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Il berlusconismo nella storia d'Italia, Appunti di Scienza Politica

Riassunto - G. Orsina, Il berlusconismo nella storia d'Italia

Tipologia: Appunti

2016/2017
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Caricato il 19/01/2017

Eli95liga
Eli95liga 🇮🇹

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Scarica Il berlusconismo nella storia d'Italia e più Appunti in PDF di Scienza Politica solo su Docsity! INTRODUZIONE Questo libro cerca di comprendere il berlusconismo: la sostanza del discorso pubblico del Cavaliere, come esso è stato accolto dal paese, perché ha avuto successo, perché non ha funzionato. Si chiede se Berlusconi abbia proposto all’Italia un progetto ideologico e politico sufficientemente coerente da poter essere trattato come entità unitaria. Si cerca di capire il rapporto fra berlusconismo e storia d’Italia; questo libro muove dall’assunto che nel berlusconismo ci sia stata non poca sostanza politica, che il suo spessore sia stato causa, non ultima del suo successo e che meriti quindi di essere preso sul serio e analizzato con cura. Il berlusconismo è stato semplice nella comunicazione e anche semplicistico nella sostanza, ma questo non gli ha impedito di avere un’idea precisa dell’Italia e di proporre al paese una linea d’azione alquanto chiara, oltre che robustamente in sintonia con le convinzioni di una parte importante dell’opinione pubblica. Qui si ritiene che per comprendere davvero il berlusconismo sia necessario risalire alle origini dell’Italia repubblicana se non al Risorgimento; considerandolo non solo come un frutto della “anomalia italiana”, ma come un tentativo di risolverla. La comprensione del berlusconismo in terzo luogo può avvenire soltanto se si compie lo sforzo di osservare il mondo dal punto di vista di chi lo ha votato; dovremo adottare un punto di vista “tolemaico” ossia analizzare la loro diversa intelligenza, diversa moralità e diversa razionalità, diverse ma non necessariamente inferiori. Deve essere considerato una manifestazione particolarmente clamorosa, sia per intensità sia per durata, di tendenze che negli ultimi anni hanno caratterizzato tutte le democrazie. Questo libro, esaminando il “luogo” che il berlusconismo ha occupato nella storia del nostro paese, cerca di comprendere perché tutto ciò si sia verificato proprio in Italia: la risposta breve e banale alla domanda è, ovviamente, Tangentopoli. CAPITOLO 1° “ LA QUESTIONE ITALIANA “ Tutti i paesi sono storicamente peculiari, alcuni più degli altri e fra questi si trova l’Italia. Insoddisfatta perché questa sua specificità storica e politica si è sostanziata in caratteristiche più negative che positive: inefficienza grave delle istituzioni; furiosi processi di delegittimazione reciproca (divisività); radicalismo verbale e non solo; sfiducia profonda dello Stato nei confronti dei cittadini e dei cittadini verso lo Stato. 1. LA MODERNITA’ E IL MEDITERRANEO Modernità/arretratezza è la più importante fra le coppie concettuali che hanno segnato la storia dell’Italia unita. L’elite politica del Risorgimento era acutamente consapevole di come alcuni paesi dell’Europa settentrionale, come la Gran Bretagna, fra gli ultimi decenni del diciottesimo e i primi del diciannovesimo secolo fossero entrati in una diversa età della storia, creando una società progressiva. Per l’Italia la modernità andava maneggiata si con grande cautela, ma era buona: in linea generale davano un giudizio assolutamente positivo delle società progressive e uno altrettanto negativo di quelle stazionarie. Allo stesso tempo la classe dirigente risorgimentale era anche convinta che la Penisola versasse in condizioni di grave arretratezza economica, sociale e culturale, e che corresse perciò il rischio di perdere l’opportunità straordinaria che la profonda lacerazione del tessuto storico le stava offrendo. Gli esordi dell’Italia unita si svolgono all’interno di un contesto definito da due polarità opposte: la “modernità europea” da un lato, il ritardo “mediteranno” dell’Italia dall’altro. La cura era una sola: fare di tutto perché il paese, volente o nolente, si lanciasse il prima possibile e con tutte le sue forze, all’inseguimento del treno della modernità. Fin dall’epoca del Risorgimento, la storia d’Italia è stata dominata, seppure in forme e con intensità che nei decenni sono mutate anche profondamente, dal tema della forzatura, attraverso uno strumento di natura politica: lo Stato, un partito, una rivoluzione. E il soggetto della forzatura doveva essere un’élite modernizzante: un gruppo coeso, dotato d’idee chiare quanto agli obiettivi da perseguire, disponibile a usare anche le maniere spicce pur di mettere il paese in marcia. La chiave di lettura è quella delle operazioni in senso lato “giacobine”, o ortopediche e pedagogiche; ovvero degli sforzi continui e costanti che in questo paese sono stati fatti al fine di costruire, ricostruire, difendere e riparare un apparato politico “ortopedico”, ossia che raddrizzasse, e “pedagogico”, ossia che rieducasse il paese nei tempi più brevi possibili, così da renderlo capace di modernità. Il filo rosso dei tentativi di forzare per via politica il paese può anche essere analizzato, in una prospettiva differente, alla luce della dicotomia fra politica della fede e politica dello scetticismo teorizzata dal filoso inglese Michael Oakeshott. La politica della fede è quella nella quale si ritiene che l’attività di governo debba essere messa al servizio della perfezione dell’umanità; ha un’idea chiara del bene e del male e ritiene che il potere non debba esser limitato oltre una certa misura da formalismi, regole e diritti. La politica dello scetticismo, invece, non persegue in alcun modo la perfezione, e non ritiene nemmeno che l’attività di governo sia buona: crede piuttosto che sia necessaria a regolare le interazioni umane così da evitare che esse degenerino in conflitti, e che a perseguire la perfezione debbano essere i singoli individui. L’età contemporanea, secondo Oakeshott, è stata segnata dal prevalere della fede sullo scetticismo. 