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Il delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti ex art.612ter, Tesi di laurea di Diritto Penale

Nel mio lavoro di tesi mi sono approcciata all’argomento del nuovo delitto di cui all'art. 612-ter c.p., introdotto dalla legge n. 69 del 2019 anche nota come “Codice rosso”.Dopo un excursus storico sull’impostazione della disciplina della violenza di genere nell’ordinamento italiano e sulla collocazione del nuovo articolo, criticata da quella parte di dottrina che riteneva più appropriato un eventuale apposito titolo del Codice, dedicato alla tutela della riservatezza sessuale, mi sono soffermata sul concetto di violenza di genere in ambito internazionale, sui principali strumenti giuridici internazionali e i numerosi strumenti di soft law introdotti dagli organi dell’Unione. Ho inoltre analizzato il vulnus normativo relativo alla condotta di diffusione non consensuale, dato dall’inesistenza di una norma incriminatrice ad hoc, e le diverse fattispecie applicate in via suppletiva dall’interprete per punire la condotta in esame prima dell’introduzione del 612-ter c.p...

Tipologia: Tesi di laurea

2020/2021

In vendita dal 19/03/2024

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Scarica Il delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti ex art.612ter e più Tesi di laurea in PDF di Diritto Penale solo su Docsity! Università degli Studi di Cagliari Facoltà di Scienze Economiche, Giuridiche e Politiche Corso di Laurea Magistrale a ciclo unico in Giurisprudenza Il nuovo delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti ex art. 612-ter c.p. nell’ambito della tutela della persona Relatore: Prof. Giovanni Cocco Candidato: Monica Sorgia Ruiu Anno Accademico 2020/2021 2 5 6.5 Diffusione di riprese e registrazioni fraudolente (art. 617-septies c.p.) ...................................................................................................... 106 Capitolo III – Il delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone rappresentate, c.d. Revenge porn (art. 612-ter c.p.) 1. Analisi del fenomeno del revenge porn ......................................... 109 2. Analisi della disciplina normativa .................................................. 116 2.1 I soggetti ........................................................................................ 118 2.2 La condotta di cui al primo comma ............................................... 119 2.3 La condotta di cui al secondo comma ............................................ 127 2.4 Le circostanze aggravanti .............................................................. 130 2.5 La consumazione del reato ............................................................ 138 2.6 L’elemento soggettivo ................................................................... 142 2.7 Il regime della procedibilità ........................................................... 143 3. La condotta antigiuridica: il difetto del consenso dell’avente diritto ............................................................................................................ 148 4. La clausola di salvaguardia e il concorso di norme ....................... 150 6 5. La pornografia non consensuale come nuova forma di violenza di genere ................................................................................................. 156 5.1 Il problema della colpevolizzazione della vittima ........................ 160 5.2 Aspetti psicologici ......................................................................... 163 5.2.1. Revenge porn e suicidio della vittima...................................... 168 6. Cenni comparatistici ....................................................................... 171 7. Aspetti problematici e prospettive di riforma ................................ 180 Indice bibliografico ...............................................................191 Indice della giurisprudenza .....................................................227 7 10 pubblica, bene giuridico potenzialmente compromettibile da molteplici condotte illecite attinenti la sfera sessuale, non punite per la lesione fisica e mentale subita dalla vittima, ma per il pregiudizio alla moralità della società, alla reputazione della famiglia di appartenenza della donna, tutelata non nella sua individualità ma come oggetto del potere patriarcale. L’ordinamento era infatti contraddistinto dalla prevalenza degli interessi pubblici su quelli del singolo individuo, con la conseguente tendenza ad incriminare tutte le condotte in grado di minacciare la tranquillità pubblica. Con il mutamento culturale della società tale prospettiva si è evoluta, con una sempre crescente propensione a focalizzare il dibattito politico sui diritti umani, auspicabilmente riconosciuti e garantiti a ciascun individuo. Con l’entrata in vigore della Costituzione, il 1° gennaio 1948, si assiste ad una prima tappa di tale cambiamento: il focus dell’ordinamento si sposta sulla tutela della persona e dei suoi diritti, scevra di qualunque discriminazione, come prevedono l’art. 2 Cost. in base al quale «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale», e l’art. 3 Cost., «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese». La seconda parte del secondo capitolo è incentrata sul concetto di violenza di genere in ambito internazionale, con un détour sui principali strumenti giuridici internazionali quali la Convenzione per l’eliminazione di tutte le norme di discriminazione delle donne e la Dichiarazione per l’eliminazione di ogni forma di violenza nei confronti delle donne, nonché le Conferenze mondiali sulle donne e la Convenzione di Istanbul, primo strumento giuridicamente vincolante adottato nell’ambito del Consiglio d’Europa con lo specifico obiettivo di predisporre una disciplina complessiva e integrata, volto a favorire la protezione del genere 11 femminile contro qualsiasi forma di violenza e a prevenire e sopprimere la violenza domestica e contro le donne; e numerosi strumenti di soft law introdotti dagli organi dell’Unione, la c.d. Carta delle donne e la Strategia per la parità tra uomini e donne 2020-2025 della Commissione europea, nonché molteplici direttive in materia di diritti, assistenza e protezione della vittima di reato e di prevenzione e repressione della tratta di esseri umani e protezione delle vittime. Il secondo capitolo si chiude con l’esame del vulnus normativo relativo alla condotta di diffusione non consensuale precedente all’entrata in vigore della legge 69/201, dato dall’inesistenza