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I valori, uno degli argomenti dell’antropologia, Dispense di Antropologia Culturale

I valori, uno degli argomenti dell’antropologia

Tipologia: Dispense

2020/2021

Caricato il 13/04/2024

marco-pizzolo-1
marco-pizzolo-1 🇮🇹

3 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica I valori, uno degli argomenti dell’antropologia e più Dispense in PDF di Antropologia Culturale solo su Docsity! Capitolo terzo Valori La maggior parte degli aspetti che abbiamo considerato riguardo alla cultura e alla civiltà può essere ulteriormente suddivisa in base a un preciso interesse per i valori. La cosa appare di lampante ovvietà se pensiamo alla civiltà – di per sé un termine con cui diamo una valutazione dell’«Altro», ammesso che sia possibile. Se chiedete a un americano di scegliere tra aria condizionata e libertà, sceglierà la libertà. «Vivi libero o muori», recita il motto dello stato del New Hampshire. Lo stesso accadrebbe anche in Texas, dove senza aria condizionata la vita si fa difficile. In termini di cultura, quando gli antropologi scrivono sugli Zuni, o sugli operatori della Borsa londinese interessati ai futures, o sugli indios calciatori in Bolivia, tutto si riduce in buona parte all’analisi dei valori: ospitalità, successo o uguaglianza. In effetti, gli antropologi hanno spesso usato i valori per spiegare i tipi o i generi delle culture studiate. Attraverso tutti gli studi etnografici, troverete discussioni e animati dibattiti sulla natura delle «società egualitarie», sulle «culture dell’onore» e via dicendo. Tendiamo a pensare ai valori come a elementi duraturi, fissi ed evidenti. In tal senso, però, ciò che l’antropologia ci insegna sui valori solleva piú di una domanda. In realtà, infatti, quando si tratta di studi empirici, quello che vediamo è prima di tutto quanto i valori possano risultare creativi e flessibili, il che non vuol dire che essi siano facilmente mutevoli, relativi, fragili o perfino abbandonati non appena appaiono scomodi. Che cosa tuttavia significhi esattamente la «libertà» per un americano, o chiunque altro, non dovrebbe essere dato per scontato. Potremmo analizzare questo punto in quasi ogni buon studio etnografico. A vari livelli, infatti, quasi ogni studio ci dirà qualcosa sui valori, o, anche piú precisamente, sui valori in azione. Nella maggior parte dei casi, però, i valori non sono l’obiettivo esplicito di una ricerca, e in altri piú rari gli antropologi lavorano con qualcosa che assomigli a una teoria assiologica. Ci sono tuttavia alcune notevoli eccezioni a questo stato di cose, due delle quali mi torneranno utili per inquadrare la discussione in questo capitolo. La prima eccezione è rappresentata da un corpus di opere sui popoli e sulle culture del Mediterraneo, che esplorano i valori dell’onore e della vergogna, ritenuti, almeno da alcuni antropologi, elementi costitutivi di una certa identità regionale. La seconda è costituita dal progetto, perfino piú esplicito teoricamente, dell’antropologo francese Louis Dumont, che ha dei valori un concetto di particolare significato antropologico, meritevole di essere posto al centro della scena. Onore e vergogna. Una delle discussioni piú importanti sui valori è nata tra gli antropologi che lavorano nell’area del Mediterraneo. Alla fine degli anni Cinquanta, questi antropologi iniziarono a pensare con piú ampio respiro al fatto che le persone che essi studiavano – fossero abitanti dei villaggi degli altopiani greci, berberi algerini o contadini andalusi – sembravano organizzare la propria vita attorno ai valori di onore e vergogna. In alcuni resoconti etnografici del periodo, uomini e donne (anche se spesso soprattutto uomini) sembrano quasi esclusivamente preoccupati di promuovere e proteggere il loro onore. A volte si tratta di onore personale, a volte è l’onore della famiglia; talora, poi, è l’onore del gruppo. In molti casi, i problemi sono innescati da minacce subite o trasgressioni compiute dalle donne, in particolare sorelle o figlie. Mediterraneo. Uno dei capitoli piú prestigiosi del libro appartiene a Julian Pitt- Rivers. L’autore, formatosi a Oxford e con una passione per la Spagna insolita per quei tempi, divide in due sezioni principali il suo saggio Honour and Social Status. La prima è una stimolante combinazione di considerazioni che offrono un’ampia visione d’insieme della storia del concetto di onore, densa di appassionanti riferimenti alle opere teatrali di Shakespeare e ai racconti