2. POPPER E PLATONE Ne “La società aperta e i suoi nemici” Karl Popper ha accusato Platone di aver generato una continua confusione nella filosofia politica ponendo alla radice del proprio pensiero la domanda sbagliata: “Chi deve governare?”. Là dove la domanda corretta, secondo il filosofo austriaco, dovrebbe essere: “Come possiamo organizzare le istituzioni politiche in modo da impedire che i governanti cattivi o incompetenti facciano troppo danno?”. In Italia venne seguita la via platonica, in quanto se il problema di fondo consisteva nell’arretratezza del paese, e il rimedio principale in un’opera di modernizzazione a tappe forzate, veniva naturale ritenere che identificare l’élite modernizzante fosse molto più urgente che limitarne i possibili abusi; correndo il rischio di limitarne i poteri. Il carattere strutturalmente oligarchico della politica italiana non deve sempre essere ricondotto all’egoismo o alla malafede della classe politica: in tante fasi e per tanti protagonisti della vicenda nazionale, esso è derivato dalle migliori intenzioni, 6. L’ITALIA ILLIBERALE L’Italia è un paese profondamente illiberale; in primo luogo perché quando con l’unificazione si è candidata a entrare nella modernità non era provvista di una società civile capace di accompagnarne e sostenerne la candidatura. Perché il circolo virtuoso fra libertà e progresso che caratterizza il liberalismo prenda avvio devono darsi condizioni che nell’Italia di metà 800, e in particolare in quella meridionale, non erano date. Per ovviare a questo problema lo Stato unitario gestito dall’élite modernizzante ha cercato di costruire per via autoritaria le premesse della libertà. Se la pazienza è una delle virtù cardinali del liberalismo, qui incontriamo un terzo elemento che rende l’Italia illiberale: l’ansia. Il clanismo italiano, in quarto luogo, con le sue conseguenze e i suoi corollari, è del tutto incompatibile col buon funzionamento di una società liberale. Il liberalismo è spesso presentato soprattutto come un’ideologia della frammentazione, della divergenza e della differenza. Mill accenna a un’umanità capace di migliorarsi attraverso la discussione: la nozione di “discussione” contiene al suo interno tanto la discordia quanto la cooperazione; e la nozione di “miglioramento” indica il progresso che solo può derivare da questo confronto collaborativo e disciplinato fra le differenze. La nota esortazione di Luigi Einaudi, “conoscere per deliberare”, indica che la concreta durezza delle cose può essere conosciuta solo in forma problematica, ma può essere conosciuta; e questa conoscenza per quanto provvisoria deve essere accettata da tutti i frammenti della società, individui e gruppi; intorno a questo elemento comune si svilupperà la discussione, che non potrà mai essere più divergente di tanto proprio perché ancorata alla durezza dei dati empirici; dalla discussione ordinata e progressiva scaturirà infine la decisione. CAPITOLO 2° “ LA REPUBBLICA ANTIFASCISTA DEI PARTITI “ I liberali italiani dell’epoca prefascista non amavano i partiti, perché cristallizzavano le divisioni politiche e irrobustivano le forze antisistema, mettendo a repentaglio l’egemonia dell’élite modernizzante e il suo tentativo di dare un ancoraggio oggettivo alle istituzioni, alle regole e alla verità. Con la Grande guerra però, i liberali hanno perduto la loro posizione di predominio, e i partiti popolari e socialisti, comunisti e fascisti, si sono presentati in forza sulla scena elettorale e istituzionale: questa è stata la causa del collasso del sistema politico prefascista. Nella forma in cui l’avevano pensata i liberali, la tradizione ortopedica e pedagogica imperniata sul predominio di un’élite virtuosa e sulla coerenza di un’azione pubblica incentrata su un progetto univoco di modernizzazione non poteva convivere con una società politicizzata e organizzata in partiti, a meno che non si organizzasse la società in partito, al singolare: ossia il partito, da strumento pluralistico di espressione delle divisioni sociali, diventasse strumento monistico di ricostruzione dell’unità sociale, e fosse messo al servizio della selezione di una nuova élite virtuosa e di un nuovo progetto ortopedico e pedagogico. Venne così il “fascismo” e l’Italia passò da un deficit di organizzazione partitica, e di controllo dei partiti sulla società civile e sulle istituzioni pubbliche, a un eccesso di questo e di quella. Con la caduta del fascismo, tornarono i “partiti” al plurale: si presentarono all’interno di una tradizione politica che non aveva ancora risolto il problema del rapporto fra “élite pubblica” e “popolo”, fra “paese reale” e “paese legale”. Gli storici hanno scritto molto sulla Repubblica dei partiti adottando un tono “apologetico”, sostenendo che gli aspetti positivi di quel sistema abbiano sopravanzato i negativi: i partiti sono effettivamente stati un elemento essenziale della “via italiana alla democrazia” ma questo approccio porta con sé due rischi. Il primo è quello che la storia d’Italia sia messa anche per il secondo dopoguerra sul binario della “necessità”, e che si perdano di vista le opzioni alternative; il secondo rischio è che per voler enfatizzare quel che è andato bene, si finisca per non riuscire più a spiegare come mai la Repubblica dei partiti sia finita così male. 1. I PARTITI DELLA REPUBBLICA Natura bifronte del partito politico: strumento tanto di democrazia e rappresentanza bottom-up, dal basso verso l’alto, quanto di controllo, irreggimentazione ed educazione top-down, dall’alto verso il basso. I partiti italiani del secondo dopoguerra non hanno certo mancato di svolgere la prima funzione, ma allo stesso tempo fin dagli anni della guerra di liberazione, si sono concentrati in misura non irrilevante anche sulla seconda funzione e in questo caso si sono messi per tanti versi in “continuità” col passato fascista e liberale. Si sono presentati come la nuova risposta alla “domanda platonica” su