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G. Ortalli La pittura infamante, Sintesi del corso di Storia Medievale

Riassunto completo della monografia

Tipologia: Sintesi del corso

2023/2024

Caricato il 03/03/2024

AlessioRavelli
AlessioRavelli 🇮🇹

4.3

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Scarica G. Ortalli La pittura infamante e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! 1 La pittura infamante Introduzione Già attraverso le pene giudiziarie infamanti si poteva colpire l’individuo nella dignità e nell’onore, esporlo per tempi più o meno lunghi alla derisione e al disprezzo della comunità, privarlo dei requisiti specifici del suo stato sociale se non, addirittura, di quelli più elementari, propri di ogni essere umano. Tutto ciò, poi, coinvolgendo nell’azione contro il reo l’intera compagine sociale, attraverso il pubblico che assisteva all’esecuzione della sentenza o ne coglieva (quando ci fossero) le conseguenze permanenti. Già ogni pubblica esecuzione di una condanna reca in sé forti motivi di degradazione sociale; chi è punito sotto lo sguardo della comunità in cui si trova inserito, subisce un’onta che ben difficilmente potrà essere cancellata. Per questa via s’intende come a volte risulti impossibile giudicare in modo netto e reciso l’esatto carattere di certe pene: punizioni che in origine dovevano essere soprattutto affittive, si siano in processo di tempo tramutate in punizioni essenzialmente infamanti, mediante l’accentuazione del disonore proprio di tutte le esecuzioni pubbliche. In ogni caso, le pene riconducibili al genere infamante si presentano in forme e modi molto diversi e, partendo dalla pura derisione, giungono fino a gradi estremi di violenza e di brutalità nei casi in cui l’aspetto degradante si combina a quello più probabilmente afflittivo. Una simile situazione non è certamente tipica dell’età medievale tanto che la gogna e la berlina mantennero il loro posto nelle pubbliche piazze e nella cultura giuridica fino al secolo scorso. Persino il marchio a fuoco si conservava quasi dovunque. L’abolizione decretante nel granducato di toscana già al tempo di Francesco I nel 1765 non toglieva, infatti, che restasse in vigore nonostante la svolta segnata dalla critica degli illuministi. Se dunque il medioevo non ebbe per nulla l’esclusiva delle pene in questione, mostrò comunque una particolare fantasia nel pensarle. La fantasia nel costruire i modi dell’infamia andava in parallelo ad una altrettanto particolare predisposizione a ricorrervi. Fra le altre, si vuole qui fermare l’attenzione sull’uso di dipingere in determinate zone della città e su particolari edifici, l’immagine dei colpevoli di alcuni reati di diverso carattere, che potevano andare dal tradimento alla bancarotta, all’omicidio o al falso. Si tratta di una pratica caratteristica dell’Italia tardo-medievale, che non risulta avere riscontri effettivi in altre zone. Quando si parla di pittura infamante ci riferiamo a una prativa e a un contesto molto specifici, evitando la confusione che tuttavia ancora si incontra, per cui ogni immagine che in modo più o meno ufficiale ha lo scopo di offendere o disonorare qualcuno, non solo viene subito classificata come pittura infamante, ma è pure tranquillamente assimilata a quelle di cui qui ci si occupa, e questo è concettualmente insostenibile. Ci sono, per la verità, situazioni in cui si potrebbe essere portati a questa aggregazione: ad esempio, la pratica dello Schandbild l’immagine offensiva che molto spesso accompagnava le lettere private d’infamia, abbondantemente diffuse soprattutto dal Quattrocento e dal Cinquecento fino al Seicento nel mondo tedesco. L’accordo di carattere finanziario stipulato fra le parti e garantito dalla lettera autorizzava i creditori a fare pressione in via extragiudiziale su debitori morosi e loro eventuali garanti perché onorassero gli impegni assunti, a rischio, in caso contrario, della diffusione di scritti disonorevoli in luoghi pubblici. Qualcosa di analogo ma ancora più lontano rispetto alla pittura infamante si ha con i cartelli diffamatori con i quali nel Cinquecento il gentiluomo e specialmente il militare poteva svergognare anche in immagine e non solo con lo scritto l’avversario poteva svergognare anche in immagine e non solo con lo scritto avversario che non si era presentato sul campo franco per il duello d’onore. In tutti questi casi immagine e infamia sono assolutamente complementari, ma al di là del banale e semplice elemento di partenza, siamo in situazioni incomparabili rispetto al pittura infamante di cui ci stiamo occupando. 