di una norma incriminatrice ad hoc, e delle diverse fattispecie applicate in via suppletiva dall’interprete, per punire la condotta in esame prima dell’introduzione dell’art. 612-ter c.p. Queste, per diversi motivi, si sono dimostrate inadeguate a incriminare efficacemente il fenomeno, con la conseguente esigenza, percepita sia dall’opinione pubblica che dalle forze politiche, di integrare l’ordinamento penale di una disposizione volta a criminalizzare la condotta di pornografia non consensuale. Il terzo capitolo si apre con un prospetto del lungo e travagliato iter legislativo che ha portato all’adozione della disposizione che da il titolo all’elaborato, contrassegnato da svariati disegni di legge che si sono susseguiti nel corso del tempo. Incentrandosi sul fenomeno della diffusione non consensuale di immagini o video dal contenuto sessualmente esplicito, si è ritenuto opportuno soffermarsi sull’espressione anglosassone “revenge porn” con cui è comunemente conosciuto, traducibile come “vendetta pornografica”. Indagando il suo contenuto semantico tale locuzione si dimostra inappropriata ad indicare il fenomeno, in quanto non idonea a ricomprendere in toto la molteplicità delle condotte riconducibili al fenomeno in esame. In effetti accogliendo la diffusa espressione “revenge porn” si limiterebbe la portata applicativa esclusivamente all’ipotesi in cui la condotta illecita sia stata determinata da finalità vendicative; ma l’autore del reato può avere come moventi anche altri propositi, alieni alla vendetta. Per questo motivo, allo scopo di ricomprendere un numero maggiore di casi nel novero del reato in esame, è auspicabile l’utilizzo di 12 altre diciture, tra le quali la più pertinente risulta essere quella di “pornografia non consensuale”. Successivamente si analizzerà la disciplina normativa, ponendo l’attenzione sul tema del consenso dell’avente diritto, nonché sull’incidenza della clausola di salvaguardia, attraverso l’impiego della quale si estrinseca il rapporto di sussidiarietà, e il problema del rapporto tra l’art. 612-ter c.p. e altri reati. Si proseguirà poi con una rassegna comparativa della normativa sul reato in esame prevista in altri ordinamenti, sia in Europa che oltreoceano, in particolare negli Stati Uniti, che vantano il primato per l’introduzione di una disciplina ad hoc. Nel concludere l’esame della fattispecie si è porrà infine l’attenzione sui molteplici profili problematici che emergeranno nel corso dall’analisi della stessa, unitamente alle prospettive di riforma de iure condendo con le quali con le quali si auspica un intervento legislativo integrativo, volto a sanare le imprecisioni e le lacune sussistenti nell’attuale formulazione della norma. 15 Nella prospettiva del codice Rocco «la libertà individuale è un concetto di genere, e la libertà personale ne è una sottospecie»8. Nello specifico, il codice del 1930 distingue cinque gruppi di delitti contro la libertà individuale: i delitti contro la personalità individuale (che riguarda il generico status libertatis della persona); i delitti contro la libertà personale; i delitti contro la libertà morale (che attiene invece alla libertà psichica intesa come libertà di autodeterminazione, capacità di intendere e di volere etc.); i delitti contro l’inviolabilità del domicilio; i delitti contro l’inviolabilità dei segreti. Dunque, comprende soltanto quelle ipotesi criminose che offendono la libertà individuale in modo unico o principale, facendo rientrare così tra i delitti contro la libertà individuale «soltanto quei fatti che ledono o espongono a pericolo, in modo esclusivo o prevalente, questo bene, il quale riguarda la persona: ragione per cui i delitti contro la libertà individuale costituiscono una delle categorie dei delitti contro la persona».9 Le sezioni II e III, concernenti la libertà personale e quella morale, sono frutto delle concezioni culturali dell’epoca della codificazione; sono state arricchite di innovazioni negli ultimi trent’anni, con il potenziamento della tutela dalle interferenze arbitrarie nella vita privata, del domicilio e della corrispondenza messe a rischio dalle nuove tecnologie (l. n. 547/1993); l’inserimento delle norme a tutela della libertà sessuale con la l. n. 66/1996; gli interventi attuati con le leggi n. 38/2006 e n. 172/2012 in materia di prostituzione e pornografia minorile; e infine la legge n. 69 del 2019, in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere (c.d. “Codice rosso”). Invero, la collocazione prescelta ha suscitato qualche perplessità in dottrina: infatti, la configurazione del reato di cui all’art. 612-ter c.p. nei delitti lato sensu di minaccia non rispecchia il dato criminologico del fenomeno, che il più delle volte non è caratterizzato da una finalità minatoria dell’autore del reato10, con la 8 G. COCCO, Manuale di diritto penale, parte speciale. I reati contro le persone: vita, incolumità personale e pubblica, libertà, onore, moralità pubblica e buon costume, famiglia, sentimento religioso, per i defunti e per gli animali, Padova, 2014, 278. 9 V. MANZINI, Trattato di diritto penale, Torino, 1937, 529. 10 Cfr. Relazione n. 62 della Corte Suprema di Cassazione, Ufficio del Massimario e del ruolo, sulla Legge 19 luglio 1969, n. 69, «Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere», consultabile al sito www.cortedicassazione.it. 16 conseguenza che la condotta dovrebbe essere punita in virtù della sua lesività nei confronti della sfera più intima e personale dell’individuo, prescindendo da un eventuale carattere minatorio. Alla luce di tali considerazioni, era stata ipotizzata la proposta di introdurre un apposito titolo del Codice, dedicato alla tutela della riservatezza sessuale, prima dell’attuale Sezione III del titolo XII11. 