chi dovesse governare l’Italia: le due funzioni, almeno inizialmente, avrebbero dovuto interagire positivamente l’una con l’altra, la presenza di un collegamento organico con il “popolo” avrebbe impedito che le élite partitiche fossero considerate come un corpo estraneo al paese, e avrebbe creato consenso intorno ai loro sforzi ortopedici e pedagogici, e a loro volta questi sforzi avrebbero innalzato le condizioni materiali e morali del “popolo”, portandolo a confidare sempre di più nelle élite partitiche. Affermare che il Partito comunista, il socialista o anche il repubblicano si sono proposti di rieducare e raddrizzare il paese, non solleva grandi problemi infatti quelle forze politiche sono state caratterizzate da un tasso più o meno elevato, di “giacobinismo”. Sostenere la stessa tesi in relazione alla Democrazia cristiana, invece, qualche problema lo pone: “doroteismo” è per tanti versi l’esatto contrario di “giacobinismo”, una politica soffice, non intrusiva, capace di aderire da vicino agli avvallamenti e alle alture del paese. È necessario fissare 3 punti: • Sarebbe scorretto sostenere che la Democrazia cristiana sia stata un partito ortopedico e pedagogico, e tanto meno rivoluzionario; ma sarebbe pure sbagliato negare che al suo interno ci sia stato il desiderio di raddrizzare e rieducare l’Italia e di attuarvi un disegno radicale di riforma. (Dossetti) • Le pulsioni ortopediche e pedagogiche del partito, fra la fine degli anni ’40 e i primi anni ’50 sono state tenute sotto controllo da De Gasperi. Esse sono però riemerse con prepotenza nella seconda metà degli anni ’50 quando è uscito di scena e alla guida del partito è salita la “seconda generazione”. • Sul terreno dell’azione concreta di governo, non è facile dire se nella DC abbiano prevalso negli anni le anime più “dorate” o quelle più “giacobine”, sul terreno culturale invece è indubbio che le tendenze progressiste, antifasciste, ortopediche e pedagogiche abbiano avuto il sopravvento. Il discorso democristiano, non ha coinciso con la pratica democristiana del potere: il partito si è rappresentato più giacobino di quanto non sia stato in realtà: sia perché sono riusciti a “congelare” la spinta rivoluzionaria generata dalla guerra, dall’antifascismo e dalla Resistenza, e a farsene garanti, sia perché le istituzioni pubbliche proveniente dal prefascismo erano state screditate da vent’anni di fascismo e dalla catastrofica gestione dell’8 settembre, sia perché la Monarchia era venuta a mancare con il referendum del 2 Giugno. All’indomani della guerra i partiti hanno assunto un ruolo cruciale anche al di là delle Alpi, in Francia, ma fin dagli esordi il loro predominio è stato contrastato dalla presenza di Charles De Gaulle, che impersonava un’opzione politica carismatico - plebiscitaria strutturalmente contrapposta a quella partitica. In Italia niente di tutto questo: nessuna alternativa ai partiti. 2. ANTIPARTITISMO DI DESTRA Sul versante conservatore si sono sviluppate fin da subito le correnti più robuste dell’antipartitismo: il movimento dell’ “uomo qualunque” ha rappresentato la prima e più virulenta reazione organizzata contro i partiti antifascisti, la posizione egemonica che si stavano avviando a occupare nel sistema politico, le loro speranze palingenetiche e le loro aspirazioni ortopediche e pedagogiche; per come lo aveva pensato il suo fondatore, Guglielmo Giannini, il qualunquismo ha rappresentato la forma più pura di populismo liberale. Per Giannini l’unica frattura che contava era quella “orizzontale” che separava l’élite politica dal “popolo”: da un lato gli uomini politici di professione; dall’altro gli uomini qualunque, vittime innocenti ingannate, strumentalizzate, spremute. Quanto alle fratture “verticali” fra destra e sinistra, alle grande ideologie del ‘900 quali il fascismo o il socialismo, il commediografo le giudicava una mistificazione utile a ingannare gli uomini qualunque; a indurli a mobilitarsi a sostegno di questa o quella causa per loro irrilevante; a far dimenticare loro che la vera divisione era invece quella “orizzontale”. Giannini non considerava il suo movimento “di destra”: rifiutava nettamente l’ideologismo, l’ansia di irreggimentazione e il giacobinismo del passato regime, che riteneva fra l’altro responsabile di aver mandato a morire in guerra, a vent’anni, il suo unico figlio maschio. Rifiutava però altrettanto nettamente l’ideologismo, l’ansia di irreggimentazione e il giacobinismo dei partiti antifascisti, che considerava una manifestazione di fascismo al contrario piuttosto che del contrario del fascismo. La soluzione qualunquista al problema della frattura “orizzontale” era l’idea stessa che la politica potesse essere uno strumento di trasformazione più o meno radicale della realtà a essere del tutto rigettata. Populismo radicale e strutturale dunque, quello di Giannini, perché non rifiutava l’élite esistente nel nome di un’élite alternativa, ma denunciava la frattura “orizzontale” fra u.p.p. e “popolo” proponendo di sanarla con la soluzione strema di uno Stato esclusivamente amministrativo. E populismo a efficace e “oggettivo” perché radicato nella conoscenza scientifica della realtà italiana. 