1.Caratteri e sviluppo della pittura infamante Colpire l’individuo attraverso la sua immagine significava utilizzare il simbolo per giungere ad un fine concreto, seguendo una via molto congeniale ad un ambiente nel complesso ancora largamente illetterato ed analfabeta ma assai attento alla rappresentazione figurata. La pittura infamante si affermava dunque in un mondo pronto a meglio intendere il senso risposto della figura, capace di costruirsi persino una gerarchia dei colori. Era una situazione in cui le classi dirigenti mostrarono di percepire con chiarezza le opportunità offerte 2 dal mezzo figurativo come veicolo di notizie e convincimenti, facendone anche efficace strumento di propaganda. La pittura infamante si presenta come elemento interno e costitutivo di un sistema iconico pubblico ufficiale e laico: pubblico in quanto destinato alla collettività e da tutti fruibile; ufficiale in quanto espressione diretta degli organi detentori del potere; laico in quanto distinto ed autonomo rispetto all’altro, maggiore sistema iconico, funzionale e proprio all’ambito ecclesiastico e religioso. Nell’insieme si andava dagli stemmi riprodotti sulle coperte dei libri ufficiali ai grandi cicli affrescati nelle sale dei consigli, con una varietà tematica che riservava largo spazio anche ai soggetti religiosi, suggeriti da considerazioni politiche oltre che devozionali. Il santo patrono, spesso rappresentato a spese e per mandato degli organismi cittadini, fornisce il caso più tipico di questa commistione tra fede e governo. La varietà nei temi, affiancata alla varietà dei generi, si combina in un insieme di interventi per la pubblica commissione, o almeno per il pubblico interesse, e per i fini di carattere collettivo: politici, didattici o propagandistici che fossero. È importante capire quali fossero le conseguenze giuridiche che la pena comportava per i singoli. Segnandoli con l’onta del vipiterum e dell’infamia, non ci si limitava a colpirli solo nell’ambito etico.sociale: cioè, delle convinzioni morali correnti o delle opinioni comuni; al di là di ciò, si giungeva anche a menomare la persona sul piano dei diritti effettivi. Chi era considerato infame veniva infatti escluso da uffici, cariche ed onori, non poteva fungere da tutore o da giudice; era esposto al rischio di pene più aspre che non quelle riservate alle persone per bene; ed anche il diritto canonico poneva limitazioni all’infame vietandogli l’accesso agli ordini sacri, alle dignità ed agli uffici, ecclesiastici non meno che laici. Che una differenza sostanziale potesse intercorrere tra pittura e pittura gli uomini del tempo lo sentirono chiaramente, tanto da organizzare le immagini offensive in modo diverso secondi i casi; e calcarono maggiormente i toni, pensando le figurazioni più complesse, proprio quando si trattò di punire azioni che turbavano gli equilibri e le situazioni politiche esistenti. Gli ufficiali che rifiutavano il sindacato, i falsari, i malversatori, perfino gli assassini: tutti erano personaggi infami che qualche comunità riteneva utile dover dipingere; ma più infame era il traditore. E non senza logica: chi vien meno alla fedeltà dovuta e agisce contro le istituzioni e gli organismi per i quali si postula l’obbligo di un rapporto fiduciario di base, rompe quel patto dal quale in fondo derivano e sul quale si appoggiano il divieto del falso o della malversazione o della corruzione. Non occorre una particolare capacità di analisi della psicologia o dei comportamenti collettivi per rendersi contro dell’uso della pittura per colpire il nemico proprio quando la sua infamia non era poi così riconosciuta nell’opinione corrente, ma anzi occorreva a provocarla o meglio ribadirla. Il dipinto infamante doveva apparire il più esplicito possibile: nel Frignano l’autore di un documento falso veniva rappresentato nell’atto di scrivere la carta contraffatta; a Padova gli ufficiali colpevoli di estorsioni erano riprodotti nel palazzo del comune con una borsa appesa al collo. Ma per il traditore e il nemico politico si faceva di più. Nel 1377 i fiorentini andarono contro Rodolfo da Varano, capitano generale della repubblica nella guerra degli Otto Santi, lo punirono per aver cambiato schieramento a favore del pontefice, tornando allo schieramento al quale un tempo apparteneva. Venne così dipinto sul fronte del Palazzo del Podestà e alla condotta impiccato a testa in giù. Davvero infame questo personaggio mostrato come doppiamente traditore, anche se, per la verità, il primo abbandono di campo a danno della Chiesa non aveva affatto turbato i fiorentini del 1377. Per quanto può dedursi dalle testimonianze ancora disponibili, sono diversi i casi nei quali la simbologia e l’iconografia appaiono più ricche: forche, catene, fiamme, mitre, diavoli, animali fantastici si accompagnano a posizioni del corpo scomposte ed innaturali; capovolto, impiccato a testa in giù verrà dipinto il traditore piuttosto che il falsario, secondo un modulo diffuso a partire dalla seconda metà del Trecento. Si moltiplicano i fattori infamanti interni alla raffigurazione così come, a volte, si moltiplicano anche i luoghi della città nei quali la raffigurazione è posta. Quanto ai luoghi da utilizzare per i dipinti in questione erano sempre prescelti fra i più qualificati nel tessuto urbano. Erano anche luoghi particolarmente significativi e dotati essi di una forte carica simbolica. In via normale si trattava di edifici sede dei pubblici potere, anche per rafforzare il carattere ufficiale delle rappresentazioni. Dei vari Palazzi del Podestà, del Comune, del Capitano, degli Anziani, si preferivano poi i muri prospicienti le vie o le piazze principali, quelle più frequentate dalla cittadinanza e nelle quali meglio si raggiungeva lo scopo di imporre all’attenzione generale le immagini e il messaggio di cui erano portatrici. 