2. Inquadramento dei principi Costituzionali che regolano la materia Con l’entrata in vigore della Costituzione italiana il 1° gennaio 1948 la libertà trova ampio riconoscimento, costituendo «l’asse portante e la linfa circolante della nostra Costituzione democratico-personalistica»12. Nella Costituzione si concretizzano, infatti, i principi fondamentali del libero svolgimento della personalità e del pieno sviluppo della persona ai sensi degli artt. 213 e 3 Cost.14, e la tutela della persona e dei suoi diritti diventano il focus dell’Assemblea costituente. La persona umana è posta al centro dell’ordinamento; la Carta riconosce i diritti inviolabili dell’uomo, come singolo, e nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità, escludendo l’impostazione statocentrica caratteristica del codice Rocco e dell’ordinamento fascista. Tra la Costituzione e il codice Rocco non vi è stretta corrispondenza, sia da un punto di vista ideologico che sistematico: nella Carta costituzionale infatti vige il prioritario divieto, rivolto allo Stato e ai terzi, di interferire negli spazi di libertà degli individui, laddove nell’impostazione originaria del codice del 1930 il valore 11 Sul punto, cfr. la Integrazione alle osservazioni dell’Unione delle Camere Penali Italiane al disegno di legge n. 1200 (Bonafede, Salvini, Trenta, Bongiorno, Tria) all’esito delle audizioni tenute dalla Commissione Giustizia del Senato in data 11 giugno 2019, consultabile al link www.camerepenali.it; inoltre, G.M. CALETTI – K. SUMMERER, Osservazioni in merito ai disegni di legge n. 1076, n. 1134, n. 1166 in tema di c.d. “Revenge Porn”, in www.senato.it. 12 F. MANTOVANI, op. ult. cit., 259. 13 Art. 2 Cost. «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». 14 Art. 3 Cost. «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». 17 delle prerogative individuali era riconosciuto in via sussidiaria rispetto a quelle pubbliche, con la conseguenza che la persona era in funzione dello Stato, e non viceversa. Inoltre, la Costituzione non si incentra su una libertà umana onnicomprensiva, attribuendo rilievo centrale alla persona, tutelando singoli diritti di libertà meritevoli di tutela15; al contrario, il codice predispone un assetto differente, dal momento che si estende a tutte le libertà, garantite o non garantite costituzionalmente, ponendo la norma generale (che reprime la violenza privata ex art. 610 c.p.) a salvaguardia della libertà umana come bene offeso unico o prevalente, dalla quale si diramano le norme speciali, che tutelano anche altri beni. Alla ristretta cerchia dei diritti della personalità si riconduce il diritto alla riservatezza, che trova il suo fondamento giuridico in alcune norme della Costituzione (artt. 216, 13, 14 e 1517). In forza di tale diritto, anche diffuso con l’appellativo anglosassone privacy, «chiunque ha diritto alla protezione dei dati personali che lo riguardano»18, ossia a tenere segreti aspetti, comportamenti, informazioni, atti relativi alla sfera intima della persona, senza che tali informazioni vengano divulgate senza l’autorizzazione del soggetto interessato. Infine, viene in causa l’art. 21 Cost., considerato dalla giurisprudenza costituzionale la “pietra angolare dell’ordine democratico”19, norma posta a tutela della libertà di manifestazione del pensiero, che al 1° comma dispone che «tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione»: l’oggetto specifico è costituito dal diritto di comunicare il proprio pensiero ad una sfera indeterminata di destinatari20. L’introduzione di limiti all’esercizio della libertà di manifestazione può essere giustificata soltanto in un caso, previsto dall’ultimo comma dell’articolo in 15 Artt. 13-19, 21, 33, 41 Cost. 16 «Il diritto alla riservatezza, quale diritto della personalità, consente di individuare il correlativo fondamento giuridico ancorandolo direttamente all’art. 2 Cost., norma di carattere precettivo e non programmatico». Corte di Cassazione (sent. 5658/1998), che incorpora la privacy nei diritti inviolabili dell’uomo. 17 Libertà personale, inviolabilità del domicilio e segretezza della corrispondenza. 18 D. lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), adeguato alle disposizioni del Regolamento (UE) 2016/679 tramite il d. lgs. 10 agosto 2018, n. 101. 19 Corte cost., 17 aprile 1969, n. 84. 20 P. CARETTI – A. CARDONE, Diritto dell’informazione e della comunicazione nell’era della convergenza, Bologna, 2019, 22. 20 non vi è censura: gli utenti sono liberi di dire tutto, a condizione che vengano applicati degli accorgimenti per evitare offese alla sensibilità o alla riservatezza di altri utenti. Si trattava chiaramente di un sistema pensato per una comunità ristretta, impossibile da mantenere con il crescente numero dei consumatori di internet. Con lo sviluppo di internet e l’avvento dei social network il quadro è radicalmente mutato, dal momento che gli utenti possono liberamente scegliere se comunicare con una persona ovvero con più persone, determinate o indeterminate; la conseguenza del sempre crescente numero di strumenti di comunicazione è stato l’assottigliarsi del confine tra l’ambito di applicazione degli artt. 5 e 21 Cost.30; se tradizionalmente era fissato in base all’individuazione o alla non individuazione dei destinatari della comunicazione, è diventato sempre più complesso distinguere una comunicazione telematica diretta ad un destinatario determinato (tutelata quindi dall’art. 15 Cost.31) da una comunicazione diretta ad un pubblico indeterminato di destinatari32. Il problema si è posto in particolar modo con riguardo al fenomeno del c.d. hate speech33, ma in realtà è comune a gran parte dei reati online che hanno come base proprio il web come punto di partenza: cyberbullismo, cyberstalking, revenge porn. Le difficoltà emerse in seguito al crescente utilizzo dei social network sono essenzialmente costituite dal possibile anonimato degli autori dei contenuti, dalla permanenza dei contenuti nel web, dalla loro capacità di “migrare” e diffondersi in piattaforme differenti da quelle della prima pubblicazione e così via. Con particolare riferimento alla permanenza dei contenuti nel web, è fondamentale specificare che si tratta di uno degli elementi maggiormente lesivi del 30 P. CARETTI, Diritto dell’informazione e della comunicazione, Bologna, 2019, 210 31 Art. 15 Cost. «La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge». 32 A. PAPA, Espressione e diffusione del pensiero in internet - Tutela dei diritti e progresso tecnologico, Torino, 2009. 33 Non esiste una definizione univoca di hate speech: secondo le indicazioni del Consiglio d’Europa nel 1997 dev’essere inteso come «l’insieme di tutte le forme di espressione che diffondono, incitano, promuovono o giustificano l’odio razziale, la xenofobia, l’antisemitismo ed altre forme di odio basate sull’intolleranza e che comprendono l’intolleranza espressa attraverso un aggressivo nazionalismo ed etnocentrismo, la discriminazione l’ostilità contro le minoranze, i migranti ed i popoli che traggono origine dai flussi migratori» (Raccomandazione n. 20/1997 del comitato dei ministri del Consiglio d’Europa). 