su El Cid. La seconda è un’analisi piú mirata e comprovata della situazione presente nel villaggio andaluso in cui lo studioso aveva condotto il lavoro sul campo. Per gli addetti ai lavori, il saggio solleva un certo interesse anche perché Pitt-Rivers proviene da uno dei mondi che descrive, e non è quello dei contadini spagnoli. Julian Alfred Lane-Fox Pitt-Rivers era di origini aristocratiche. Il suo bisnonno, anch’egli formatosi a Oxford, era un nobile, nonché esperto archeologo, che aveva fondato il Museo di antropologia annesso all’università (suo padre, sfortunatamente, era un patito dell’eugenetica e un simpatizzante nazista e aveva trascorso parte della Seconda guerra mondiale rinchiuso nella Torre di Londra). Un giorno uno dei piú stretti collaboratori di Pitt-Rivers si domandò perché si prendesse tanto disturbo per ottenere un incarico accademico; nel corso della sua carriera, ricoprí varie posizioni negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Francia. Sicuramente, per qualcuno del suo rango e condizione sociale, un impiego poteva essere solo una distrazione dal vero lavoro! Pitt-Rivers sembrava offrire la classica versione dell’ambivalenza di un insider. Nelle sue riflessioni di ampio respiro sui codici d’onore, uno dei primi parallelismi che egli traccia è tra l’atteggiamento degli aristocratici e quello dei gangster. Per entrambi, ovviamente, l’onore è fondamentale, ma questo perché si considerano l’eccezione alla regola. Sia gli aristocratici sia i gangster si considerano al di là della legge: i primi pensano di esserne al di sopra; i secondi di esserne al di fuori. In entrambi i casi, i codici d’onore sono incompatibili con i modelli di giustizia e diritto imposti dallo stato, che dovrebbero sostenere il mondo moderno. Il potere relativo dello stato è stato spesso considerato un fattore chiave della forza acquisita da una cultura dell’onore. Piú forte è lo stato – e quindi piú forte è il sistema di un’autorità politica centrale, organizzata attorno a un apparato impersonale e a un modello di giustizia –, minore è l’importanza acquisita dall’onore come valore fondamentale. Il fatto che tra i paesi del Mediterraneo vi sia stata la tendenza ad avere degli stati deboli rappresentava pertanto un termine decisivo dell’equazione in questo lavoro antropologico legato ai valori. Come rimarcavano molti antropologi che lavoravano in tali contesti, l’autorità risiedeva soprattutto nella forza dell’unità famigliare. Le esibizioni di potere avvenivano nelle singole persone e attraverso di esse, anche quando facevano capo a identità aziendali o societarie. Tali manifestazioni di forza e status sociale avvenivano spesso sotto forma di atti spavaldi e, a volte, di crude affermazioni di potere, dal furto di pecore (pratica abbastanza comune tra molti pastori mediterranei) alla risoluzione di un disaccordo o di una trasgressione personale con il ricorso alla violenza. Pitt-Rivers intendeva inoltre sottolineare il potente legame esistente tra l’onore e il corpo fisico. È appunto tale legame a fare della violenza un mezzo cosí importante di riparazione o vendetta per chi si è sentito disonorato. Prendiamo per esempio i rituali connessi al conferimento o al riconoscimento dell’onore. Tali momenti cerimoniali hanno spesso il loro fulcro «corporeo» nella testa, dall’incoronazione di un monarca al conferimento della laurea a Oxford (i laureati vengono toccati sulla testa con il Nuovo Testamento, benché oggi il tocco possa anche essere quello di un’opera alternativa secolare). Per riverire lo stato onorevole di qualcuno, è uso tradizionale levarsi il cappello o chinare leggermente il capo. Nel caso dei soldati, basta pensare al saluto militare. Coprirsi la testa, sia per gli uomini sia per le donne, è un modo di proteggere e comunicare l’onorabilità della propria persona e condizione sociale. Ormai siamo avvezzi ad associare il velo con un certo tipo di devozione femminile tra i musulmani; eppure, se vi capita, date un’occhiata a qualche vecchia fotografia di donne cattoliche in Sicilia o di religione ortodossa in Grecia: hanno il capo coperto da un velo o da un fazzoletto (e probabilmente anche gli uomini indosseranno dei cappelli). Come rovescio della medaglia, Pitt-Rivers ci ricorda che, per buona parte della moderna storia europea, la forma piú vergognosa di condanna capitale era la decapitazione. «Che gli sia mozzata la testa!» non è una crudeltà ingiustificata. Nel saggio di Pitt Rivers, la rigorosa analisi condotta in Andalusia