5 strettamente imparentata, fino a confondersene. Questo soprattutto accadrà quando i motivi propagandistici risulteranno in funzione di conflitti non ancora risolti, per i quali il posto altrimenti riservato alla celebrazione sarà preso dall’offesa e dall’attacco contro l’avversario. Così pare essere, ad esempio, per le scene affrescata in Firenze nella sala consiliare del Palazzo del Podestà. Le immagini sono dedicate alla nemica Pistoia o alle lotte contro la rocca di Montaccino difesa dai guelfi bianchi e dai ghibellini nel 1302: vi si dovevano riconoscere, se non le figure, probabilmente i nomi dei fuoriusciti che avevano combattuto contro i propri cittadini. Lo stesso vale per il dipinto fatto nel Palazzo dei Priori, a ricordo degli avvenimenti riguardanti il castello di Pulicciano, che inutilmente i fuoriusciti avevano tentato di strappare al comune nel marzo del 1303. Siamo in quella fascia, al limite tra generi diversi, nella quale è impossibile optare con durezza per un’attribuzione che per un’altra, se non a prezzo di una rigidità di analisi non consonante con la fluidità dei fenomeni considerati. Gli elementi celebrativi e infamanti, di esaltazione propagandistica e di esplicita offesa, si intrecciano fino a diventare inscindibili. Altri esempi di questa precoce pittura infamante si trovano a Mantova, nel Palazzo della Ragione. Fu eseguito a ridosso degli eventi dei fuoriusciti del 1251 avevano consegnato alla nemica Cremona e alla parte ghibellina di Ezzellino da Romano il castello di Marcaria, strategico per il controllo sul fiume Oglio. Gli infamati, riconoscibili dal nome, affrescati in dialogo fra loto e denunciati come traditori dalla borsa appesa al collo (segno di avarizia), non rimasero tuttavia esposti troppo a lungo dal momento che nel 1259 la scena venne cancellata in coerenza con i mutati equilibri politici: l’accordo raggiunto in quell’anno vedeva infatti rientrare in Mantova chi si era compromesso con il tradimento di Marcaria e le figurazioni passate non erano più giustificabili. Molto più imponenti sono gli straordinari affreschi dipinti nel grande salone del Broletto, il Palatium Maius di Brescia, con i lunghi metri dello straordinario fregio del dolente corteo di cavalieri che procedono uniti da un’ininterrotta catena, atteggiati al tormento della sconfitta, con dietro alla testa ben evidenziate le loro borse svolazzanti a segno della colpa, responsabili di aver agito contra patriam, dipinti probabilmente intorno al 1280, quando il comune bresciano visse un regime popolare. Oggetto di una ridipintura verso fine secolo, l’affresco, carico dei caratteri della pittura d’infamia, porta il segno evidente delle lotte di fazione e degli interessi di consorteria che dilaniavano anche il comune bresciano nel secondo Duecento. Si tratta di una sicura e rarissima espressione di pittura infamante nella fase in cui il genere era ancora impegnato nella messa a punto di stilemi e modalità esecutive. Va notato l’impegno particolare della figurazione che si colloca a un libello qualitativo alto: quello d’altronde richiesto per un ciclo d’immagini ubicato nel cuore fisico della politica cittadina, in sale il cui prestigio e la cui dignità devono comprovare la qualità stessa dell’istituzione che vi ha sede. Qualche tratto più derisorio o popolaresco o realistico affiora: la volgarità della pernacchia; i tratti caricaturali; il gatto nero e i due topi di Narisino. Ma nel complesso le tante figure che si susseguono per decine di metri mantengono uno stile compositivo senza troppe sbavature. A fronte di queste raffigurazioni più studiate, si pensi a quali diverse esigenze si impongono allorché le immagini d’infamia nella loro espressione più piena escono da luoghi del potere già ben prima di fine Duecento e si collocano sulla piazza destinate a un pubblico il più vasto possibile. Figure che in palazzo si proponevano con un latino studiato, uscite in strada parlano invece un volgare più tendente al dialetto che all’aulicità. L’insistenza sulla scrittura che sempre accompagnerà le figurazioni, ci introduce ed altri percorsi nella ricerca degli antecedenti possibili all’uso penale dell’immagine, sia pure in prospettiva assai meno monumentale e più decisamente mirata all’insultante ddenuncia pensiamo alla scritta senza la figura, non quale suo supporto e completamento ma come dato autosufficiente. Essa pure prevista anche in sede legislativa come strumento d’infamia e denuncia di chi aveva commesso determinati reati: una sorta di grande libro, perennemente aperto ed esposto. Così a Vercelli, in una rubrica statuaria del 1242, si stabilì che il nome di chiunque fosse stato dichiarato infame nelle forme rituali dal podestà o dai rettori, venisse scritto a grandi lettere, insieme alla ragione dell’infamia, su un tratto di muro del palazzo comunale appositamente imbiancato. A distanza di circa un secolo, troviamo che nella normativa alla iscrizione si era aggiunta la pittura, essendosi quindi sviluppate in pieno le premesse insite nella pratica originaria, con uno svolgimento da non ipotizzarsi come indispensabile o automatico, ma, tuttavia, da ritenersi avvenuto secondo linee logiche e coerenti. L’antecedente più diretto e legittimo, comunque resta da vedersi in quelle immagini che avevano come scopo precipuo l’offesa, il disonore, il discredito di un avversario o