21 diritto alla riservatezza: il diritto all’oblio presenta aspetti problematici specialmente quando applicato alla rete. In breve, si può definire diritto all’oblio il diritto dell’individuo ad essere dimenticato. Tale diritto, frutto di elaborazioni dottrinali, giurisprudenziali e delle Autorità garanti europee; è stato oggetto di una vicenda giudiziaria davanti alla Corte di Giustizia nota come il “caso Google Spain”, che ha visto contrapporsi Google SL e Google Inc. e l’Agencia Española de Protección de Datos e Mario Costeja González (causa C−131/12), a seguito della quale si è aperto un lungo dibattito sul riconoscimento del diritto, culminato con l’introduzione dell’art. 17 GDPR. A seguito della richiesta, rivolta prima al gestore del sito e poi a Google, da parte un cittadino spagnolo di rimuovere alcuni dati personali pubblicati dal giornale “La Vanguardia Editiones SL” e da lui non ritenuti più attuali, l’Agencia Española de Protección de Datos (AEPD) aveva ordinato a Google di rimuovere tali dati, ricevendo risposta negativa dal colosso, che riteneva la richiesta lesiva della libertà di espressione dei gestori di siti internet e evidenziava la non applicabilità nel caso concreto della disciplina europea dei dati personali: infatti solo la società capogruppo con sede in California eseguiva il trattamento dei dati personali, mentre le altre consociate con sede nei diversi Stati esercitavano solo attività commerciali. Il ricorrente esigeva che fosse imposto al quotidiano di «sopprimere o modificare le pagine suddette affinché i suoi dati personali non vi comparissero più oppure di ricorrere a taluni strumenti forniti dai motori di ricerca per proteggere tali dati dall’altro chiedeva egli chiedeva che fosse ordinato a Google Spain o a Google Inc. di eliminare o di occultare i suoi dati personali, in modo che cessassero di comparire tra i risultati di ricerca e non figurassero più nei link di La Vanguardia»,34 ottenendo un accoglimento parziale, soltanto nella parte in cui era diretto contro Google Spain e Google Inc. Infatti l’AEPD aveva sostenuto di poter richiedere «la rimozione dei dati nonché il divieto di accesso a taluni dati da parte dei gestori di motori di ricerca, qualora essa ritenga che la localizzazione e diffusione degli stessi possano ledere il diritto fondamentale alla protezione dei dati e la dignità delle 34 Corte giust. UE, 13 maggio 2014, n. 317, consultabile al link www.curia.europa.eu. 22 persone in senso ampio, ciò includerebbe anche la semplice volontà della persona interessata che tali dati non siano conosciuti da terzi»35. Nel giudizio contro il provvedimento dell’Agencia la Corte Suprema Spagnola ha sollevato il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, presentando diverse questioni, relative all’applicabilità territoriale della direttiva 95/46/CE, alla responsabilità di gestore di Google alla luce delle disposizioni della direttiva, e alla tutela del diritto all’oblio dei soggetti cui i dati personali si riferiscono. La Corte di Giustizia il 13 maggio 2014 ha emesso la sentenza n. 317 con cui per la prima volta ha riconosciuto il diritto all’oblio, considerando Google titolare del trattamento dei dati e dunque responsabile, in quanto sorgeva in capo ad esso l’obbligo di esaminare la “indicizzazione”36 di determinate pagine riconducibili a fatti non più attuali. La Corte di Giustizia ha dunque ritenuto meritevole di tutela il diritto di non trovare “indicizzato” tra i risultati delle ricerche eventuali pagine che contengano materiale personale che possa arrecare pregiudizio alla persona, nonostante la distanza temporale trascorsa dal momento della pubblicazione della notizia37. 35 Corte giust. UE, 13 maggio 2014, n. 317. 36 Con indicizzazione si intende l’organizzazione dei dati, notizie, siti nei motori di ricerca, al fine di facilitare la ricerca di informazioni da parte degli utenti: se una pagina è indicizzata, il motore di ricerca è a conoscenza della sua esistenza e gli utenti saranno in grado di reperirla inserendo parole o frasi attinenti alla ricerca. 37 Nello specifico, l’Avvocato generale ha risolto la prima questione in merito all’applicazione della direttiva ritenendo applicabile l’art. 4, par. 1 lett. a) della stessa; ha rilevato che «le filiali o le succursali del gestore di motore di ricerca sono soggette all’ambito territoriale di applicazione della Direttiva ogni qual volta personalizzino l’attività di impresa in base alle esigenze dei cittadini dello Stato in cui sono costituite, per ciò ritendendo che il trattamento dei dati personali avvenga nell’ambito dello stabilimento del responsabile del trattamento»; relativamente alla responsabilità dei gestori dei motori di ricerca, nonché alla facoltà in capo agli Stati di forzare la cancellazione dei dati personali, l’Avvocato generale si è occupato della questione relativa alla possibilità di qualificare tali gestori come responsabili del trattamento. Dal momento che tale attività integra a tutti gli effetti il trattamento degli stessi, l’Avvocato generale ha ritenuto opportuno interpretare la direttiva «tenendo in considerazione l’evoluzione che è avvenuta sul piano tecnologico dal momento della sua emanazione, ricavando tale principio interpretativo dalla precedente giurisprudenza della Corte di Giustizia». Infine, con riguardo al diritto all’oblio, l’Avvocato «si è occupato di verificare se dall’art.12 lett. b) e dall’art. 14 lett. a) della Direttiva, che disciplinano rispettivamente il diritto di ottenere la rettifica, la cancellazione o il congelamento dei dati personali e il diritto di opposizione al trattamento, potesse discendere il riconoscimento del diritto di rivolgersi ai gestori dei motori di ricerca per impedire l’ulteriore divulgazione delle informazioni di carattere personale, pubblicate su pagine web di terzi. Secondo l’opinione dell’Avvocato generale queste disposizioni normative non possono costituire il fondamento del diritto all’oblio. La rimozione delle informazioni considerate lesive della propria persona potrebbe essere imposta solo se il trattamento fosse difforme dai principi fissati nella Direttiva». 