distribuzione risulta giusta se i termini che mette insieme a due a due sono posti101: in questo modo. È dunque l’accoppiamento del termine A col termine C e quello di B con D [10] che costituisce il giusto nella distribuzione, e il giusto cosi inteso è un medio, mentre l’ingiusto è ciò che viola la proporzione: infatti, ciò che sta in proporzione è un medio, e il giusto è in proporzione. I matematici chiamano geometrico questo tipo di proporzione , giacché nella proporzione geometrica succede che le102 somme degli antecedenti con i conseguenti stanno fra loro come ogni antecedente sta al suo conseguente. [15] Ma questa proporzione non è una proporzione continua, giacché una persona ed una cosa non103 possono costituire un termine singolo. Il giusto così inteso, dunque, è la proporzionalità, mentre l’ingiusto è ciò che viola la proporzionalità. Quindi, nell’ingiustizia un termine è troppo grande e l’altro è troppo piccolo, come succede anche nei fatti: chi commette ingiustizia, in effetti, ha di più, chi la subisce [20] ha di meno, se si tratta di un bene. Il contrario se si tratta di un male, giacché il male minore paragonato al male maggiore è tenuto in conto di bene: infatti, il male minore è preferibile al maggiore, ma ciò che è preferibile è un bene, e ciò che è più preferibile è un bene più grande. Questa, dunque, è una delle due specie del giusto. 4. [La giustizia correttiva]. [25] Resta la seconda specie di giustizia, quella correttiva, che si attua nei rapporti privati, sia in quelli volontari sia in quelli involontari. Questo tipo di giusto ha un carattere specifico diverso da quello precedente. Infatti, il giusto che riguarda la distribuzione dei beni comuni è sempre conforme alla proporzione suddetta. Quando, infatti, ha luogo la distribuzione di beni comuni, [30] questa avverrà secondo il medesimo rapporto in cui si trovano, l’uno nei riguardi dell’altro, i diversi contributi originariamente apportati: e l’ingiusto opposto al giusto inteso in questo senso è ciò che viola la proporzione. Ciò, invece, che è giusto nei rapporti privati è una specie di uguale, e l’ingiusto una specie di disuguale, [1132a] ma non secondo quella proporzione, bensì secondo la proporzione aritmetica 104 . Non c’ nessuna differenza, infatti, se è un uomo buono che toglie qualcosa ad uno cattivo, o se è uno cattivo che toglie qualcosa ad uno buono, né se a commettere adulterio è un uomo buono o uno cattivo: la legge guarda solo alla differenza relativa al danno, [5] e li tratta entrambi da uguali, chiedendosi soltanto se uno ha commesso o subito ingiustizia, e se ha procurato o subito il danno. Per conseguenza, poiché l’ingiusto così inteso è una disuguaglianza, il giudice cerca di ristabilire l’uguaglianza. Infatti, quando uno infligge e l’altro riceve percosse, o anche quando uno uccide e l’altro resta ucciso, l’azione subita e l’azione compiuta restano divise in parti disuguali: ma il giudice [10] cerca di ristabilire l’uguaglianza con la perdita inflitta come pena 105 , cioè col togliere qualcosa al guadagno ingiusto. In casi simili, infatti, si usa, tanto per parlare, anche se il vocabolo per certe situazioni non è appropriato, il termine "guadagno": per esempio, "guadagno" per chi ha inflitto percosse, e "perdita" per chi le ha ricevute. Ma almeno quando il danno subito può essere misurato, si può parlare di perdita da una parte e di guadagno dall’altra. Cosicché l’uguale sta in mezzo tra il meno e il più, [15] mentre il guadagno e la perdita sono l’uno il più e l’altra il meno in sensi opposti: il guadagno è più di bene e meno di male, la perdita è il contrario; il medio tra essi, l’abbiamo già ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO V) detto, è l’uguale, ed è ciò che noi chiamiamo giusto. Per conseguenza, il giusto correttivo sarà il medio 106 tra perdita e guadagno. Ecco perché, quando si litiga, [20] ci si rifugia dal giudice: andare dal giudice significa andare davanti alla giustizia, giacché il giudice intende essere come la giustizia vivente. E si cerca il giudice come termine medio (anzi alcuni chiamano i giudici "mediatori"), nella convinzione che se si raggiunge il termine medio, si raggiungerà il giusto. In conclusione, ciò che è giusto è un che di intermedio, se è vero che lo è anche il giudice. [25] E il giudice ristabilisce l’uguaglianza, cioè, come se si trattasse di una linea divisa in parti disuguali, egli sottrae ciò di cui la parte maggiore sorpassa la metà e l’aggiunge107 alla parte minore. Ma quando l’intero è diviso in due metà, allora si dice che uno ha la sua parte quando prende ciò che è uguale. L’uguale, poi, è medio tra il più e [30] il meno secondo la proporzione aritmetica 108 . Per questo anche si usa il nome di divkaion [giusto], perché è una divisione divca [in due parti uguali], come se uno dicesse divcaion 109 [diviso in due]; così il dikasthv" [giudice] è dicasthv" [colui che divide in due parti uguali]. Infatti se, date due grandezze uguali, si toglie una parte alla prima e la si aggiunge alla seconda, la seconda viene a superare la prima del doppio di questa parte; se, invece, si toglie una parte alla prima senza aggiungerla alla seconda, [1132b] la seconda supera la prima solo di questa parte. In conclusione, la seconda grandezza supererà il mezzo di una sola parte, e il mezzo supererà di una sola parte la grandezza da cui tale parte sarà stata tolta. Con questo procedimento, quindi, possiamo riconoscere che cosa si deve togliere a chi ha di più e che cosa si deve aggiungere a chi ha di meno: infatti, [5] bisogna aggiungere a chi ha la parte minore quel tanto di cui la metà la supera, e togliere a chi ha la parte maggiore quel tanto di cui questa supera la metà. Siano i segmenti AA´, BB´ e CC´ uguali fra di loro; dal segmento AA´ si tolga AE e si aggiunga a CC´ il segmento CD, in modo che l’intero DCC´ superi EA´ di CD e CZ: per conseguenza, supera BB´ di CD 110 . [E questo vale anche per le altre arti; [10] esse, infatti, resterebbero distrutte, se ciò che produce la parte attiva in quantità e in qualità non fosse ricevuto nella medesima quantità e con la medesima qualità dalla parte passiva.] 111 Questi nomi, perdita e guadagno, sono derivati dallo scambio volontario. Infatti, avere di più di ciò che si possiede in proprio si dice guadagnare, ed avere di meno di quanto si aveva in principio si dice perdere: [15] per esempio, nel comperare e nel vendere e in tutti gli altri scambi per i quali la legge concede libertà. Quando, poi, con lo scambio, ci si trova ad avere né di più né di meno, bensì ciò che già si aveva per conto proprio, si dice che si ha il proprio e che non si è né perso né guadagnato. Cosicché il giusto è una via di mezzo tra una specie di guadagno e una specie di perdita nei rapporti non volontari, e consiste nell’avere, [20] dopo, un bene uguale a quello che si aveva prima. 5. [La giustizia come reciprocità. La moneta]. Ma alcuni ritengono che anche la reciprocità sia giustizia in senso generale, come dicevano i Pitagorici ;112 essi, infatti, definivano il giusto in generale come il ricevere da un altro quello che gli si è fatto subire. Ma la nozione di reciprocità non si adatta né alla giustizia distributiva né a quella correttiva, [25] benché si voglia che questo significhi anche la giustizia di Radamante :113 "se uno subisse ciò che ha fatto, giudizio retto sarebbe" 114 . In molti casi, infatti, giustizia e reciprocità sono in disaccordo. Esempio: se è uno che ha una carica pubblica che picchia, non deve essere picchiato a sua volta, e se è un privato che picchia un magistrato, [30] non solo deve essere picchiato, ma ulteriormente punito. Inoltre, c’ molta differenza tra l’atto volontario e l’atto involontario. Nelle comunità, poi, in cui avvengono degli scambi è questo tipo di giustizia che tiene uniti, la reciprocità secondo una proporzione, e non secondo stretta uguaglianza. Infatti, è col contraccambiare proporzionalmente che la città sta insieme. Gli uomini, infatti, cercano di rendere o male per male (se no, [1133a] pensano che la loro sia schiavitù), o bene per bene (se no, non c’ scambio, e, invece, è per lo scambio che stanno insieme). Ed è per questo che costruiscono un tempio alle Grazie 115 in luogo dove sia sempre sotto gli occhi, per stimolare alla restituzione, giacché questo è proprio della gratitudine: si deve rendere il contraccambio [5] a chi è stato gentile con noi, cioè prendere noi stessi l’iniziativa di essere a nostra volta gentili. Ciò che rende la restituzione conforme alla proporzione è la congiunzione in diagonale 116 . Sia A un architetto, B un calzolaio, C una casa, D una scarpa. Posto questo, bisogna che l’architetto riceva dal calzolaio il prodotto del suo lavoro e [10] che dia a lui in cambio il prodotto del proprio. Quando, dunque, prima si sia determinata l’uguaglianza proporzionale e poi si realizzi la reciprocità, si verificherà ciò che abbiamo detto. Se no, lo scambio non è pari e non si costituisce: niente, infatti, impedisce che il prodotto dell’uno valga di più di quello dell’altro: bisogna, dunque, che il loro valore venga parificato. E questo vale anche per le altre arti: esse infatti resterebbero distrutte [15] se ciò che produce la parte attiva in quantità ed in qualità non fosse ricevuto nella medesima quantità e con la medesima qualità dalla parte passiva 117 . Infatti, non è tra due medici che nasce una comunità di scambio, ma tra un medico e un contadino, ed in generale tra individui differenti, non uguali: ma questi devono venire parificati. È per questo che le cose di cui v’ scambio devono essere in qualche modo commensurabili. [20] A questo scopo è stata introdotta la moneta, che, in certo qual modo, funge da termine medio: essa, infatti, misura tutto, per conseguenza anche l’eccesso e il difetto di valore, quindi anche quante scarpe equivalgono ad una casa o ad una determinata quantità di viveri. Bisogna, dunque, che il rapporto che c’ tra un architetto e un calzolaio ci sia anche tra un determinato numero di scarpe e una casa o un alimento. Infatti, se questo non avviene, non ci sarà scambio né comunità. [25] E questo non si attuerà, se i beni da scambiare non sono in qualche modo uguali. Bisogna, dunque, che tutti i prodotti trovino la loro misura in una sola cosa, come http://www.ousia.it/SitoOusia/SitoOusia/Te...E%20ETICA%20A%20NICOMACO%20(LIBRO%20V).htm (4 di 10) [04/03/2004 18.47.43] ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO V) abbiamo detto prima. E questo in realtà è il bisogno, che unifica tutto: se gli uomini, infatti, non avessero bisogno di nulla, o non avessero gli stessi bisogni, lo scambio non ci sarebbe o non sarebbe lo stesso. E come mezzo di scambio per soddisfare il bisogno è nata, per convenzione, la moneta. [30] E per questo essa ha il nome di novmisma [moneta], perché non esiste per natura ma per novmo" [legge] , e perché118 dipende da noi cambiarne il valore o renderla senza valore. Ci sarà, dunque, reciprocità, quando si sarà proceduto alla parificazione, cosicché il rapporto tra un contadino e un calzolaio sarà uguale al rapporto tra il prodotto del calzolaio e quello del contadino. [1133b] Ma non bisogna mettere i termini in forma di proporzione quando lo scambio è avvenuto (se no, uno dei due estremi avrà entrambi i vantaggi), ma quando ciascuno ha ancora i propri prodotti. Così essi sono uguali ed in comunità di scambio, perché nel loro caso questa uguaglianza può verificarsi. Sia A un contadino, C dei viveri, [5] B un calzolaio, ed il suo prodotto uguagliato a C sia D: ma, se non fosse possibile realizzare la reciprocità in questo modo, non ci sarebbe neppure una comunità di scambio. Che sia, poi, il bisogno che unifica come se fosse qualcosa di unico ed unitario, lo mette in evidenza il fatto che se gli uomini non hanno bisogno l’uno dell’altro, le due parti, o una sola delle due, non ricorrono allo scambio, come nel caso in cui uno ha bisogno di ciò che lui stesso possiede, per esempio di vino, mentre gli offrono la possibilità di esportare frumento . [10] Qui,119 dunque, bisogna che sia stabilita un’uguaglianza 120 . Per lo scambio futuro, se al presente non si ha bisogno di nulla, la moneta è per noi una specie di garanzia che esso sarà possibile, se ce ne sarà bisogno, giacché deve essere possibile a chi porta moneta ricevere ciò di cui ha bisogno. Anche la moneta subisce il medesimo inconveniente, quello di non avere sempre il medesimo potere di acquisto; tuttavia, tende piuttosto a rimanere stabile. È per questo che tutte le merci devono [15] essere valutate in moneta: così, infatti, sarà sempre possibile uno scambio, e, se sarà possibile lo scambio, sarà possibile anche la comunità. Dunque, la moneta, come misura, parifica le merci, perché le rende fra loro commensurabili: infatti, non ci sarebbe comunità senza scambio, né scambio senza parità, né parità senza commensurabilità. In verità, sarebbe impossibile rendere commensurabili cose tanto differenti, [20] ma ciò è possibile in misura sufficiente in rapporto al bisogno. Per conseguenza, ci deve essere una unità, ma questa c’ per convenzione: perciò si chiama nomisma [moneta], perché è questa che rende tutte le cose commensurabili: tutto, infatti, si misura in moneta. Sia A una casa, B dieci mine, C un letto. A è la metà di B, se la casa vale cinque mine, cioè è uguale a cinque mine; il letto C, poi, [25] vale un decimo di B: è chiaro allora quanti letti sono uguali ad una casa: cinque. Ma che così lo scambio fosse possibile anche prima che ci fosse la moneta, è chiaro: non c’, infatti, alcuna differenza tra dare per una casa cinque letti o il valore di cinque letti in moneta. Che cosa è l’ingiusto e che cosa il giusto s’ detto. [30] Dalle distinzioni fatte risulta chiaro che l’agire giustamente è la via di mezzo tra commettere e subire ingiustizia: commettere ingiustizia significa avere di più, subirla significa avere di meno. La giustizia è una specie di medietà, ma non allo stesso modo delle altre virtù, bensì perché essa aspira al giusto mezzo, [1134a] mentre l’ingiustizia mira agli estremi. La giustizia è la disposizione secondo la quale l’uomo giusto è definito come uomo portato a compiere, in base ad una scelta, ciò che è giusto, e a distribuire sia tra se stesso e un altro, sia tra due altri, non in modo da attribuire a se stesso la parte maggiore e al prossimo la parte minore del bene desiderato [5] (o viceversa nel caso di qualcosa di dannoso), ma da attribuire a ciascuno una parte proporzionalmente uguale, e da procedere allo stesso modo anche quando si tratta di farlo tra altre persone. L’ingiustizia, invece, è la disposizione secondo la quale l’ingiusto è definito come il contrario del giusto 121 . E l’ingiusto è eccesso e difetto di ciò che è vantaggioso o dannoso in violazione della proporzione. Per questo l’ingiustizia è eccesso e difetto, perché essa produce eccesso e difetto: [10] quando uno è coinvolto nella distribuzione, essa produrrà per lui un eccesso di ciò che in generale è vantaggioso e difetto di ciò che è dannoso; quando la distribuzione è tra due altri il totale è lo stesso, ma la violazione della proporzione può avvenire a favore dell’uno o a favore dell’altro. Nell’atto ingiusto avere la parte minore è subire ingiustizia, avere la parte maggiore è commettere ingiustizia. Si consideri in questo modo concluso il discorso su giustizia e ingiustizia, su quale sia [15] la natura di ciascuna delle due, e, parimenti, sul giusto e l’ingiusto in generale. 6. [La giustizia nella società e nella famiglia]. Ma dal momento che è possibile commettere ingiustizia senza essere ingiusti, quale natura hanno gli atti ingiusti che uno deve commettere per essere ingiusto secondo ciascun tipo di ingiustizia? Per esempio, per essere ladro, adultero, lestofante? Non bisognerà rispondere che da questo punto di vista non c’ alcuna differenza? E, in effetti, [20] un uomo potrebbe stare insieme con una donna sapendo con chi sta, ma l’origine del suo atto potrebbe non essere una scelta, ma una passione. Commette, dunque, sì ingiustizia, ma non è un ingiusto: per esempio, non è un ladro pur avendo rubato, non è adultero pur avendo commesso adulterio, e lo stesso negli altri casi. In che rapporto stia il reciproco con il giusto è stato detto prima . Ma non bisogna dimenticare [25] che ciò che andiamo cercando è sia il giusto in generale sia il122 giusto politico. Quest’ultimo si attua tra coloro che vivono in comunità per raggiungere l’autosufficienza, tra uomini liberi ed uguali, proporzionalmente o aritmeticamente, sicché coloro che non sono né liberi né uguali non hanno nei loro rapporti reciproci la giustizia politica, ma una specie di giustizia, chiamata [30] così per analogia. Infatti, la giustizia esiste solo per coloro i cui rapporti sono regolati da una legge; ma la legge c’ per uomini tra i quali può esserci ingiustizia, perché la giustizia legale è discernimento del giusto e dell’ingiusto. Negli uomini tra cui può esserci ingiustizia c’ anche l’agire ingiustamente (ma non in tutti coloro che agiscono ingiustamente c’ ingiustizia), e questo consiste nell’attribuire a sé la parte maggiore ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO V) ingiustizia e che potrà commettere ingiustizia verso se stesso. Anche questa è una cosa da mettere in questione, cioè se è possibile commettere ingiustizia verso se stessi. [1136b] Inoltre, per incontinenza uno potrebbe essere volontariamente danneggiato da un altro che volontariamente lo danneggia, cosicché sarà possibile subire ingiustizia volontariamente. O si deve riconoscere che la definizione non è corretta, e che invece a "danneggiare sapendo chi si danneggia, con quale strumento ed in che modo" bisogna aggiungere "contro la volontà del danneggiato"? [5] Posto questo, uno può volontariamente essere danneggiato e subire cose ingiuste, ma nessuno può subire ingiustizia volontariamente: nessuno, infatti, lo vuole, neppure l’incontinente, ma costui agisce contro la propria volontà. Nessuno, infatti, vuole ciò che non crede che sia buono, e l’incontinente fa ciò che lui stesso pensa che non si debba fare. Chi dona ciò che gli appartiene, come dice Omero [10] che abbia fatto Glauco donando a Diomede "armi d’oro in cambio d’armi di bronzo, il valore di cento buoi in cambio di nove" , non subisce ingiustizia: infatti, dipende da lui donare, ma non133 dipende da lui subire ingiustizia, bensì bisogna che ci sia chi l’ingiustizia la commetta. È chiaro quindi che non si subisce ingiustizia volontariamente. [15] Delle questioni che ci siamo proposti ne restano ancora due da discutere: se commette ingiustizia chi attribuisce ad un altro più di quanto merita oppure chi riceve più di quanto merita, e se è possibile commettere ingiustizia verso se stessi. Se, infatti, è possibile quello che si è detto prima ed è colui che attribuisce più del dovuto che commette ingiustizia e non chi lo riceve, nel caso in cui uno attribuisca ad un altro più che a se stesso, consapevolmente e volontariamente, questi [20] commette ingiustizia verso se stesso: e ciò la gente pensa che facciano gli uomini misurati, giacché l’uomo virtuoso è incline ad attribuirsi di meno di quello che gli spetta. O dobbiamo dire che neppure questa è una cosa semplice? Infatti, se capita l’occasione, un uomo virtuoso può prendersi la parte più grande di un altro tipo di bene, per esempio di gloria o di ciò che è bello in senso assoluto. Il problema si risolve se si segue la definizione data del commettere ingiustizia; l’uomo virtuoso, infatti, non subisce ingiustizia, almeno non per questa ragione, [25] ma tutt’al più subisce soltanto un danno. Ma è chiaro che anche chi compie l’attribuzione può commettere ingiustizia, ma non la commette chi riceve il di più: infatti, non è colui al quale capita la cosa ingiusta che commette ingiustizia, ma colui che la fa volontariamente: cioè la persona da cui ha principio l’azione, principio che si trova, in questo caso, in chi attribuisce il di più, non in chi lo riceve. Inoltre, poiché "fare" si dice in molti sensi [30] e poiché è possibile dire che gli oggetti inanimati (per esempio, la mano e lo schiavo cui è stato ordinato) uccidono, chi riceve di più di quanto gli spetti non commette ingiustizia, ma tutt’al più fa cose ingiuste. Inoltre, se uno giudica in stato di ignoranza, non commette ingiustizia nei confronti della giustizia legale, e il suo giudizio non è ingiusto da questo punto di vista, ma in un certo senso lo è: il giusto legale, infatti, è altro dal giusto originario . Se invece giudica ingiustamente [1137a] pur134 avendo cognizione di causa, anch’egli prende di più di quanto gli spetti o di gratitudine o di vendetta. Così, dunque, anche chi per questo ha giudicato ingiustamente viene ad avere di più, come uno che si prendesse una parte del frutto dell’ingiustizia: ed infatti, aggiudicando un campo a quelle condizioni, non riceve un campo ma del denaro. [5] Gli uomini pensano che sia in loro potere commettere ingiustizia e che perciò anche il giusto sia facile. Ma non è così: avere rapporti con la moglie del vicino, picchiare il prossimo, corrompere col denaro è facile ed è in loro potere, ma fare questo per una certa disposizione di carattere non è facile né in loro potere. Parimenti, [10] pensano anche che per conoscere ciò che è giusto e ciò che è ingiusto non occorra essere un sapiente, perché non è difficile arrivare a comprendere ciò che dicono le leggi (ma il giusto non è questo, se non per accidente). Ma sapere come si devono fare e come si devono distribuire le cose perché risultino giuste, questa, certo, è impresa più grande che non sapere ciò che fa bene alla salute, benché anche in quel caso sia, sì, facile conoscere il miele, il vino, [15] l’elleboro, la cauterizzazione, l’incisione; ma sapere come, a chi e quando bisogna distribuirli per produrre la salute, è un’impresa tanto grande quanto essere medico. Per questa stessa ragione pensano che commettere ingiustizia sia nelle possibilità dell’uomo giusto non meno che compiere giustizia, perché il giusto non ha minor capacità ma anzi maggiore di compiere ciascuno di questi tipi di azione: e infatti [20] può andare insieme con una donna sposata e può picchiare; anche il coraggioso può gettar via lo scudo, volgere la schiena e fuggire da una parte o dall’altra. Comportarsi vilmente ed ingiustamente non significa compiere atti di viltà e di ingiustizia, se non per accidente, bensì compiere questi atti con una disposizione, come anche curare e guarire non significa amputare o non [25] amputare, usare o non usare farmaci, ma farlo in un certo modo. Le azioni giuste sono possibili tra coloro che partecipano dei beni in generale, e che ne possono avere in eccesso o in difetto: per alcuni non è possibile eccesso di beni, come è certamente il caso degli dèi, mentre ad altri nessuna parte di bene sarebbe utile, perché sono irrimediabilmente viziosi, ma tutto [30] fa loro danno; per altri, infine, sono utili fino ad un certo punto: per questo il giusto è qualcosa di umano. 