4. TURATEVI IL NASO E VOTATE DC Avevamo lasciato l’anti-antifascismo nel 1948, quando la profonda spaccatura “verticale” generata dalla Guerra fredda l’aveva fatto riassorbire dai partiti, e in particolare dalla Dc. Le elezioni del 1953, dando circa il 6% ai missini e il 7 ai monarchici e facendo fallire il meccanismo della leggere maggioritaria, hanno mostrato con chiarezza quanto contingente, provvisoria e reversibile fosse stata quell’opera di riassorbimento. Tutta la fase di crisi del centrismo del resto, dal 1953 al 1960, è stata segnata dal problema delle destre. Problema per la Dc, dubbiosa in una primissima fase sull’opportunità di raggiungere un accordo strutturale con quelle forze, e da allora in poi intenta a farne piuttosto un uso tattico; e problema soprattutto per le destre medesime, sempre in bilico fra la protesta populista e/o antisistema contro la Repubblica, che portava voti ma anche delegittimazione, e l’integrazione nella Repubblica, che portava via delegittimazione ma anche voti. Il problema ha riguardato anche i “liberali”: il Pli era interno alla Repubblica antifascista dei partiti, ma ai danni proprio di monarchici e missini, ha cercato di pescare nel ricco bacino elettorale dei voti anti-antifascisti, con l’intento di rieducarli e ripulirli. La vicenda del governo Tambroni nel 1960 prima e la nascita del “centrosinistra” poi hanno introdotto in questa storia una cesura profonda: sul terreno culturale e ideologico, l’antifascismo è stato espulso dal campo della legittimità repubblicana, ormai sempre più connotato da una certa interpretazione dell’antifascismo; sul terreno elettorale e politico invece i voti anti-antifascisti si sono venuti riconciliando con la maggioranza di governo, e in particolare con la Dc. 5. GLI ANNI OTTANTA E LA CRISI DELLA REPUBBLICA Il paradosso di un apparato pubblico sempre più pesante e sempre più colonizzato dalle forze politiche da un lato, ma sempre meno capace di governare il paese dall’altro; la distanza crescente fra i partiti e il paese; la presenza di una destra “sotterranea” rappresentata politicamente ma non culturalmente soprattutto dalla Dc e ostile alla Repubblica antifascista: in questi fenomeni devono essere cercate le radici storiche sia della crisi dei primi anni novanta, sia dell’emergere fulmineo del “berlusconismo”. Ossia le ragioni per cui la struttura politica italiana resta a tal punto fragile da non riuscire a sopportare l’impatto dei due violenti choc esogeni di quegli anni: la fine della Guerra fredda e il progredire del processo di integrazione economica e monetaria dell’Europa. Quelli che possiamo definire i “processi di modernizzazione” della società italiana hanno per un verso ulteriormente accelerato e aggravato la crisi di rappresentanza delle forze politiche, per un altro dato vita a mentalità, desideri e speranze che il Cavaliere avrebbe rappresentato prima sul terreno culturale con le sue televisioni, e poi su quello politico coi suoi partiti. 6. L’ARCIPARTITO Sul “comunismo” italiano gli storici hanno prodotto negli anni un dibattito assai ricco e articolato. A molti, soprattutto a partire dalla fine degli anni 60, il Partito comunista è parso una possibile soluzione al problema dell’arretratezza culturale della Penisola, che né il centrosinistra né il miracolo economico erano riusciti ad affrontare efficacemente. Il Pci appariva portatore di una diversità positiva: tensione etica, rispetto delle regole, senso della collettività, subordinazione degli interessi particolaristici a quelli collettivi, capacità di proiettarsi sul medio e lungo periodo, rapporto solido e organico fra élite politica e “popolo”. Occhi meno benevoli, tuttavia, vedevano nel comunismo italiano anche due aspetti ulteriori: una “diversità negativa” e una “non- diversità”. Per lungo tempo però la sua adesione ai valori della democrazia liberale non è stata di certo piena né incondizionata; quel che è peggio, per tanti versi è stata proprio l’arretratezza ideologica a “salvare” il Pci dall’arretratezza culturale: la diversità positiva si appoggiava alla negativa, e il venir meno di questa ha comportato l’affievolirsi pure di quella. Nella storia della Repubblica il Pci ha rappresentato l’ “arcipartito”, il più partito fra i partiti: quello col progetto ortopedico e pedagogico più radicale; il più antifascista; quello che con maggiore chiarezza aveva identificato e circoscritto un’élite coesa, determinata, virtuosa; il modello per tutte le altre forze politiche, che si sono trovate a doverlo imitare a pena di esserne sconfitte. L’uscita di sicurezza, descritta nel libro di Ignazio Silone “Uscita di sicurezza” è duplice: in una prima fase l’uscita di sicurezza è il Partito comunista; in una seconda invece è dal Partito comunista, nel momento in cui si accorgerà che l’esclusivismo rivoluzionario del partito aveva ingenerato, sotto la spessa patina ideologica, un meccanismo non troppo dissimile da quello alla cui presa lui stava cercando di sfuggire. 7. VERSO IL BERLUSCONISMO Adottare una prospettiva di lungo periodo è essenziale se si vuole comprende appieno il berlusconismo. È possibile identificare nella storia dell’Italia unita una robusta linea di continuità rappresentata da un approccio “ortopedico” e “pedagogico” al problema del rapporto fra paese legale e paese reale. Questo approccio si fonda sulla convinzione che la Penisola sia materialmente e moralmente arretrata; che debba essere modernizzata, ossia raddrizzata e rieducata, più in fretta possibile, attraverso strumenti in senso lato politici; e che di conseguenza sia assolutamente prioritario identificare l’élite politica giusta, provvederla degli utensili adatti, tenerla il più possibile al riparo dai condizionamenti della società. I vari progetti di rieducazione e raddrizzamento dell’Italia per via politica prevedevano in astratto che un paese legale virtuoso e lungimirante elevasse al proprio livello di civiltà un paese reale particolaristico e arretrato. Per tante ragioni le cose sono andate in modo diverso: l’Italia si è rivelata molto più coriacea di quanto non si credesse; le élite politiche sono state molto raramente solide e cose; lo Stato era troppo debole e inefficiente per sostenere un progetto così ambizioso; ma soprattutto il paese legale non è mai riuscito a restare a lungo isolato dal paese reale, e ha finito per esserne in larga misura colonizzato. Questa colonizzazione ha impedito alle istituzioni politiche di perseguire le ambiziose finalità ortopediche e pedagogiche. I vari progetti di raddrizzamento e rieducazione del paese hanno finito per condurre a risultati esattamente opposti: hanno confermato negli italiani la convinzione che lo Stato fosse soprattutto un nemico da cui difendersi. La reazione al fallimento del ceto di governo è consistita invariabilmente, in ogni periodo della storia d’Italia, nel tentativo