25 Nel nostro caso si tratta di indagare quale sia il fulcro della tutela approntata dalla fattispecie in esame: a tal proposito, parte della dottrina ha ritenuto la pratica criminosa del revenge porn come un continuum della violenza sessuale, ponendo l’accento sulla prospettiva della persona offesa e nello specifico sulle conseguenze sofferte dalla vittima, dal momento che sembra esserci una correlazione tra i pregiudizi alla salute mentale patiti da chi lo subisce, e quelli propri delle vittime di violenze sessuali o altri reati contro la libertà sessuale, nonché tra l’atteggiamento della società nei confronti della condotta44. Questa idea viene in essere con la Professoressa Liz Kelly, che fa propria l’espressione “continuum of sexual violence” per porre l’accento sulla relazione tra diverse forme di violenza sessuale. Nella sua opera Surviving sexual violence, Kelly identifica il continuum in due diverse accezioni: innanzitutto, si tratta di una continua, per l’appunto, serie di elementi o eventi che si susseguono, non facilmente distinguibili l’uno dall’altro; il secondo significato è identificabile in una caratteristica comune (“basic common character”) che collega quelli che altrimenti potrebbero essere visti come fenomeni eterogenei, quali l’abuso, l’intimidazione, la coercizione, l’intrusione e la minaccia, adoperate prevalentemente per controllare le donne45. Sarebbero questi aspetti a collegare i fatti di violenza sessuale a questi fenomeni, nati e radicatisi nell’era digitale. Inoltre, da un punto di vista normativo è ormai assodato che ai fini della qualificazione di una condotta come compromettente la libertà sessuale, non è strettamente necessaria il contatto fisico con il corpo della persona offesa46. Per queste ragioni, taluni ritengono che le condotte in questione dovrebbero essere appellate “image-based sexual abuse”47, termine capace di 44 S. BLOOM, No vengeance for “revenge porn” victims: unraveling why this latest female-centric, intimate partner offense is still legal, and why we should criminalize it”, in Fordham Urban Law Journal, 2014, 42. 45 L. KELLY, Surviving sexual violence, Cambridge, 1988. 46La Corte di Cassazione ha ritenuto opportuno ricondurre al concetto di “atti sessuali” anche comportamenti consistenti nella coartazione a inviare telematicamente foto e video sessualmente espliciti, non essendo sufficiente ai fini dell’applicazione dell’attenuante prevista dall’ultimo comma dell’art. 609-bis c.p. la mancanza di congiunzione carnale tra l’autore del reato e la vittima (Cass. pen., sez. III, 2 maggio 2013, n. 19033). 47 C. MCGLYNN – E. RACKLEY – R. HOUGHTON, Beyond “Revenge Porn”: The Continuum of Image- Based Sexual Abuse, in Feminist Legal Studies, 2017, 25. 26 accogliere al suo interno diverse pratiche di creazione pubblicizzazione non consensuale di immagini sessuali private, senza necessariamente chiamarle “violenza sessuale”, ma inserendole nell’orbita dei delitti contro la libertà sessuale e sottolineandone la natura abusiva. Altri addirittura anelano ad una più severa denominazione come “cyberrape”48, in quanto comporta l’oggettiva privazione della vittima del controllo sulla propria intimità; inoltre, in linea con quella parte della dottrina che appoggia questo punto di vista, un rapporto della Polizia postale risalente al 2018 tratta proprio di “stupri virtuali” 49. Altra parte della dottrina, tuttavia, ha ritenuto non appropriato far rientrare le situazioni in esame nell’ambito dei reati di violenza sessuale et similia, dal momento che la vittima non compie alcun atto di natura sessuale dietro coercizione; l’azione lesiva si riconduce all’atto della trasmissione e diffusione, e nonostante il concetto di “atti sessuali” abbia indiscutibilmente subito un processo di “smaterializzazione”, a tal punto da accogliere in sé una sempre più ampia gamma di concetti, anche come conseguenza di processi culturali riguardanti l’espressione della sessualità nelle moderne società occidentali, la mancanza del consenso si riferisce proprio a queste condotte di trasmissione e diffusione illecita e non all’atto sessuale in sé50. Pertanto, il focus non consiste nel costringere la vittima a fare o subire le azioni sessuali non volute, con la conseguenza che non risulta pregiudicata, perlomeno in maniera immediata, la sua autodeterminazione con riguardo alle proprie scelte sessuali51. L’eSfaety Commissioner australiano, invece, adopera il concetto di “Image-based abuse”, v. www.esafety.gov.au. 48 V. R. WELLS, The trauma of Revenge porn. We should call it “cyberrape”, not free speech, in The New York Times, 4 febbraio 2019 49 “Si conclude un anno di attività della polizia postale e delle comunicazioni: è tempo di bilanci” in commissariatodips.it, 31 dicembre 2018. 50 Amplius, N. AMORE., La tutela penale della riservatezza sessuale nella società digitale. Contesto e contenuto del nuovo cybercrime disciplinato dall’art. 612 ter c.p., in La leg. pen., 2020; A. CADOPPI, La violenza sessuale alla ricerca della tassatività perduta, in Dir. pen. proc., 2016; M. PAPA, La fisiognomica della condotta illecita nella struttura dei reati sessuali: appunti per una riflessione sulla crisi della tipicità, in www.discrimen.it (ora consultabile in Criminalia 2018), 2 agosto 2019. 51 D. BRUNELLI, Bene giuridico e politica criminale nella riforma dei reati a sfondo sessuale, in F. COPPI (a cura di), I reati sessuali, Torino, 2003, 48 ss.; V. MUSACCHIO, Il delitto di violenza sessuale (art. 609 bis Cp), Padova, 1999, 15 ss. 27 Secondo questa seconda corrente dottrinale, dunque, sarebbe più opportuno ritenere la vittima privata del suo diritto alla riservatezza sessuale, «prerogativa fondamentale per garantire la libera costruzione della propria identità e l’espressione della propria emotività»52 (artt. 2 Cost., 8, par. 1, CEDU e 16, par. 1, TFUE), costituendo il carattere “sessualmente esplicito” delle immagini un diretto collegamento all’aggressione anche ad altri valori, quali «l’intimità, la riservatezza, talvolta la fiducia prestata nei confronti dell’agente e, più in generale, la capacità di determinarsi in ambito sessuale». Ad ogni modo, è incontestabile che con l’introduzione del delitto de quo si aspiri a tutelare la libertà della persona. Il bene giuridico tutelato dall’art. 612-ter è plurimo; le conseguenze della pratica di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti sono numerose, in quanto il revenge porn è per sua natura un reato plurioffensivo: la condotta criminosa, dunque, è idonea a ledere una pluralità di beni giuridici contemporaneamente. Nei paragrafi che seguono, pertanto, si analizzeranno i diversi beni giuridici alla cui tutela può dirsi preposto il nuovo art. 612-ter c.p., tentando di spiegare in che modo questi siano lesi allorquando venga commessa la condotta di diffusione illecita di video e immagini sessualmente espliciti descritta dalla norma. È inevitabile, in questo contesto, riferirsi ai diritti della personalità, vale a dire a quei diritti soggettivi assoluti che dovuti di diritto all’essere umano in quanto tale, atti ad assicurare e garantire esigenze di natura esistenziale53. 