di un reo: vere e proprie 6 figurazioni infamanti che precorrono il momento in cui il tipo di rappresentazioni si diffonde come genere distinguibile per elementi abbastanza costanti e comuni. Il caso per noi veramente esemplare potrebbe essere fornito dai rilievi milanesi nei quali una lunga tradizione riconosce Federico I e Beatrice di Borgogna. Non si è affatto sicuri che nella figura maschile, caricaturalmente innaturale e deforme, debba individuarsi l’imperatore; ancor meno sicura è l’identificazione della sua sovrana consorte nella figura di donna che alza le vesti scoprendosi in un gesto di ben scarsa regalità. Ma ove si vogli dar credito alla lettura in chiave imperiale dei due rilievi, diverse considerazioni ne legittimano il collegamento all’uso dell’infamia per immagine. Anzitutto i moduli iconografici e figurativi, che, se riferiti alla coppia imperiale, si caricano di pesanti e indiscutibili accenti offensivi; poi, l’ubicazione dei rilievi, alle porte della città, in punti quindi intensamente frequentati, di primo interesse pubblico. È chiaro il parallelismo con alcuni degli elementi che saranno più tipici della pittura infamante; va però rilevata almeno una differenza sostanziale, a parte la scelta della scultura come mezzo espressivo in luogo della pittura: la scarsa o nulla rilevanza giuridica che l’azione dei milanesi comunque aveva nei confronti dell’imperatore. Dal momento che Milano non poteva assolutamente pensare ad una sua capacità giurisdizionale diretta e reale sul Barbarossa, l’eventuale messaggio di infamia racchiuso nei due rilievi di porta Romana e porta Tosa restava nell’ambito della costruzione di una pubblica opinione e di un giudizio corrente, senza passare il confine dell’ordinamento giuridico. Tutto ciò, naturalmente, ha senso qualora si accetti di riconoscere la coppia imperiale nei due rilievi. In caso contrario, com’è ovvio, l’esempio nei termini in cui lo si è proposto non val e più in quanto antecedente, ma non perde interesse. Senza insistere ulteriormente sugli antecedenti eventuali, sarà più interessante chiedersi quanto veramente fosse sentita e temuta la pena della pittura. Se, in effetti, il suo rapido diffondersi e il suo lungo permanere nel tempo sembrano assicurarne l’efficacia e la rispondenza ai fini che con essa si perseguivano, d’altra parte qualche dubbio può essere introdotto dal suo carattere largamente surrogatorio. Soprattutto nella prassi, infatti, il ricorso alla pittura infamante avvenne in caso di contumacia (quando non ti costituisci) del reo. In alcuni casi il fatto che l’imputato si renda irreperibile è essenziale per la stessa qualità del reato: così avviene per l’ufficiale che non si presenta ai controlli una volta concluso il mandato, o per il fallito fuggitivo; in altri casi è stabilito in modo esplicito che la pittura abbia luogo unicamente quando non possano essere applicate altre pene. In concreto, mentre, nel Frignano l’autore di un documento falso doveva venire raffigurato sul muro solo se non aveva pagato la multa prevista in 200 lire, in Osimo, al contrario, il falsario doveva essere dipinto in ogni caso al Palazzo del Podestà dopo aver ascoltato la lettura pubblica della sentenza. Del resto, tutto il complesso delle pene infamanti risulta largamente surrogatorio e subordinato alla non applicabilità di altre preliminari ipotesi di sanzione, soprattutto di carattere economico: prima di mettere alla berlina, frustare in pubblico a suon di tromba o legare alle varie “pietre del vituperio”, in prima istanza si prevedeva largamente l’eventualità del pagamento di un’ammenda. Ma l’impossibilità del reo a corrispondere a quanto richiestogli dai pubblici poteri è cosa ben diversa dall’incapacità dei pubblici poteri stessi a raggiungere il colpevole. Così, in fondo, il dipinto d’infamia può essere anche interpretato come una manifestazione d’impotenza, inefficacia o debolezza della struttura istituzionale; non in grado di colpire chi doveva (o voleva), essa ripiegava su un modesto surrogato proposto come atto a sostituire le punizione che non si riusciva ad infliggere ma solo a minacciare. Ma allora è opportuno nuovamente chiedersi quanto la persona chiamata in causa prendesse sul serio quella particolare dimostrazione di incapacità nei suoi confronti. Il pubblico ufficiale sottrattosi al sindacato, il notaio falsario, o il condottiero traditore, avevano buone ragioni per temere l’eventualità di essere catturati, spogliati dei beni mutilati o condotti alla forca piuttosto che l’eventualità di essere dipinti. La pittura infamante, quindi, finisce per coincidere con un male minore, e ci si deve allora domandare quanto trascurabile o rilevante: quanto minore. Che la cosa fosse presa sul serio, sentita come una pena effettiva ed operante e non ridotta a mera finzione o convenzionale ritualità, credo debba affermarsi in modo inequivocabile sulla base di quanto già si conosce. Indicazioni ci giungono da quanto scrisse il cronista Bolognese Matteo Griffoni a proposito dei ricordati avvenimenti della fine del 1389, quando venne scoperta la congiura che un gruppo di cittadini stava trattando d’accordo con il signore di Milano, Gian Galeazzo Visconti. Il Griffoni, legato d’amicizia e da parentela ad alcuni dei congiurati, cercò