10. [L’equità]. Dobbiamo ora parlare dell’equità e dell’equo, e determinare in che rapporto stanno l’equità con la giustizia e l’equo con il giusto. Se, infatti, si esaminano attentamente, risulta manifesto che non sono senz’altro la stessa cosa e che tuttavia non differiscono di genere. A volte noi [35] lodiamo ciò che è equo e l’uomo equo, di modo che anche quando lodiamo le altre qualità noi [1137b] usiamo metaforicamente il termine di "equo" al posto di "buono", indicando con "più equo", ciò che è più buono. A volte invece, ragionando coerentemente, ci appare strano che l’equo, che è qualcosa di ulteriore rispetto al giusto, sia tuttavia degno di lode: infatti, se sono diversi, o il giusto non è buono o l’equo non è [5] giusto; o se entrambi sono buoni, ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO V) essi sono la stessa cosa. Dunque, queste pressappoco sono le considerazioni da cui nasce l’aporia che concerne la nozione di equo, e in un certo senso sono tutte corrette e per nulla in contraddizione tra loro. In effetti, l’equo, pur essendo superiore ad un certo tipo di giusto, è esso stesso giusto, ed è superiore al giusto pur non costituendo un altro genere. [10] Per conseguenza, giusto ed equo sono la stessa cosa, e, pur essendo entrambi buoni, è l’equo che ha più valore. Ciò che produce l’aporia è il fatto che l’equo è sì giusto, ma non è il giusto secondo la legge, bensì un correttivo del giusto legale. Il motivo è che la legge è sempre una norma universale, mentre di alcuni casi singoli non è possibile trattare correttamente in universale. Nelle circostanze, dunque, in cui [15] è inevitabile parlare in universale, ma non è possibile farlo correttamente, la legge prende in considerazione ciò che si verifica nella maggioranza dei casi, pur non ignorando l’errore dell’approssimazione. E non di meno è corretta: l’errore non sta nella legge né nel legislatore, ma nella natura della cosa, giacché la materia delle azioni ha proprio questa intrinseca caratteristica. Quando, [20] dunque, la legge parla in universale, ed in seguito avviene qualcosa che non rientra nella norma universale, allora è legittimo, laddove il legislatore ha trascurato qualcosa e non ha colto nel segno, per avere parlato in generale, correggere l’omissione, e considerare prescritto ciò che il legislatore stesso direbbe se fosse presente, e che avrebbe incluso nella legge se avesse potuto conoscere il caso in questione. Perciò l’equo è giusto, anzi migliore di un certo tipo di giusto, [25] non del giusto in senso assoluto, bensì del giusto che è approssimativo per il fatto di essere universale. Ed è questa la natura dell’equo: un correttivo della legge, laddove è difettosa a causa della sua universalità. Questo, infatti, è il motivo per cui non tutto può essere definito dalla legge: ci sono dei casi in cui è impossibile stabilire una legge, tanto che è necessario un decreto. Infatti, di una cosa indeterminata anche [30] la norma è indeterminata, come il regolo di piombo usato nella costruzione di Lesbo : il regolo si adatta alla135 configurazione della pietra e non rimane rigido, come il decreto si adatta ai fatti. Che cosa è dunque l’equo, e che è giusto e migliore di un certo tipo di giusto, è chiaro. Da ciò risulta manifesto anche chi è l’uomo equo: [35] è equo infatti chi è incline a scegliere e a fare effettivamente cose di questo genere, e [1138a] chi non è pignolo nell’applicare la giustizia fino al peggio, ma è piuttosto portato a tenersi indietro, anche se ha il conforto della legge. Questa disposizione è l’equità, che è una forma speciale di giustizia e non una disposizione di genere diverso. 11. [È possibile commettere ingiustizia verso se stessi?]. Se è possibile o no commettere ingiustizia verso se stessi risulta chiaro [5] da quanto si è detto. Una parte delle azioni giuste sono quelle stabilite dalla legge in relazione a ciascun tipo di virtù: per esempio, la legge non comanda di uccidersi, e ciò che non comanda proibisce. Inoltre: se uno, contro la legge, danneggia un altro volontariamente e non per ricambiare un danno ricevuto, commette ingiustizia, e agisce volontariamente chi sa chi danneggia e con che mezzo. Colui che, spinto dall’ira, [10] si taglia volontariamente la gola, lo fa contro la retta ragione, e questo la legge non lo permette: per conseguenza commette ingiustizia. Ma verso chi? Non bisogna riconoscere che è verso la città, e non verso se stesso? Infatti, subisce volontariamente, e nessuno subisce volontariamente ingiustizia. È per questo che la città punisce, e una specie di pubblica infamia colpisce chi si uccide, in quanto commette ingiustizia contro la città. Inoltre, chi commette ingiustizia nel senso in cui può dirsi soltanto ingiusto [15] e non del tutto perverso, non è possibile che commetta ingiustizia verso se stesso (questo è un caso diverso dal precedente: in un certo senso, infatti, l’ingiusto è cattivo come il vile, non perché abbia in sé la perversità totale; per conseguenza, non è neppure vero che commetta ingiustizia per totale perversità). Infatti, se fosse così, dovrebbe essere possibile nello stesso tempo sottrarre e aggiungere la stessa cosa alla medesima persona: e questo è impossibile, ma è [20] necessario che il giusto e l’ingiusto abbiano attuazione tra più persone. Inoltre, l’azione ingiusta è un atto volontario, frutto di una scelta e anteriore ad ogni provocazione: infatti, chi ha per primo subito e perciò rende il contraccambio, non si ritiene che commetta ingiustizia; ma chi commette ingiustizia verso se stesso, subisce e fa le stesse cose nello stesso tempo. Per di più, sarebbe possibile subire ingiustizia volontariamente. Oltre a ciò, nessuno commette ingiustizia senza compiere specifici atti di ingiustizia; [25] ma nessuno commette adulterio con la propria moglie, né fa irruzione furtiva nella propria casa, né ruba ciò che gli appartiene. In generale la questione se è possibile commettere ingiustizia verso se stessi si risolve ancora con la definizione data a proposito del subire ingiustizia volontariamente. È chiaro anche che entrambe le cose, sia il subire sia il commettere ingiustizia, sono cattive: l’una consiste nell’avere di meno, l’altra [30] nell’avere di più del giusto mezzo, il quale è come la salute in medicina e la buona forma in ginnastica. Tuttavia la cosa peggiore è il commettere ingiustizia: il commettere ingiustizia, infatti, si accompagna al vizio ed è biasimevole, e ad un vizio integrale in senso assoluto o quasi (giacché non ogni atto volontario di ingiustizia è accompagnato da vizio), mentre il subire ingiustizia non implica né vizio né [35] ingiustizia. Per se stesso, dunque, subire ingiustizia è un male minore, [1138b] ma niente impedisce che sia un male maggiore per accidente. Ma l’accidentalità non ha importanza per l’arte: essa, per esempio, dice che la pleurite è un male maggiore di una storta; eppure, per accidente, potrebbe in certi casi essere quest’ultima un male maggiore, se accadesse che uno, procuratosi una storta nel cadere, [5] fosse per questo catturato dai nemici e ucciso. Per metafora poi, e per analogia, c’ giustizia, non tra sé e sé, ma tra certe parti della stessa persona, e non ogni forma di giustizia, bensì quella che c’ tra padrone e schiavo, o tra marito e moglie. Infatti, in queste discussioni si è fatta distinzione tra la parte razionale dell’anima e quella irrazionale: [10] se, dunque, si guarda a queste due parti dell’anima si può anche ritenere possibile l’ingiustizia verso se stessi, perché in esse è possibile subire ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO V) qualcosa che sia contrario ai propri desideri: in esse, dunque, si realizza un tipo di giustizia paragonabile a quella che si realizza tra chi governa e chi è governato. Si ritenga così terminato il discorso circa la giustizia e le altre virtù etiche. ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VI) che riguardano l’azione. Infatti, i fini delle azioni sono le azioni stesse: a chi è corrotto dal piacere o dal dolore non è più manifesto il principio, né che è in vista di questo o per causa sua che deve scegliere e fare tutto ciò che sceglie e fa: il vizio, infatti, distrugge il principio dell’azione morale. [20] Per conseguenza, la saggezza è necessariamente una disposizione ragionata, vera, disposizione all’azione nel campo dei beni umani. Inoltre, dell’arte c’ una virtù, ma non c’ una virtù della saggezza: cioè, nel campo dell’arte è preferibile chi sbaglia volontariamente, mentre nel caso della saggezza, come in quello delle altre virtù, sbagliare volontariamente è peggio. Dunque, è chiaro che la saggezza è una virtù [25] e non un’arte. Poiché, poi, le parti razionali dell’anima sono due, la saggezza sarà la virtù di una delle due, di quella opinativa : sia l’opinione sia la saggezza, infatti, si riferiscono alle cose che possono essere diversamente.154 Inoltre la saggezza non è soltanto una disposizione ragionata: prova ne è che di una simile disposizione vi può essere oblio, della saggezza, [30] invece, no. 6. [L’intelletto]. Poiché la scienza è un giudizio che ha per oggetto gli universali e le cose che sono necessariamente, e poiché ci sono dei principi delle cose dimostrabili e di ogni scienza (giacché la scienza implica ragionamento), il principio di ciò che è oggetto di scienza non è a sua volta oggetto di scienza 155 né di arte né [35] di saggezza: infatti, ciò che è oggetto di scienza è dimostrabile, mentre l’arte e la saggezza [1141a] riguardano ciò che può essere diversamente. Quindi, neppure la sapienza ha come oggetto i principi: è proprio del sapiente, infatti, avere dimostrazione di un certo tipo di cose. Per conseguenza, se le disposizioni per cui cogliamo la verità e non cadiamo mai in errore, sia sugli oggetti che non possono sia su quelli che possono essere diversamente, sono scienza, saggezza, sapienza e intelletto, [5] e se i principi non possono essere oggetto di tre di queste (con "tre" intendo saggezza, scienza e sapienza), resta che essi siano oggetto dell’intelletto. 7. [La sapienza. Differenza tra sapienza e saggezza]. Noi attribuiamo la sapienza nelle arti a coloro che raggiungono la più alta maestria [10] nelle loro arti: per esempio, diciamo che Fidia è uno scultore sapiente e Policleto un sapiente statuario, indicando qui con156 157 "sapienza" nient’altro che l’eccellenza in un’arte. Ma noi pensiamo che ci siano degli uomini sapienti in senso onnicomprensivo e non sapienti solo in un campo particolare o in una cosa determinata, come dice Omero nel Margite : [15]158 "costui gli dèi non lo fecero né zappatore né aratore né sapiente in qualche altra cosa" 159 . Così è chiaro che la sapienza è la più perfetta delle scienze. Per conseguenza, bisogna che il sapiente non solo conosca ciò che deriva dai principi, ma anche che colga il vero per quanto riguarda i principi stessi. Così si può dire che la sapienza sia insieme intelletto e scienza, in quanto è scienza, con fondamento, [20] delle realtà più sublimi. È assurdo infatti, pensare che la politica e la saggezza siano la forma più alta di conoscenza, se è vero che l’uomo non è la realtà di maggior valore nell’universo. Se, dunque, ciò che è salutare è diverso per gli uomini e per i pesci, mentre ciò che è bianco e diritto è sempre la stessa cosa, tutti devono riconoscere che anche ciò che è sapiente è la stessa cosa, mentre ciò che è saggio [25] è diverso. Infatti, si dice che è cosa saggia il saper considerare adeguatamente i nostri interessi particolari, ed è ad un uomo saggio che noi li affidiamo. È per questo che si dice che certi animali sono saggi, quelli cioè che mostrano di avere una certa capacità di previdenza per ciò che interessa la loro vita. È chiaro, inoltre, che non si può dire che la sapienza e la politica si identificano: se, infatti, [30] si chiamerà sapienza la scienza di ciò che è utile a noi stessi, ci saranno molte sapienze, giacché non è unica la scienza di ciò che è bene per tutti gli animali, ma è diversa per ciascuna specie, come anche non c’ un’unica scienza medica per tutti gli esseri viventi. Se, poi, si dice che l’uomo è superiore a tutti gli altri animali, non cambia niente, giacché ci sono altre realtà di natura ben [1141b] più divina dell’uomo, come risulta chiarissimo, se non altro, dai corpi di cui è costituito l’universo 160 . Dunque, da quanto abbiamo detto risulta chiaro che la sapienza è, insieme, scienza e intelletto delle realtà più sublimi per natura. Perciò Anassagora 161 e Talete 162 , e gli uomini come loro, vengono chiamati sapienti [5] ma non saggi, quando si vede che ignorano ciò che è vantaggioso per loro, e si dice che essi conoscono realtà straordinarie, meravigliose, difficili e divine, ma inutili, perché non sono i beni umani che essi cercano. La saggezza, invece, riguarda i beni umani e le cose su cui è possibile deliberare: infatti, [10] noi diciamo che soprattutto questa è la funzione del saggio, il deliberare bene, e nessuno delibera sulle cose che non possono essere diversamente, né su quelle che non abbiano un qualche fine che sia un bene realizzabile nell’azione. L’uomo che sa deliberare bene in senso assoluto è quello che, seguendo il ragionamento, sa indirizzarsi a quello dei beni realizzabili nell’azione che è il migliore per l’uomo. La saggezza non ha come oggetto [15] solo gli universali, ma bisogna che essa conosca anche i particolari, giacché essa concerne l’azione, e l’azione riguarda le situazioni particolari. È per questa ragione che alcuni uomini, pur non conoscendo gli universali, sono, nell’azione, più abili di altri che li conoscono, e questo vale anche negli altri campi 163 : sono coloro che hanno esperienza. Se, infatti, uno sa che le carni leggere sono facili da digerire e salutari, ma non sa quali sono le carni leggere, non produrrà la salute; [20] la produrrà piuttosto colui che sa che le carni degli uccelli sono leggere e salutari. La saggezza, poi, riguarda l’azione: cosicché deve possedere entrambi i tipi di conoscenza, o di preferenza quella dei particolari. Ma ci sarà anche qui una scienza architettonica 164 . ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VI) 8. [Politica e saggezza come conoscenza del particolare]. La politica e la saggezza sono la stessa disposizione, benché la loro essenza non sia la stessa. La saggezza che ha per oggetto [25] una città, in quanto architettonica 165 , è saggezza legislativa; ma in quanto riguarda gli atti particolari, ha il nome comune di saggezza politica. Quest’ultima riguarda l’azione e la deliberazione: il decreto, infatti, è oggetto dell’azione in quanto è l’ultimo termine della deliberazione. È per questo che solo coloro che deliberano sui casi particolari si dice che fanno politica: questi infatti sono i soli ad agire come fanno gli artigiani. Ma comunemente si ritiene [30] anche che la saggezza sia soprattutto quella che riguarda in modo esclusivo l’individuo stesso; e questa ha il nome comune di saggezza; il nome, poi, delle altre forme è "amministrazione familiare" o "legislazione" o "politica", e quest’ultima si divide in "deliberativa" e "giudiziaria". E una forma di conoscenza sarà, sì, quella di sapere ciò che è utile a se stessi, ma è molto diversa. [1142a] E si ritiene che sia saggio colui che conosce il suo interesse e se ne occupa a fondo, mentre gli uomini politici si occupano di un sacco di cose. Perciò Euripide dice: "Come potrei essere saggio io che avrei potuto, [pur rimanendo inattivo, semplice numero tra i tanti nell’esercito, partecipare di un ugual diritto? [...] [5] Giacché coloro che aspirano troppo in alto e fanno il di più" 166 . Costoro, infatti, cercano ciò che è bene per loro, e credono che sia questo che devono fare. Da questa opinione, dunque, è derivata la credenza che i saggi siano questi. Eppure il bene dell’individuo non può certo sussistere senza amministrazione familiare [10] e senza costituzione politica. Inoltre, in che modo bisogna amministrare i propri interessi non è una cosa evidente, e va fatta oggetto di indagine. Prova, poi, di ciò che abbiamo detto è anche il fatto che i giovani sono geometri o matematici o sapienti in materie del genere, ma non si pensa che un giovane sia saggio. Il motivo è che la saggezza riguarda anche i particolari, i quali diventano [15] noti in base all’esperienza, mentre il giovane non è esperto: infatti, è la lunghezza del tempo che produce l’esperienza. Perché ci si potrebbe chiedere anche questo: per quale ragione un ragazzo può essere un matematico, ma non un sapiente o un fisico? Non si deve forse rispondere che gli oggetti della matematica derivano dall’astrazione, mentre i principi della sapienza e della fisica si ricavano dall’esperienza, e che, mentre su questi ultimi i giovani non hanno convinzioni [20] ma si contentano di parole, degli oggetti matematici, invece, non ignorano l’essenza? Inoltre, nel deliberare, l’errore può riguardare sia l’universale sia il particolare: ci si può sbagliare, infatti, o nel dire che tutte le acque pesanti sono malsane, o nel dire che questa determinata acqua è pesante. Che la saggezza non sia scienza è manifesto: essa riguarda l’ultimo termine della deliberazione, come abbiamo detto, [25] giacché tale è l’oggetto dell’azione. Dunque, essa si contrappone all’intelletto: l’intelletto, infatti, ha per oggetto le definizioni, di cui non c’ dimostrazione, mentre la saggezza ha per oggetto l’ultimo particolare, di cui non c’ scienza ma sensazione, ma non sensazione dei sensibili propri, bensì quella mediante cui, in matematica 167 , noi percepiamo che l’ultimo determinato particolare è un triangolo: anche là, infatti, ci si dovrà fermare. Ma quest’ultima 168 è più [30] sensazione che saggezza, e la forma dell’altra 169 è diversa. 9. [L’attitudine a deliberare bene]. Tra cercare e deliberare c’ differenza, giacché il deliberare è una specie del cercare. Bisogna, dunque, cercar di comprendere che cos’ l’attitudine a deliberare bene, se è un tipo di scienza o di opinione o di sagacia o qualche altro genere di cosa. [1142b] Scienza non è certamente: infatti, non si cerca ciò che si sa, mentre l’attitudine a deliberare bene è una specie della deliberazione, e colui che delibera cerca e calcola. Ma, certo, non è neppure sagacia: infatti, la sagacia non implica ragionamento ed è qualcosa di rapido, e si dice che bisogna mettere in pratica rapidamente ciò che si è deliberato, [5] ma che bisogna deliberare lentamente. Inoltre, anche la prontezza di spirito è diversa dall’attitudine a deliberare bene: la prontezza di spirito è una specie di sagacia. Infine, l’attitudine a deliberare bene non è alcun tipo di opinione. Ma poiché chi delibera male erra, mentre chi delibera bene delibera correttamente, è chiaro che l’attitudine a deliberare bene è una specie di rettitudine, ma non una rettitudine della scienza né dell’opinione. [10] Della scienza, infatti, non c’ rettitudine (perché non c’ neppure errore), e, d’altra parte, la rettitudine dell’opinione è la verità; e, nello stesso tempo, tutto ciò che è oggetto di opinione è già stato determinato. Pur tuttavia, l’attitudine a deliberare bene non è scompagnata dal ragionamento. Dunque, resta da dire che essa è rettitudine del pensiero: quest’ultimo, infatti, non è ancora un’asserzione. E l’opinione non è ricerca, ma è già asserzione, mentre chi delibera, [15] sia che deliberi bene sia che deliberi male, cerca qualcosa e calcola. Ma l’attitudine a deliberare bene è una specie di rettitudine della deliberazione: perciò bisogna indagare prima di tutto sulla natura e sull’oggetto della deliberazione . E poiché il termine "rettitudine" ha170 molti significati, è chiaro che qui non si tratta di ogni tipo di rettitudine: infatti, l’incontinente, cioè il vizioso, otterrà col suo calcolo ciò che si propone come suo dovere, cosicché si troverà [20] ad aver deliberato correttamente, anche se poi si è procurato un gran male. Ma si ritiene che il deliberare bene sia una cosa buona: infatti, è questo tipo di rettitudine della deliberazione che costituisce l’attitudine a deliberare bene, ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VI) cioè è quella rettitudine che mira a raggiungere un bene. Anche questo bene, poi, è possibile coglierlo mediante un sillogismo falso, e cogliere ciò che si deve fare, ma non il mezzo conveniente: è possibile che il termine medio sia falso; cosicché non è [25] ancora attitudine a deliberare bene questa disposizione a raggiungere ciò che si deve, ma non con il mezzo con cui si dovrebbe. Inoltre, è possibile raggiungere lo scopo, talora deliberando per molto tempo, talora rapidamente. Ma neppure quella è ancora attitudine a deliberare bene, che è invece una rettitudine conforme all’utile, cioè conforme al mezzo, al modo e al tempo dovuti. Inoltre, è possibile deliberare bene sia in senso assoluto, sia in relazione ad un fine determinato. Dunque, [30] l’attitudine a deliberare bene, in senso assoluto, è quella che conduce correttamente al fine preso in senso assoluto, mentre l’attitudine a deliberare bene in senso stretto è quella che conduce ad un determinato fine. Se, quindi, è caratteristica dei saggi il ben deliberare, l’attitudine a deliberare bene sarà la rettitudine conforme a ciò che è utile per raggiungere il fine, di cui la saggezza è la vera apprensione. 10. [Il giudizio e la perspicacia]. Il giudizio, poi, e la perspicacia, per cui parliamo di uomini [1143a] giudiziosi e perspicaci, non sono la stessa cosa che la scienza o l’opinione in generale (giacché in questo caso tutti sarebbero giudiziosi), né sono una determinata scienza particolare, come, per esempio, la medicina, scienza della salute, o la geometria, scienza delle grandezze. Il giudizio, infatti, non ha per oggetto gli enti eterni [5] ed immobili, né una qualsiasi delle realtà divenienti, bensì realtà che possono suscitare problemi e richiedere una deliberazione. Perciò il giudizio ha gli stessi oggetti della saggezza, ma giudizio e saggezza non sono la stessa cosa. La saggezza, infatti, è imperativa, perché il suo fine è quello di determinare ciò che si deve o che non si deve fare; il giudizio, invece, [10] è soltanto critico. Infatti, giudizio e perspicacia sono la stessa cosa, come uomo giudizioso e uomo perspicace. Il giudizio, poi, non consiste né nel possedere né nell’acquistare la saggezza; ma come "apprendere" si dice "comprendere" 171 , quando si fa uso della scienza, così si dice "comprendere" quando si fa uso dell’opinione nel giudicare sulle cose che sono oggetto [15] della saggezza, quando ne parla un altro, e nel giudicare adeguatamente (giacché "bene" e "adeguatamente" qui significano la stessa cosa). Ed il nome di "giudizio", in base al quale parliamo di uomini giudiziosi, è derivato da quello del "giudizio" di cui ci si avvale nell’apprendere: spesso, infatti, intendiamo per "comprendere" l’apprendere. 