aggiunge alcuni stupefacenti dettagli e tratti particolari al grande quadro d’insieme. Nella cittadina di Sierra de Cádiz, ci informa l’autore, l’onore è sulle labbra di tutti. In questa parte del mondo esso funziona da collante sociale; in assenza di un impianto giuridico solido e formale, l’attenzione attribuita all’onore e alla sua importanza è ciò che consente transazioni economiche e sociali senza intoppi. Tale convenzione presenta tuttavia dei limiti. Si deve agire onorevolmente nei rapporti con gli altri, specialmente con quelli con cui si sono creati o con cui si spera di creare dei legami stretti: famigliari, amici o anche soci in affari. Quando però si tratta di allacciare rapporti con l’autorità o altri istituti piú astratti, come lo stato, tutto cambia. Gli andalusi di cui parla Pitt-Rivers non hanno alcuna vergogna a imbrogliare lo stato, visto che l’istituzione statale non consente quel tipo di legami personali richiesti dal codice d’onore. Gli aspetti piú importanti del materiale trattato da Pitt-Rivers, tuttavia, riguardano piuttosto le dinamiche a volte contraddittorie dell’onore e della vergogna, per esempio il modo in cui un certo «valore» può portare a richieste paradossali, o finire addirittura per travalicare nel suo esatto contrario. Pitt-Rivers lo spiega in alcune osservazioni disseminate qui e là e riguardanti un particolare soggetto da lui conosciuto, un uomo di nome Manuel. Per dirla senza mezzi termini, Manuel era basso, grasso, brutto e Sardegna, un pastorello di nove anni o dieci che non abbia ancora rubato un animale viene chiamato un chisineri, una femminuccia che non si allontana dalle ceneri del fuoco acceso dai pastori» 4. La vita pastorale incoraggia un’organizzazione sociale altamente flessibile. L’unità base è il nucleo famigliare, che può espandersi o contrarsi a seconda delle risorse disponibili. In tempi di abbondanza, le famiglie possono ingrandirsi; in tempi di magra, possono frammentarsi, disperdersi, o perfino estinguersi. Pensare in termini di famiglia è una forma di assicurazione sociale: si è obbligati a condividere ciò che si ha soltanto con coloro che vivono sotto lo stesso tetto (o tettoia, a seconda dei casi). Gli altri rapporti sono una cosa a parte. Un’esistenza transumante o nomade, in cui è essenziale la facile mobilità del gruppo, richiede anche una buona dose di autonomia politica ed economica. Tra i gruppi di pastori, gli adulti (specialmente gli uomini) rispondono unicamente a loro stessi, oppure devono sottomettersi sollecitamente all’autorità di altri. La vita pastorale, pertanto, è caratterizzata da una forte enfasi sulla famiglia nucleare, anche se per molti aspetti tale attenzione alla famiglia maschera soltanto forme di iper-individualismo. Queste dinamiche della vita pastorale possono riscontrarsi quasi in ogni regione del mondo. Le ritroviamo, per esempio, anche nelle steppe della Mongolia. A rendere diverso il Mediterraneo, sosteneva Jane Schneider, è stata la prevalenza di un certo tipo di comunità agricole su entrambe le sponde del mare, nelle zone aride e montuose. Fondamentalmente, in termini di struttura parentale e organizzazione politica, queste comunità agricole erano organizzate all’incirca come quelle dei pastori: notevole frammentazione; attenzione incentrata sulla famiglia; tendenza a conflitti interni e preoccupazioni connesse alla sicurezza alimentare. L’ipotesi della Schneider era che queste particolari comunità agricole fossero un tempo formate da pastori e che avessero semplicemente tramutato la loro vita in perenne movimento in un’esistenza piú sedentaria in fattorie e villaggi. Il problema era che questo modo di vita mal si adattava alla realtà degli uliveti. Una questione particolare sorgeva dalla consuetudine diffusa nell’area mediterranea e nota come eredità divisibile (ovvero destinare il patrimonio a tutti gli eredi) b. Tale consuetudine poteva creare complicazioni allorché si trattava di dividere dei terreni agricoli, creando dispute tra fratelli circa i confini dei terreni, l’accesso ai pozzi e cosí via (poteva funzionare meglio in un contesto puramente pastorale: dieci capre, cinque figli = due capre ciascuno). È quindi dura fare il pastore, cosí come è difficile fare i contadini quando nel proprio animo si è rimasti pastori. Fate cozzare queste comunità l’una contro l’altra, in terre con un suolo scarsamente fruttuoso e ripide pendenze, combinate tutto questo con un forte impegno ideologico nei confronti del nucleo famigliare (minato