di appianare la faccenda senza che ne derivassero conseguenze troppo gravi; giunse anche a scontrarsi con gli altri Anziani, ma non 7 potè ottenere nulla di concreto e non riuscì ad evitare bandi e decapitazioni. Solo su un punto ebbe soddisfazione: impedì che il fuoriuscito Alberto Galluzzi fosse dipinto in piazza come traditore, impegnando a questo scopo tutto il suo peso politico. Che fosse una questione di rilievo per la quale valeva la pena scontrarsi politicamente lo dimostra quanto avvenne in seguito: non appena il Griffoni terminò il suo anzianato, cessata la sua forza contrattuale, i nuovi Anziani disposero che il Galluzzi fosse dipinto in più luoghi ad infamia, senza frapporre tempo o esitazioni. Altro si potrebbe dire a proposito di questa testimonianza. Infatti, alle parole del Griffoni una mano più tarda riferendosi alla pittura aggiunse sul codice: fu dipinto “contra voluntatem dicti Mathei” che avrebbe voluto che il Galluzzi fosse impiccato piuttosto che dipinto. Starebbe a significare che era possibile preferire che una persona, alla quale si era intimamente legati, fosse impiccata piuttosto che infamata sulle piazze in immagine. Una simile interpretazione non è negata da nessun elemento oggettivo desumibile dal codice o dal testo e, ove fosse accolta, indicherebbe che la mentalità del tempo sentiva la pena specifica con intensità estrema. A Firenze troviamo diverse trattative, sia ufficiali che riservate, a proposito dell’uso della pittura. Nella pace stipulata con Gian Galeazzo Visconti nell’anno 1392 una clausola imponeva di cancellare chiunque fosse stato infamato in immagine in occasione della guerra trascorsa, e del provvedimento probabilmente godettero anche due uomini che furono dipinti come traditori in quanto uno dei due “scrivendo all’altro a Milano rivelava i segreti della Repubblica, che venian tutti riferiti” al Visconti. Nel 1426, nel quadro delle trattative fra i collegati antiviscontei e Milano, Filippo Maria Visconti faceva richiedere ai fiorentini la cancellazione di Niccolò Piccino, passato l’anno precedente al suo servizio e, per ciò, dipinto appeso come traditore da una Firenze “che non poteva altrimenti punirlo”. Forse, dimenticando di quanto pattuito nel 1392, il governo fiorentino si protestava meravigliato di una istanza che da Milano non si sarebbe nemmeno dovuta chiedere. Nel 1480, quando i rapporti tra Roma e Firenze si erano normalizzati dopo le gravissime tensioni esplose nel 1478 con la congiura dei Pazzi, papa Sisto IV si adoperò per far sparire le immagini infamanti di alcuni personaggi che gli stavano a cuore, specialmente l’arcivescovo di Pisa Francesco Salviati. Già nelle trattative che ebbero luogo tra Roma e Firenze nell’inverno successivo ai fatti, il papa con la mediazione di una ambasciata francese aveva richiesto che l’effige dell’arcivescovo fosse distrutta. Quando poi la decisione fu presa, il 9 aprile 1480: “Perché s’intenda la nostra buona dispossizione et la reverentia che abbiamo al sacrosanto Collegio de’ Reverendissimi Signori Cardinali, habbiamo facto levare la pittura dell’Arcivescovo di Pisa, e tolto via ogni cagione che potessi in alchuno modo dedecorare il grado Archiepiscopale”. Quelli romani erano interventi non motivati da particolari posizioni principio e anche la curia non disdegnò il ricorso alle pitture d’infamia, tanto che nel 1412 Giovanni XXIII aveva fatto dipingere alle porte e ai ponti di Roma Muzio Attendolo Sforza che aveva abbandonato le milizie pontificie raggiungendo quelle del re di Napoli, Ladislao di Angiò Durazzo. Per volontà pontificia lo si dipinse impiccato per un piede con nella mano destra una zappa da contadino e nella sinistra un cartello diffamatorio: “Io sono Sforza […] che dodici tradimenti ho fatto alla Chiesa contro lo mio onore”. Ci si apre per questa via uno spiraglio ulteriore sulle reazioni alla pena da parte dei colpiti. Non si potrebbe infatti escludere che la gravità della punizione fosse addirittura più intensamente sentita da parte di chi ne subiva i riflessi dovuti ai vincoli esistenti con l’infamato, che non da chi ne era colpito in modo diretto. L’infamia indotta nella pubblica opinione con la pittura poteva essere più nociva e fastidiosa per il mercante che continuava ad operare sulla stessa piazza commerciale ed aveva avuto stretti rapporti con il condannato, piuttosto che per quel bancarottiere dipinto, fraudolentemente fuggito con i soldi dei creditori. Di Niccolò Piccino non conosciamo reazioni plateali o clamorose, ma è facilissimo intuire quanto la sua dipintura pesasse agli occhi di tutti: chi infamava, chi era infamato e chi veniva chiamato in causa. La successione dei fatti è eloquente: prima l’immagine disonorante decisa da Firenze per la defezione del 1425; poi l’intervento diplomatico di Milano nel 1426 su ovvia istanza del condottiero; a riscontro, la piccata risposta fiorentina, quasi per una questione di principio: “assolutamente no”. Ma ecco nell’aprile 1430 a Firenze, in piena guerra con Lucca, la decisione di cancellare il dipinto, sperando di placare un pericoloso avversario: illusione drammaticamente caduta quando in dicembre, nella battaglia al fiume Serchio, il condottiero sconfisse i fiorentini in una battaglia che Lucca onorò ogni anno fino