11. [La comprensione e l’indulgenza. Loro rapporto con l’intelletto]. E quella che chiamiamo "comprensione" , per cui diciamo che certi uomini sono "indulgenti", [20] cioè che172 hanno comprensione, è un corretto giudizio su ciò che è equo. Prova: soprattutto dell’uomo equo diciamo che è disposto all’indulgenza, e che è equo l’avere indulgenza in certi casi. L’indulgenza è una comprensione che giudica correttamente di ciò che è equo: e giudica correttamente quando giudica equo ciò che lo è veramente. [25] Ora, tutte le disposizioni di cui abbiamo parlato convergono, logicamente, verso la stessa cosa: noi, infatti, quando attribuiamo agli stessi uomini comprensione, giudizio, saggezza e intelletto, diciamo che essi hanno ormai comprensione e intelletto, e che sono saggi e giudiziosi. Tutte queste facoltà, infatti, riguardano gli oggetti ultimi, cioè i particolari: appunto [30] nell’essere capace di giudicare su ciò che è oggetto del saggio consiste l’essere giudizioso e benevolo , ovvero indulgente, giacché l’equità è173 comune a tutti gli uomini buoni nel loro comportamento verso gli altri. Ora, gli oggetti di tutte le azioni sono cose particolari e ultime, giacché il saggio deve conoscere i particolari ultimi, e il giudizio e la comprensione riguardano [35] gli oggetti delle azioni, e questi sono appunto dei termini ultimi. Anche l’intelletto riguarda gli oggetti ultimi in entrambi i sensi: è infatti l’intelletto che ha come oggetto [1143b] sia i termini primi sia gli ultimi, e non il ragionamento, ed è l’intelletto che, da una parte, coglie i termini immutabili e primi174 nell’ordine delle dimostrazioni, e, dall’altra, nelle questioni pratiche, coglie il termine ultimo e contingente, cioè la premessa minore. Infatti, i principi da cui si ricava il fine sono questi: è dai particolari, infatti, che si ricavano [5] gli universali. Di questi fatti particolari bisogna avere apprensione immediata, e questa apprensione immediata è l’intelletto. Per questo si ritiene che queste qualità siano naturali, e che, mentre nessuno è sapiente per natura, è per natura che si ha comprensione, giudizio, intelletto. Prova ne è che noi pensiamo che esse seguano le varie età, e che una determinata età ha intelletto e comprensione, in quanto, noi crediamo, ne è causa la natura. [Perciò [10] l’intelletto è sia principio sia fine: infatti, le dimostrazioni partono da fatti particolari e riguardano fatti particolari.] 175 . Cosicché bisogna tener conto delle affermazioni non dimostrate, cioè delle opinioni degli uomini d’esperienza e dei più anziani, ovvero dei saggi, non meno che delle loro dimostrazioni, giacché essi, per il fatto di avere un occhio formato dall’esperienza, vedono correttamente. Si è dunque detto che cosa sono [15] la saggezza e la sapienza, quali oggetti abbia ciascuna di esse, e che ciascuna appartiene ad una diversa parte dell’anima. 12. [Saggezza e sapienza. Loro utilità]. A proposito, poi, di saggezza e sapienza ci si potrebbe domandare a che cosa servono. (1) Infatti, mentre la sapienza non considera nulla di ciò che può rendere felice [20] l’uomo (giacché non riguarda nessun divenire), la saggezza ha proprio questo come oggetto: ma per che cosa si ha bisogno di lei? La saggezza ha per oggetto le cose giuste, belle e buone per l’uomo, ma queste sono le cose che è proprio dell’uomo buono fare, e non è per il fatto di conoscere che noi siamo più atti a farle, se è vero che [25] le virtù sono ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VII) ARISTOTELE ETICA A NICOMACO LIBRO VII 1. [Vizio, incontinenza, bestialità]. [15] A seguito di ciò, dobbiamo assumere un altro punto di partenza e dire che, per quel che concerne i comportamenti, tre sono le specie di comportamento da evitare: vizio, incontinenza, bestialità. I contrari di due di esse sono evidenti, e li chiamiamo uno virtù e l’altro continenza. In contrapposizione alla bestialità il termine più adatto da usare sarebbe quello di "virtù sovrumana", [20] una specie di virtù eroica e divina: così Omero rappresenta Priamo mentre dice che Ettore è stato eccezionalmente virtuoso: "...e non pareva figlio d’un uomo mortale, ma figlio d’un dio" .182 Cosicché, se, come dicono, un eccezionale grado di virtù trasforma gli uomini in dèi, è chiaro che una disposizione di tale natura sarà quella [25] che si contrappone alla bestialità. Infatti, come il vizio e la virtù non sono di una bestia, così non sono neppure di un dio, ma, da una parte, lo stato di un dio è più venerabile della virtù, e, dall’altra, quello della bestia è di un genere diverso da quello del vizio. E poiché è raro anche l’essere un uomo divino, come gli Spartani sono soliti dire quando hanno una eccezionale ammirazione per qualcuno (essi dicono: "uomo divino! "), così anche [30] il tipo bestiale è raro tra gli183 uomini. Si trova soprattutto tra i barbari, ma certi caratteri bestiali sono prodotti anche da malattie e difetti di crescita: e questo nome infamante diamo agli uomini che eccedono nel vizio. Ma di siffatta disposizione dovremo fare menzione più avanti, mentre del vizio [35] si è già parlato prima. Ora dobbiamo parlare dell’incontinenza e della mollezza, cioè della sensualità, e della continenza e della fortezza: infatti, [1145b] nel caso di quelle disposizioni non bisogna considerare ciascun gruppo di esse come identico alla virtù o alla perversità, né come costituenti un genere diverso. Bisogna, invece, come negli altri casi, tener fermo quello che si manifesta e porre innanzi tutto i problemi, e così mostrare il più esaurientemente possibile tutte [5] le opinioni correnti su queste passioni, o, se no, almeno le più diffuse e le più importanti: infatti, se si risolvono le difficoltà e si accettano le opinioni comuni, si otterrà una sufficiente dimostrazione. Comunemente si ritiene che la continenza e la fortezza appartengano al campo delle cose virtuose e lodevoli, l’incontinenza e la mollezza, invece, [10] a quello delle cose cattive e biasimevoli, e che il continente si identifichi con colui che persevera nella conclusione del suo ragionamento, e l’incontinente con chi non vi si attiene. Mentre l’incontinente compie, a causa della passione, azioni che pur sa che sono malvagie, l’uomo continente, che sa che i suoi desideri sono malvagi, non li segue, in forza del ragionamento. Tutti dicono che l’uomo temperante è continente e [15] forte, ma alcuni dicono che l’uomo continente e forte è temperante in tutto, altri no; e gli uni affermano che l’intemperante è incontinente e l’incontinente è intemperante, senza differenze, e gli altri, invece, che sono diversi. Quanto all’uomo saggio, talora dicono che non può essere incontinente, talora affermano che alcuni, che pur sono saggi e abili, sono incontinenti. Inoltre si parla di uomini incontinenti [20] in fatto di impulsività, di onore, di guadagno. Questo è, dunque, quello che si dice. 2. [Analisi e discussione delle opinioni correnti]. (1) Ci si potrebbe porre ora la questione: come può compiere atti di incontinenza uno che giudichi rettamente? Ora, alcuni dicono che ciò non è possibile quando si possiede la scienza: sarebbe strano (così pensava Socrate) che, quando in un uomo ci fosse la scienza, ci fosse poi qualche altra cosa che la padroneggia e la trascina qua e là come una schiava. [25] Socrate si opponeva totalmente a questa concezione, nella persuasione che non esiste incontinenza: secondo lui, infatti, nessuno agisce in contrasto con ciò che è il meglio in base ad un giudizio consapevole, ma solo per ignoranza. Questa teoria contraddice i dati d’esperienza in modo lampante, e si deve indagare, nell’ipotesi che questo stato passionale derivi dall’ignoranza, quale sia il tipo dell’ignoranza che sopravviene. [30] In effetti, colui che compie atti di incontinenza non pensa di dover agire in quel modo prima di trovarsi in questo stato passionale. Ma ci sono alcuni che in parte accettano e in parte no questa teoria: sono d’accordo sul fatto che niente è più forte della scienza ma non sul fatto che nessuno agisca in modo contrastante con l’opinione migliore, e per questo affermano che l’incontinente [35] non possiede scienza quando si lascia dominare dai piaceri, ma solo opinione. Ma se si tratta di opinione e non di scienza, se non è una convinzione [1146a] forte che si oppone ai piaceri, ma una debole, come succede a coloro che sono incerti, c’ indulgenza per il non riuscire a rimanere saldi in quelle opinioni di fronte all’attacco dei desideri intensi: non c’ indulgenza, invece, per la perversità, né per alcun altro atteggiamento biasimevole. Allora è forse la saggezza che si oppone ai piaceri? [5] Questa, infatti, è molto forte. Ma è assurdo: lo stesso uomo, infatti, sarà insieme saggio e incontinente, ma nessuno dirà che è proprio del saggio commettere volontariamente le azioni più basse. Ed oltre a ciò abbiamo mostrato prima che il saggio sa agire bene in pratica (è un uomo impegnato nei fatti particolari) e che possiede tutte le altre virtù. (2) Inoltre, se [10] l'uomo continente è tale in presenza di desideri violenti e bassi, l’uomo temperante non sarà continente, né l’uomo continente sarà temperante: infatti, è proprio dell’uomo temperante l’avere ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VII) desideri non eccessivi né bassi. Ma, certo, l’uomo continente deve averli: se, infatti, i desideri sono buoni, cattiva è la disposizione che impedisce di seguirli, cosicché la continenza non sarà sempre [15] virtuosa: se i desideri sono deboli e non bassi, non c’ niente di glorioso <nel dominarli>, e se sono bassi e deboli, non c’ niente di grande. (3) Inoltre, se la continenza rende capaci di rimanere saldi in qualche opinione, sarà cattiva nel caso, per esempio, in cui ci faccia rimaner saldi in una opinione falsa. E se l’incontinenza rende facili ad abbandonare qualsiasi opinione, ci sarà una specie virtuosa di incontinenza, come nel caso del Neottolemo di Sofocle nel Filottete : egli è da lodare, infatti, perché non persiste, [20] poiché gli dispiace mentire, in ciò di cui Ulisse184 l’ha persuaso. (4) Inoltre, il ragionamento sofistico contiene una aporia: infatti, per il voler confutare con dei paradossi, per essere considerati abili, quando ci riescono, il ragionamento che ne risulta diventa un’aporia: [25] il pensiero rimane legato, infatti, quando da una parte non vuole restar fermo perché non gli piace la conclusione, e dall’altra non può procedere perché non ha strumenti per sciogliere le difficoltà dell’argomento. Dunque, succede che c’ un argomento in base al quale la stoltezza congiunta con l’incontinenza è virtù: infatti, l’uomo, a causa dell’incontinenza, compie le azioni contrarie a quelle che giudica di dover compiere, ma d’altra parte giudica che le buone [30] siano cattive e che non si debbano compiere, cosicché compirà le buone e non le cattive. (5) Inoltre, chi agisce con convinzione e persegue e sceglie ciò che è piacevole, potrebbe essere ritenuto migliore di chi agisce così non per calcolo, ma per incontinenza: infatti, il primo risulterebbe più facile da guarire, perché si lascia indurre a cambiare persuasione. Invece, all’incontinente, si può applicare il proverbio [35] che dice: "Quando è l’acqua che soffoca, che cosa bisogna berci su?". Se egli, infatti, [1146b] era persuaso di dover fare quello che fa, dovrebbe smettere di farlo, una volta che abbia mutato la sua persuasione; ora, invece, pur essendo persuaso di dover fare una cosa, non di meno ne fa un’altra .185 (6) Inoltre, se incontinenza e continenza riguardano ogni tipo di oggetto, chi è incontinente in senso, assoluto? Nessuno, infatti, possiede tutte le forme di incontinenza, ma diciamo che alcuni sono incontinenti [5] in senso assoluto. Tali, dunque, sono, pressappoco, le aporie che sorgono in questo campo, ma di queste alcune sono da scartare, altre da conservare, giacché risolvere un’aporia significa trovare la verità. 3. [Soluzione delle aporie riguardanti l’incontinenza]. Innanzi tutto dobbiamo vedere se gli incontinenti agiscono consapevolmente o no, e, nel primo caso, in che senso "consapevolmente"; poi di qual natura sono gli oggetti [10] che dobbiamo attribuire all’incontinente e al continente, cioè se ogni tipo di piacere e di dolore oppure certe specie determinate; e se l’uomo continente è identico a quello forte o diverso, e così di seguito per tutte le altre questioni che sono imparentate con la presente indagine. (1) Punto di partenza della nostra ricerca è la questione [15] se il continente e l’incontinente si differenziano per i loro oggetti o per la loro disposizione 186 , cioè, voglio dire, se l’incontinente è incontinente solo in relazione a questi o quegli oggetti, oppure no, ma per il modo di comportarsi, o neanche per questo, bensì per tutte e due le cose insieme. In seguito vedremo se incontinenza e continenza riguardano ogni tipo di oggetto, oppure no. Infatti, chi è incontinente in senso assoluto non lo è in relazione ad ogni tipo di oggetto, [20] ma in relazione a quelli che sono oggetto dell’uomo intemperante, né per il fatto puro e semplice di essere in relazione a questi oggetti (giacché in tal caso l’incontinenza sarebbe identica all’intemperanza), bensì per il fatto di essere in relazione con essi in un certo modo. L’uno, infatti, sceglie di lasciarsi trascinare, ritenendo di dover sempre perseguire il piacere presente; l’altro, invece, non pensa di doversi lasciar trascinare, ma persegue ugualmente il piacere presente. Per quanto riguarda il fatto che è opinione vera e non scienza [25] quella contraddetta da chi commette atti di incontinenza, non fa alcuna differenza per il nostro ragionamento; infatti, alcuni di quelli che possiedono semplici opinioni non si sentono affatto incerti, ma credono di possedere conoscenze esatte. Se è, dunque, per la debolezza delle loro convinzioni che coloro che hanno semplici opinioni agiscono contro il loro giudizio più di quelli che possiedono scienza, non ci sarà alcuna differenza tra scienza e opinione: alcuni uomini, infatti, [30] di ciò di cui hanno opinione hanno una convinzione non inferiore a quella che altri hanno di ciò di cui hanno scienza: ce lo mostra Eraclito . Ma poiché usiamo il termine "sapere" in due sensi (infatti, si dice che sa sia chi possiede la187 scienza ma non se ne serve, sia chi se ne serve), ci sarà differenza se fa ciò che non deve uno che possiede scienza e non la mette in atto o uno che la mette in atto: [35] questo secondo caso viene ritenuto strano, ma non il primo. (2) Inoltre, poiché ci sono due tipi [1147a] di premesse, niente impedisce che chi pur le possiede entrambe agisca in contrasto con la scienza, se utilizza la premessa universale ma non quella particolare: infatti, oggetti dell’azione sono i particolari. Ma anche dell’universale ci sono due tipi differenti: uno si predica dell’agente e [5] l’altro dell’oggetto. Per esempio: "i cibi secchi giovano ad ogni uomo" e "io sono un uomo", oppure "tale cibo è secco": ma se "questa cosa qui è un tale cibo", l’incontinente o non ne ha scienza o non la mette in atto; dunque, secondo questi tipi di premesse ci sarà una differenza tanto grande che, cosi si pensa, conoscere in un modo non è affatto strano, ma conoscere nell’altro è straordinario. [10] (3) Inoltre, avere la scienza in un modo diverso da quelli ora menzionati è cosa che può accadere agli uomini: infatti, nell’avere e non usare la scienza vediamo che la disposizione può essere differente, così da avere la scienza in certo qual modo e non averla, come nel caso di chi dorme, del folle e dell’ubriaco. Ma è proprio in questa condizione che si trovano coloro che [15] sono immersi nelle passioni: infatti, scoppi di ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VII) impulsività e desideri sessuali e alcune altre passioni simili, in maniera molto evidente, modificano anche il corpo, e ad alcuni uomini producono anche accessi di follia. È chiaro, dunque, che bisogna dire che gli incontinenti si trovano nella medesima disposizione di questi uomini. Il fatto che gli incontinenti facciano discorsi fondati sulla scienza non prova niente, giacché anche coloro che sono immersi in [20] queste passioni enunciano dimostrazioni e recitano versi di Empedocle, e quelli che hanno appena incominciato ad apprendere una scienza ne intrecciano le frasi, ma ancora non "sanno": bisogna, infatti, compenetrarsi negli argomenti, e questo richiede tempo: per conseguenza, bisogna supporre che gli incontinenti parlino come gli attori di teatro. (4) Inoltre, si potrà studiare l’incontinenza anche analizzandone [25] la struttura che la genera. Infatti, la premessa universale è un’opinione, mentre l’altra premessa riguarda i fatti particolari, i quali stanno immediatamente sotto il dominio della sensazione: quando da queste due premesse scaturisce una sola affermazione, l’anima deve necessariamente affermare la conclusione, e nel caso di premesse pratiche, deve passare immediatamente all’azione. Per esempio: se "bisogna gustare ogni cosa dolce" e "questa cosa qui è dolce" (come singolo oggetto particolare), allora, necessariamente, chi può, [30] cioè chi non ne è impedito, deve anche, simultaneamente, compiere l’atto di gustare. Quando, dunque, siano presenti in noi, da una parte, l’opinione universale che vieta di gustare e, dall’altra, l’opinione che "ogni cosa dolce è piacevole", e che "questa cosa qui è dolce" (ed è questa l’opinione che produce l’atto), e ci sia in noi anche il desiderio, l’opinione universale dice di fuggire questo oggetto, ma il desiderio ci conduce ad esso, [35] giacché il desiderio può mettere in moto ciascuna delle parti del corpo. Per conseguenza, ne deriva [1147b] che si commettono atti di incontinenza sotto l’influsso in certo qual modo di una ragione, cioè di un’opinione, non contraria per sé, ma per accidente (infatti, contrario è il desiderio, non l’opinione) alla retta ragione. Ne consegue anche che è per questo che le bestie non possono essere incontinenti, perché esse non hanno un giudizio di carattere universale, [5] ma soltanto la rappresentazione e la memoria dei particolari. Com’ che si dissipa l’ignoranza e l’incontinente ritorna ad essere uno che possiede scienza? La spiegazione è la stessa che per il caso dell’ubriaco e del dormiente e non è peculiare di questa passione, e dobbiamo ascoltarla dagli studiosi della natura. Poiché l’ultima premessa è un’opinione [10] che riguarda un oggetto sensibile e che determina le azioni, un uomo o non ce l’ha quando è sotto l’influsso della passione, o ce l’ha in modo tale che, come abbiamo detto, non è un possedere la scienza ma soltanto un recitare, come l’ubriaco recita i versi di Empedocle. E poiché il termine ultimo non è un universale né viene considerato come un oggetto di scienza parificabile ad un universale, sembra appunto che ne consegua quello che [15] Socrate cercava di stabilire: infatti, non è in presenza di quella che viene ritenuta essere la scienza in senso proprio che sorge la passione dell’incontinenza, né è questa scienza che è trascinata qua e là dalla passione, ma è in presenza della conoscenza sensibile. Posto questo, si consideri concluso il discorso sulla questione se è con o senza conoscenza, e con che tipo di conoscenza, che si è incontinenti. 4. [L’incontinenza: il suo ambito e le sue forme]. [20] Proseguendo, dobbiamo dire se c’ chi è incontinente in senso assoluto o tutti lo sono in un campo particolare, e nel primo caso di che natura sono gli oggetti dell’incontinenza. Che gli uomini continenti e forti, e gli incontinenti e molli, lo siano riguardo a piaceri e dolori, è manifesto. Ora, delle cose che producono piacere alcune sono necessarie, altre sono meritevoli di scelta [25] per se stesse, pur essendo suscettibili di eccesso. Necessarie sono quelle connesse col corpo (e come tali intendo quelle che riguardano il nutrimento e l’attività sessuale, cioè quelle funzioni corporee che abbiamo detto essere oggetto dell’intemperanza e della temperanza). Le altre, invece, non sono necessarie, ma meritevoli per se stesse di scelta (e intendo, [30] per esempio, vittoria, onore, ricchezza e le cose buone e piacevoli di questo tipo). Posto questo, coloro che rispetto a questi oggetti eccedono, in contrasto con la retta ragione che è in loro, non li chiamiamo semplicemente incontinenti, ma incontinenti con l’aggiunta di "in fatto di denaro, di guadagno, di onore, di impulsività"; e non li chiamiamo incontinenti in senso assoluto, perché da questi sono diversi e [35] sono chiamati così per analogia, come si chiama Ánthropos 188 colui che ha vinto 189 ai giochi di Olimpia: nel suo caso, come [1148a] dicevamo, la definizione generale differisce di poco da quella individuale a lui propria, ma è tuttavia diversa. Prova: l’incontinenza del primo tipo, sia in senso assoluto sia in qualche senso particolare, è biasimata non solo come errore, ma anche come una specie di vizio; ma non è biasimato così nessuno degli incontinenti del secondo tipo. Di quelli che sono incontinenti [5] in relazione ai godimenti corporali (in relazione ai quali chiamiamo tali il temperante e l’intemperante), colui che, senza avere operato una scelta, ricerca l’eccesso delle cose piacevoli, e fugge quello delle cose spiacevoli (fame, sete, caldo, freddo, e tutto ciò che riguarda il tatto e il gusto), ma che anzi lo fa in contrasto con la sua scelta ed il suo pensiero, è detto incontinente, senza l’aggiunta [10] di "in relazione a queste determinate cose", come incontinente "in relazione all’ira", ma solo puramente e semplicemente incontinente. Prova: si parla di uomini molli in relazione a questi piaceri, ma non per alcuno degli altri. Ed è per questo che mettiamo insieme nella stessa categoria l’incontinente e l’intemperante, ed il continente e il temperante (ma non lo facciamo per nessuno di quegli altri), [15] per il fatto che sono in qualche modo in relazione con gli stessi piaceri e gli stessi dolori: essi, però, sono in relazione, sì, agli stessi oggetti, ma non nella stessa maniera, bensì gli uni compiono una scelta e gli altri no. Perciò diremo intemperante piuttosto colui che, non avendo desideri o avendone di deboli, persegue i piaceri eccessivi e fugge i dolori moderati, che non colui che fa questo [20] per l’intensità del suo desiderio. Infatti, che cosa farebbe quel primo se gli sopravvenisse un desiderio giovanile o una sofferenza intensa dovuta alla mancanza del necessario? Dei desideri e dei ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VII) la continenza è preferibile [1150b] alla semplice forza d’animo. Chi manca di resistenza in quelle situazioni di fronte alle quali la maggior parte degli uomini resiste e ha la forza di resistere, è un uomo molle e sensuale (in effetti, la sensualità è una specie di mollezza): come chi trascina il mantello per non far la fatica e darsi la pena di sollevarlo, e come chi, quando fa [5] l’ammalato, non capisce di essere davvero un disgraziato, se si fa simile ad un disgraziato. Lo stesso vale anche nel caso della continenza e dell’incontinenza. Infatti, se uno rimane sconfitto da piaceri o dolori violenti ed eccessivi, non c’ da meravigliarsi, ma ciò è perdonabile se uno cerca di resistere, come il Filottete di Teodette morso dalla203 vipera, [10] o il Cercione nell’ Alope di Carcino , e come quelli che, mentre si sforzano di trattenere il riso,204 scoppiano a ridere d’un tratto, come capitò a Senofanto 205 ; ma è da meravigliarsi se uno, in situazioni di fronte alle quali la maggior parte degli uomini è capace di resistere, si lascia vincere e non riesce ad opporre resistenza, e ciò non per cause di natura ereditaria o per malattia: per esempio, tra i re degli Sciti [15] la mollezza è ereditaria, e come la femmina è per natura differente dal maschio. Comunemente si ritiene che anche il tipo giocherellone sia un intemperante: in realtà è un uomo molle. Infatti, il gioco è un rilassamento, se è vero che è uno stato di riposo 206 . Il giocherellone appartiene alla classe di coloro che eccedono nel concedersi riposo. Dell’incontinenza, poi, ci sono due forme: la precipitazione e la debolezza. [20] Gli uni, dopo aver preso una deliberazione non perseverano in ciò che hanno deliberato, a causa della passione; gli altri si lasciano trascinare dalla passione per il fatto di non aver preso una deliberazione. Alcuni, infatti (come quelli che, avendo sofferto il solletico in precedenza, non lo soffrono più, se hanno presentito e previsto e se hanno risvegliato se stessi e la propria capacità di ragionare), non si lasciano vincere dalla passione, né [25] nel caso che sia piacevole né nel caso che sia dolorosa. Soprattutto gli uomini vivaci ed eccitabili sono incontinenti per precipitazione: e gli uni per la fretta, gli altri per la violenza della passione non stanno ad aspettare la conclusione del ragionamento, per il fatto che sono inclini a seguire l’immaginazione. 