di individuare una nuova classe politica che per capacità e moralità desse garanzia di volere e poter infine compiere l’opera di rieducazione e raddrizzamento del paese. CAPITOLO 3° “ IL BERLUSCONISMO “ Il Berlusconismo è nato innanzitutto dal fallimento delle vie giacobine alla modernità, presentandosi esplicitamente, consapevolmente e orgogliosamente, come il loro esatto contrario. Se quei progetti davano un giudizio negativo del paese reale e lo mettevano sotto la tutela di un paese legale considerato più progressivo, il Cavaliere ha invece postulato il carattere assolutamente positivo, l’autonoma capacità di essere moderno, del paese reale, rovesciando la valutazione critica su un paese legale reputato autoreferenziale, ostile, controproducente. Prima di lui, dal Risorgimento a oggi, nessun leader politico di primo piano, capace di vincere le elezioni e salire alla guida del governo, aveva mai osato dire in maniera così aperta, esplicita, sfrontata, impudente che gli italiani vanno benissimo così come sono. Coloro i quali si sono mossi in questa direzione, lo hanno fatto senza sfidare apertamente le culture più giacobine, anche se quelle per parte loro li hanno osteggiati con durezza, semmai le hanno aggirate e ignorate. Berlusconi no: ha ideologizzato il carattere positivo e l’autosufficienza del paese, ne ha fatto uno strumento di propaganda e raccolta del consenso, è stato apertamente anti-intellettualistico. Nel compiere questa operazione il Cavaliere ha trovato un solido punto d’appoggio nel mito antipolitico della società civile che si stava sviluppando a partire dagli anni ’80. Spinto probabilmente anche dall’esigenza di trovare al Partito socialista una collocazione politica più fruttuosa, già dalla fine del decennio precedente Bettino Craxi aveva preso atto della crescita del paese e aveva cominciato a sostenere che le istituzioni e la politica dovevano essere adeguate alle nuove circostanze storiche: insieme a lui erano i radicali di Pannella, Mario Segni e il movimento referendario, il Pci di Berlinguer prima e il Pds di Occhetto poi. Tutti costoro hanno contribuito a generare l’onda che Berlusconi ha poi cavalcato meglio di loro per 3 ragioni: • Perché è stato più coerente nel collegare il mito della società civile a un programma di riduzione della presenza dello Stato • Perché non ha avuto paura di collocarsi a destra; • Perché nel proporsi come rappresentante della società civile era assai più credibile Craxi occupa senza alcun dubbio un posto di rilievo nella genealogia del berlusconismo: sia per l’insistenza sulla natura positiva della società civile; sia per l’enfasi sull’efficienza e risolutezza della leadership, sulla sua capacità di parlare il linguaggio degli uomini qualunque, abbreviare se non annullare i tempi della mediazione politica, sciogliere il groviglio dei veti contrapposti; sia, infine, perché ha preso le distanze da una certa cultura antifascista, aprendo una linea di credito al Movimento sociale. 1. LA POLITICA DEL BERLUSCONISMO constatazione che l’avvento al potere dei postcomunisti avrebbe portato a compimento il paradosso per cui il Muro anziché sulla testa degli sconfitti era caduto sulla testa dei vincitori. La componente anti-antifascista dell’opinione pubblica ha sostenuto l’operazione “Mani pulite”, vedendo nell’operato dei giudici la denuncia del fallimento e della degenerazione del progetto ortopedico-pedagogico repubblicano e del potere politico vessatorio, autoreferenziale, particolaristico che ne era scaturito. Una seconda caratteristica dell’appello anticomunista che il Cavaliere ha rivolto ai suoi elettori è il fatto che quell’appello si sia integrato a perfezione nel quadro ideologico: l’avversione per i partiti nati dal Pci ha rappresentato una conseguenza naturale dell’opposizione originaria ai disegni ortopedici e pedagogici della Repubblica antifascista, i postcomunisti essendo considerati gli eredi dell’”arcipartito”. L’avversione per l’ “arcipartito” si è specchiata nella terza componente dell’anticomunismo berlusconiano: la denuncia del “superclan”, la denuncia della sovra ordinazione del partito alla coscienza individuale, negando che vi sia alcunché di positivo nella diversità dei postcomunisti e insistendo molto sul tema della “menzogna”. L’anticomunismo del Cavaliere ha trovato il favore di quanti, pur essendo restati dentro il campo ideologico dell’antifascismo, avevano tenuto a distanza il Pci, assunto una posizione più o meno critica nei confronti della partitocrazia e ritenuto che fosse necessario restituire spazio alla società civile (socialista, radicali). Oltre che al 1989, poi, dal 1994 il Cavaliere ha cercato di riportare l’orologio della storia agli anni cinquanta: ha ripescato quella destra ideologicamente stratificata, conservatrice, liberale, impolitica e benpensante, qualunquista in percentuali variabili. Infine Berlusconi ha riportato l’orologio della storia indietro agli anni trenta: sdoganando il neofascismo del Movimento Sociale, poi postfascismo di Alleanza nazionale. L’assetto bipolare che ha caratterizzato il sistema politico italiano dal 1994 a oggi è stato rissoso e sgangherato: fino alla caduta del Muro di Berlino la frattura fra “est” e “ovest” ha congelato lo spazio pubblico italiano, reso l’alternanza impossibile e generato il “bipartismo imperfetto”, bipartismo perché incentrato su Dc e Pci, imperfetto perché la situazione internazionale non consentiva di ai comunisti di andare al governo; la fine della Guerra fredda ha riaperto completamente i giochi, e la “discesa in campo” di Berlusconi, col recupero della destra anti-antifascista, ha reso possibile l’alternanza bipolare. Il berlusconismo tuttavia, con la complicità dell’antiberlusconismo, ha generato un bipolarismo altrettanto imperfetto perché fondato su una frattura profonda e delegittimante fra ipopolitica e iperpolitica. 