tuttavia da un impegno ancora piú forte verso se stessi), e ciò che otterrete, conclude Jane Schneider, è un mondo di relazioni sociali «ben piú complicato e conflittuale» che in molti altri contesti 5. Eppure, queste comunità non vanno in pezzi, non finiscono nel caos o in violenze sfrenate, in una lotta di tutti contro tutti per il possesso di pecore e giovani donne. Le famiglie in realtà mantengono una loro logica coerente; la cooperazione esiste; la violenza non è cosí comune come si potrebbe pensare; non sempre pecore e cammelli vengono rubati. Questo perché le società di questo genere possiedono codici d’onore e vergogna molto forti, codici in grado di regolare le tensioni e i rischi di scisma e dissoluzione. Alla fine, non sono certo che la risposta della Schneider alla domanda «Perché?» ci porti molto lontano. Si pone infatti un’altra domanda: perché onore e vergogna? Esiste qualcosa in questo abbinamento di valori che si riveli particolarmente adatto o naturale tra tali gruppi sociali fissipari? Nel suo curriculum, l’antropologia non eccelle nella spiegazione delle origini di un fenomeno, con tanto di cause alla radice ed effetti connessi. Non è certo colpa di Jane Schneider, naturalmente, e abbiamo già visto i pericoli e le aporie di un approccio basato su analisi che partono da presupposte leggi; la cosa non ha funzionato granché bene per Tylor e gli evoluzionisti sociali, né per molti altri. Questo ci lascia però con le questioni che abbiamo appena posto. Una risposta comune a queste domande, e altre simili, è colta in modo eccellente da un’altra figura chiave di questo dibattito: Michael Herzfeld. In un saggio pubblicato nel 1980, egli sosteneva che la risposta doveva risiedere in parte nel fatto che la domanda stessa era fuorviante. Questo perché, se esaminiamo la gamma di termini dissimulati nella lingua inglese dalla parola honour, «onore», ciò che troviamo è una varietà di significati, sfumature e particolarità distintive ben piú vasta di quanto avremmo potuto prevedere 6. In altre parole, nell’area del Mediterraneo non esiste nulla che possa definirsi una cultura dell’«onore e della vergogna», a meno che non si prenda l’«onore» come un termine quasi vuoto di significato. In sostanza, Herzfeld stava compiendo un passo ulteriore rispetto a Pitt-Rivers. Dove però quest’ultimo aveva considerato virtuoso il fatto di riconoscere l’ambiguità e la fluidità dell’onore e della vergogna come idee, Herzfeld vi scorgeva un vizio, quello della generalizzazione. Per sostenere la sua tesi, Herzfeld attinse al suo lavoro sul campo in due comunità della Grecia tra loro molto diverse: Pefki, sull’isola di Rodi, e Glendi, nella parte occidentale di Creta. In entrambe, la filotimia, ovvero l’amore per la time, l’«onore», o il suo «valore sociale», rivestiva un’importanza determinante. Le sue leggi e la sua cultura, tuttavia, apparivano radicalmente differenti in ciascuna comunità. Gli abitanti di Pefki, asseriva Herzfeld, erano cittadini sobri e rispettosi della legge; quelli di Glendi, al contrario, avevano fatto una virtú delle loro azioni illegali: rubavano le pecore, giocavano d’azzardo, giravano armati e in genere mostravano disprezzo per le autorità. A Pefki, quindi, la filotimia era plasmata dall’obbedienza ai diktat dello stato e dall’interesse per la comunità nel suo complesso. Durante i periodi di siccità, il sindaco rimproverava pubblicamente le poche famiglie che usavano troppa acqua per i loro raccolti; esse dovevano «mostrare filotimia», ma non facendolo, si dimostravano problematiche connesse all’onore e alla vergogna che ne fanno un dato di riferimento essenziale. In Giordania, gli «ideali dell’onore ricreano continuamente una cultura politica in cui famiglie, tribú e stati-nazione sono garanti dello stesso tipo di ragionamento morale» 10. È opinione di Shryock che in Giordania sarebbe impossibile immaginare la politica senza prestare attenzione a questo dato di riferimento, anzi, ignorarlo significherebbe trascurare fervori e interessi ideologici in ragione di quello che egli definisce un persistente «disagio intellettuale» nei confronti – in primo luogo – dell’intera idea di culture dell’onore. Ancora una volta, un imbarazzo in stile Hollywood! Quando si è un antropologo che lavora sul campo e quando le persone che si stanno studiando trasferiscono concetti come onore, reputazione e dignità «in quasi ogni contesto immaginabile» (come Shryock lo definisce), i timori di un disagio intellettuale devono essere