8. [L’intemperanza è peggiore dell’incontinenza]. L’intemperante, come s’ detto , non è capace di pentimento, [30] giacché persiste nella sua scelta; ogni207 tipo di incontinente, invece, è capace di pentimento. Perciò le cose non stanno come le abbiamo formulate nel problema , ma l’intemperante è incorreggibile, mentre l’incontinente è correggibile. Infatti, la208 perversità è simile a malattie come l’idropisia e la tisi, mentre l’incontinenza assomiglia ad attacchi di epilessia, giacché la prima è un male continuo, la seconda è intermittente. [35] E incontinenza e vizio appartengono a generi completamente differenti: infatti, il vizio rimane nascosto al soggetto, l’incontinenza, invece, no. [1151a] Degli incontinenti stessi, poi, quelli che sono come fuori di sé sono migliori di quelli che la ragione ce l’hanno, ma non rimangono nei limiti di essa: questi ultimi, infatti, si lasciano sconfiggere da una passione più debole, e non senza aver prima preso una deliberazione, come, invece, fanno gli altri .209 Infatti, l’incontinente è simile a quelli che si ubriacano rapidamente e con poco [5] vino, anzi con una quantità minore che la maggior parte degli uomini. Orbene, che l’incontinenza non è un vizio è manifesto (ma forse per qualche aspetto lo è): l’incontinenza, infatti, è al di là della scelta, mentre il vizio deriva dalla scelta; ma, tuttavia, una somiglianza c’ dal punto di vista delle azioni, come diceva Demodoco ai Milesi:210 "I Milesi non sono stupidi, ma si comportano come [10] stupidi"; anche gli incontinenti non sono ingiusti, ma commettono ingiustizie. Ora, l’incontinente persegue i piaceri corporali eccessivi e contrari alla retta ragione, perché lui è fatto così e non perché sia convinto che sia bene, mentre l’intemperante ha la convinzione che sia bene proprio perché lui è fatto in modo tale da perseguire quei piaceri: perciò, il primo può facilmente essere persuaso a cambiare, il secondo no. [15] Infatti, la virtù salva il principio, il vizio, invece, lo distrugge, e nelle azioni il principio è il fine, come le ipotesi in matematica. Orbene, né lì né qui è il ragionamento che ci insegna i principi, ma qui è la virtù, sia naturale sia acquisita con l’abitudine, che ci insegna ad avere opinioni corrette sul principio. Dunque, [20] chi è fatto così è temperante, e l’intemperante è il suo contrario. Ma c’ chi, a causa della passione, esce fuori di sé, in contrasto con la retta ragione, uomo che la passione domina in modo da non permettergli di agire secondo la retta ragione, ma non fino al punto da renderlo capace di lasciarsi persuadere di dover perseguire tali piaceri senza ritegno. Questo è l’incontinente, migliore dell’intemperante, [25] e non puramente e semplicemente malvagio: qui, infatti, si salva la cosa migliore, il principio. Ma contrario a questo c’ un altro tipo di uomo, quello che resta in sé e non esce fuori di sé, per lo meno non a causa della passione. Da queste considerazioni, dunque, risulta manifesto che l’ultima è una disposizione virtuosa, l’altra è cattiva. 9. [Continenza, perseveranza, ostinazione]. È continente, dunque, colui che persiste in una ragione qualsiasi ed in una qualsiasi [30] scelta oppure colui che persiste nella retta scelta? E, viceversa, è incontinente colui che non persiste in una scelta qualsiasi e in una ragione qualsiasi, oppure colui che non persiste nella ragione non falsa e nella retta scelta? Questo è il problema come l’abbiamo posto prima 211 . Non dobbiamo forse dire che [35] l’uno persiste, l’altro non persiste in una scelta qualsiasi per accidente, di per sé, invece, nella ragione vera e nella scelta retta? Se, infatti, uno [1151b] sceglie o persegue questa cosa in vista di quest’altra, per sé persegue e sceglie quest’ultima, per accidente, invece, la prima. Ma con "per sé" intendiamo dire "in senso assoluto". Per conseguenza, è un’opinione qualsiasi quella in cui l’uno persiste e da cui l’altro si distacca, ma in senso assoluto è l’opinione vera. Ci sono, poi, di quelli che [5] sono perseveranti nella loro opinione, e li ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VII) chiamiamo ostinati, i quali sono difficili da persuadere, cioè non è facile persuaderli a cambiare. Essi hanno qualcosa di simile all’uomo incontinente, come il prodigo al liberale e il temerario al coraggioso, ma sono diversi per molti aspetti. L’uno, infatti, il continente, non cambia opinione solo per una passione o per un desiderio, [10] ché anzi, all’occasione, l’uomo continente si lascerà facilmente persuadere; gli altri, invece, gli ostinati, non si lasciano guidare dalla ragione, perché, se non altro, accolgono in sé desideri, e molti di loro si lasciano trascinare dai piaceri. Ed ostinati sono i testardi, gli ignoranti e i rustici; i testardi lo sono a causa del piacere e del dolore: essi, infatti, sono contenti della loro vittoria quando non [15] si sono lasciati indurre a mutare opinione, e soffrono quando le loro decisioni restano come decreti senza autorità. Per conseguenza, assomigliano di più all’incontinente che al continente. Ci sono alcuni, poi, che non persistono nelle loro opinioni, ma non per incontinenza, come, per esempio, Neottolemo nel Filottete di Sofocle.212 Certo, fu a causa di un piacere che egli non persistette, ma di un piacere bello; infatti, [20] dire la verità per lui era una cosa bella, ma fu persuaso a mentire da Ulisse. Infatti, non è che chiunque faccia qualcosa per piacere sia intemperante o perverso o incontinente, ma chi lo fa per un piacere vergognoso. C’, poi, anche chi è tale da godere dei piaceri corporali meno di quanto si deve, e che perciò non persiste nella ragione: [25] è tra questo e l’incontinente che sta in mezzo l’uomo continente; infatti, l’incontinente non persiste nella ragione per eccesso, quest’ultimo, invece, per difetto; l’uomo continente, al contrario, persiste e non cambia per nessuno dei due motivi. Se è vero che la continenza è virtuosa, bisogna che entrambe le disposizioni contrarie siano cattive, come pure risulta manifesto: [30] ma poiché una di esse si manifesta in pochi uomini e poche volte, come si ritiene comunemente che la temperanza è contraria soltanto all’intemperanza, così si deve ritenere anche che la continenza è contraria soltanto all’incontinenza. Poiché molte espressioni si usano per analogia, ne è derivato, per conseguenza, che si parla per analogia anche della continenza dell’uomo temperante: infatti, il continente [35] è uomo che non fa nulla contro la ragione a causa dei piaceri del corpo, [1152a] come pure il temperante, ma uno possiede cattivi desideri, l’altro, invece, no, e l’uno è tale da non godere in contrasto con la ragione, mentre l’altro è tale da godere, ma non da lasciarsi trascinare. E, pur essendo diversi, l’incontinente e l’intemperante sono d’altra parte simili: [5] entrambi perseguono i piaceri del corpo, ma l’uno pensa di doverlo fare, l’altro, invece, non lo pensa. 10. [Conclusioni su continenza e incontinenza]. La stessa persona non può essere insieme saggia e incontinente, giacché si è dimostrato che il saggio è insieme uomo di valore anche nel comportamento. Inoltre, uno è saggio non solo per il fatto di possedere un sapere teorico, ma anche per l’essere capace di metterlo in pratica: ma l’incontinente non è capace di metterlo in pratica. [10] Nulla, invece, impedisce che l’uomo abile sia incontinente, ed è per questo che talora alcuni sono ritenuti saggi ma incontinenti, perché l’abilità differisce dalla saggezza nel modo esposto nei nostri primi ragionamenti 213 , nel senso che sono vicini secondo la definizione, ma differiscono per via della scelta. L’incontinente, quindi, non è come quello che conosce e contempla, [15] ma come colui che dorme o è ubriaco. E agisce volontariamente (infatti, sa in qualche modo che cosa sta facendo ed in vista di che cosa lo fa), ma non è cattivo: la scelta, infatti, è buona; per conseguenza, è cattivo a metà. E non è ingiusto, giacché non è subdolo. Infatti, dei due tipi di incontinenti, l’uno non persiste in ciò che ha deliberato, mentre l’altro, il tipo eccitabile, non delibera affatto. E così [20] l’uomo incontinente assomiglia ad una città che decreta tutto ciò che si deve ed ha buone leggi, ma non le applica per niente, come diceva, scherzando, Anassandride 214 : "Lo voleva la città, cui non importa nulla delle leggi". L’uomo cattivo, invece, assomiglia ad una città che applica le leggi, ma ne applica di cattive. [25] L’incontinenza e la continenza riguardano ciò che costituisce un eccesso rispetto alla disposizione di carattere della massa: il continente, infatti, persevera di più, l’incontinente di meno di quanto sia nella possibilità della maggioranza degli uomini. Dei due tipi di incontinenza, quello da cui sono affetti gli uomini eccitabili è più facilmente correggibile che non quello di coloro che, sì, deliberano, ma non perseverano, e gli incontinenti per abitudine sono più facilmente correggibili di quelli che lo sono per natura. Infatti, è più facile [30] cambiare un’abitudine che non la natura: è proprio per questo che anche l’abitudine è difficile da cambiare, perché assomiglia alla natura, come dice anche Eveno :215 "Affermo che l’abitudine è un lungo esercizio, o amico, e che, dunque, questo finisce con l’essere per gli uomini come una natura" .216 S’ detto, dunque, che cosa siano continenza e incontinenza, forza di carattere [35] e mollezza, ed in che rapporto stiano fra di loro queste disposizioni. 11. [Il piacere: teorie correnti]. [1152b] Studiare piacere e dolore è di competenza del filosofo politico: è lui, infatti, l’architetto che determina il fine, guardando al quale noi chiamiamo ciascuna cosa buona o cattiva in senso assoluto 217 . Inoltre, l’indagine su questi oggetti è necessaria, [5] giacché abbiamo posto 218 che la virtù ed il vizio morale hanno per oggetto dolore e piacere, e la stragrande maggioranza degli uomini afferma che la felicità implica il piacere: per questo hanno dato all’uomo "beato" una denominazione che deriva da "bearsi" 219 . (1) Alcuni 220 , dunque, ritengono che nessun piacere sia un bene, né per sé né per accidente, giacché, dicono, bene [10] e piacere non sono la stessa cosa. (2) Altri 221 ritengono, sì, che alcuni piaceri sono buoni, ma che per la maggior parte sono cattivi. (3) Infine, una terza categoria di persone ritiene che, anche ammesso222 ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VII) che tutti i piaceri siano un bene, non è possibile che il sommo bene sia un piacere. (1) Dunque, il piacere, nel complesso, non è un bene, a) perché ogni piacere è un divenire, percepito dal soggetto, che conduce ad uno stato naturale, e, d’altra parte, nessun divenire appartiene allo stesso genere del suo fine: per esempio, il processo di costruzione di una casa non appartiene allo stesso genere [15] della casa. b) Inoltre, l’uomo temperante fugge i piaceri. c) Inoltre, il saggio persegue ciò che non provoca dolore, non ciò che è piacevole. d) Inoltre, i piaceri sono un ostacolo alla riflessione morale, e tanto più quanto più intenso è il godimento, come nel piacere sessuale: nessuno infatti potrebbe pensare alcunché mentre lo prova. e) Inoltre, non c’ alcuna arte del piacere: eppure ogni bene è opera di un’arte. f) Inoltre, bambini [20] e bestie perseguono i piaceri. (2) Dall’affermazione che non tutti i piaceri sono buoni il motivo addotto è a) che ce ne sono di vergognosi e biasimevoli, e b) che ce ne sono di dannosi, giacché alcune delle cose piacevoli producono malattie. (3) Infine, il motivo per cui il piacere non è il sommo bene è che non è un fine ma un divenire. Questo è, pressappoco, quello che si dice. 12. [Confutazione della teoria secondo cui il piacere non è un bene]. [25] Che poi da queste considerazioni non risulti che il piacere non è un bene 223 né il sommo bene 224 , è chiaro da quanto segue. A) Innanzi tutto 225 , poiché il termine "bene" ha due sensi (l’uno assoluto, l’altro relativo), anche le nature e le disposizioni avranno per conseguenza due sensi, e così anche i movimenti e le generazioni: e di quelli che sono ritenuti cattivi alcuni lo sono, sì, in generale, ma per qualche individuo [30] no, anzi per costui sono desiderabili; alcuni, poi, non sono desiderabili neppure per una persona determinata, se non qualche volta e per poco tempo, ma non sempre; altri, poi, non sono neppure piaceri, ma ne hanno solo l’apparenza: sono quelli accompagnati da dolore e che hanno come scopo, per esempio nel caso degli ammalati, la guarigione. B) Inoltre 226 , poiché una specie del bene è attività, mentre l’altra è disposizione, i processi che ci riportano nella disposizione naturale sono piacevoli solo per accidente; [35] ma l’attività che si realizza nei desideri è quella della disposizione naturale residua, poiché ci sono piaceri anche senza dolore e desiderio (come, per esempio, [1153a] quelli della contemplazione), quando la natura non manca di nulla. Ne è prova il fatto che gli uomini non godono del medesimo oggetto quando la loro natura si va ricostituendo e quando è ricostituita, ma, quando la natura è ricostituita, essi godono degli oggetti piacevoli in senso assoluto; quando, invece, si sta ricostituendo, godono anche dei loro contrari; [5] infatti, in questo caso, godono anche di sostanze aspre ed amare, nessuna delle quali è piacevole per natura o in senso assoluto. Per conseguenza, non lo sono neppure i piaceri, giacché la stessa differenza che c’ tra gli oggetti piacevoli, c’ pure tra i piaceri che ne derivano. C) Inoltre 227 , non è necessario che ci sia qualcosa di diverso, migliore del piacere, come alcuni dicono che il fine sia rispetto al processo generativo: i piaceri, infatti, non sono dei processi né sono tutti accompagnati da un processo, [10] ma sono attività, cioè un fine: noi li proviamo non perché diventiamo qualcosa ma perché esercitiamo qualche facoltà; e non di tutte le attività il fine è qualcosa di diverso da loro stesse, ma solo di quelle che conducono alla perfezione della natura. Perciò non va neanche bene dire che il piacere è un divenire percepito dal soggetto, ma bisogna piuttosto dire che esso è attività della disposizione secondo natura, [15] e al posto di "percepito" bisogna dire "non impedito". Alcuni 228 ritengono che il piacere sia un divenire, perché per loro è un bene in senso proprio; infatti, pensano che l’attività sia un divenire, mentre essa è un’altra cosa. Dire che ci sono piaceri cattivi perché alcune cose piacevoli sono causa di malattia, è lo stesso che dire229 che alcune cose che sono utili alla salute sono cattive dal punto di vista economico. Dunque, entrambe le cose sono cattive in questo senso, ma non lo sono per questo solo, [20] poiché anche il contemplare qualche volta danneggia la salute. Il piacere che deriva da ciascuna facoltà non ostacola né l’esercizio della saggezza né alcuna230 disposizione, ma sono i piaceri estranei che sono d’ostacolo, perché quelli che derivano dalla contemplazione e dall’apprendimento faranno sì che noi contempliamo e apprendiamo sempre di più. Che nessun piacere sia opera di un’arte è una cosa che accade logicamente: [25] l’arte, infatti, non ha231 per oggetto alcun’altra attività, ma solo la potenza: eppure l’arte del profumiere e quella del cuoco si ritiene che abbiano per oggetto il piacere. Il fatto che l’uomo temperante fugga i piaceri ed il saggio persegua la vita priva di dolore, e che i bambini232 e le bestie perseguano il piacere, tutte queste difficoltà sono risolte dal medesimo ragionamento. Poiché, infatti, si è detto 233 in che senso [30] i piaceri sono buoni in senso assoluto ed in che senso non sono tutti buoni: le bestie ed i bambini perseguono quelli che non sono buoni in senso assoluto, e il saggio persegue la mancanza di dolore derivante dall’assenza di questi, dei piaceri accompagnati da desiderio e da dolore, cioè quelli del corpo (ché questi sono di quel tipo) ed i loro eccessi, secondo cui l’intemperante è intemperante. È per questo che l’uomo temperante fugge questi piaceri, [35] giacché ci sono dei piaceri anche dell’uomo temperante. 13. [Piacere, bene, felicità]. [1153b] Ma anche che il dolore è un male e che deve essere fuggito è ammesso concordemente: infatti, da una parte c’ il dolore che è un male in senso assoluto, e dall’altra il dolore che è male per il fatto che in qualche modo è per noi un ostacolo. Ma il contrario di una cosa che si deve fuggire proprio in quanto è ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VIII) ARISTOTELE ETICA A NICOMACO LIBRO VIII 1. [Necessità dell’amicizia. Dottrine sull’amicizia]. [1155a] Dopo queste cose, dovrà far seguito una trattazione dell’amicizia, poiché essa è una virtù o è accompagnata da virtù, ed è, inoltre, radicalmente necessaria alla [5] vita. Infatti, senza amici, nessuno sceglierebbe di vivere, anche se possedesse tutti gli altri beni; anzi si ritiene comunemente che siano proprio i ricchi e i detentori di cariche e di poteri ad avere il più grande bisogno di amici: infatti, quale utilità avrebbe una simile prosperità, se fosse tolta quella possibilità di beneficare che si esercita soprattutto, e con molta lode, nei riguardi degli amici? Ovvero, come potrebbe essere salvaguardata [10] e conservata senza amici? Quanto più è grande, infatti, tanto più è esposta al rischio. E nella povertà e nelle altre disgrazie gli uomini pensano che l’unico rifugio siano gli amici. Essa poi aiuta 242 i giovani a non commettere errori, i vecchi a trovare assistenza e ciò che alla loro capacità d’azione viene a mancare a causa della debolezza, ed infine, coloro che sono nel fiore dell’età [15] a compiere le azioni moralmente belle: "Due che marciano insieme..." 