2. PER UNA DEFINIZIONE DEL BERLUSCONISMO Si può azzardare a dare una definizione dell’ideologia berlusconiana: si è trattato di un’emulsione di “populismo” e “liberalismo” (estrema destra): esse possono essere distinte sul piano logico, ma sul concreto terreno storico sono del tutto inseparabili. Il berlusconismo può essere rappresentato come un “polpo a tre tentacoli”: la “testa” del nostro “cefalopode” è rappresentata dal mito della buona società civile, e i “tentacoli” sono l’ “ipopolitica”, lo “stato amico” e l’identificazione della nuova “élite virtuosa”. Di questi 4 elementi i primi due presentano un grado elevato di commistione fra populismo e liberalismo, il terzo è più spiccatamente liberale, il quarto più spiccatamente populista. Nel nostro caso il populismo si presenta emulsionato col liberalismo a motivo della concezione particolare che il Cavaliere ha del popolo: una somma di individui diversificata, pluralistica, cangiante, permeabile e aperta verso l’esterno. Vari analisti, insistendo soprattutto sull’importanza non soltanto materiale ma anche simbolica che Mediaset e il Berlusconi imprenditore televisivo hanno avuto nella vicenda del Berlusconi politico, hanno sostenuto la tesi secondo cui il popolo berlusconiano sarebbe fatto soprattutto di consumatori: questa tesi è unilaterale perché oltre che ai consumatori il Cavaliere si è rivolto senz’altro pure ai produttori. Da un lato l’Italia del Cavaliere si è proposta come una società civile compiutamente articolata, moderna e multiforme, composta di individui autonomi, maturi e socievoli, ipopolitica ma non antipolitica. Dall’altro quell’Italia si è presentata invece come un popolo che, per quanto non concepito in termini etnici o nazionali, è stato però reso unitario, omogeneo e semplice dalla sua bontà, dall’adesione universale a determinati valori umani fondamentali. I liberali si collocano lungo l’asse destra/sinistra a seconda del loro grado di fiducia nelle virtù della società civile e di pazienza nell’aspettare che essa risolva da sé i propri problemi: la destra liberale ha fiducia e pazienza e perciò attribuisce allo Stato e alla politica un ruolo marginale; la sinistra liberale è meno fiduciosa e più impaziente, e dà quindi allo Stato e alla politica un’importanza molto maggiore. Il liberalismo berlusconiano è stato di destra anche in termini storici, visto che si è agganciato a tradizioni politiche che in epoca repubblicana si erano collocate da quella parte: quel poco di cultura liberale antigiacobina che c’era; tanto diffuso qualunquismo antistatalistico e antipolitico; l’orgogliosa fiducia nelle proprie capacità nutrita da alcuni settori della società civile soprattutto settentrionale. La proposta politica del Cavaleriere non poteva nascere che dalla Lombardia, o meglio dalla Brianza, dove è presente una società civile vivace, fattiva, intraprendente, organizzata, convinta che se ci fosse meno Stato potrebbe cavarsela non solo ugualmente bene, ma molto meglio. CAPITOLO 4° “ L’ELETTORE BERLUSCONIANO “ Negli ultimi due decenni, e nell’ultimo più che nel penultimo, gli studiosi di opinione pubblica, comunicazione, elezioni hanno raccolto, pubblicato e interpretato una notevole quantità di dati sul comportamento politico degli italiani. 1. CHI HA VOTATO PER BERLUSCONI Nelle cinque elezioni generali che si sono svolte fra il 1994 e il 2008, le coalizioni e i partiti guidati da Berlusconi hanno costantemente ottenuto percentuali notevolmente più alte fra chi svolgeva attività in proprio che nelle altre categorie professionali, e con altrettanta costanza e rilievo percentuali più basse invece tra impiegati e funzionari pubblici. Nel momento in cui per varie ragioni l’indebitamento è divenuto insostenibile si è aperto il conflitto su chi dovesse pagare il conto, se lo Stato, affrontando una notevole cura dimagrante, o la società civile, trasferendo all’apparato pubblico una quota maggiore di risorse. Con il “terremoto” dei primi anni 90 questo conflitto ha avuto l’opportunità di acquistare un rilievo politico: nel nuovo schema bipolare i consensi socialmente molto variegati che per decenni erano andati alle forze di governo, sono defluiti in parte predominante verso il centrodestra e in parte minore verso il centrosinistra. E uno degli spartiacque che hanno regolato il deflusso è stato proprio l’occupazione: gli elettori democristiani che lavoravano in proprio si sono orientati tendenzialmente verso il Cavaliere, quelli che lavoravano per lo Stato, sempre tendenzialmente, contro di lui; e questo ci fa capire che gli elettori hanno percepito chiaramente la scelta compiuta dal Cavaliere in favore della società civile e del privato. Il voto berlusconiano, così come quello non berlusconiano, si è fondato soprattutto su considerazioni di natura politica, ideologica e morale. L’elettorato del centrodestra appare “alienato” e “atomizzato”, caratterizzato da un netto handicap di partenza in termini di risorse di centralità politica e culturale. La forza di Berlusconi consiste nella sua capacità di dare “rappresentanza” alla società italiana quale essa è, con i suoi aspetti di arretratezza, di tradizionalismo, di antipolitica. Un voto che si appella ad una cultura antica, ad una antropologia pre-politica. Gli studiosi hanno risolto questa contraddizione, marginità sociale e intraprendenza economica, ipotizzando che dentro l’ampio sacco dei voti moderati vi siano in realtà due gruppi distinti, ai quali i partiti della coalizione berlusconiana si sarebbero indirizzati con uno studiato mix, che ha permesso di rivolgersi ad alcune componenti del mondo economico, insoddisfatte degli attuali assetti politici e istituzionali e contemporaneamente adottare un linguaggio persuasivo per la parte più tradizionale dell’elettorato, presenza costante della nostra storia politica ed elettorale. Tra le persone che dichiarano di non interessarsi alla vita pubblica, possiamo distinguere: gli impolitici passivi, per cultura e collocazione sociale e gli impolitici attivi, che si disinteressano alla vita pubblica non perché non abbiano gli strumenti per affrontarla, ma perché hanno scelto consapevolmente di starne lontani. Uno studio incentrato