3.1 Il diritto alla riservatezza Innanzitutto, uno degli aspetti più centrali nell’analisi del bene tutelato dall’art. 612-ter è da ravvisarsi nella grave violazione del diritto alla riservatezza della persona che questo comporta. Come anticipato, il diritto alla riservatezza è un diritto relativamente recente ed è desumibile dall’interpretazione di alcune norme costituzionali – quali l’art. 13 posto a tutela della libertà personale, l’art. 14 che 52 N. AMORE., op. ult. cit., 12. 53 P. PERLINGIERI, La personalità umana nell’ordinamento giuridico, Napoli – Camerino, 1972. 30 2129/1975, il c.d. Caso Soraya, considerato un leading case che portò alla regolamentazione della materia nel nostro ordinamento59. La Corte definì il diritto come «tutela di quelle situazioni e vicende strettamente personali e familiari, le quali, anche se verificatesi fuori dal domicilio domestico, non hanno per i terzi un interesse socialmente apprezzabile, contro le ingerenze che compiute sia pure con mezzi leciti, per scopi non esclusivamente speculativi, e senza offesa per l’onore, la reputazione e il decoro, non siano giustificate da interessi pubblici preminenti»60. Nel 1998 la Suprema Corte fu nuovamente chiamata a decidere un caso in materia di diritto alla riservatezza: in questa occasione affermò che il nostro ordinamento contiene «numerose norme da cui emerge la volontà del legislatore di garantire il riserbo personale e familiare»61, ritenendo dunque che il diritto alla riservatezza vada inquadrato nel sistema di tutela costituzionale della persona umana, traendo nella Costituzione il suo fondamento normativo, in particolare nell’art. 2 e nel riconoscimento dei diritti inviolabili della persona. In questo modo ricondusse la disciplina degli ambiti di tutela della vita privata della persona nel complesso dei principi ricavabili nelle disposizioni costituzionali, nonostante la mancanza di una norma specifica62. 59 Il caso verte sulla richiesta di risarcimento per danno all’immagine, avanzata dall’ex imperatrice dell’Iran Soraya Esfandiary, che era stata fotografata in atteggiamenti intimi con un uomo all’interno della propria dimora in Italia. A causa di ciò, era stata ripudiata dall’ex marito, ultimo Scià di Persia, con la conseguente perdita l’appannaggio da egli garantito. La Cassazione riconobbe il diritto della donna al risarcimento del danno, poggiando la propria motivazione sull’art. 8 CEDU, che tutela il diritto al rispetto della vita privata e familiare. 60 Cass. civ., sez. III, 27 maggio 1975, n. 2129. 61Si tratta degli artt. art. 614 c.p. (violazione di domicilio); 615 bis c.p. (interferenze illecite nella vita privata); art. 616 c.p. (sulla segretezza della corrispondenza); l. 8.4.1974, n. 98 in tema di riservatezza e della libertà delle comunicazioni; art. 472, c. 2 c.p.p. (sulla tutela della riservatezza dei testimoni e delle parti private in ordine a fatti che non costituiscono oggetto dell’imputazione); art. 19 r.d.1. 27 maggio 1929, n. 1285 (riguardo alle notizie raccolte in sede di rilevazione statistiche); art. 140 e 185 r.d.1. 9.7.1939 n. 1238 (sui registri dello stato civile, in particolare circa la paternità o la maternità (1. n. 586/1950; e n. 1064/1955); art. 93 1. n. 633 del 1941, (che fa divieto di pubblicare corrispondenze o memorie «che abbiano carattere confidenziale o si riferiscono all’intimità della vita privata»); 1. n. 300/1970, che pone il divieto di indagini personali sul corpo e sulle opinioni del lavoratore; art. 24 1. n. 241 del 1990 ed art. 8 d.P.R n. 352 del 1992, (in tema di diritto di accesso ai documenti amministrativi e diritto alla riservatezza); 1. 31.12.1996, n. n. 675 (in tema di tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali). 62 Cass. civ., sez. III, 9 giugno 1998, n. 5658. 31 Anche nel Codice penale sono presenti alcune previsioni attuative del diritto alla privacy: gli artt. 615-bis (interferenze illecite nella vita privata) e 617-bis (l’installazione di apparecchiature atte ad intercettare od impedire comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche), introdotti dalla l. 8 aprile 1974, n. 98. Queste disposizioni puniscono rispettivamente chiunque si procura indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata che si svolgono nell’abitazione altrui mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, e vietano l’installazione di apparati o strumenti al fine di intercettare o impedire comunicazioni o conversazioni telefoniche tra altre persone, fuori dai casi stabiliti dalla legge. Così definito, il diritto alla riservatezza sarebbe oggetto di specifica tutela dell’art. 612-ter c.p. giacché appare evidente che i dati oggetto della condotta tipica descritta da tale norma vengono creati in un contesto di riservatezza, in cui sarebbero rimasti se non fosse stata messa in atto suddetta condotta. 3.1.1 Gli interventi del Garante privacy A sostegno della tesi del diritto alla riservatezza come bene giuridico tutelato dal 612-ter, depongono gli interventi del Garante privacy sul tema. Infatti contro il revenge porn, e più in generale contro la pornografia non consensuale, il Garante per la protezione dei dati personali ha messo a disposizione sul proprio sito un canale di emergenza, attivo dall’8 marzo 2021: le persone che temono che le loro foto o i loro video intimi possano essere diffusi senza il loro consenso sui social, potranno segnalare questo rischio e ottenere che le immagini vengano bloccate63. Il programma pilota è stato attivato da Facebook, in cui le immagini, una volta caricate, verranno cifrate tramite un codice (c.d. “hash”) in modo da diventare irriconoscibili prima di essere distrutte; poi verranno bloccate da possibili tentativi di una loro pubblicazione sulle piattaforme di Facebook e Instagram, attraverso una tecnologia di comparazione. Si tratta di uno strumento volto offrire alle donne un ulteriore ausilio per la tutela dei propri inviolabili diritti. Inoltre, il Garante Privacy 63 www.garanteprivacy.it 32 ha fornito un vademecum informativo, contenente informazioni utili sulla protezione dei dati e su come reagire e prevenire il fenomeno del revenge porn64. Nell’ambito della cronaca recente, il Garante ha avuto modo di pronunciarsi in un caso che ha particolarmente scosso l’opinione pubblica. I fatti sarebbero avvenuti in Sardegna, nell’estate del 2019: quattro ragazzi sono indagati dalla procura di Tempio Pausania, in provincia di Sassari, per violenza sessuale di gruppo nei confronti di una coetanea conosciuta in vacanza; la stessa procura ha aperto l’inchiesta anche per revenge porn, dal momento che nel corso delle indagini sono stati acquisti diversi