243 , infatti, hanno una capacità maggiore sia di pensare sia di agire. E sembra che tale atteggiamento sia insito per natura nel genitore verso la prole e nella prole verso il genitore, non solo negli uomini, ma anche negli uccelli e nella maggior parte degli animali, negli individui appartenenti alla stessa specie fra di loro, [20] e soprattutto negli uomini, ragion per cui noi lodiamo coloro che amano gli altri esseri umani. E si può osservare anche nei viaggi come ogni uomo senta affinità ed amicizia per l’uomo. Sembra, poi, che sia l’amicizia a tenere insieme le città, ed i legislatori si preoccupano più di lei che della giustizia: infatti, la concordia sembra essere qualcosa di simile [25] all’amicizia; ed è questa che essi hanno soprattutto di mira, ed è la discordia, in quanto è una specie di inimicizia, che essi cercano soprattutto di scacciare. Quando si è amici, non c’ alcun bisogno di giustizia, mentre, quando si è giusti, c’ ancora bisogno di amicizia ed il più alto livello della giustizia si ritiene che consista in un atteggiamento di amicizia. E non solo è una cosa necessaria, ma è anche una cosa bella: infatti, [30] noi lodiamo coloro che amano gli amici, anzi si ritiene che l’avere molti amici sia qualcosa di bello; ed inoltre, si pensa che sono gli stessi uomini che sono buoni ed amici. Non pochi, poi, sono gli argomenti di discussione in materia di amicizia 244 . Alcuni, infatti, la definiscono come una specie di somiglianza e affermano che gli uomini simili sono amici, dal che deriva il detto che "il simile va col simile" 245 e "la cornacchia [35] va con la cornacchia", e simili; altri, al contrario, [1155b] affermano che tutti gli uomini che si assomigliano sono come dei vasai rispetto a vasai 246 . E su questi stessi argomenti conducono una ricerca più profonda, e fondata piuttosto su considerazioni naturalistiche, Euripide quando dice "la terra inaridita ama la pioggia, e il venerando cielo, pregno di pioggia, ama cadere sulla terra" 247 , ed Eraclito [5] quando dice che "l’opposto è utile", "dai suoni differenti nasce la più bella armonia" e "tutte le cose si generano dalla discordia" . In senso contrario a costoro, altri, e specialmente248 Empedocle , dicono: "è il simile che tende al simile". Orbene, questi problemi di carattere naturalistico249 lasciamoli a parte (giacché non sono appropriati alla presente ricerca). Occupiamoci, invece, dei problemi riguardanti l’uomo [10] e che concernono i caratteri e le passioni: ad esempio, se l’amicizia nasce in tutti gli uomini, ovvero non è possibile che gli uomini malvagi siano amici, e se c’ una sola specie di amicizia o più. Infatti, coloro che pensano che ce ne sia una sola, perché ammette il più ed il meno, danno credito ad un indizio insufficiente, giacché ammettono [15] il più ed il meno anche cose che sono differenti per specie. Ma di queste cose si è trattato precedentemente .250 2. [I tre motivi dell’amicizia: bene, piacere, utilità]. A questo proposito ci sarà chiarezza una volta conosciuto ciò che è degno di essere amato. Si ritiene, infatti, che non ogni cosa è amata, ma solo ciò che è degno di essere amato, e che questo è buono o piacevole o utile: si ammetterà che utile [20] è ciò da cui deriva un bene o un piacere, cosicché degni di essere amati saranno il bene ed il piacere intesi come fini. Orbene, gli uomini amano il bene in sé o ciò che è bene per loro? Talora, infatti, si tratta di cose discordanti. Lo stesso vale anche per il piacevole. Si riconosce che [25] ciascuno ama ciò che è bene per lui, e che in senso assoluto è il bene che è degno di essere amato, ma in senso relativo a ciascun uomo lo è ciò che è bene per lui: ma ciascuno ama non ciò che è bene per lui, ma ciò che gli appare tale. Ma non ha importanza: infatti, degno di essere amato sarà ciò che tale appare 251 . Essendo, dunque, questi tre i motivi per cui si ama, per l’affezione alle cose inanimate non si usa il termine "amicizia": esse, infatti, non possono ricambiarci l’affezione, né noi possiamo volere un bene per loro 252 (giacché sarebbe certamente ridicolo volere il bene per il vino; [30] ma se pur così è, ciò che si vuole è che esso si conservi, per averlo per noi); si dice, invece, che bisogna volere il bene per l’amico per lui stesso. Ma quelli che così vogliono il bene degli altri si chiamano benevoli 253 , anche se non vengono da quegli altri ricambiati: la benevolenza, infatti, è amicizia solo quando è reciproca. O non bisogna aggiungere anche "quando non rimane nascosta"? Molti, infatti, [35] sono benevoli verso uomini che non hanno visto mai, ma ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VIII) che giudicano virtuosi, [1156a] o utili: questo medesimo sentimento potrebbe provare per loro uno di quelli. Costoro, dunque, sono manifestamente benevoli gli uni verso gli altri: ma come si potrebbe chiamarli amici, se tengono nascosto l’uno all’altro il proprio sentimento? Bisogna dunque, per essere amici, essere benevoli gli uni verso gli altri e non nascondere di volere il bene l’uno dell’altro, [5] per uno dei motivi che abbiamo detto .254 3. [Le tre specie dell’amicizia]. Ma questi motivi differiscono tra loro per specie: quindi, anche le affezioni e le amicizie. Per conseguenza, le specie dell’amicizia sono tre, di numero uguale agli oggetti degni di essere amati: per ciascuna classe di essi, infatti, c’ una reciproca palese affezione, e quelli che si amano reciprocamente vogliono l’uno il bene dell’altro, [10] bene specificato dal motivo per cui si amano. Orbene, quelli che si amano reciprocamente a causa dell’utilità, non si amano per se stessi, ma in quanto ne deriva loro, reciprocamente, un qualche bene. Parimenti nel caso in cui si amino a causa del piacere: infatti, essi non amano gli uomini spiritosi per il fatto che posseggono quella determinata qualità, ma perché a loro risultano piacevoli. Dunque, coloro che amano a causa dell’utile, [15] amano a causa di ciò che è bene per loro, e quelli che amano per il piacere lo fanno per ciò che è piacevole per loro, e non in quanto l’amato è quello che è, ma in quanto è utile o piacevole. Per conseguenza, queste amicizie sono accidentali: infatti, non è in quanto è quello che è che l’amato è amato, ma in quanto procura un bene o un piacere. Per conseguenza, le amicizie di tale natura si dissolvono facilmente, [20] perché gli amici non rimangono uguali a se stessi: se, infatti, uno non è più utile o piacevole, l’altro cessa di amarlo. E l’utile non è costante, ma è diverso di volta in volta. Quindi, svanito il motivo per cui erano amici, si dissolve anche l’amicizia, dal momento che l’amicizia sussiste in relazione a quei fini. Si riconosce che [25] l’amicizia di questo tipo sorge soprattutto tra i vecchi (giacché gli uomini di tale età non perseguono più il piacevole ma l’utile), e negli uomini maturi e nei giovani sorge solo tra quelli che perseguono l’utile. Ma non è che costoro vivano molto in compagnia gli uni degli altri. Talora, infatti, non riescono piacevoli gli uni agli altri: perciò non sentono neppure il bisogno di tale compagnia, a meno che questi amici non siano utili. Infatti, in tanto [30] risultano piacevoli gli uni agli altri, in quanto hanno la speranza di un bene. Tra queste amicizie viene posta anche quella verso gli ospiti. Invece, si ritiene che l’amicizia dei giovani sia causata dal piacere: questi, infatti, vivono sotto l’influsso della passione, e perseguono soprattutto ciò che è per loro un piacere immediato. Ma col procedere dell’età anche le cose che fanno piacere diventano diverse. È per questo che i giovani rapidamente diventano [35] amici e rapidamente cessano di esserlo: infatti, l’amicizia muta insieme col mutare di ciò che fa piacere, [1156b] e il mutamento di un tale tipo di piacere è rapido. Inoltre, i giovani sono inclini alla passione amorosa, giacché gran parte del sentimento amoroso segue la passione e deriva dal piacere: perciò essi s’innamorano e cessano d’amare rapidamente, mutando sentimento più volte nello stesso giorno. Essi, però, [5] vogliono passare insieme i loro giorni e la vita intera: è in questo modo, infatti, che si procurano ciò che si ripromettono dall’amicizia. L’amicizia perfetta, invece, è l’amicizia degli uomini buoni e simili per virtù: costoro, infatti, vogliono il bene l’uno dell’altro, in modo simile, in quanto sono buoni, ed essi sono buoni per se stessi. Coloro che vogliono il bene [10] degli amici per loro stessi sono i più grandi amici; infatti, provano questo sentimento per quello che gli amici sono per se stessi, e non accidentalmente. Orbene, l’amicizia di costoro perdura finché essi sono buoni, e, d’altra parte, la virtù è qualcosa di permanente. E ciascuno è buono sia in senso assoluto sia in relazione al suo amico, giacché i buoni sono sia buoni in senso assoluto sia utili gli uni agli altri. E come sono buoni, sono anche [15] piacevoli, giacché i buoni sono piacevoli sia in senso assoluto sia gli uni in relazione agli altri: infatti, per ciascuno sono fonte di piacere le azioni conformi alla sua natura e quelle dello stesso tipo, e le azioni dei buoni sono appunto identiche o simili. E una tale amicizia, naturalmente, è permanente, giacché congiunge in sé tutte le qualità che gli amici devono possedere. Infatti, ogni amicizia è causata da un bene [20] o da un piacere, o in senso assoluto o in relazione a colui che ama, e si fonda su una certa somiglianza. Ma in questa amicizia si trovano tutte le cose suddette in virtù di ciò che gli amici sono per se stessi: in questa, infatti, gli amici sono simili, e c’ pure il resto (il buono e il piacevole in senso assoluto), e sono soprattutto questi gli oggetti degni di essere amati; per conseguenza, in questi uomini anche l’amore e l’amicizia sono del massimo livello e della migliore qualità. Ma è [25] naturale che simili amicizie siano rare, giacché pochi sono gli uomini di tale natura. Inoltre, richiede tempo e consuetudine di vita comune: secondo il proverbio, infatti, non è possibile conoscersi reciprocamente finché non si è consumata insieme la quantità di sale di cui parla appunto il proverbio. Per conseguenza, non è possibile accogliersi come amici, né essere amici, prima che ciascuno si sia manifestato all’altro degno di essere amato e prima che ciascuno abbia ottenuto la confidenza dell’altro. E coloro che [30] si scambiano rapidamente l’un l’altro i segni dell’amicizia, vogliono, sì, essere amici, ma non lo sono, se non sono anche degni di essere amati e se non lo sanno: infatti, la volontà di amicizia sorge rapidamente, ma non l’amicizia. 4. [Confronto fra le tre specie di amicizia. Loro durata]. Questa amicizia, dunque, è perfetta sia per la durata sia per il resto, e sorge dal fatto che ciascuno riceve [35] dall’altro cose identiche da tutti i punti di vista o simili; il che è ciò che deve accadere tra amici. [1157a] L’amicizia, poi, che deriva dal piacere ha somiglianza con questo, giacché anche i buoni risultano piacevoli gli uni agli altri. Lo stesso vale anche per l’amicizia che nasce dall’utilità, giacché i buoni sono ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VIII) anche utili gli uni agli altri. Ma anche in questi due ultimi casi le amicizie hanno la massima durata quando gli uni ricevono dagli altri la stessa cosa, per esempio [5] il piacere, e non soltanto la stessa cosa, ma anche derivata da una stessa causa, come, per esempio, accade tra gli uomini spiritosi, e non come accade tra amante ed amato. Infatti, questi non godono delle stesse cose, ma l’uno prova piacere a guardare l’amato, l’altro ad essere corteggiato dall’amante. Ma quando il fiore dell’età appassisce, talora viene meno anche l’amicizia (giacché per l’uno non è più piacevole [10] la vista dell’amato, e per l’altro vien meno il corteggiamento dell’amante). Ma molti, d’altra parte, persistono nell’amicizia, se in base alla consuetudine finiscono con l’amare i rispettivi caratteri, essendo divenuti simili fra di loro. Coloro, poi, che nei loro rapporti amorosi non si scambiano piacere, ma utilità, sono meno amici e meno costanti. Infine, l’amicizia di quelli che sono amici a causa dell’utilità [15] si dissolve insieme con l’interesse che la suscita, giacché essi non sono amici l’uno dell’altro, ma del profitto. A causa del piacere e dell’utilità, quindi, è possibile che siano amici sia uomini cattivi tra di loro, sia uomini virtuosi con uomini cattivi, sia chi non è né l’uno né l’altro con qualunque tipo d’uomo, ma è chiaro che solo i buoni possono essere amici per quello che sono in se stessi: i viziosi, infatti, non ricevono alcuna gioia gli uni dagli altri, [20] a meno che non ne derivi un qualche vantaggio. E soltanto l’amicizia tra gli uomini buoni non può essere incrinata dalla calunnia, giacché non è facile prestar fede ad alcuno a proposito di un uomo che si è da se stessi per lungo tempo messo alla prova; è in questi uomini che si trova la fiducia, la disposizione a non farsi mai reciprocamente ingiustizia, e tutto quello che è considerato un valore nell’amicizia autentica. Nelle altre amicizie, invece, [25] non c’ nulla che impedisce che tali cose avvengano. Poiché, infatti, gli uomini chiamano amici sia quelli che lo sono per l’utile, come fanno le città (giacché si sa che le alleanze militari le città le fanno in vista del vantaggio che ne deriva), sia coloro che si amano tra di loro per il piacere, come i bambini, forse anche noi dobbiamo parlare di amicizia in simili casi. [30] Ma dobbiamo anche dire che ci sono molte specie di amicizia, e prima di tutto e in senso proprio quella dei buoni in quanto buoni, e poi, per somiglianza, tutte le altre, giacché in tanto si è amici, in quanto c’ un qualcosa di buono e di simile; anche il piacevole, infatti, è un bene per chi ama il piacere. Ma queste due specie di amicizia non sono affatto convergenti, e non sono gli stessi uomini quelli che sono amici per l’utilità [35] e quelli che lo sono per il piacere, perché non capita spesso che si trovino accoppiate le qualità accidentali. [1157b] Ma una volta divisa l’amicizia in queste specie, diremo che gli uomini malvagi sono amici per il piacere o per l’utilità, essendo in questo simili, mentre i buoni sono amici per se stessi, cioè in quanto buoni. Questi ultimi, dunque, saranno amici in senso assoluto; quelli, invece, per accidente e [5] per il fatto che assomigliano ai buoni. 5. [L’amicizia come disposizione e come attività. L’intimità]. Come per quanto riguarda le virtù alcuni sono chiamati buoni in base ad una disposizione del loro carattere, altri in base ad una effettiva attività, così avviene anche nel caso dell’amicizia: infatti, alcuni vivono insieme procurandosi gioia a vicenda e facendo il bene l’uno dell’altro, altri, invece, in quanto dormono o sono separati dalla distanza, non esercitano in atto l’amicizia, [10] ma hanno la disposizione a farlo: la distanza, infatti, non fa cessare l’amicizia in senso assoluto, ma soltanto il suo effettivo esercizio. Ma se l’assenza dura nel tempo, essa, si ammette, fa dimenticare anche l’amicizia. Di qui il detto: "Molte amicizie, dunque, ha fatto cessare l’impossibilità di parlarsi". I vecchi, poi, e gli uomini di carattere acido, manifestamente, non sono inclini all’amicizia: infatti, c’ poco [15] di piacevole in loro, e nessuno può passare la sua giornata in compagnia di chi è affligente e di chi non è piacevole, perché è manifesto che la natura soprattutto rifugge da ciò che è penoso, e tende, invece, a ciò che è piacevole. Quelli, poi, che sono disposti ad accettarsi reciprocamente, ma non vivono insieme, sono simili più a uomini benevoli che ad amici. Niente, infatti, è così tipico degli amici come il vivere insieme [20] (l’aiuto, infatti, lo desiderano quelli che ne hanno bisogno, ma trascorrere insieme il tempo lo desiderano anche gli uomini felici, giacché ad essi non si addice affatto rimanere solitari). Ma non è possibile passare la vita insieme, gli uni in compagnia degli altri, se non si è piacevoli e se non si gode delle medesime cose: è in questo, si ritiene, che consiste il cameratismo. [25] L’amicizia, dunque, è soprattutto quella dei buoni, come s’ detto più volte. Si ritiene comunemente, infatti, che degno di essere amato e scelto è il bene o il piacere, in generale, ma per ciascuno ciò che è buono e piacevole per lui: e l’uomo buono è amato e scelto dall’uomo buono per entrambi questi motivi. L’affezione assomiglia ad una passione, l’amicizia ad una disposizione, giacché l’affezione è rivolta anche [30] agli esseri inanimati, ma ricambiare l’amore implica una scelta, e la scelta dipende da una disposizione del carattere. E gli uomini vogliono il bene delle persone amate proprio per amor loro, non seguendo una passione ma per intima disposizione. Ed amando l’amico amano ciò che è bene per loro stessi, giacché l’uomo buono, divenuto amico, diventa un bene per colui di cui è diventato amico. Ciascuno dei due, [35] dunque, ama ciò che è bene per lui, e ricambia l’altro in ugual misura, col volere il suo bene e col procurargli piacere: si dice, infatti, "amicizia è uguaglianza", e questa c’ soprattutto nell’amicizia tra uomini buoni. 6. [L’amicizia perfetta e le altre forme di amicizia]. [1158a] Negli uomini di carattere acido ed in quelli che sono vecchi per temperamento l’amicizia nasce tanto meno quanto più sono scorbutici e quanto meno hanno il gusto delle relazioni sociali: si ritiene, infatti, che siano queste le cose che più di tutte dimostrano e producono amicizia. È per questo [5] che i giovani diventano presto amici, ed i vecchi, invece, no: non si diventa amici, infatti, di coloro dai quali non si riceve ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VIII) vista di qualche vantaggio, cioè per procurarsi qualcosa che serve alla loro vita; anche la comunità politica si ritiene che si sia costituita fin da principio e perduri in vista dell’utilità: è a questa, infatti, che mirano anche i legislatori, e dicono che è giusto ciò che è di utilità generale. Le altre comunità [15] hanno di mira l’interesse particolare: per esempio, i naviganti mirano all’utile che traggono dalla navigazione diretta ad un acquisto di ricchezza o qualcosa di simile, i camerati mirano all’utile che traggono dalla guerra, desiderando ricchezza e vittoria, oppure una città, e lo stesso fanno i membri di una stessa tribù o di uno stesso demo [Alcune comunità si ritiene che sorgano per un piacere, come quelle degli appartenenti ad un tiaso260 261 [20] o ad una associazione conviviale : queste, infatti, hanno come scopo quello di offrire un sacrificio e262 quello di stare insieme. Tutte queste comunità sembrano essere subordinate alla comunità politica, giacché la comunità politica non mira soltanto al vantaggio presente, ma a ciò che è utile alla vita intera 263 .], quando fanno sacrifici e riunioni ad essi relative, rendendo i dovuti onori agli dèi, [25] e procurando a se stessi piacevoli periodi di riposo. Infatti, i sacrifici e le riunioni di origine antica hanno luogo, manifestamente, dopo la raccolta dei frutti, come offerta di primizia, giacché è soprattutto in quei periodi dell’anno che gli uomini hanno tempo per lo svago. Dunque, tutte le comunità sono manifestamente parti di quella politica, e le specie particolari di amicizia corrisponderanno [30] alle specie particolari di comunità. 10. [Analogia tra costituzioni politiche e strutture familiari]. Ci sono tre specie di costituzione, ma anche altrettante deviazioni , intese come degenerazioni delle264 prime. Le costituzioni sono il regno e l’aristocrazia da una parte, e, dall’altra, in terzo luogo, quella che si basa sul censo, che è manifestamente appropriato chiamare "costituzione timocratica", [35] mentre i più sono soliti denominarla semplicemente "costituzione". Di queste, la migliore è il regno, la peggiore è la timocrazia . Deviazione del regno è [1160b] la tirannide: tutt’e due, infatti, sono monarchie, ma c’ tra265 loro una grandissima differenza, perché il tiranno mira al proprio interesse, il re a quello dei sudditi. Non è, infatti, un vero re colui che non è autosufficiente e che non è superiore per ogni tipo di bene: [5] ma chi è tale non ha bisogno di nulla; avrà, dunque, di mira non il suo interesse personale, ma quello dei sudditi; chi, infatti, non ha tali qualità, sarà re solo di nome . La tirannide, invece, è il contrario di questa costituzione,266 giacché il tiranno persegue ciò che è bene per lui. E per quanto la riguarda è anche più evidente che è la costituzione peggiore perché il peggiore è il contrario del migliore. [10] D’altra parte, dal regno si trapassa nella tirannide, giacché la tirannide è la perversione della monarchia, ed il cattivo re diviene un tiranno. Dalla aristocrazia, poi, si passa nell’oligarchia per il fatto che sono viziosi i governanti, i quali distribuiscono ciò che appartiene alla città senza tener conto del merito, e attribuiscono tutti o la maggior parte dei beni a se stessi, e le cariche pubbliche [15] sempre alle stesse persone, tenendo nel massimo conto il fatto che siano ricche: per conseguenza, sono pochi e perversi quelli che comandano, al posto dei più degni. Dalla timocrazia si passa alla democrazia, giacché queste due costituzioni hanno gli stessi confini: la timocrazia, infatti, vuol essere governo della maggioranza, e uguali sono tutti quelli che hanno un determinato censo. Delle costituzioni corrotte, poi, la meno cattiva è [20] la democrazia, giacché la forma di questa costituzione è deviante di poco. Orbene, è per lo più in questo modo che le costituzioni si trasformano: queste, infatti, sono le trasformazioni più piccole e più facili. Somiglianze con le costituzioni, che, anzi, fungono quasi da modelli, si potranno trovare anche nelle comunità familiari. Infatti, la comunità che c’ tra padre e figli [25] ha la struttura di un regno, giacché il padre ha cura dei figli. È per questo che anche Omero chiama Zeus "padre": il regno vuol essere un’autorità paterna. Tra i Persiani, invece, l’autorità del padre è tirannica: trattano i figli come schiavi. Tirannica, poi, è anche l’autorità del padrone nei riguardi degli schiavi: [30] in essa, infatti, si fa solo l’interesse del padrone. Ma mentre quest’ultima autorità è manifestamente corretta, quella dei Persiani, invece, è errata, giacché differenti devono essere i modi di governare uomini <socialmente> differenti. La comunità di marito e moglie è manifestamente di tipo aristocratico: il marito, infatti, esercita l’autorità conformemente al suo merito, e nell’ambito in cui è il marito che deve comandare; quanto invece si addice alla moglie, [35] lo lascia a lei. Il marito, invece, che comanda su tutto trasforma la comunità matrimoniale in oligarchia, perché fa questo al di là del suo merito, cioè [1161a] non per quanto è superiore alla moglie. Talvolta, poi, comandano le mogli, quando sono delle ereditiere: quindi, la loro autorità non deriva dal valore personale, ma si fonda sulla ricchezza e sul potere, proprio come nelle oligarchie. La comunità dei fratelli assomiglia a quella timocratica: essi, infatti, sono uguali, tranne che nella misura in cui [5] differiscono per età; perciò, se la differenza d’età è grande, non sorge più l’amicizia fraterna. La democrazia, infine, si trova soprattutto nelle case dove non c’ un padrone (giacché qui sono tutti su un piano di uguaglianza) e in quelle in cui chi comanda è debole e ciascuno può fare quello che vuole. 11. [Costituzioni politiche, strutture familiari, e corrispondenti forme di amicizia]. [10] È manifesto che in ciascun tipo di costituzione c’ amicizia nella misura in cui c’ anche giustizia. L’amicizia tra un re ed i suoi sudditi sta nel fatto che il re fa loro più benefici di quanti non ne riceva: egli, infatti, fa del bene ai sudditi, se, essendo buono, si prende cura di loro, per farli star bene, come un pastore si prende cura delle sue pecore; perciò anche Omero 267 chiamò [15] Agamennone "pastore di popoli". Di tal natura è anche l’amicizia di un padre: differisce, però, per la grandezza dei benefici, giacché egli dona ai figli l’esistenza, che è ritenuta il più grande dei beni, e nutrimento ed educazione. E questi benefici si attribuiscono anche ai progenitori. Inoltre, è per natura che il padre ha autorità sui figli, i progenitori sui ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VIII) discendenti, il re sui sudditi. [20] Ma queste amicizie si fondano su una superiorità, ed è perciò che i genitori vengono anche onorati . Per conseguenza, anche la giustizia, in esse, non è la stessa cosa, ma varia col268 merito: così, infatti, varia anche l’amicizia. L’amicizia tra marito e moglie è la stessa che c’ anche nel regime aristocratico, giacché è corrispondente al valore personale, e al migliore ne va di più, e a ciascuno quanto ne conviene: [25] ma è così anche per la giustizia. L’amicizia tra fratelli, poi, assomiglia a quella tra compagni d’arme, perché sono uguali e vicini d’età, e quelli che hanno queste qualità hanno per lo più passioni e caratteri simili. Ma assomiglia a questa anche l’amicizia corrispondente alla costituzione timocratica, giacché in essa i cittadini vogliono essere uguali e virtuosi: per conseguenza, il potere è esercitato a turno, e su una base d’uguaglianza; così, quindi, [30] si caratterizza anche l’amicizia corrispondente. E nelle deviazioni, come la giustizia si riduce a poco, così anche l’amicizia, e la più piccola si trova nella costituzione peggiore: nella tirannide, infatti, non c’ affatto amicizia o ce n’ poca. Quando non c’ nulla di comune tra chi governa e chi è governato, non c’ neppure amicizia tra loro, giacché non c’ giustizia: per esempio, tra artigiano e strumento, [35] tra anima e corpo , tra padrone e schiavo: [1161b]269 infatti, tutte queste cose ricevono delle cure da parte di chi le usa, ma verso esseri inanimati non è possibile né amicizia né giustizia. Ma neppure verso un cavallo o un bue, né verso uno schiavo in quanto schiavo. Non c’ niente di comune, infatti, in quanto lo schiavo è uno strumento animato, e lo strumento è uno schiavo inanimato. [5] Quindi, non è possibile amicizia verso di lui in quanto è schiavo, ma è possibile in quanto è uomo: si ritiene, infatti, che ogni uomo può avere un rapporto di giustizia con chiunque abbia la possibilità di avere in comune con lui una legge o un patto; e, per conseguenza, si potrà avere anche un rapporto d’amicizia con uno schiavo nella misura in cui questi è un uomo. Quindi, è in piccola misura che anche nelle tirannidi sono possibili le amicizie e la giustizia, mentre nelle democrazie [10] sono possibili in misura maggiore, perché tra coloro che sono uguali sono molte le cose in comune. 