affrontati con la ferma determinazione di una precisa attenzione ai fatti sociali. Il fatto non è semplicemente che gli antropologi devono tener conto del punto di vista dell’indigeno; oltre tutto, ne abbiamo già parlato. Ciò che Shryock intende dimostrare – elemento di fondamentale importanza – è che se rifiutiamo di riconoscere la politica domestica per quello che è, insistendo invece a rispettare la lingua e i termini che meglio si adeguano alla sensibilità accademica occidentale, finiamo per impoverire la nostra stessa base analitica. Il problema, in altre parole, non è la politica famigliare o un codice d’onore, pur con tutte le particolarità di un ambiente greco, giordano o iberico. Qui si tratta dell’incapacità di valutarne correttamente la logica, la forza e la pertinenza come qualunque altra cosa che non rispetti gli standard euro-americani. Ho accennato a tre ragioni principali per cui l’idea di una cultura dell’onore è svanita, ma ne ho menzionate soltanto due. La terza, che potrebbe essere la piú importante, è che nessun esempio di questa letteratura ha mai beneficiato di una struttura sistematica. Nessuno di questi antropologi ha mai teorizzato i valori di per sé. Nella miscellanea di Peristiany Honour and Shame, nessuno degli autori ci ricorda ciò che un attento esame dei valori può dirci sulla natura di una cultura o di una società. Per Pitt-Rivers e molti altri della sua generazione, i valori avevano un ruolo funzionale nel mantenimento di una cultura; essenzialmente, essi sostenevano che in area mediterranea gli ideali di onore e vergogna erano valvole di sfogo della pressione accumulata – pressione che non poteva essere rilasciata o gestita diversamente (per esempio grazie alla presenza di uno stato forte). Per Jane Schneider, d’altro lato, i valori sono un indice di tutti i vari fattori ecologici, economici e politici che influenzano il corso della vita di un gruppo sociale. Eppure, in realtà, potremmo perfino domandarci se la Schneider sia interessata in primo luogo proprio ai valori. Nel suo fondamentale articolo sull’onore e la vergogna, la studiosa non usa mai la parola «valore», riferendosi all’onore e alla vergogna come a un’«ideologia», a «ideali», «regole» e «codici», ma mai come a valori. Scopriamo molto sui valori da questo ricco lavoro sul Mediterraneo, che, tuttavia, non ci fornisce ancora una «teoria dei valori». Questo non è necessariamente un problema, non ultimo perché è quasi sempre l’elemento etnografico e non tanto la sua confezione teorica a resistere alla prova del tempo. E ciò che otteniamo dagli studi etnografici sull’onore e la vergogna nell’area mediterranea è una sensazione consistente e ricca di sfumature della natura fissa e insieme flessibile dei valori (o della loro idea, o ideologia) che contribuiscono a modellare la vita sociale. Nello stesso periodo in cui avvenivano queste numerose disamine della cultura dell’onore, era in corso un tentativo piú sistematico di teorizzare i valori. È a questa iniziativa, guidata da Louis Dumont dalla sua base parigina, che ora vorrei rivolgermi. Olismo e individualismo. Louis Dumont è noto soprattutto per un importante libro pubblicato nel 1966 sul sistema delle caste in India, Homo Hierarchicus. Secondo l’autore, «il sistema delle caste è innanzi tutto un sistema di idee e valori» 11. Prima di analizzare in dettaglio il suo approccio all’argomento, vorrei spendere qualche parola sull’idea di casta cosí come viene interpretata dagli antropologi (naturalmente, potreste benissimo ottenere delle spiegazioni diverse da qualche sacerdote induista). In spagnolo, portoghese, inglese e altre lingue sia romanze sia germaniche, la parola «casta» significava in origine razza, gruppo esclusivo, tribú o «propriamente qualcosa di non mescolato» 12. Nella maggior parte delle lingue indiane (hindi, bengali, tamil, telugu), il termine corrispondente è jāti, tradotto spesso come «tipo» o «specie». Esistono migliaia di caste, non sempre rigidamente fisse d. Al tempo stesso, però, tutti sanno che non è possibile spostarsi da una casta a un’altra. Le caste sono solitamente legate a un’occupazione o a un’abilità tradizionali. Nel subcontinente indiano troviamo caste di falegnami, conciatori, vasai, fabbricanti di mattoni e via dicendo. Si tratta di distinzioni importanti, tanto che in alcuni luoghi sono esclusivamente gli appartenenti alla casta dei conciatori a lavorare la pelle. Scopriamo inoltre che le caste inferiori, inclusi i Dalit (persone spesso sprezzantemente