video e fotografie di rapporti risalenti a quella notte di luglio65. Il Garante Privacy ha riconosciuto l’illiceità della condivisione non solo ai fini del diritto penale, ma anche del diritto della privacy: l’Autorità infatti ha affermato che «in relazione alla circostanza – riferita dai genitori della ragazza presunta vittima di stupro attraverso il loro legale – che frammenti del video, relativo all’oggetto del procedimento penale, vengano condivisi tra amici, il Garante per la protezione dei dati personali richiama l’attenzione sul fatto che chiunque diffonda tali immagini compie un illecito, suscettibile di integrare gli estremi di un reato oltre che di una violazione amministrativa in materia di privacy»66. Alla luce delle pronunce del Garante Privacy, risulta chiaro come il diritto alla riservatezza possa con tutta evidenza essere considerato uno dei nuclei tematici del 612-ter. 3.2 Il diritto all’identità personale Il diritto in esame tutela il bene dell’identità, che consiste «precisamente nel distinguersi nei rapporti sociali dalle altre persone, risultando per chi si è realmente»67; la Corte di Cassazione l’ha definito anche quel diritto che ha ad oggetto «quello specifico bene-valore costituito dalla proiezione sociale della complessiva personalità dell’individuo, alla base del quale si colloca l’interesse del 64 Scaricabile dal sito www.gpdp.it/revengeporn 65 M. MARTORANA, Caso Grillo, l’opinione del Garante privacy e profili giuridici, in www.altalex.com, 12 maggio 2021. 66 Garante Privacy, Comunicato 28 aprile 2021. 67 A. DE CUPIS, Il diritto all’identità personale, Milano, 1949. 35 dall’immagine pubblica del personale in assunzione derivi un’influenza negativa sulla reputazione dell’azienda. Uno studio dell’University of Maryland, portato avanti dalle accademiche Danielle K. Citron e Mary Anne Franks già nel 201475, aveva evidenziato dei dati allarmanti sulle ripercussioni con cui le vittime di revenge porn dovevano convivere. Secondo il suddetto studio, su 1.606 vittime quasi il 60% di loro aveva riportato che le loro foto intime erano state diffuse corredate da nome, cognome e link ai profili social personali, e oltre il 20% delle fotografie erano accompagnate dagli indirizzi e-mail e i numeri di telefono delle donne ritratte76. Ne consegue la possibilità di considerare lesa anche la reputazione professionale, ovvero la diminuzione o la perdita della stima e della fiducia da parte dei soggetti con i quali la persona entra in contatto nella sua vita lavorativa. Chiaramente il diritto alla reputazione professionale e quello alla reputazione personale sono diversi e distinti, anche se potrebbero avvenire contestualmente e influenzarsi a vicenda: nel primo caso vi è un discredito lavorativo del soggetto, circoscritto al settore in cui opera; nel secondo caso si tratta di una lesione della sua dignità personale a tutto tondo. Il tema riguardante l’incidenza delle condotte extra lavorative sul vincolo fiduciario lavorativo fa discutere: si fa riferimento ad una clausola elastica di giusta causa, codificata nell’art. 2119 c.c.77, che «non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto». Si tratta di un inadempimento talmente grave da ledere il vincolo fiduciario che intercorre tra il datore di lavoro e il lavoratore, con la conseguente estromissione di quest’ultimo dall’organizzazione aziendale o lavorativa; questa giustificazione è estensibile anche a condotte extra lavorative, non 75 D.K. CITRON – A.M. FRANKS, Criminalizing Revenge Porn, in Wake Forest Law Review, 2014. 76 CYBER CIVIL RIGHTS INITIATIVE, Statistics on Revenge Porn, in www.cybercivilrights.org. Si parla al femminile delle vittime poiché, secondo lo studio in questione, 90% delle vittime è costituito da donne. 77 Art. 2119 c.c. co. 1: «Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa compete l’indennità indicata nel secondo comma dell’articolo precedente». 36 riguardanti direttamente il contesto aziendale, ma ugualmente idonee a pregiudicare il rapporto di fiducia fra le parti78. Dunque, ai doveri puramente contrattuali si affiancherebbero dei doveri, in capo al lavoratore, di astenersi dal porre in essere comportamenti che «per la loro natura e le loro conseguenze, appaiono in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o creano situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell’impresa stessa o sono idonei, comunque, a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto stesso»79. Su questo aspetto, la giurisprudenza non è univoca. Infatti, nel 2019 il Tribunale di Roma ha respinto il ricorso col quale il lavoratore chiedeva l’annullamento della revoca dell’incarico di alto profilo, dichiarandola legittima poiché l’evento (la diffusione su YouTube di un video che ritraeva il lavoratore all’interno della propria abitazione in atteggiamenti di intimità, senza che l’uomo fosse consapevole di essere ripreso) era considerato lesivo dell’immagine dell’azienda datrice di lavoro, nonostante il lavoratore fosse, per l’appunto, una vittima.80 Per il giudice del tribunale di Roma «la semplice ammissione del ricorrente in relazione al video pubblicato sul web della effettiva efficacia lesiva dell’immagine, evidenzia la sussistenza dell’incompatibilità ambientale e il venir meno del vincolo fiduciario posto a fondamento dell’incarico»81. Nel 2021, al contrario, il Tribunale di Torino ha emesso alcune condanne nei confronti della dirigente scolastica di un asilo di un paese nel torinese e la mamma di un’alunna, protagoniste della vicenda che aveva portato una giovane maestra, le cui foto e video intimi e privati erano stati diffusi dall’ex fidanzato in una chat con i compagni di calcetto, a dimettersi. Infatti, fra gli utenti della chat era 78 Cass. civ., sez. lav., 10 novembre 2017, n. 26679. 79 Cass. civ., sez. lav., 14 giugno 2004, n. 11220. 80 Il datore di lavoro inizialmente non aveva attivato alcun procedimento disciplinare, ma ne aveva chiesto l’immediato rientro in Italia, pena la revoca dell’incarico. Il lavoratore aveva ammesso di esser stato vittima di estorsione sessuale, ma, nonostante ciò, aveva deciso di restare a capo della sede estera dove si trovava, così il datore di lavoro aveva provveduto a revocargli l’incarico. 81 Trib. Roma, sez. IV lav., 14 novembre 2019, n. 9992. 