12. [I rapporti di amicizia tra parenti]. Ogni amicizia, dunque, si realizza in una comunità, come s’ detto 270 . Ma si potrebbero escludere l’amicizia tra parenti e quella tra compagni d’arme. Ma le amicizie tra concittadini, tra membri di una stessa tribù, tra compagni di navigazione e simili, sono le più somiglianti ad amicizie fondate su una comunanza di interessi, [15] giacché è manifesto che nascono da una specie d’accordo. Tra queste si potrebbe classificare anche l’amicizia tra ospiti. E l’amicizia tra parenti ha, manifestamente, più forme, ma è tutta connessa con quella paterna: i genitori, infatti, amano i figli perché li considerano come una parte di se stessi, e i figli amano i genitori perché sono un qualcosa che da essi deriva. [20] I genitori, però, sanno che i figli sono stati generati da loro più che i figli non sappiano che è da quelli che sono stati generati, e il generante sente di più il legame di appartenenza col generato di quanto il generato lo senta col generante: infatti, ciò che deriva da qualcuno appartiene a colui da cui deriva (per esempio, un dente, un capello, qualunque cosa, appartengono a chi l’ha); ma il generante non appartiene affatto al generato, o gli appartiene in misura minore. E c’ differenza anche per la durata temporale: [25] i genitori, infatti, amano i figli appena nati, mentre questi amano i genitori solo quando è passato del tempo, e quando hanno acquistato giudizio o sensibilità. Da queste considerazioni risulta chiaro anche per quali ragioni le madri amano di più. I genitori, dunque, amano i figli come se stessi (giacché i figli nati da loro sono come degli altri se stessi, altri per il fatto di essere separati), e i figli amano i genitori perché hanno avuto origine da loro, [30] e i fratelli si amano l’un l’altro perché hanno avuto origine dagli stessi genitori, giacché l’identità del loro rapporto con quelli stabilisce un’identità tra di loro; perciò si dice "di uno stesso sangue", "di una stessa radice", e simili. Pertanto, essi sono in certo qual modo una stessa cosa, benché in individui distinti. Molto, poi, contribuiscono all’amicizia sia il fatto di essere allevati insieme, sia la vicinanza d’età, giacché il coetaneo ama il coetaneo, [35] e quelli che vivono insieme diventano camerati; perciò, anche l’amicizia tra fratelli è simile a quella tra camerati. [1162a] I cugini, infine, e gli altri parenti si trovano uniti da vincoli che derivano da fratelli, e ciò per il fatto che derivano dai medesimi progenitori. E sono più o meno intimi a seconda che siano vicini o lontani rispetto al capostipite. L’amicizia dei figli verso i genitori [5] e degli uomini verso gli dèi è come un’amicizia verso un essere buono e superiore: essi, infatti, hanno loro dato i benefici più grandi, giacché sono gli autori della loro esistenza, del loro allevamento, e, mentre crescono, della loro educazione. L’amicizia tra padri e figli, poi, è più piacevole e più vantaggiosa che quella tra estranei, nella misura in cui tra i primi c’ maggiore comunanza di vita. [10] Nell’amicizia fraterna, poi, ci sono gli stessi elementi che nell’amicizia tra camerati, soprattutto quando questi sono virtuosi, e quando in generale si assomigliano, in quanto sono più intimi e si trovano ad amarsi reciprocamente fin dalla nascita, ed in quanto sono più simili le abitudini di vita di quelli che derivano dai medesimi genitori, e che sono stati allevati insieme ed educati allo stesso modo; e la prova del tempo è in questo caso la più decisiva [15] e la più sicura. Tra gli altri parenti, infine, i rapporti di amicizia sono proporzionati al grado di parentela. L’amicizia tra marito e moglie, si riconosce, è naturale: l’uomo, infatti, è per sua natura più incline a vivere in coppia che ad associarsi politicamente, in quanto la famiglia è qualcosa di anteriore e di più necessario dello Stato, e l’istinto della procreazione è più comune tra gli animali. [20] Ma mentre per gli altri animali la comunità giunge solo fino alla procreazione, gli uomini si mettono a vivere insieme non solo per generare dei figli, ma anche per provvedere alle necessità della vita. Fin dall’inizio, infatti, si dividono le funzioni: quelle del marito sono diverse da quelle della moglie, quindi si aiutano l’un l’altro, ponendo in comune le ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO VIII) specifiche qualità personali. Per questi motivi si ritiene che [25] in questa amicizia ci siano sia l’utilità sia il piacere. Ed essa può fondarsi sulla virtù, quando gli sposi sono persone per bene: c’ infatti una virtù propria di ciascuno di loro, ed essi ne proveranno gioia. Infine, i figli sono ritenuti un legame: è per questo che i coniugi senza figli si separano più rapidamente; i figli, infatti, sono un bene comune ad entrambi, e ciò che è comune tiene uniti. Cercare come si deve comportare il marito [30] verso la moglie ed in generale l’amico verso l’amico, non significa nient’altro, manifestamente, che cercare qual è il comportamento giusto; è manifesto, infatti, che il comportamento giusto per l’amico verso un altro amico, verso un estraneo, un compagno d’arme o un compagno di scuola non è lo stesso. 13. [L’amicizia fondata sull’utilità]. Ci sono, dunque, tre specie d’amicizia, come s’ detto in principio 271 , [35] e di ciascuna di esse ci sono amici in rapporto d’uguaglianza o in rapporto di superiorità (infatti, divengono amici sia uomini ugualmente buoni, sia [1162b] uno migliore con uno peggiore, e allo stesso modo uomini piacevoli ed utili, sia uguagliandosi con lo scambio di vantaggi anche quando sono diversi). Gli amici uguali devono amare in modo uguale ed uguagliarsi anche nel resto; quelli disuguali devono rendere ogni cosa in proporzione alla superiorità dell’altro. [5] Accuse e rimproveri nascono solamente, o soprattutto, nell’amicizia fondata sull’utilità, ed è ovvio. Infatti, quelli che sono amici sul fondamento della virtù desiderano fare del bene l’uno all’altro (giacché questo è proprio della virtù e dell’amicizia), ma, pur gareggiando in questo, non ci sono tra loro né accuse né contese, perché [10] nessuno si adira con chi lo ama e gli fa del bene, ma, se è di fine sentimento, lo ricambia facendogli a sua volta del bene. E chi fa più bene, ottenendo ciò cui aspira, non può lamentarsi dell’amico, giacché ciascuno desidera il bene. E neppure tra amici a causa del piacere ci sono contese: infatti, ottengono entrambi insieme quello che desiderano, se il loro godimento sta nel vivere insieme: sarebbe manifestamente ridicolo [15] chi rimproverasse all’altro di non essere piacevole, dal momento che ha la possibilità di non passare le sue giornate con quello. Invece l’amicizia fondata sull’utilità può dar luogo ad accuse, perché qui gli amici sono in reciproca relazione in vista di un vantaggio e chiedono sempre di più, e credono sempre di ricevere meno del dovuto, e rinfacciano all’altro di non ottenere da lui tanto quanto chiedono, pur essendone meritevoli. [20] E, d’altra parte, coloro che fanno i benefici non possono soddisfare tutte le richieste di quelli che i benefici li ricevono. E sembra che, come la giustizia è di due specie, quella non scritta e quella secondo la legge positiva 272 , anche dell’amicizia fondata sull’utile ci siano due specie, una morale e una legale. Orbene, le accuse nascono soprattutto quando le amicizie non sono strette col medesimo tipo di rapporto secondo cui, poi, [25] sono messe in esecuzione 273 . L’amicizia legale si fonda su patti espliciti ed è di due specie: quella strettamente commerciale si realizza come scambio immediato da mano a mano, l’altra, più liberale, concede del tempo, dopo aver stabilito la proporzione tra il prezzo e la merce. In quest’ultimo tipo di rapporto il debito è chiaro e non equivoco, anzi c’ qualcosa di amichevole nella proroga del pagamento: è per questo che presso certi popoli non c’ la possibilità di adire in giudizio per queste cose, [30] ma si pensa che coloro che stringono patti sulla fiducia debbano rassegnarsi al rischio. L’amicizia morale, invece, non si fonda su un patto esplicito, ma, sia che si faccia un dono, sia che si renda un qualsiasi altro servigio a qualcuno, glielo si fa in quanto amico: tuttavia, si pensa di meritare di ricevere altrettanto o di più, come se non si fosse fatto un dono ma un prestito; e chi avrà stretto amicizia in modo diverso da come questa sarà messa in esecuzione solleverà delle accuse. Questo succede [35] per il fatto che tutti, o i più, vogliono il bello, ma scelgono invece l’utile; e, d’altra parte, bello è fare il bene [1163a] senza avere di mira un contraccambio, mentre è utile ricevere dei benefici. Chi può, dunque, deve contraccambiare il valore di ciò che ha ricevuto (non dobbiamo, infatti, farci uno amico contro la sua volontà; quindi, bisogna comportarsi come se ci si fosse sbagliati all’inizio e si fosse ricevuto del bene da chi non si sarebbe dovuto riceverlo, perché non era nostro amico né [5] uno che lo facesse per il solo gusto di donare; bisognerà, quindi, ripagare colui che ci ha beneficati, come se ci fosse stato un patto esplicito). E l’accordo dovrebbe consistere nell’impegno di contraccambiare se si può: d’altra parte, neppure il benefattore lo esigerebbe, se l’altro non può. Cosicché, se è possibile, bisogna contraccambiare. Fin dal principio, però, bisogna badar bene alla persona da cui si riceve un beneficio ed a quali condizioni, per sottostarvi o rifiutarle. C’ poi la questione [10] se si deve misurare il beneficio con il vantaggio di chi lo riceve e proporzionare ad esso il contraccambio, oppure se si deve commisurarlo alla benevolenza di chi lo fa. I beneficati, in effetti, dicono di aver ricevuto dai benefattori cose che erano per questi ultimi di poco valore e che sarebbe stato possibile ricevere da altri, minimizzandole; d’altra parte, [15] i benefattori affermano, al contrario, di aver donato i loro beni più grandi, e che non sarebbe stato possibile ricevere da altri che da loro, sia nel momento del pericolo sia in simili situazioni di bisogno. Dunque, se l’amicizia ha per fondamento l’utile, non si dovrà dire che la misura è il vantaggio di chi riceve? Questi è, infatti, colui che ha bisogno, e il benefattore lo soccorre con l’intenzione di riceverne un vantaggio uguale. Quindi, l’aiuto è stato tanto grande quanto il vantaggio di chi l’ha ricevuto, [20] e, per conseguenza, si dovrà restituire al benefattore tanto quanto se ne è ricevuto, o anche di più: è più bello. Al contrario, nelle amicizie fondate sulla virtù non c’ luogo per accuse, ma ciò che funge da misura è la scelta del benefattore, perché l’elemento principale della virtù e del carattere sta nella scelta 274 . ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO IX) svariate differenze per grandezza, piccolezza, bellezza e [30] necessità. Ma che non dobbiamo concedere tutto alla medesima persona, è chiaro; e così pure che per lo più bisogna contraccambiare i benefici piuttosto che fare dei piaceri ai camerati, come pure restituire un prestito a un creditore piuttosto che fare un dono ad un camerata. Ma, certamente, neppure questo sempre. Per esempio: uno, che è stato liberato dietro riscatto dai rapitori, [35] deve a sua volta riscattare colui che l’ha liberato, chiunque egli sia, ovvero [1165a] deve restituirgli il prezzo del riscatto, se quello lo richiede anche senza essere stato rapito, oppure deve riscattare il proprio padre? Si riconoscerà, infatti, che si deve riscattare il proprio padre piuttosto che se stessi, perfino. Come, dunque, s’ detto , in generale il debito va pagato, ma se il donare si presenta284 superiore per nobiltà o per necessità, è verso questo che bisogna propendere. [5] Talvolta, infatti, non è neppure equo ricambiare chi ha beneficato per primo: ciò avviene quando, da una parte, c’ uno che benefica chi egli sa che è uomo di valore, dall’altra, c’ uno il cui contraccambio andrebbe a chi egli ritiene che sia malvagio. Talvolta, poi, non si è tenuti a fare un prestito neppure per ricambiare chi ce ne ha fatto uno per primo: costui, infatti, ha fatto il prestito ad una persona onesta, nella convinzione di essere rimborsato, mentre l’altro non ha speranza di essere rimborsato [10] da un disonesto. Se, dunque, quello è veramente disonesto, la sua pretesa di un prestito non è equa; se, invece, non è disonesto ma è creduto tale, allora si riconoscerà che non si fa nulla di strano a rifiutare il prestito. Orbene, come s’ detto spesso , le teorie sulle passioni e sulle azioni hanno la medesima determinatezza degli oggetti su cui285 vertono. Che, dunque, non si deve restituire a tutti le stesse cose, [15] che non si deve concedere tutto neppure al proprio padre, come neanche a Zeus si offrono tutti i sacrifici, è chiaro: ma, poiché diversi sono i servigi dovuti ai genitori, ai fratelli, ai camerati, ai benefattori, bisogna attribuire a ciascuno quelli che gli sono appropriati e confacenti. E così si fa, manifestamente: alle nozze si invitano i parenti, perché questi hanno in comune la stirpe [20] e, per conseguenza, tutte le azioni che la riguardano; anche ai funerali si pensa che siano soprattutto i parenti che devono intervenire, per la medesima ragione. Si riconoscerà che i figli devono soprattutto provvedere alla sussistenza dei genitori, poiché sono loro debitori, e perché è più bello in queste cose provvedere agli autori della propria esistenza che a se stessi. Ai genitori, poi, bisogna tributare onore come agli dèi, [25] ma non ogni tipo di onore: al padre, infatti, non si deve lo stesso onore che alla madre, né quello dovuto ad un sapiente o a un generale, bensì quello appropriato ad un padre, o, rispettivamente, ad una madre. E ad ogni anziano si deve rendere l’onore dovuto all’età, con l’alzarsi, il cedere il posto, e simili; ai camerati, invece, ed ai fratelli si deve concedere totale libertà di espressione e [30] comunanza di tutti i beni. Ai parenti, ai membri della stessa tribù, ai concittadini e a tutti gli altri bisogna sforzarsi di attribuire sempre ciò che è loro appropriato, e discernere ciò che si conviene a ciascuna categoria di persone a seconda del grado di parentela, della virtù o dell’utilità. Orbene, il giudizio è facile quando si tratta di persone della medesima categoria, ma è più laborioso quando si tratta di persone di categorie diverse. Ma non [35] per questo si deve rinunciarvi; bisogna, invece osservare le distinzioni quanto si può. 3. [Rottura dell’amicizia]. C’, poi, anche un’aporia che riguarda lo sciogliersi o no dell’amicizia [1165b] verso persone che non restano le stesse. Non è forse vero che non è affatto strano che le amicizie fondate sull’utilità e sul piacere si sciolgano, quando non si hanno più questi vantaggi? È di quei vantaggi, infatti, che si era amici: venuti meno quelli, è naturale che non si ami più. Uno, poi, potrebbe lamentarsi, [5] se uno, amando per l’utilità o per il piacere, facesse finta di amare per il carattere. Come infatti abbiamo detto all’inizio 286 , la maggior parte dei contrasti tra gli amici nascono quando non sono amici nel modo in cui credono di esserlo. Orbene, quando uno si inganna e suppone di essere amato per il carattere, mentre l’altro non fa nulla di simile, [10] deve incolpare se stesso; quando, invece, resta ingannato dalla simulazione dell’altro, è giusto che accusi l’ingannatore, ancor più che se fosse un falsificatore di moneta, nella misura in cui l’oggetto della sua frode è più prezioso. Ma quando si accoglie nella propria amicizia uno che si ritiene buono, ma poi quello risulta malvagio e ce se ne accorge, si deve forse amarlo ancora? Non è forse vero che non è possibile, dal momento che non ogni cosa è amabile, [15] ma solo ciò che è buono? E, poi, l’uomo malvagio non è degno di essere amato, e non si deve amarlo. Infatti, non bisogna essere amanti del vizio, né rendersi simili al cattivo: si è poi detto che il simile è amico del simile. Bisogna, dunque, sciogliere l’amicizia subito? Non è287 forse vero che non bisogna farlo con tutti, ma solo con quelli la cui perversità sia incorreggibile, mentre quelli che hanno la possibilità di raddrizzarsi si deve aiutarli ad emendare il carattere, [20] più che non a ricostruire il patrimonio, tanto più quanto ciò è più nobile e più proprio dell’amicizia? Tuttavia, si ammetterà che chi scioglie l’amicizia in questo caso non fa nulla di strano; infatti, non è di un uomo di tal fatta che era amico; quindi, non essendogli possibile salvare l’amico che si è trasformato, se ne separa. E se, d’altra parte, rimane come è mentre l’altro diventa più virtuoso e cambia molto dal punto di vista della virtù, deve ancora trattare il primo come amico? Non bisogna forse riconoscere che è impossibile? [25] Quando la distanza tra i due diventa grande, questo risulta particolarmente evidente, come nel caso delle amicizie strette nell’infanzia: se, infatti, uno rimane fanciullo nel ragionamento mentre l’altro è già un uomo maturo, come potrebbero essere amici, dal momento che ad essi non piacciono più le stesse cose e non provano più le stesse gioie e gli stessi dolori? Infatti, non hanno più l’uno per l’altro questi sentimenti, [30] e senza di essi, come dicevamo , non possono essere amici, giacché non è loro più possibile vivere insieme. Ma di288 questo si è già parlato . Orbene, in tal caso, ci si deve comportare con l’altro non diversamente da come289 ci si comporterebbe se non fosse mai stato amico? Non si deve forse mantenere il ricordo della passata ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO IX) intimità, e, come pensiamo che si debba far piacere più agli amici che agli estranei, così [35] non si deve forse concedere qualche riguardo a coloro che amici sono stati, in ragione proprio della passata amicizia, quando la rottura non è risultata da un eccesso di perversità? 4. [I sentimenti dell’uomo verso se stesso e verso gli amici]. [1166a] I sentimenti di amicizia verso il prossimo, ed in base ai quali si definiscono le amicizie, sembrano derivare dai sentimenti che l’uomo ha verso se stesso. Infatti, definiscono amico chi vuole e fa il bene o ciò che gli appare tale per l’amico in se stesso, o chi vuole che l’amico esista e [5] viva per amore dell’amico stesso: è questo il sentimento che provano le madri per i figli, e gli amici che hanno avuto dei dissapori. Altri definiscono amico chi passa la sua vita con un altro ed ha i suoi stessi gusti, o chi prova dolori e gioie insieme con il suo amico: e questo succede soprattutto nel caso delle madri. Ed è con uno di questi elementi che [10] definiscono anche l’amicizia. Ciascuno di questi sentimenti l’uomo virtuoso lo prova verso se stesso (e anche gli altri in quanto suppongono di essere virtuosi: ma, come s’ detto 290 , misura di ciascun tipo d’uomo sembrano essere la virtù e l’uomo di valore). L’uomo virtuoso, infatti, concorda con se stesso, e desidera sempre le stesse cose con tutta l’anima. E, quindi, vuole [15] per se stesso ciò che è bene e tale gli appare, e lo fa (giacché è proprio dell’uomo buono praticare il bene in continuità) e a vantaggio di se stesso (a beneficio dell’elemento intellettivo 291 che è in lui, elemento che si ritiene che costituisca ciascuno di noi): e vuole vivere e conservarsi, e che viva e si conservi soprattutto la parte con cui [20] pensa. Infatti, per l’uomo di valore è un bene esistere, e ciascuno vuole per sé il bene, ma nessuno sceglie di avere tutto a condizione di diventare un altro (giacché anche ora Dio possiede il bene 292 ), ma rimanendo ciò che è: e si ammetterà che ciascuno è, o è soprattutto, la sua parte pensante. L’uomo virtuoso, inoltre, vuole passare la vita con se stesso, giacché ciò gli fa piacere: infatti, [25] il ricordo delle azioni che ha compiuto gli è gradito, e le sue aspettative per il futuro sono buone, e le buone aspettative sono piacevoli. E la sua mente abbonda di oggetti da meditare. Inoltre, egli prova dolori e gioie soprattutto con se stesso: ogni volta, infatti, è la stessa cosa che gli procura dolore e piacere, e non una volta l’una, una volta l’altra, perché, per così dire, non si pente mai. Quindi, è perché il virtuoso prova [30] verso se stesso ciascuno di questi sentimenti, e perché li prova verso l’amico come verso se stesso (l’amico, infatti, è un altro se stesso), che si pensa che l’amicizia sia un sentimento di questi, cioè che gli amici siano quelli che provano questi sentimenti. Si lasci perdere per il momento se è o non è possibile amicizia verso se stessi ; in base a quello che abbiamo293 detto, si ammetterà, d’altra parte, [35] che l’amicizia sussiste in quanto ci sono due o più termini, [1166b] e che il livello più alto dell’amicizia è simile all’amicizia verso se stessi. Quello che abbiamo detto, poi, capita manifestamente anche alla massa degli uomini, anche se sono viziosi. Si può, quindi, dire che essi partecipano di questi sentimenti nella misura in cui compiacciono a se stessi e si ritengono virtuosi? [5] È certo che nessuno che sia completamente malvagio ed empio ne partecipa, neppure apparentemente. Quasi quasi, neppure negli uomini malvagi in generale si trovano tali sentimenti. Essi, infatti, sono discordi con se stessi, e desiderano cose diverse da quelle che in realtà vogliono, come gli incontinenti: scelgono, infatti, al posto delle cose che essi ritengono buone per loro, quelle piacevoli, che in realtà [10] sono dannose; altri, a loro volta, per viltà e pigrizia si astengono dal compiere le azioni che pur pensano essere le migliori per loro. Quelli, poi, che hanno compiuto molti terribili crimini e che sono odiati per la loro perversità, fuggono la vita e si uccidono. I malvagi cercano persone con cui passare il loro tempo, ma fuggono se stessi, [15] giacché si ricordano delle loro molte cattive azioni, anzi prevedono che ne commetteranno altre di simili, se rimangono soli con se stessi, ma se ne dimenticano se sono in compagnia d’altri. Non avendo nulla di amabile, non provano alcun sentimento amorevole verso se stessi. Uomini simili, poi, non provano gioie e dolori in unità con se stessi, perché nella loro anima c’ la guerra civile, [20] e una parte, per la sua perversità, soffre quando si astiene da certe azioni, mentre l’altra ne gode, e una parte tira in un senso, l’altra in un altro, come per farli a pezzi. E se non proprio nello stesso tempo, perché non è possibile soffrire e godere nello stesso tempo, ma almeno poco tempo dopo soffre perché ha goduto, e vorrebbe che non gli fossero risultate piacevoli le cose di cui ha goduto: [25] i malvagi, infatti, sono pieni di pentimento. L’uomo malvagio, quindi, manifestamente, non ha disposizioni amichevoli neppure verso se stesso, per il fatto che non ha nulla di amabile. Se, quindi, questo stato d’animo è troppo miserando, bisogna fuggire con tutte le proprie forze la malvagità e sforzarsi di essere virtuosi; così, infatti, si potrà essere amichevolmente disposti verso se stessi e diventare amici di altri. 