definite «intoccabili»), svolgono i lavori meno salubri, come spazzare le strade e spurgare le fogne. Ai vertici della gerarchia delle caste vi sono i bramini, ovvero i sacerdoti e i maestri indispensabili in molti dei rituali necessari a preservare la coerenza e la purezza del sovrastante sistema castale. I bramini dovrebbero costituire l’elemento che meglio rappresenta l’intero sistema induista. La realtà delle caste può risultare spesso piú palpabile e concreta nell’organizzazione e interazione della comunità. In un villaggio o in una piccola città dell’India rurale, tutti i membri di una determinata casta possono trovarsi a vivere nello stesso quartiere, relativamente ben circoscritto, a bere dal medesimo pozzo (e non da altri) e a riunirsi risulterebbe, a suo dire, «un cambiamento nella società, non un cambiamento della società» 17. Un approccio del genere guadagnò a Dumont parecchie critiche, sia dagli accademici che vedevano ignorata la reale situazione in loco, sia dagli attivisti politici che vi scorgevano un pretesto per giustificare un insieme di disuguaglianze radicate. Molti antropologi che lavorano in India non tollerano l’analisi di Dumont. Una volta mi trovavo a cena a Oslo con alcuni colleghi e, per qualche ragione, il discorso finí su Dumont. Il mio ospite quasi rimase soffocato dal pezzo di selvaggina che aveva in bocca pur di dare voce alla propria avversione nei suoi confronti. Per Dumont, invece, preoccupazioni di quel tipo – per quanto legittime possano essere e per quanto possano avere una loro collocazione in termini «politici» – impedivano di vedere il quadro complessivo, che significava innanzi tutto comprendere i valori alla base del sistema delle caste in sé. La gerarchia, ovviamente, è uno dei valori di tale sistema, cosí come lo è la purezza, ed è infatti una precisa attenzione alla purezza che Dumont pone spesso in evidenza nel suo lavoro, citando tutte quelle regole severe riguardanti la persona con cui possiamo condividere la tavola o anche solo interagire, oppure su come mantenere in ordine un tempio, un santuario e cosí via. L’interesse di Dumont per la gerarchia si manifestava tuttavia a due livelli, e ad attirare la sua attenzione era soprattutto il livello piú alto anziché il livello piú basso, quello che potremmo considerare come il livello della vita di tutti i giorni. La gerarchia, sosteneva Dumont, non dovrebbe essere confusa con la stratificazione sociale, che era appunto ciò che, a suo giudizio, facevano spesso i critici occidentali del sistema delle caste. A livello strutturale, infatti, ogni sistema di valori è gerarchico, incluso quello che troviamo, tanto per dire, nella Dichiarazione universale dei diritti umani o, sull’altra sponda dell’Atlantico, nella Dichiarazione di indipendenza americana. A livello teorico, la gerarchia non è che «il principio in base al quale agli elementi di un tutto viene assegnato un posto in rapporto a quel tutto» 18. Per Dumont, quindi, alcuni dei critici occidentali del sistema delle caste, seppure pieni di buone intenzioni, si tagliavano le gambe da soli perché non riconoscevano i meccanismi dei loro stessi sistemi di valori. Potrebbe essere utile a questo punto porre il lavoro di Dumont sull’India in rapporto con il suo piú vasto e ambizioso programma di mettere a confronto i valori occidentali con quelli non occidentali. Dumont ha scritto molto sull’argomento – interi volumi e lunghi articoli dedicati alla nascita dell’individualismo, per esempio nell’Europa cristiana. Il suo lavoro Homo Hierarchicus era solo una parte di un piú ampio progetto comparativo. Nella sua trattazione sui valori occidentali, Dumont si impegnò a smontare alcune delle tesi piú tronfie che possiamo trovare circa l’importanza e l’apparente autosufficienza di quello che egli considerava il valore cardine dell’Occidente: l’individualismo. Per prima cosa, infatti, l’individualismo è chiaramente parte di una gerarchia, essendogli attribuito piú valore che a qualsiasi altra cosa nella «gerarchia delle idee» 19. In Occidente, osserva Dumont, la libertà è un prerequisito essenziale per l’individualità, ed è per questo, in parte, che gli occidentali trovano ingiusto il sistema delle caste. Esso infatti non consente scelte libere o mobilità sociale, vanificando cosí l’autorealizzazione dell’individuo. Consideriamo questo punto tornando a quegli occidentali che probabilmente, almeno nella loro retorica, difendono la libertà piú di chiunque altro: gli americani. Il già citato motto dello