sulle elezioni del 2006 sembra conferma la presenza di questa componente “attivamente impolitica” dell’elettorato berlusconiano. Si può dividere l’elettorato berlusconiano in 3 parti: • Elettori socialmente e culturalmente “centrali”, competenti e interessati alla politica • Elettori altrettanto “centrali” ma convinti, non necessariamente a priori, che non valga la pena perder troppo tempo con la politica (impolitici attivi) • Una componente di elettori socialmente e culturalmente periferici che non dispongono di solidi strumenti cognitivi (impolitici passivi), gli alienati; dal 2001 al 2006 una percentuale di questi elettori è passata dal centrodestra al centrosinistra, sospinta dall’insoddisfazione per l’operato del governo di Berlusconi Le ricerche dal 1996 al 2001, dal 2001 al 2006, dal 2006 al 2008 affermano che a spostarsi da destra a sinistra sono persone che vedono la politica con uno sguardo distante, inequivocabilmente da spettatori, non informati e interessati alla politica. In Italia l’elettorato di “alta qualità” tende a identificarsi con un partito: in Italia chi si interessa di politica lo fa in maniera militante, mentre chi non milita non si interessa alla politica. La straordinaria abilità di Berlusconi appare perciò essere consistita nella sua capacità di “pescare” in un elettorato che è si il più impolitico, ma proprio per questo è quello che meno si è fatto irrigidire dall’opzione aprioristica per l’una o l’altra parte. Diamanti identifica due “zone azzurre”, territori in cui Forza Italia impatto sullo spazio pubblico italiano che può essere considerato coerente sia con gli obiettivi che esso si era prefissati, sia da alcuni punti di vista, positivo: politicizzando l’antipolitica ha estratto dal loro profondo scetticismo, mobilitato e coinvolto nella vita pubblica, pezzi di società che pochi fino ad allora erano riusciti a raggiungere; ha creato le condizioni perché prendesse forma un sistema politico bipolare. Il berlusconismo di governo infine ha prodotto leggi, decreti, riforme e decisioni in quantità. • 1994-1996 berlusconismo d’assalto • 1996-2001 berlusconismo di consolidamento • 2001-2006 berlusconismo di governo • 2006.. 1. 1994: IL BERLUSCONISMO D’ASSALTO Lo spirito dei tempi nel 1994 era segnato dalla caduta del Muro e da una visione ottimistica dei processi di globalizzazione. L’Italia aveva appena assistito al collasso del sistema politico repubblicano: Berlusconi è stato incredibilmente abile nell’intercettare questo desiderio di novità con un messaggio che poteva apparire non solo plausibile e coerente, ma anche entusiasmante. Il berlusconismo aveva tentato una forzatura eccessiva del tessuto storico italiano, crisi del primo governo alla fine del 1994. L’operazione, in primo luogo, non era sostenuta da risorse politiche adeguate. Nell’attesa che si verificasse la formazione e selezione di un’élite pubblica nuova, capace ed efficiente, il berlusconismo se la doveva cavare con la cultura e la classe dirigente che era riuscito a recuperare dal naufragio di Tangentopoli. Negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso i repubblicani americani e i conservatori inglesi sono stati magari meno fortunati alle elezioni che in altri periodi della loro storia, ma di certo non sono stati marginali né nella politica né nelle istituzioni, in quei decenni, poi, alcuni loro settori hanno svolto un importante lavoro ideologico sul quale in seguito Thatcher e Reagan si sono potuti appoggiare. In Italia invece non è accaduto nulla di tutto questo: le tradizioni di pensiero capaci di fondare un’autonoma politica dello scetticismo sono state estremamente fragili, per cui la politica dello scetticismo ha esibito una natura prevalentemente negativa e reattiva. La forzatura che il berlusconismo ha tentato nel 1994, non è stata tollerata dalle istituzioni: il Cavaliere si è trovato ad agire all’interno di istituzioni politiche nelle quali per ovvie ragioni storiche il momento dei contrappesi e delle garanzie era largamente sovradimensionato rispetto a quello della decisione. Il berlusconismo ha suscitato fin dal 1994 in una parte consistente e qualificata dell’opinione pubblica italiana una reazione se non incomprensibile, certo sbalorditiva per intensità e durata: Berlusconi ha rappresentato l’oggetto più carico di emozioni che circolava nel sistema politico italiano, emozioni in larga misura negative, visto che il Cavaliere è stato detestato a sinistra con un’intensità molto maggiore rispetto a quella con cui lo si è benvoluto a destra. Le élite intellettuali non potevano che trovare insopportabile la sfrontatezza con cui Berlusconi incoraggiava e giustificava il distacco degli italiani dalla politica, non potevano accettare la svalutazione e l’irrisione del loro ruolo che erano implicite nel messaggio berlusconiano, e soprattutto non potevano sopportare l’idea che il loro posto fosse occupato da una nuova élite emersa direttamente dal mondo della produzione. Politicizzando l’antipolitica e “sdoganando” le varie destre italiane, in conclusione, Berlusconi ha cercato di prendere il controllo degli strumenti del governo al fine di rivolgerli contro se stessi. E quelli, non incomprensibilmente, hanno esercitato la massima resistenza politica, culturale e corporativa che è stata loro possibile. 3. 