al Settecento. Tutto questo, peraltro, non impedì che, quando ebbe notizia dell’avvenuta cancellazione delle immagini infamanti, il Piccinino rendesse 10 responsabili della congiura dei Pazzi in un grande affresco. Si trattava di raffigurare morti e vivi. Otto personaggi. Così chi era sfuggito vivo alla cattura venne ritratto appeso per il piede mentre i Pazzi e i Salviati immediatamente soppressi figuravano realisticamente impiccati con la corda al collo. Nella stessa linea vista con Botticelli nel 1478, quando nel 1446 in Bologna furono dipinti i congiurati che avevano ucciso il signore della città, Annibale Bentivoglio, le figure di ben nove traditori furono tutte regolarmente proposte “con li piedi appiccati all’insù”. Erano i colpevoli fuggitivi da infamare, ma dove il genere non imponeva i suoi vincoli ecco riapparire la vivacità di vecchia data e il pittore fu libero di presentare il modo in cui era stato trucidato il più ragguardevole esponente del complotto. In questi termini stretti, la libertà compositiva delle fase iniziali non sparì mai del tutto; dove però mantenne maggior spazio, meglio conservando gli aspetti narrativi, lucidi e fantastici, fu in opere atipiche, certamente infamanti sebbene estranee ad ogni apparato istituzionale, o pubblica commissione, o rilevanza giuridica, e, quindi, prive di alcuni elementi caratteristici del genere ma sciolte dai vincoli usuali. Alcuni recenti studi si sono soffermati sui possibili collegamenti tra la pittura infamante e certe pratiche magiche, o tra la pittura infamante e determinati assetti sociali. Quanto alla possibilità che l’immagine d’infamia si caricasse di sottintesi magici o si inserisse nella linea di svolgimento di sostrati profondi, tali da farla apparire sotto la specie del sortilegio, è difficile da escludere in modo categorico. Nel 1911 Julius von Schlosser, introducendo il suo saggio sulla storia della ritrattistica in cera, fra l’altro scriveva che il sortilegio delle immagini poteva essere usato per colpire con effetto sicuro il nemico e fra le opere create a tale scopo indicava anche le pitture d’infamia. Lo studioso viennese faceva poi largo riferimento ai boti fiorentini: quelle statue in cera a grandezza naturale, offerte in voto alla Vergine dalla seconda metà del Duecento. Proprio in riferimento ai boti, analizzando questa specifica espressione della cultura fiorentina, in via preliminare collegata alle immagini d’infamia, lo Schlosser ricorreva al concetto di Bildzauber (sortilegio delle immagini): l’incantesimo dell’immagine era sotteso alle figure votive e l’intendimento magico stesso dell’omaggio riparatorio-sacrificale implicava la tendenza al naturalismo. Che i boti fiorentini, eredi degli etruschi pagani, avrebbero coltivato l’incantesimo dell’immagine in pratica fino al secolo XVIII; il feticismo ritrovato nella pratica dei boti era coerentemente interpretato in chiave di Bildzauber e poteva essere messo in logica relazione con i sortilegi esercitati tramite le riproduzioni di individui reali specialmente durante il periodo avignonese del papato, quando il fenomeno assunse aspetti di epidemia di massa. L’individuazione di tendenze magiche di fondo nella pratica della pittura infamante finiva inevitabilmente con il porre l’uso penale-figurativo al punto di convergenza tra discipline di carattere molto vario. Le scienze religiose, l’etnologia, l’antropologia culturale diventavano referenti primari ad ogni considerazione di carattere più propriamente storico- politico e giuridico o, anche, di psicologia sociale. A ridimensionare radicalmente il motivo della magia quale chiave di lettura privilegiata delle immagini d’infamia provvedeva nel 1963 Wolfgang Bruckner. L’autore indicava tutta una serie di elementi, giudicati in contrasto con la teoria e la prassi del sortilegio delle immagini: dalla riproduzione ripetuta in più luoghi della figura del condannato, alla mancanza di realismo, alla presenza della didascalia (che già da sola avrebbe ridotto l’importanza dell’immagine). Il lavoro del Bruckner portava in ogni caso sicuri motivi di chiarezza, segnando un punto critico imprescindibile. Va messo nel dovuto rilievo che, nelle pratiche magiche compiute attraverso l’immagine, il mezzo consueto per raggiungere lo scopo prefissato sembra essere stato non tanto la figura bidimensionale quanto il figurino, il pupazzo, il fantoccio o la bambola a tutto tondo. La figura bidimensionale nelle procedure magiche e stregonesche sembra assolutamente al margine per gli anni e gli ambienti che qui interessano. Tirando le somme, il legame tra la pittura infamante e l’immagine-sortilegio deve ritenersi ulteriormente allentato; l’eventualità del riferimento all’occulto o al soprannaturale si riduce di molto, ma qualche dubbio resta ancora legittimo. In fondo, per l’osservatore, soprattutto se ingenuo o privo di troppo raffinate intermediazioni culturali, la vita dell’opera figurativa è una possibile, istintiva chiave di lettura. Nessun elemento però conferma che le autorità, nel comminare il disonore dell’immagine riprodotta in pubblico, confidassero volutamente anche sull’attivazione di un sortilegio. A comprovare un qualche collegamento con la dimensione magica, una volte preso atto del sostanziale silenzio delle