stato del New Hampshire «Vivi libero o muori» riassume quasi perfettamente ciò di cui sta parlando Dumont. La libertà è ciò per cui dovremmo morire, contrapposta, per esempio, alla cooperazione o al rispetto. Questo rappresenta appunto una gerarchia di valori. Come sottolinea Dumont, tuttavia, l’imperativo categorico della libertà – cioè essere un individuo libero – appare segnato da due conseguenze paradossali. Innanzi tutto, esso significa che dobbiamo essere liberi, il che, di per sé, non è una scelta granché libera. In secondo luogo, significa che siamo davvero tutti uguali: in fondo, siamo tutti individui, pronti a esprimere la nostra individualità spesso in modo abbastanza uniforme, e probabilmente solo sulla base della cooperazione e del rispetto da parte di tutti gli altri individui che godono della medesima libertà. In un certo senso, questo ci riporta alla natura fluida del significato che i valori possono assumere in luoghi e momenti particolari, come si riscontra chiaramente in particolari lingue. Ritorniamo, in altre parole, ad alcuni dei punti importanti che si ritrovano negli antropologi interessati all’onore e alla vergogna nelle culture del Mediterraneo, quegli stessi punti che Pitt-Rivers e Herzfeld stavano provando a porre in chiara evidenza. Ciò che offre Dumont, tuttavia, è un’intelaiatura concettuale che ci permette di riflettere in modo piú sistematico sui rapporti tra i diversi valori. Al centro di questa sua impostazione vi è la tesi secondo cui tutte le società possiedono dei valori dominanti che «avvolgono» quelli minori o inferiori. È appunto questo ciò che egli intende come gerarchia di valori, ed è anche l’aspetto teorico dei suoi studi che ha avuto il maggiore impatto sugli altri antropologi. Tornando in India e al sistema delle caste, Dumont afferma che il suo valore fondamentale è l’olismo. Ciò che conta non è mai una singola parte (sia essa una casta, o un individuo), ma il tutto – un tutto composto non di parti tra loro contrapposte o antagoniste, bensí complementari, espressione di unità e armonia e chiamate a lavorare tutte assieme per realizzare il bene supremo: l’olismo stesso. È come se si trattasse di un coerente sistema simbolico con proprie regole che esprime un certo ordine del cosmo – un tipo di ordine, oltre tutto, che appartiene non solo all’India ma anche alla maggior parte del mondo non occidentale. Decisamente in linea con la metafora strutturale, Dumont si riferisce spesso ai sistemi di valori in termini di livelli. In un sistema come quello delle caste, ciò significa che in determinati contesti le relazioni sociali si possono invertire o modificare. Ne è un esempio comune il tradizionale rapporto tra bramini e re (le società indiane erano governate da re; anche se ora non è piú cosí, essi rimangono media. Downton sta dunque vivendo con i giorni contati, mentre i vari membri della famiglia e i loro servitori esibiscono e promuovono diverse versioni dell’ordine sociale dell’epoca. Alcuni dei servi, e perfino qualche membro della famiglia, desiderano un nuovo mondo di libertà e cambiamento – un mondo di moderno individualismo; altri trovano non solo conforto ma, a quanto sembra, anche una sorta di serena giustizia nel vecchio modo di vita: nell’olismo. Nel complesso, sembra vincere un’immagine nostalgica della tenuta aristocratica, in cui ognuno ha il proprio posto e lo sa, ma tutto è perfetto, tutto funziona: i servi sono rispettati e accuditi come parte della famiglia, sulla loro tavola hanno formaggio e perfino vino e a qualcuno viene promesso addirittura un cottage al momento della pensione. E hanno accesso all’avvocato di famiglia di Londra quando è necessario. La cosa piú importante, dunque, è che gli aristocratici si prendono cura degli altri e sentono il richiamo del dovere nei confronti dell’intero ecosistema, che comprende non solo le persone «al loro servizio» (cuochi, cameriere e valletti) ma anche i fittavoli e di fatto gli abitanti del villaggio vicino. In modo davvero olistico, Lord Grantham dice spesso di prendersi semplicemente cura di Downton; egli è un amministratore e non un proprietario, nel rozzo senso di un individualismo possessivo. Il dramma di Downton Abbey si dipana nel continuo rimescolamento di valori in un mondo che cambia – senso del dovere, onore, libertà, lealtà –, innescando una sorta di competizione tra i valori fondamentali dell’olismo e dell’individualismo. Lentamente, nel corso delle sei stagioni della serie, l’olismo del sistema aristocratico