5. [La benevolenza]. [30] La benevolenza assomiglia ad un sentimento di amicizia, ma non è amicizia: la benevolenza, infatti, può nascere anche verso chi non si conosce, e può rimanere nascosta, ma l’amicizia no. Questo si è detto anche prima 294 . Ma non è neppure una affezione. Infatti, non ha né tensione né desiderio, mentre l’affezione implica queste cose; e l’affezione si accompagna con l’intimità, [35] mentre la benevolenza nasce anche all’improvviso, come, per esempio, succede, anche nei riguardi degli atleti in gara: [1167a] si diventa, infatti, benevoli nei loro riguardi e si fanno propri i loro desideri, ma non si condivide con loro alcuna azione; come abbiamo detto, si diventa benevoli all’improvviso e si ama superficialmente. Quindi, la benevolenza sembra essere il principio dell’amicizia, come il principio dell’amore è il piacere derivante dalla vista: [5] nessuno ama, infatti, se prima non ha provato piacere per l’aspetto dell’altro, ma chi gode dell’aspetto di un altro non è detto che necessariamente ami; ciò avviene, invece, quando ne sente la ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO IX) mancanza, se è lontano, e ne desidera la presenza. Così pure, dunque, non è possibile essere amici se non si è cominciato a provare della benevolenza, mentre provare benevolenza non significa ancora amare, giacché si vuole soltanto il bene di coloro verso cui si è benevoli, ma non si agirebbe insieme con loro, [10] né ci si darebbe da fare per loro. Perciò, metaforicamente, si potrà dire che essa è una amicizia improduttiva, ma se dura nel tempo e giunge all’intimità diventa amicizia, ma non quella fondata sull’utilità né quella fondata sul piacere, giacché neppure la benevolenza si fonda su di essi. Infatti, colui che ha ricevuto un beneficio [15] offre la sua benevolenza in cambio di ciò che ha ricevuto, e fa ciò che è giusto; ma chi vuole la buona riuscita di un altro, nella speranza di ricavarne gran vantaggio, non sembra che abbia della benevolenza per quella persona, ma piuttosto per se stesso, come pure non è suo amico, se gli è devoto per qualche motivo interessato. Insomma, la benevolenza sorge per la virtù e per un certo valore, quando una persona appaia ad un’altra [20] nobile o coraggiosa o qualcosa di simile, come abbiamo detto anche a proposito degli atleti in gara. 6. [La concordia]. Anche la concordia è, manifestamente, un sentimento di amicizia. È per questo che la concordia non è identità di opinioni: questa, infatti, può esserci anche tra uomini che non si conoscono fra di loro. Né si dice che sono concordi uomini che la pensano alla stessa maniera su un argomento qualsiasi, [25] per esempio sui fenomeni celesti (giacché non è un fatto di amicizia l’essere concordi su queste cose), ma si dice che nelle città vi è concordia quando i cittadini la pensano alla stessa maniera a proposito dei loro interessi, e scelgono e mettono in pratica le stesse cose, quelle che hanno comunitariamente giudicate opportune. Sono concordi, quindi, sulle cose da farsi, almeno su quelle importanti e che possono soddisfare [30] le due parti o tutte le parti interessate. Per esempio, le città si dicono concordi quando tutti i cittadini ritengono opportuno che le cariche siano elettive, o che ci si allei con gli Spartani, o che Pittaco 295 eserciti il potere per tutto il tempo che anch’egli lo voglia. Ma quando, di due rivali, ciascuno vuol essere lui ad esercitare il potere, come i due nelle Fenicie 296 , allora c’ la guerra civile: infatti, essere concordi non significa che l’uno e l’altro intendano la stessa cosa, qualunque essa sia; [35] si è bensì concordi quando l’uno e l’altro intendono che sia la stessa persona ad avere la stessa cosa, per esempio, quando sia il popolo [1167b] sia la classe dirigente vogliono che siano i migliori a detenere il potere: in questo modo, infatti, tutti ottengono quello cui aspirano. Quindi, la concordia è manifestamente un’amicizia politica, come pure si dice comunemente, giacché riguarda gli interessi e ciò che serve a vivere. Tale concordia si trova [5] nella classe dirigente: i suoi appartenenti, infatti, sono concordi sia ciascuno con se stesso, sia gli uni con gli altri, poiché, per così dire, si tengono sul medesimo terreno (le volontà di tali uomini sono stabili e non rifluiscono continuamente come l’Euripo 297 ), vogliono le cose giuste e vantaggiose, e a queste tendono anche come comunità. Gli uomini cattivi non sono in grado di essere concordi, [10] come anche di essere amici, se non per poco, perché tendono a prendersi di più degli altri, quando si tratta di vantaggi, ma a tenersi indietro quando si tratta di fatiche e di servizi pubblici. Poiché ciascuno vuole per sé questi vantaggi, spia il prossimo e lo ostacola: e quando i cittadini non se ne curano, il bene comune va in rovina. Succede, quindi, che tra di loro nasce la guerra civile, [15] perché cercano di costringere gli uni gli altri a fare ciò che è giusto, mentre essi stessi non vogliono farlo. 7. [Benefattori e beneficati]. Si ritiene che i benefattori amino i beneficati più di quanto coloro che hanno ricevuto del bene amino coloro che l’hanno fatto, e, poiché, ciò accade contro ragione, se ne cerca il motivo. Orbene, per la maggior parte degli uomini è manifesto [20] che il motivo è che gli uni sono debitori e gli altri creditori: come, dunque, nel caso dei prestiti i debitori vorrebbero che non esistessero i creditori, mentre coloro che hanno concesso il prestito si preoccupano anche della sopravvivenza dei debitori, così anche i benefattori vogliono che esistano i loro beneficati per riceverne la riconoscenza, [25] mentre a questi non importa affatto pagare il proprio debito. Orbene, Epicarmo , probabilmente, affermerebbe che essi dicono così "perché guardano le298 cose dal lato cattivo", ma ciò sembra umano, giacché i più hanno poca memoria e aspirano a ricevere benefici piuttosto che a farne. Ma si ammetterà che la causa di ciò si trova piuttosto a livello generale di natura, e che non è la stessa cosa che [30] nel caso del prestito. Nel caso loro, infatti, non c’ nessuna affezione, ma solo il desiderio che il debitore si conservi per recuperare il prestito. Invece, coloro che fanno del bene amano, anzi amano profondamente i loro beneficati, anche se questi non sono loro di alcuna utilità né potranno esserlo in futuro. E questo succede anche nel caso degli artisti: ognuno, infatti, ama profondamente la propria opera, [35] più di quanto sarebbe amato dall’opera stessa se questa diventasse un essere animato. [1168a] E questo succede soprattutto nel caso dei poeti: essi amano fin troppo profondamente le proprie composizioni, volendo loro bene come a dei figli. È quindi ad un caso simile che assomiglia quello dei benefattori: l’essere che ha ricevuto benefici da loro è una loro opera: per conseguenza, l’amano di più [5] di quanto l’opera non ami chi l’ha fatta. La causa di ciò sta nel fatto che l’esistere è per tutti meritevole di scelta e di amore, e noi esistiamo in virtù di un’attività (in virtù, cioè, del vivere e dell’agire), e chi ha fatto l’opera in certo qual modo esiste in virtù della sua attività: ama, quindi, la sua opera, perché ama la propria esistenza. E questo è naturale: infatti, ciò che è in potenza, l’opera lo rivela in atto. E, nello stesso tempo, [10] per il benefattore ciò che deriva dalla sua azione è bello, cosicché egli gode di colui in cui questa si compie, mentre per chi riceve non c’ nulla di bello in chi gli ha fatto il ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO IX) aver coscienza di sentire o di pensare significa aver coscienza di esistere (giacché l’esistere, come abbiamo detto, significa sentire o pensare); [1170b] se l’aver coscienza di vivere è piacevole per se stesso (la vita, infatti, è un bene per natura, ed avere coscienza del bene presente in noi è piacevole); se la vita è desiderabile, e lo è soprattutto per gli uomini buoni, perché per loro esistere è cosa buona e piacevole (giacché prendere coscienza [5] di ciò che è buono per sé dà loro godimento); se l’uomo di valore è disposto nei riguardi degli amici come verso se stesso (giacché l’amico è un altro se stesso): se è vero tutto questo, come la propria esistenza è per ciascuno desiderabile, cosi, o pressappoco, lo è anche quella dell’amico. Dicevamo che l’esistere è desiderabile per il fatto che si ha coscienza di essere buoni, e tale [10] coscienza è piacevole per se stessa. Dunque, bisogna prendere coscienza, oltre che della nostra esistenza, anche di quella dell’amico, e questo può verificarsi se si vive insieme, cioè se si ha comunione di discorsi e di pensiero: in questo, infatti, si ammetterà che consiste il vivere insieme, nel caso degli uomini, e non, come nel caso delle bestie, nel prendere il cibo nello stesso luogo. Se, quindi, per l’uomo beato l’esistenza [15] è desiderabile per se stessa, in quanto è cosa buona e piacevole per natura, e se lo è in modo pressoché uguale anche quella dell’amico, anche l’amico sarà desiderabile. E ciò che per lui è desiderabile, bisogna che lo abbia, se no, da questo punto di vista, egli risulterà manchevole. Per essere felici, dunque, ci sarà bisogno di amici di valore. 10. [Il numero degli amici]. [20] In conclusione, dobbiamo farci il più gran numero possibile di amici, ovvero, come nel caso dell’ospitalità, si ritiene che sia stato giudiziosamente detto "non un uomo dai molti ospiti, né un uomo senza ospiti" 312 , e si adatterà anche al caso dell’amicizia il consiglio di non essere senza amici né averne in numero eccessivo? Si riconoscerà certo che questo detto si adatta molto bene a coloro che sono amici in vista di un’utilità, [25] giacché contraccambiare servigi a molti è assai faticoso, e per farlo non basta la vita intera. Quindi, amici in numero superiore a quanti bastano alla nostra vita sono superflui e sono d’ostacolo al viver bene: non c’, dunque, alcun bisogno di loro. Anche di quelli che sono amici in vista del piacere ne bastano pochi, come il condimento nel cibo. Ma quanto agli amici di valore, bisogna averne [30] nel più gran numero possibile, o c’ una misura determinata anche per la quantità degli amici come per quella degli abitanti di una città? 313 Infatti, non si potrà fare una città con dieci uomini, e con centomila non è più una città: ma certo la loro quantità non è data da un singolo numero determinato, bensì da un numero qualsiasi entro certi limiti. Anche il numero degli amici, [1171a] per conseguenza, è compreso entro certi limiti, e certamente saranno al massimo tanti con quanti è possibile vivere insieme (giacché questa, abbiamo detto, si ritiene la cosa più tipica dell’amicizia); ma è evidente che non è possibile vivere insieme con molti e dividersi tra di loro. Inoltre, anche quelli devono essere amici gli uni degli altri, se hanno intenzione [5] di trascorrere le loro giornate tutti insieme in compagnia: ed è laborioso realizzare ciò tra molte persone. Ma è difficile anche gioire e soffrire insieme con molte persone con familiarità, giacché è naturale che capiti nello stesso tempo di condividere la gioia dell’uno ed il cordoglio dell’altro. Dunque, è certo bene non cercare di avere un gran numero di amici, ma soltanto quanti [10] bastano per vivere insieme: si ammetterà, infatti, che non è possibile essere molto amici di numerose persone. È per questo che non è possibile amare più persone alla volta: l’amore, infatti, vuol essere una specie di amicizia portata all’eccesso, ma questo avviene nei riguardi di una sola persona: dunque, anche l’amicizia profonda può essere rivolta solo a poche persone. Sembra che le cose stiano così anche nei fatti, giacché non si diventa amici in molti, quando si tratta di un’amicizia tra camerati, [15] e le amicizie cantate dai poeti sono amicizie tra due persone. Ma coloro che hanno molti amici e trattano tutti con familiarità si ritiene che non siano amici di nessuno (a meno che non si tratti di amicizia tra concittadini), e ad essi si dà il nome di compiacenti. Se si tratta, dunque, di rapporti tra concittadini è possibile essere amici di molte persone, senza essere compiacenti, ma veramente virtuosi: ma un’amicizia che si fondi sulla virtù e sulle qualità della persona non è possibile che si rivolga [20] a molti, e bisogna contentarsi di trovarne anche pochi di amici simili. 11. [Gli amici sono desiderabili in tutte le circostanze]. C’ più bisogno di amici nella buona o nella cattiva sorte? Si ricercano amici, infatti, in entrambe le situazioni: coloro che si trovano nelle avversità hanno bisogno di aiuto, e gli uomini fortunati hanno bisogno di persone con cui vivere ed alle quali fare del bene, dal momento che essi vogliono fare del bene. Dunque, l’amicizia è più necessaria [25] nelle avversità, ed è perciò che si ha bisogno, allora, di amici utili, ma è più bella nella buona sorte, ed è perciò che allora si cercano amici virtuosi, giacché è preferibile beneficare uomini virtuosi e vivere in loro compagnia. Infatti, anche la presenza stessa degli amici è piacevole sia nella buona sia nella cattiva sorte. Infatti, quando si soffre, si resta sollevati [30] se gli amici soffrono con noi. Perciò, si potrebbe porre la questione se ciò accade perché, per così dire, gli amici prendono su di sé una parte del nostro fardello, oppure non per questo, ma perché la loro presenza, che è piacevole, ed il pensiero che soffrono con noi rendono minore il nostro dolore. Se, dunque, si resta sollevati per queste ragioni o per qualche altro motivo, lasciamo stare: in ogni caso è manifesto che accade quello che abbiamo detto. Ma sembra che [35] la loro presenza procuri un piacere misto. Da una parte, infatti, la vista stessa [1171b] degli amici è piacevole, specialmente per chi si trova nell’avversità, e ne deriva un aiuto contro il dolore (l’amico, infatti, è una consolazione sia col farsi vedere sia col parlarci, se è un uomo garbato: egli conosce ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO IX) il nostro carattere e sa ciò che ci fa piacere e ciò che ci addolora). D’altra parte, vedere che soffre [5] per le nostre disgrazie è penoso: ogni uomo, infatti, evita di essere causa di dolore agli amici. È per questo che chi ha natura virile si guarda bene dal far partecipare gli amici al proprio dolore, e, a meno che non superi ogni limite di sventura , non sopporta di provocar loro una sofferenza, anzi, in generale, non tollera che altri lo314 compatisca, per il fatto che egli stesso non [10] è portato a compatire: sono le donnette, e gli uomini ad esse simili, che hanno piacere se altre persone si lamentano con loro, e le amano come amiche e come compagne nel dolore. Ma è chiaro che in tutte le cose bisogna imitare l’uomo migliore. La presenza degli amici nella buona sorte, invece, ci fa trascorrere piacevolmente il tempo, e ci dà il piacevole pensiero che essi godono dei nostri beni. [15] Perciò si può ritenere che noi dobbiamo sollecitamente invitare gli amici a partecipare alla nostra buona sorte (ché è bello comportarsi da benefattori), ma esitare a chiamarli nella cattiva: bisogna, infatti, farli partecipare il meno possibile ai nostri mali. Di qui il detto: "Basto io ad essere infelice!". Invece, bisogna fare appello a loro, soprattutto quando possono renderci un grande servigio senza grande molestia per loro. [20] Viceversa, conviene senza dubbio che noi andiamo a soccorrere gli amici sfortunati senza farci chiamare, e sollecitamente (giacché è proprio di un amico far il bene, e soprattutto a coloro che si trovano nel bisogno, anche se non pretendono nulla: per entrambi, infatti, è più bello e più piacevole). Quando sono nella prosperità, invece, bisogna andare da loro sollecitamente se si ha intenzione di collaborare alla loro attività (anche per questo, infatti, c’ bisogno di amici), ma senza fretta se si intende riceverne dei benefici: [25] non è bello, infatti, mostrarsi impazienti di ricevere dei servigi. Ma, senza dubbio, nel rifiutare, dobbiamo evitare di farci giudicare villani: talora succede. In conclusione, la presenza degli amici è manifestamente desiderabile in tutte le circostanze. 12. [L’amicizia è comunione di vita]. Non bisogna, dunque, dire che, come per gli innamorati la vista dell’amato è la cosa che amano di più, [30] e come essi preferiscono il senso della vista a tutti gli altri, perché è per questo senso soprattutto che l’amore sussiste e sorge, così anche per gli amici la cosa più desiderabile è il vivere insieme? L’amicizia, infatti, è una comunione, ed il sentimento che si ha per se stessi, si ha anche per l’amico: la coscienza della propria esistenza è desiderabile, e lo è, per conseguenza anche quella [35] dell’amico; ma questa coscienza è in atto nel vivere insieme, [1172a] cosicché è naturale che a questo si tenda. E per ciascun tipo di uomini, qualunque sia per loro il senso dell’esistenza, ovvero ciò per cui per loro la vita è desiderabile, è in questo che essi vogliono trascorrere il tempo in compagnia degli amici. E per questo che alcuni bevono insieme, altri giocano insieme ai dadi, altri fanno ginnastica e cacciano insieme [5] o fanno filosofia insieme, e che trascorrono insieme le giornate, ciascuno dedito a ciò che ama più di tutto nella vita: volendo, infatti, vivere insieme con gli amici, fanno e mettono in comune le cose in cui, secondo loro, consiste la vita. Quindi, l’amicizia dei cattivi risulta perversa (infatti, essendo instabili, mettono in comune cose cattive, e [10] diventano perversi rendendosi sempre più simili gli uni agli altri); l’amicizia, invece, degli uomini virtuosi è virtuosa, e cresce col loro frequentarsi. Si ritiene, poi, che diventino anche migliori col mettere in atto l’amicizia, cioè correggendosi a vicenda: essi, infatti, si modellano l’uno sull’altro, imitando le qualità che loro piacciono; di qui il detto: "Da uomini nobili, nobili azioni" 315 . Sull’amicizia, dunque, [15] basti quanto s’ fin qui detto. Il piacere sarà oggetto della trattazione seguente. ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO X) ARISTOTELE ETICA A NICOMACO LIBRO X 1. [Il piacere: teorie e fatti]. Deve a ciò far seguito la trattazione del piacere. [20] Si pensa comunemente che il piacere sia strettissimamente connaturato al genere umano, ragion per cui si educano i giovani governandoli col piacere e col dolore; si ritiene, inoltre, che anche per la virtù del carattere sia della massima importanza godere di ciò che si deve, e odiare ciò che si deve. Infatti, piacere e dolore si estendono per tutta la durata della vita, ed hanno gran peso e grande influenza sulla virtù e sulla vita felice: [25] si scelgono, infatti, le cose piacevoli, e si fuggono quelle dolorose 316 . Si ammetterà che non si può proprio sorvolare su argomenti di tale importanza, che sono oggetto, oltre tutto, anche di molte controversie. Infatti, alcuni 317 affermano che il piacere è il bene, altri 318 , al contrario, che esso è affatto cattivo, e di questi ultimi alcuni, certo, perché sono persuasi che sia proprio così, altri perché pensano [30] che sia meglio per la nostra vita morale mostrare il piacere come una cosa cattiva, anche se non lo è: la massa inclina ad esso ed è schiava dei piaceri, e perciò bisogna condurla nella direzione opposta; così potrà arrivare proprio nel giusto mezzo. Ma, probabilmente, questa non è una buona tesi. Infatti, per quanto riguarda le passioni [35] e le azioni, le teorie sono meno persuasive dei fatti; le teorie, quindi, quando sono in disaccordo con i fatti constatati, vengono considerate con disprezzo e [1172b] coinvolgono nel discredito anche la verità. Se, infatti, colui che biasima il piacere viene una volta visto mentre tende anche lui ad un piacere, si pensa che egli inclini ad esso, perché, secondo lui, ogni piacere è degno di essere perseguito: fare distinzioni, infatti, non è cosa per la massa! Sembra, dunque, che, quando le teorie sono veritiere, [5] sono utilissime non solo per il sapere, ma anche per la vita: infatti, poiché si armonizzano con i fatti, vengono accolte con convinzione, ed è per questo che riescono a stimolare coloro che hanno giudizio a vivere in conformità con esse. Ciò posto, basta con tali considerazioni: esaminiamo ora le opinioni espresse sul piacere. 