fonti documentarie e narrative e dell’evanescenza dei dati ricavabili dai modi seguiti nell’esecuzione, l’ultimo settore da indagare resterebbe quello 11 dell’iconografia. Purtroppo la quasi assoluta perdita delle immagini infamati ostacola irrimediabilmente quell’esame iconografico che forse avrebbe potuto fornire motivi di chiarezza. Già si è detto per quali ragioni le opere del genere non si siano conservate sopravvivendo alle loro funzioni contingenti. Non c’è dunque da meravigliarsi se quanto ne resta si riduce a poco o nulla. Se niente dunque ci dicono le poverissime testimonianze iconografiche dirette giunte fino a noi, allo stesso modo niente di illuminante di deduce dalle scarne descrizioni di altre immagini che qualche volta ci sono tramandante dalle fonti scritte. A parte gli elementi più materialmente derisori o scopertamente narrativi (come il somaro che trascina il condannato), anche gli stessi segni convenzionale della pena, della colpa, del disonore (siano essi la mitra, la catena o la borsa), non sembrano essere proposti e nemmeno interpretati come forniti di implicite qualità occulte, bensì come normali elementi linguistici, utili a rendere più esplicita la comunicazione del messaggio che si voleva diffondere. La stessa impressione si ricava da quanto si conosce dei titoli che accompagnavano le immagini. In sostanza si deve per il momento concludere che da nessuno dei dati finora a disposizione, come da nessuna linea di ricerca seriamente percorribile, giungono elementi concreti, atti a confermare l’ipotesi di sostanziali interferenze con un sostrato magico o, addirittura, demoniaco. Questo vale sia per chi decideva o eseguiva la pittura d’infamia, sia per chi la subiva o, da semplice spettatore, la leggeva e ne interpretava l’implicito messaggio. 3. La pittura d’infamia nella vicenda storica tra medioevo ed età moderna Il fenomeno della pittura d’infamia resta chiaro nelle sue coordinate esteriori: dove, quando, in che modi ebbe origine, funzionò e si diffuse. Ma meno chiaro risulta definire come mai prese corpo proprio in quei luoghi, in quei tempi, in quelle forme. In altri termini, non è esplicito se e quanto la pratica corrispose a stimoli interni e di che genere eventualmente furono quegli stimoli. La particolarità del momento artistico, il processo di consolidamento istituzionale in atto, il bisogno di disporre del consenso dell’opinione pubblica, l’assetto urbanocentrico della società, lo sviluppo della dottrina e della prassi giuridica…tutti questi sono elementi che, combinati fra loro, danno già abbastanza ragione della specificità del fenomeno e del suo collegamento con le particolari entità storiche sopra incontrate. Così appare logico e naturale che ai dipinti d’infamia abbiano fatto ricorso Parma, Bologna, San Giminiano, Firenze o Milano. Ma, per le stesse ragioni, possono sorprendere certi silenzi o ritardi. Viene da chiedersi perché, per esempio, da Ferrara, Venezia, Ravenna o Torino, almeno per ora, non giungano cenni significativi di pitture infamanti; oppure perché i pisani abbiano atteso una generazione rispetto ai vicini di San Giminiano, Firenze e Siena all’uso poco prima dei “montanari” del Frignano. Considerando lo stato della documentazione finora nota, va tenuto conto della ragionevole probabilità che in un certo numero di luoghi la pena fosse praticata senza che per il momento se ne abbia memoria. Per le diverse questione toccate fin qui - i motivi di rilevanza giuridica dell'uso, i modi della sua attuazione, i meccanismi psicologici sui quali si innestava, le reazioni provocate in chi ne era coinvolto – si è ritenuto opportuno non impegnarsi in rigide scansioni cronologiche. La ragione di un tale procedere risiede non tanto nella scarsità dei documenti disponibili, quanto nella constatazione, che per la pratica infamante specifica i dati caratteristici e gli elementi significativi sostanzialmente non mutarono di segno lungo tutto l’arco di tempo considerato, essendosi presto fissati una volta per tutte. Volendo invece stabilire se siano esistiti legami fra il tipo di pena e qualche specifica congiuntura politica, sociale o culturale storicamente determinata, il discorso non può evidentemente proporsi senza scansioni per un periodo che giunge con le sue propaggini al Cinquecento inoltrato: dalla realtà dei comuni all’esperienza delle signorie e dei principati. Se l’uso persiste in situazioni tanto diverse fra loro, la spiegazione va in primo luogo cercata nella sua capacità di rispondere a bisogni che mutavano in relazione al mutare delle strutturazioni politiche, sociali e istituzionali. In altri termini, la sua sperimentata efficacia lo rendeva utile contro i rispettivi avversari tanto al comune di popolo quanto al principe. Ma questo depone ampiamente in favore di una neutralità dell’uso: valido come strumento repressivo chiunque fosse ad amministrarlo, ma privo di connotazioni autonome o di contenuti già di per se stessi significanti. Diventa allora inevitabile operare una divisione tra una fase primaria e una fase matura: nella prima fase i presupposti sono prevalenti e gli eventuali contenuti qualificanti hanno forza e significato tali da condizionare l’accettazione o il rifiuto dell’uso, di contro a una seconda fase in cui 12 prevale