perde terreno dinnanzi all’individualismo del moderno stato-nazione. Ma non senza lacrime per qualcosa di irrimediabilmente perduto. Per comprendere il meccanismo dei valori in azione, Downton Abbey potrebbe offrire un esempio perfino piú variopinto della descrizione dell’India di Louis Dumont. La serie televisiva, per altro, svolge di certo un lavoro migliore di Homo Hierarchicus nel mostrare quanto il dramma della vita abbia le tinte dei valori a cui la gente si attiene. Nondimeno, vi sono studi antropologici che fanno buon uso delle idee teoriche di Dumont senza sacrificare i dettagli e il dramma della vita. Uno di questi lavori riguarda un piccolo gruppo di indigeni degli altopiani di Papua Nuova Guinea che alla fine degli anni Settanta vissero un drastico cambiamento di rotta. Un caso di tormento morale. Gli Urapmin sono un gruppo di circa 390 individui che abitano nelle estreme regioni occidentali di Papua Nuova Guinea. La maggior parte dei territori di questo paese è particolarmente remota ancora oggi a causa di alte catene montuose e fitte foreste. Per tutto il periodo coloniale, questo significò che molti gruppi melanesiani ebbero pochissimi contatti diretti con gli estranei – di certo molti di meno rispetto ad altre regioni come il Sudest asiatico, l’Africa e la maggior parte del Sud America (fatta eccezione per l’Amazzonia). In parte come risultato di tale isolamento, ancora negli anni Settanta gli Urapmin non avevano mai avvertito il pieno impatto dell’attività missionaria. Ciò nonostante, un esiguo gruppetto di uomini Urapmin aveva ricevuto un’istruzione nella scuola missionaria regionale e, al ritorno a casa, la loro opera di evangelizzazione indusse la comunità a una conversione di massa. Quasi tutti gli indigeni divennero cristiani. Quando Joel Robbins partí per studiare gli Urapmin all’inizio degli anni Novanta, non si aspettava certo di trovarsi dinnanzi al fervore di persone rinate a nuova fede 20. Robbins intendeva studiare le tradizioni locali della segretezza rituale – un argomento fondamentale nella letteratura sulla Melanesia. Trovò invece dei cristiani devoti, per i quali molti dei rituali non avevano piú valore. Si trattava di una forma di cristianesimo molto carismatica, in cui il peccato e la salvezza incombevano sull’uomo in modo inquietante, ed era stato proprio questo a spingere gli Urapmin ad abbandonare gran parte del loro sistema rituale tradizionale, inclusi i tabú a esso correlati. Per essere buoni cristiani, ragionavano gli indigeni, dovevano rinunciare ai loro modi pagani; dovevano invece, a sentir loro, vivere nel lecito, ovvero seguire i precetti del cristianesimo cosí come li avevano capiti. Questa enfasi su liceità e salvezza cristiana richiedeva un nuovo modello di personalità, giacché la salvazione (almeno in questo tipo di tradizione evangelica conservatrice) doveva essere personale, doveva essere sinceramente accettata dall’individuo nel profondo del suo cuore. Come disse un uomo urapmin: «Mia moglie non può spezzare un pezzo della sua fede e darlo a me» 21. L’individualismo era dunque diventato un valore dominante. Questo aveva funzionato egregiamente in molti ambiti esistenziali, tanto che la Chiesa locale aveva avuto piena fioritura. Come Robbins osservò, tuttavia, essa si poneva in totale disaccordo con l’idea pre-cristiana di socialità, in cui essere «un individuo» non aveva alcun senso. Come hanno sostenuto molti illustri antropologi della Melanesia, il valore tradizionalmente dominante non è né l’individualismo né l’olismo, bensí il «relazionalismo», intendendo dire con questo che ciò che i melanesiani apprezzano maggiormente è stabilire relazioni con altre persone. Le relazioni in sé sono ciò che rendono felice la vita – dunque non essere un individuo, come nel New Hampshire, né essere parte di un tutto cosmico, come nel Kerala. Come ogni valore, anche il relazionalismo conosce momenti difficili. Piú sono i rapporti che una persona stabilisce, piú si mettono in pericolo quelli esistenti. Affinché ogni relazione sia significativa ha bisogno di impegno e attenzioni. Ma esiste una quantità ben determinata di scambi di opinioni o di consigli per il giardinaggio in cui una persona può impegnarsi con dei nuovi conoscenti prima che i vecchi si sentano trascurati. Per gli Urapmin, queste difficoltà sono interpretate come la tensione tra comportamento «intenzionale» (il desiderio di creare nuove relazioni) e comportamento «lecito» (il
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