2. [La teoria di Eudosso e la critica di Speusippo]. Orbene, Eudosso pensava che il piacere è il bene per queste ragioni: [10] (1) vediamo che tutti i viventi,319 sia quelli razionali sia quelli irrazionali, tendono ad esso; ma in tutti i casi ciò che è desiderato è il bene, e ciò che è desiderato più di tutto è il massimo bene; quindi, il fatto che tutti i viventi siano portati al medesimo oggetto indica che per tutti questo è il sommo bene (ciascun essere vivente, infatti, trova ciò che è bene per lui, come trova il suo nutrimento), ma ciò, che è bene per tutti, cioè ciò verso cui tutti tendono, [15] è il bene per eccellenza . Le sue teorie, poi, ottenevano credito più per la virtù del suo carattere che320 per se stesse: veniva considerato, infatti, eccezionalmente temperante, e, quindi, si pensava che egli facesse queste affermazioni non perché amico lui stesso del piacere, ma perché le cose stanno in verità proprio così. (2) Inoltre, pensava che ciò risulti non meno evidente in base all’argomento del contrario: infatti, diceva, il dolore di per sé è per tutti un oggetto da fuggire; [20] dunque, il suo contrario è parimente per tutti qualcosa di desiderabile. (3) E massimamente desiderabile è ciò che noi non desideriamo per qualcos’altro, né in vista di qualcos’altro. Tale oggetto è, per unanime consenso, il piacere: infatti, nessuno chiede a che scopo si gode, considerando che il piacere è desiderabile per se stesso. (4) Infine, qualunque sia il bene cui si aggiunge, per esempio, [25] all’agire con giustizia e con temperanza, il piacere lo rende più desiderabile; ma il bene resta accresciuto solo da se stesso. Quest’ultimo argomento, quindi, almeno così com’, sembra mettere in chiaro che il piacere è uno dei beni, e per niente maggiore di un altro: infatti, ogni bene è più degno di scelta se è accompagnato da un altro bene che non se resta solo. Orbene, è con un ragionamento di questo tipo che Platone dimostra che il piacere non è il bene. Infatti, egli dice , [30] la vita di piacere è più desiderabile unita alla saggezza che non separata da essa, e se la vita321 mista è migliore, il piacere non è il bene, giacché nessuna cosa aggiunta al bene può renderlo più desiderabile. Ma è chiaro che il bene non sarà alcun’altra cosa che diventi più desiderabile se si accompagna a qualcosa che è bene di per sé. Che cosa dunque è questa natura, di cui anche [35] noi partecipiamo? È una cosa di questo genere che stiamo cercando. (1) E coloro i quali obiettano non essere vero che è bene ciò a cui tutte le cose tendono, non dicono nulla di sensato. [1173a] Infatti, ciò che è ammesso da tutti noi affermiamo che è vero: e colui che rifiuta questa convinzione non troverà cose molto più convincenti da dire. Se, infatti, gli esseri privi di ragione fossero i soli a desiderare i piaceri, l’obiezione avrebbe senso, ma se li desiderano anche gli esseri dotati di ragione, come può aver senso l’obiezione? E poi, forse, anche negli esseri inferiori c’ un qualche istinto naturale e buono, [5] più forte di quanto essi siano per se stessi, che li fa tendere al bene proprio della loro specie. (2) E non sembra che affrontino correttamente neppure l’argomento del contrario. Non è vero, dicono, che se il dolore è male, il piacere è bene: infatti anche un male può contrapporsi ad un male, ed entrambi possono contrapporsi a ciò che non è né male né bene. In ciò non hanno torto 322 , ma non colgono la verità, almeno non a proposito di ciò di cui stiamo parlando. [10] Se, infatti, piacere e dolore fossero entrambi dei ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO X) uomini. Ma il piacere perfeziona le attività, e quindi anche quell’attività che tutti intensamente desiderano: la vita. È naturale, dunque, che tutti tendano anche al piacere: esso, infatti, dà a ciascuno la perfezione del suo vivere, che è ciò che si desidera. Se, poi, è per il piacere che desideriamo la vita, o è per la vita che desideriamo il piacere, lasciamolo per il momento da parte. Infatti, la vita e il piacere [20] si presentano strettamente congiunti e non ammettono separazione: senza attività, infatti, non si produce piacere, e il piacere perfeziona ogni attività. 5. [Le specie del piacere e il loro valore]. Questa è la ragione per cui si ritiene che i piaceri differiscano anche quanto alla specie. In effetti, noi pensiamo che le cose diverse per specie vengono perfezionate da cose pure diverse per specie (così infatti è, manifestamente, sia per le realtà naturali sia per i prodotti dell’arte, come, per esempio, animali, alberi, una pittura, una statua, [25] una casa, un utensile): e che, allo stesso modo, anche le attività che differiscono per la specie sono perfezionate da cose differenti per specie. Ma le attività del pensiero differiscono dalle attività dei sensi, e differiscono per specie fra di loro: e, per conseguenza, sono specificamente differenti anche i piaceri che le perfezionano. Ciò può risultare manifesto anche dal fatto che ciascuno dei piaceri è connaturale [30] all’attività che perfeziona. Infatti, l’attività è incrementata dal piacere che le è proprio, giacché in ogni campo chi agisce con piacere giudica meglio ed è più preciso: così, per esempio, diventano veri geometri coloro che provano piacere nell’esercizio della geometria, e sono loro che meglio ne penetrano ciascun aspetto, e, parimenti, coloro che amano la musica, l’architettura e le altre arti, [35] progrediscono ciascuno nella propria specialità perché vi provano piacere: i piaceri incrementano le attività; ma ciò che incrementa una cosa le è connaturale: [1175b] e le cose che sono connaturali a cose specificamente diverse sono esse stesse diverse per specie. Ma ciò può risultare ancor più manifesto dal fatto che i piaceri che derivano da attività diverse sono d’ostacolo alle attività. Per esempio, quelli che amano il flauto sono incapaci di concentrarsi nei ragionamenti, se sentono qualcuno suonare il flauto, perché provano maggior piacere [5] nell’arte del flauto che nella loro presente attività; il piacere derivante dal suono del flauto distrugge dunque l’attività relativa al ragionamento. Questo stesso fatto succede anche negli altri casi, quando si esercita la propria attività in relazione a due oggetti contemporaneamente, giacché l’attività più piacevole scaccia l’altra, e ciò tanto più quanto maggiore è la differenza dal punto di vista del piacere, cosicché non è più possibile esercitare neppure [10] l’altra attività. È per questo che, quando proviamo intenso piacere in una qualsiasi cosa, non facciamo più nient’altro; e facciamo altro, quando cose diverse ci piacciono poco, come, per esempio, quelli che nei teatri si mettono a mangiare dolciumi lo fanno soprattutto quando gli attori non sono bravi. Ora, poiché il piacere loro connaturale rende più precise le attività e le fa più durevoli e [15] più efficaci, mentre i piaceri ad esse estranei le guastano, è chiaro che c’ una gran distanza fra le due specie di piaceri. I piaceri estranei hanno sulle attività quasi lo stesso effetto che i dolori ad esse connaturali: infatti, i dolori ad esse connaturali distruggono le attività, come, per esempio, succede se a uno non fa piacere, anzi è penoso scrivere o far di conto: uno non scrive, l’altro non fa di conto, perché questa [20] attività gli è penosa. Dunque, i piaceri e i dolori ad essa connaturali hanno sull’attività l’effetto opposto: e connaturali sono i piaceri e i dolori che si accompagnano all’attività per la sua stessa natura. I piaceri estranei, invece, si chiamano così perché hanno un effetto molto simile a quello del dolore: hanno, infatti, un effetto distruttivo, anche se non nello stesso modo. Ma poiché le attività differiscono per la loro convenienza [25] o sconvenienza morale, e poiché le une sono da scegliere e le altre da evitare, altre né l’una né l’altra cosa, lo stesso è anche dei piaceri, giacché per ciascuna attività c’ un piacere che le è connaturale. Dunque, il piacere connaturale all’attività virtuosa è conveniente, il piacere connaturale all’attività cattiva è perverso: infatti, anche i desideri delle cose belle sono degni di lode, quelli delle cose brutte sono meritevoli di biasimo. [30] Ma i piaceri che risiedono nelle attività stesse sono ad esse più strettamente connaturali che non i desideri: infatti, i desideri sono distinti dalle attività, sia nel tempo sia per la natura, mentre i piaceri sono strettamente connessi con le attività, e ne sono inseparabili, al punto che si discute se l’attività e il piacere siano la stessa cosa. Non sembra, infatti, che il piacere sia pensiero né sensazione (sarebbe strano!), [35] ma, per il fatto che non ne può essere separato, ad alcuni appare identico ad essi. Dunque, come sono diverse le attività, così sono diversi i piaceri. [1176a] La vista differisce dal tatto per purezza, e l’udito e l’odorato differiscono dal gusto: allo stesso modo, per conseguenza, differiscono anche i relativi piaceri, e da questi si differenziano i piaceri del pensiero, e nell’ambito di ciascun gruppo ci sono piaceri diversi fra di loro. Si ritiene comunemente che ci sia un piacere connaturale a ciascun essere vivente, e così pure una funzione 332 , giacché il piacere connaturale è quello che deriva dall’esercizio di questa funzione. [5] E se si considerano uno per uno, ciò risulterà manifesto: infatti, altro è il piacere proprio del cavallo, altro è quello del cane e quello dell’uomo. Come dice Eraclito: "Gli asini preferirebbero la paglia all’oro" 333 ; infatti, il cibo è per gli asini più piacevole dell’oro. Dunque, i piaceri degli esseri che sono specificamente diversi differiscono specificamente, mentre sarebbe naturale che quelli della stessa specie non fossero differenti. [10] Invece differiscono non di poco, almeno per quanto riguarda gli uomini: infatti, le stesse cose dilettano alcuni e affliggono altri, e per alcuni sono penose e odiose, per altri piacevoli ed amabili. Questo succede anche nel caso delle cose dolci: le stesse cose, infatti, non sembrano ugualmente dolci a chi ha la febbre e a chi è ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO X) sano, né la stessa cosa sembra essere calda a chi è malato e a chi [15] sta bene. Lo stesso succede anche in altri casi. Ma si ritiene che in tutti questi casi sia reale ciò che appare all’uomo in buone condizioni. Se questo è giusto, come in genere si pensa, e se di ciascuna cosa sono misura la virtù e l’uomo buono in quanto tale, anche i piaceri saranno quelli che a quest’uomo appaiono tali, e piacevoli saranno le cose che a lui procurano piacere. [20] Che poi gli oggetti che sono sgradevoli all’uomo buono appaiano piacevoli a qualcuno, non desta meraviglia, perché sono molte le corruzioni e le degenerazioni cui gli uomini sono soggetti: non ci sono cose piacevoli in sé, ma cose piacevoli per uomini determinati e con determinate disposizioni. È chiaro che i piaceri concordemente giudicati brutti si deve dire che non sono dei piaceri tranne che per gli uomini corrotti: ma tra quelli comunemente ritenuti convenienti, quale specie di piacere o [25] quale piacere in particolare dobbiamo dire che è proprio dell’uomo? Non risulta forse chiaro dalle attività proprie dell’uomo? È a queste, infatti, che fanno seguito i piaceri. Che dunque le attività dell’uomo perfetto e beato siano una sola o più, sono i piaceri che perfezionano queste attività che potranno essere chiamati in senso proprio piaceri dell’uomo; tutti gli altri, invece, potranno essere chiamati piaceri umani in un senso secondario e molto meno appropriato, come le attività cui corrispondono. 6. [La felicità è un’attività fine a se stessa e conforme a virtù]. [30] Dopo aver parlato delle virtù, delle forme dell’amicizia e dei piaceri, resta da delineare uno schizzo della felicità, dal momento che la poniamo come fine delle azioni umane. Se riprendiamo, quindi, quanto abbiamo già detto, la trattazione risulterà più concisa. Abbiamo dunque detto 334 che la felicità non è una disposizione, giacché apparterrebbe anche a chi dormisse per tutta la vita, [35] vivendo una vita solo vegetativa, e a chi si trovasse nelle più grandi disgrazie. Per conseguenza, se queste implicazioni [1176b] non soddisfano, e se, invece, bisogna porre la felicità in una qualche attività, come s’ detto precedentemente 335 , e se alcune delle attività sono necessarie e da scegliersi per altro, mentre altre devono essere scelte per se stesse, è chiaro che bisogna porre la felicità tra le attività che meritano di essere scelte per se stesse e [5] non per altro: infatti, la felicità non ha bisogno di nient’altro, cioè basta a se stessa 336 . Meritano, poi, di essere scelte per se stesse quelle attività che non richiedono nulla oltre il proprio esercizio. Tali si ritiene comunemente che siano le azioni conformi a virtù: compiere azioni belle e virtuose, infatti, è una delle cose che meritano di essere scelte per se stesse. Lo sono anche i divertimenti piacevoli, giacché gli uomini non [10] li scelgono in vista di altre cose: da essi, infatti, ricevono danno più che vantaggio, perché sono da essi indotti a trascurare il loro corpo ed il loro patrimonio. E la maggior parte degli uomini che sono stimati felici si rifugiano in tali passatempi, ragion per cui alle corti dei tiranni sono apprezzati coloro che in tali passatempi sono spiritosi: essi, infatti, [15] si rendono piacevoli proprio in ciò cui sono rivolte le tendenze dei tiranni, che hanno bisogno di tali uomini. Si ritiene, pertanto, che siano queste le cose che rendono felici, per il fatto che è in esse che passano il tempo libero i potenti, mentre è certo che gli uomini di questo tipo non sono affatto una prova: infatti, non è nell’esercizio del potere assoluto che si realizzano la virtù e l’intelletto, dalle quali procedono le attività che hanno valore morale. Se poi i tiranni, essendo incapaci di gustare [20] un piacere puro e degno di un uomo libero, si rifugiano nei piaceri del corpo, non si deve per questo pensare che questi piaceri siano più degni di essere scelti: infatti, anche i bambini pensano che siano ottime le cose apprezzate da quelli. È ragionevole, quindi, che, come diverse sono per i bambini e per gli uomini le cose che appaiono apprezzabili, così queste siano diverse anche per gli uomini cattivi e per quelli per bene. Come dunque [25] abbiamo spesso detto 337 , sono apprezzabili e piacevoli le cose che sono tali per l’uomo di valore: per ciascuno l’attività più degna di essere scelta è quella conforme alla disposizione che gli è propria, e, per conseguenza, per l’uomo di valore è quella conforme alla virtù. La felicità, dunque, non sta nel divertimento: e, in effetti, sarebbe strano che il fine dell’uomo fosse un divertimento, e che ci si affaticasse e si soffrisse per tutta la vita [30] al solo scopo di divertirsi. Tutto noi scegliamo, per così dire, in vista di altro, tranne che la felicità: questa, infatti, è fine in sé. Darsi da fare ed affaticarsi per il divertimento è manifestamente stupido e troppo infantile. Divertirsi, invece, per potersi applicare seriamente, come dice Anacarsi , sembra essere un atteggiamento corretto: in effetti, il338 divertimento è simile al riposo, giacché gli uomini, [35] non potendo affaticarsi in continuazione, hanno bisogno di riposo. [1177a] Il riposo non è, quindi, un fine, giacché ha luogo in funzione dell’attività. Si ritiene, poi, che la vita felice sia conforme a virtù: e questa vita implica seria applicazione, e non consiste nel divertimento. Noi diciamo che le cose serie sono migliori di quelle fatte per ridere e per divertimento, e che, in ogni caso, l’attività [5] della parte migliore dell’anima e dell’uomo più buono è quella di maggior valore; e l’attività del migliore è perciò stesso superiore e più idonea a procurare la felicità. Infine, dei piaceri del corpo può godere un uomo qualsiasi, persino uno schiavo, non meno del migliore degli uomini: ma della felicità nessuno farebbe partecipe uno schiavo, a meno che non lo facesse partecipare anche di una vita da uomo libero. In effetti, la felicità non consiste in questi passatempi, [10] ma nelle attività conformi a virtù, come s’ detto anche prima .339 7. [La felicità consiste soprattutto nell’attività contemplativa]. Ma se la felicità è attività conforme a virtù, è logico che lo sia conformemente alla virtù più alta: e questa sarà la virtù della nostra parte migliore 340 . Che sia l’intelletto o qualche altra cosa ciò che si ritiene che per natura governi e guidi [15] e abbia nozione delle cose belle e divine, che sia un che di divino o sia la cosa ARISTOTELE: ETICA A NICOMACO (LIBRO X) più divina che è in noi, l’attività di questa parte secondo la virtù che le è propria sarà la felicità perfetta. S’ già detto , poi, che questa attività è attività contemplativa. Ma si ammetterà che questa affermazione è in341 accordo sia con le nostre precedenti affermazioni sia con la verità. [20] Questa attività, infatti, è la più342 alta (giacché l’intelletto è la più alta di tutte le realtà che sono in noi, e gli oggetti dell’intelletto sono i più elevati); inoltre, è la più continua 343 delle nostre attività: infatti, possiamo contemplare in maniera più continua di quanto non possiamo fare qualsiasi altra cosa. Noi pensiamo che il piacere sia strettamente congiunto con la felicità 344 , ma la più piacevole delle attività conformi a virtù è, siamo tutti d’accordo, quella conforme alla sapienza; [25] in ogni caso, si ammette che la filosofia ha in sé piaceri meravigliosi per la loro purezza e stabilità, ed è naturale che la vita di coloro che sanno trascorra in modo più piacevole che non la vita di coloro che ricercano. Quello che si chiama "autosufficienza" si realizzerà al massimo nell’attività contemplativa 345 . Delle cose indispensabili alla vita hanno bisogno sia il sapiente, sia il giusto, sia tutti gli altri uomini; [30] ma una volta che sia sufficientemente provvisto di tali beni, il giusto ha ancora bisogno di persone verso cui e con cui esercitare la giustizia, e lo stesso vale per l’uomo temperante, per il coraggioso e per ciascuno degli altri uomini virtuosi, mentre il sapiente anche quando è solo con se stesso può contemplare, e tanto più quanto più è sapiente; forse vi riuscirà meglio se avrà dei collaboratori, ma tuttavia egli è assolutamente autosufficiente. [1177b] E questa sola attività si riconoscerà che è amata per se stessa 346 , giacché da essa non deriva nulla oltre il contemplare, mentre dalle attività pratiche traiamo un vantaggio, più o meno grande, al di là dell’azione stessa. Si ritiene che la felicità consista nel tempo libero: [5] infatti, noi ci impegniamo per essere poi liberi, e facciamo la guerra per poter vivere in pace. Dunque, l’attività delle virtù pratiche si esercita nell’ambito della politica ed in quello della guerra, ma le azioni relative a questi ambiti sono ritenute affatto impegnative, ed in modo totale le attività militari (giacché nessuno sceglie di fare la guerra per la guerra, [10] e nessuno prepara la guerra per la guerra: sarebbe giudicato un vero e proprio maniaco assassino, se degli amici facesse dei nemici per provocare battaglie e uccisioni!). Anche l’attività del politico è affatto impegnativa, e, oltre alla attività civica in quanto tale, mira a ricavare poteri ed onori o almeno a procurare la felicità per sé e per i suoi concittadini, felicità [15] che è differente dalla attività politica, e che, chiaramente, anche ricerchiamo in quanto ne è differente. Se, dunque, tra le azioni conformi alle virtù, quelle relative alla politica ed alla guerra eccellono per bellezza e grandezza, e se queste azioni sono affatto impegnative, mirano a qualche fine e non sono degne di essere scelte per se stesse; se, d’altra parte, si riconosce che l’attività dell’intelletto si distingue per dignità [20] in quanto è un’attività teoretica, se non mira ad alcun altro fine al di là di se stessa, se ha il piacere che le è proprio (e questo concorre ad intensificare 347 l’attività), se, infine, il fatto di essere autosufficiente, di essere come un ozio, di non produrre stanchezza, per quanto è possibile ad un uomo e quant’altro viene attribuito all’uomo beato, si manifestano in connessione con questa attività: allora, per conseguenza, questa sarà la perfetta felicità dell’uomo, [25] quando coprirà l’intera durata di una vita 348 : giacché non c’ nulla di incompleto tra gli elementi della felicità. Ma una vita di questo tipo sarà troppo elevata per l’uomo: infatti, non vivrà cosi in quanto è uomo, bensì in quanto c’ in lui qualcosa di divino: e di quanto questo elemento divino eccelle sulla composita natura umana, di tanto la sua attività eccelle sull’attività conforme all’altro tipo di virtù. [30] Se, dunque, l’intelletto in confronto con l’uomo è una realtà divina , anche l’attività349 secondo l’intelletto sarà divina in confronto con la vita umana. Ma non bisogna dar retta a coloro che consigliano all’uomo, poiché è uomo e mortale, di limitarsi a pensare cose umane e mortali; anzi, al contrario, per quanto è possibile, bisogna comportarsi da immortali e far di tutto per vivere secondo la parte più nobile che è in noi. Infatti, sebbene [1178a] per la sua massa sia piccola, per potenza e per valore è molto superiore a tutte le altre. Si ammetterà, poi, che ogni uomo si identifica con questa parte, se è vero che è la sua parte principale e migliore . Sarebbe allora assurdo che egli non scegliesse la vita che gli è350 propria ma quella che è propria di qualcun altro. Ciò che abbiamo detto prima [5] verrà a proposito351 anche ora: ciò, infatti, che per natura è proprio di ciascun essere, è per lui per natura la cosa più buona e più piacevole; e per l’uomo, quindi, questa cosa sarà la vita secondo l’intelletto, se è vero che l’uomo è soprattutto intelletto . Questa vita, dunque, sarà anche la più felice.352 8. [Assoluta superiorità della vita contemplativa]. Al secondo posto viene la vita conforme all’altro tipo di virtù: infatti, le attività [10] ad esso conformi sono esclusivamente umane. In effetti, atti giusti e coraggiosi, e atti virtuosi in generale, noi li facciamo gli uni nei confronti degli altri nei contratti, nei servizi, nelle azioni di ogni genere come nelle passioni, rispettando ciò che compete a ciascuno: e queste sono tutte, manifestamente, azioni esclusivamente umane. Si ritiene, poi, [15] che la virtù del carattere per alcuni aspetti derivi dal corpo, e per molti aspetti sia in stretta connessione con le passioni. Ma anche la saggezza è collegata alla virtù del carattere, e quest’ultima alla saggezza, se è vero che i principi della saggezza discendono dalle virtù etiche, e che la rettitudine delle virtù etiche discende dalla saggezza. Ma essendo queste virtù legate anche [20] alle passioni, saranno relative al composto; ma le virtù del composto sono virtù esclusivamente umane, e, per conseguenza, lo sono anche la vita ad essa conforme e la felicità che ne deriva. La virtù dell’intelletto, invece, è separata: su di essa basti quanto s’ detto, ché esaminarla con precisione sarebbe un compito più grande di quello che ci siamo proposti. Si ammetterà, poi, che essa ha anche poco bisogno di essere provvista di beni esteriori o ne ha meno bisogno [25] della virtù etica. Infatti, si ammetta pure che entrambe abbiano bisogno, e in misura uguale, di
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