il meccanismo ormai consolidato e in cui l’efficacia punitiva della pena può essere assunta come ragione sufficiente della sua utilizzazione. Nell’affrontare il problema suggerimenti efficaci per un giudizio complessivo non possono dedursi né da un particolare qualità dei puniti, né da un particolare tipo di reato preso di mira; la pena colpisce con un largo raggio d’azione, senza significativi riguardi per ceti o gruppi determinati e senza limitarsi nell’applicazione a troppo specifici settori del diritto penale. Così se è vero che si usò la pittura contro personaggi legati alla più schietta tradizione feudale, o contro esponenti della nobiltà, altrettanto si pensò di fare contro membri di famiglie magnatizie e diventate potenti nell’esercizio di attività mercantili-finanziarie, e pure contro amministratori e funzionari comunali tanto di alto livello quanto di grado inferiore. Ma nel mucchio socialmente davvero articolato ci sono anche esponenti del mondo delle scuole, oscuri notai e modesti commercianti, oltre ad i personaggi della malavita comune. Anche se capitò davvero di rado, non furono risparmiate nemmeno le donne e gli ecclesiastici. La pittura d’infamia risulta applicabile a tutto e a tutti senza che sia possibile semplificare la complessiva varietà nel riferimento a elementi specifici di un qualsiasi schema d’interpretazione. È vero che in processo di tempo l’applicazione sembra indirizzarsi di preferenza contro personaggi di alto grado sociale e di indubbio rilievo politico o militare. Può essere un’impressione dovuta al fatto che i casi clamorosi sono quelli di cui meglio si conserva il ricordo e per i quali la stessa documentazione è più abbondante oltre che studiata. Per Firenze conosciamo le immagini dei condottieri, dei grandi cittadini implicati in congiure o tradimenti, ma non conosciamo nulla dei più modesti artigiani o mercanti puniti con la pittura, eppure ci furono. La delibera del 1465 ci dice che erano riprodotti non sistematicamente e in luoghi nascosti o poco frequentati, ma la pratica continuava. È dunque la nostra limitata conoscenza di una massa di documentazione potenzialmente utile che almeno in parte falsa l’immagine complessiva. Pare tuttavia plausibile che, col passare del tempo, si sia proceduto di preferenza contro persone per le quali la fama si identificava con l’onore e per le quali l’onore era un attributo proprio nel ceto sociale di appartenenza: erano poi le persone sulle quali l’infamia riusciva ad agire con più mordente. Se le qualità dei puniti e il tipo dei reati dicono così poco, l’esistenza di eventuali caratterizzazioni della pena andrà dunque cercata con sondaggi su altri piani: non negli esiti applicativi ma alle sue radici, nelle situazioni in cui si trovò ad operare. E l’elemento che forse più di ogni altro risponde alle esigenze sopra proposte è quello del guelfismo caratterizzato da una forte presenza di popolo. In effetti le prime notizie di pitture infamanti appaiono finora tutte connesse a situazioni di preminenza guelfa con decise connotazioni popolari. La norma parmense del 1261, infatti, è contenuta in una lunga e articolata aggiunta statuaria attenta in primo luogo al funzionamento degli organi istituzionali dove si stabilisce che tutti i potenti residenti nel contado subiscano le imposizioni fiscali del comune senza per questo acquisire i diritti dei cittadini, a meno che non ne godessero in precedenza. In San Gimignano, dove gli organismi di popolo si erano sviluppati con decisione assai per tempo e dove la borghesia mercantile e finanziaria teneva il campo, il ghibellino Nanza Paltoni, che aveva ucciso il fratello, esponente del guelfismo cittadino, venne fatto dipingere nel 1274 dopo che il podestà si era consultato con i capitani e il consiglio della Parte Guelfa. A Bologna, il primo ricordo documentario di pitture infamanti è del 1274, l’anno stesso in cui vennero per la prima volta banditi in massa gli uomini di parte ghibellina, che si evidenzia in modo più acuto con l’espulsione dei ghibellini Lambertazzi e con la ricca leglislazione antimagnatizia. A Firenze il disposto legislativo trovò ufficiale nel 1283-1284 in un momento in cui la città aveva messo a punto il nuovo assetto costituzionale, incentrato sulla magistratura dei Priori delle Arti, quale organismo supremo. Qui è scritto che la maggior parte dei membri “amavano parte guelfa e di santa Chiesa”. In definitiva si può collocare verso fine Duecento il momento in cui la pittura d’infamia esce dalla fase genetica per entrare nella maturità. Di conseguenza, riprendendo il filo dell’analisi, con il secolo XIV dobbiamo ormai ritenerci fuori dal periodo in cui i collegamenti o le affinità con l’azione di particolari forze politiche o sociali possono considerarsi più immediati e significativi oltre che meno passabili di interferenze. Allora i termini “guelfismo” e “popolo” sono i soli che sistematicamente risultano applicabili ai primi, diversi casi di ricorso alla pena finora noti. Fra i caratteri della pena messi in luce senza timore di dubbio vi è quello della novità. La storia delle pene infamanti comincia ben prima del ricorso alla pittura e il colpire la persona nell’onore o nella rispettabilità non
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