1996-2001: IL BERLUSCONISMO DI CONSOLIDAMENTO Le delusioni legate alla conclusione precoce e traumatica della prima esperienza di governo e alla vicenda del “ribaltone” si sono riflettute nell’immediato su una campagna elettorale, quella del 1996, difensiva, recriminatoria e meno efficace della precedente. Il berlusconismo mostrava una capacità di tenuta sulla quale ben pochi avrebbero scommesso, mantenendo livelli di consenso di tutto rispetto. Al proporzionale la percentuale di Forza Italia era di pochissimo inferiore rispetto a quella del 1994; comparivano poi i primi segnali di un certo mutamento di rotta a livello di classe politica: una parte consistente dei candidati del 1994 non era ripresentata, e spuntava invece una piccola pattuglia di “reduci della prima Repubblica”, di conseguenza erano raddoppiati i politici “esperti”. Con il 1996 si apriva così la stagione del “radicamento” del berlusconismo, radicamento organizzativo, in primo luogo: fra il gennaio del 1997 (nuovo statuto) e il 2001 Forza Italia è venuta evolvendo da movimento in un vero e proprio partito con tanto di iscritti, organi collegiali, regole per la selezione della classe dirigente. Radicamento “locale”, poi, con uno sforzo notevole di penetrazione nel territorio e costruzione di consenso in previsione del voto nazionale del 2001. E infine radicamento nella “competenza politica”, con la prosecuzione dell’opera di recupero dei “reduci” localmente più ancora che a livello nazionale (sintomo di normalizzazione). Questo processo di “democristianizzazione”, che ha trovato un riscontro nel 1998 quando Forza Italia è entrata nel Partito popolare europeo, ha riguardato anche la sostanza ideologica del berlusconismo, che ha cominciato a spostarsi verso il polo moderato, conservatore e cattolico staccandosi da quello liberale e liberista. 4. 2001-2006: IL BERLUSCONISMO DI GOVERNO Il berlusconismo si è presentato composto di 2 elementi organizzativi, ideologici e politici differenti. Da un lato la leadership del Cavaliere, istintiva e movimentista, legata alla retorica sempre riconfermata della positività assoluta della società civile; dall’altro le strutture politiche, partito, classe dirigente, un po’ di cultura, che erano venute prendendo forma nella seconda metà degli anni ’90. Le due componenti spingevano in direzioni differenti ma non del tutto inconciliabili. Lo sviluppo delle strutture politiche prefigurava un processo di piena istituzionalizzazione del berlusconismo. Fra il 2001 e il 2006 la tendenza del centrodestra a oscillare più verso il polo conservatore che verso quello liberale, si era venuta rafforzando (conseguenza dell’11 settembre). La questione istituzionale ha messo in evidenza la natura contraddittoria del berlusconismo: da un lato infatti il leader era costretto ad avere successo subito e non poteva quindi fermarsi a riformare le istituzioni; dall’altro la riforma istituzionale era l’unica via possibile perché dalla retorica dell’immediatezza si passasse all’immediatezza reale. La congiuntura nella quale si è mosso il berlusconismo di governo non era positiva, e alcune leve della politica economica, a partire ovviamente da quella monetaria, si erano fatte ormai del tutto indisponibili. Rispetto alla fase ascendente degli anni ’80 e ’90, inoltre, per la cultura liberale aveva preso avvio un periodo di riflusso: larghi strati dell’opinione pubblica cominciavano a non considerare più i processi di “globalizzazione” con ottimismo, come una straordinaria opportunità da cogliere, ma come una minaccia da cui proteggersi. Per un altro verso, però, la “scoperta” che la società italiana aveva col liberalismo un rapporto per lo meno ambiguo si è ricollegata a motivi più profondi e meno congiunturali: dopo 150anni di ortopedia e pedagogia la società italiana era stracolma di Stato, frenata, ingessata, irritata ma pure aiutata, sostenuta e pagata dallo Stato. Per il populismo berlusconiano, sostanzialmente conservatore, l’espressione “accettare il paese così com’è” significava “così come sarebbe naturalmente stata se l’intervento pubblico non l’avesse artificialmente distorta e corrotta”, e chiedeva perciò un’opera imponente di smantellamento dello Stato. Il berlusconismo si trovava così di fronte a un paradosso: il “liberalismo” come teoria di uno Stato non neutrale e astinente, ma al contrario “iperattivo” nello smontare se stesso e nel restituire alla società quote crescenti di risorse, potere e autonomia, perfino là dove quella società non lo stava neppure chiedendo. La riforma delle istituzioni e l’avvio di un processo di ristrutturazione dei rapporti fra Stato e società, potevano trasformarsi in un terreno di “convergenza”: entrambe le iniziative avrebbero richiesto tempo e consumato risorse politiche, ma entrambe avrebbero anche potuto rafforzare la leadership. 4. 2005-2006: LA FINE DEL BERLUSCONISMO? Nel 2005 il tono dei discorsi di Berlusconi è cambiato a tal punto da condizionare pure i contenuti. L’approccio ottimistico, positivo, costruttivo e programmatico dei tardi anni novanta ha lasciato completamente lo spazio a un atteggiamento giustificatorio e recriminatorio. Berlusconi ha cominciato allora a rivendicare il molto che era stato fatto dal suo governo e soprattutto a denunciare i tanti ostacoli che, a suo dire, ne avevano frenato lo slancio riformistico. Avendo ripiegato su un atteggiamento difensivo così lontano da quello di 4 o 5 anni prima, il Cavaliere a quel punto non poteva più chiedere con troppa convinzione un voto positivo di sostegno al proprio schieramento e al proprio programma, ed è passato a chiederne uno prevalentemente negativo che tenesse fuori dal potere lo schieramento avversario: l’avversione per le sinistre in generale e l’anticomunismo in particolare hanno sempre costituito elementi portanti della retorica berlusconiana. Dal 1994 al 2001 tuttavia i discorsi contro erano rimasti sempre inseparabili dai discorsi pro: il Cavaliere chiedeva un voto “bifronte”, che tenesse fuori i cattivi e desse al contempo potere ai buoni. Nel 2005 la porta positiva della comunicazione era in larghissima misura volta al passato, ossia difendeva quel che era stato fatto ben più che prospettare interventi nuovi, mentre del futuro si parlava soprattutto in termini negativi, di opposizione alla sinistra. L’argomentazione procedeva secondo lo schema tripartito: “rivendicazione, giustificazione, esclusione”. La campagna del 2006 ha seguito passo per passo lo schema che i discorsi di Berlusconi avevano disegnato già nella seconda metà del 2005: da un lato difesa del quinquennio di governo, dall’altro, enfasi sugli aspetti negativi dello schieramento di centrosinistra e sui danni che avrebbe potuto
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