37 presente il padre di un’alunna, che aveva condiviso a sua volta i video con la moglie; questa aveva prontamente avvertito la dirigente che, dopo essere venuta a conoscenza del fatto, aveva costretto l’insegnante a dimettersi. La dirigente è stata condannata a un anno e un mese, la mamma dell’alunna ad un anno e l’ex fidanzato della vittima ha ottenuto la messa alla prova; un’altra maestra, inoltre, è stata condannata a otto mesi per violazione della privacy. Si è trattato di una sentenza dagli importanti risvolti sociali, grazie all’esito diametralmente opposto rispetto alle precedenti. 3.4 Il diritto all’integrità morale I delitti contro la libertà morale danno il titolo alla Sezione III del Capo III del Titolo XII del Codice penale, che include le figure di reato della violenza privata, della violenza o minaccia per costringere a commettere un reato, della minaccia e dello stato di incapacità procurato mediante violenza, nonché il presente delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti. Quando si parla di libertà morale si tratta un tema non facile: infatti, mentre la libertà personale è una «libertà esterna, la cui limitazione è facilmente riconoscibile ad occhio nudo» ci si chiede chi «potrebbe invece dirci – se non in casi-limite – quando sia stata effettivamente limitata o tolta la libertà morale»82; la definizione di libertà morale come libertà di autodeterminazione risulta per alcuni troppo restrittiva, in quanto considererebbe un solo aspetto, a discapito di numerosi altri aspetti che andrebbero ricondotti alla suddetta. Dunque, tale libertà può essere intesa come capacità del soggetto di determinare senza costrizioni la propria volontà, e di «muovere il proprio comportamento esteriore in conformità alle spinte psichiche interne, senza intromissioni e senza la sottoposizione coatta ad introspezioni che ne svelino il 82 Entrambe le citazioni sono tratte da G. VASSALLI, Il diritto alla libertà morale (Contributo alla teoria dei diritti della personalità), in Studi in memoria di Filippo Vassalli, Vol. II, Torino, 1960, 1629-1701, ora in ID., Scritti giuridici, Volume III, Il processo e le libertà, Milano, 1997, 325-26. 40 Con riguardo al concetto di onore è necessario fare riferimento alle diverse concezioni ad esso riconducibili; si può in via approssimativa definire come «l’insieme di qualità essenziali al valore di ogni persona in quanto tale»93; nel suddetto insieme rientrano le qualità morali, intellettuali, psichiche, fisiche, estetiche, caratteriali e così via. Il diritto all’onore è sicuramente uno dei diritti più antichi della storia umana94, nonché un bene-fine primario riconosciuto e protetto dalla nostra Carta costituzionale; l’onore come bene giuridico vanta una lunga tradizione legislativa storico-culturale. Secondo gran parte della dottrina95 si possono ravvisare due concezioni fondamentali del concetto: una concezione cosiddetta fattuale, psicologica e sociopsicologica, che interpreta l’onore come sentimento del proprio o dell’altrui valore; e la concezione c.d. normativa dell’onore come valore interiore della persona. La concezione fattuale si riferisce al dato sociopsicologico e psicologico, e in questo senso è essenziale distinguere tra onore in senso soggettivo e oggettivo: nel primo caso si tratta di un onore interno, che consiste nell’effettivo sentimento che il soggetto riconosce al proprio valore; questo può essere leso soltanto da offese realizzate in presenza della persona offesa (o al limite ad essa comunicate). L’onore in senso soggettivo è frutto dell’insieme di quelle virtù positive che il soggetto attribuisce a sé stesso, e che profilano l’immagine che il soggetto ha di sé. Al contrario, l’onore in senso oggettivo (o reputazione) è un dato esterno, identificabile nell’effettivo sentimento di stima che altre persone hanno di un 93 F. MANTOVANI, op. ult. cit., 200. 94 L’onore ha costituito fin dai tempi più antichi oggetto di tutela giuridica. Si pensi al diritto romano, in cui il generico concetto di iniuria, che inizialmente andava ad indicare le offese all’integrità fisica, si è con il tempo ampliato fino ad includere le offese all’integrità morale; ne è un esempio la Legge delle XII tavole in cui figurava il carmen famosum (la canzone diffamatoria), e, in seguito, il convicium (l’offesa all’onore). Con riguardo al diritto intermedio, l’onore diventò un vero e proprio bene giuridico (nel diritto germanico prima, e in quello statutario poi) tutelato autonomamente. Le premesse per l’attuale concezione dell’onore furono gettate dalle elaborazioni operate dai giuristi medioevali e post medioevali, e contribuirono ad affinare la regolamentazione della materia comportando la differenza tra ingiuria e diffamazione, l’exceptio veritatis etc.). Le moderne forme di tutela sono consacrate nelle attuali Costituzioni nazionali e nelle carte internazionali (art. 12 Dichiarazione universale dei diritti umani, art. 10 Convenzione europea dei diritti dell’uomo, art. 17 Patto internazionale sui diritti civili e politici, art. 1 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea). V. A. VISCONTI, Reputazione, dignità e onore. Confini penalistici e prospettive politico-criminali, Torino, 2018. 95 F. MANTOVANI, op. ult. cit., 201 130. 41 determinato soggetto; questo sentimento può essere leso soltanto da offese perpetrate da terzi. È dato dall’insieme di qualità positive che altri riconoscono al soggetto, e designano l’idea che gli altri si sono formati, la c.d. buona opinione. La concezione fattuale presenta dei vizi, gravi e insuperabili, che hanno portato la dottrina a preferire la concezione normativa: per citarne alcuni, può portare alla confusione tra l’onore come valore obiettivo e l’interiorizzazione di esso da parte del soggetto o dei membri della comunità, che dipende dalla diversa sensibilità a percepire l’onorabilità, che può differire da soggetto a soggetto; o ancora alla soggettivizzazione del bene dell’onore, che può condurre a farlo dipendere dall’opinione dei membri del gruppo sociale o del soggetto stesso, comportando una situazione di c.d. relativismo soggettivistico (che contrasta con il principio di tassatività, nonché con la natura pubblicistica del diritto penale); ulteriori vizi consistono della possibile parcellizzazione della reputazione in base a vari gruppi sociali con cui il soggetto entra in contatto nel corso della sua vita, creando una serie di “reputazioni” che possono anche divergere tra di loro (reputazione familiare, professionale, politica…); ovvero la possibile difformità tra la reputazione di un soggetto e il suo reale modo di essere96. Per questo motivo la dottrina ha privilegiato la concezione c.d. normativa, che identifica l’onore come valore della persona umana, aspetto proprio della personalità del singolo che prescinde dall’opinione del soggetto o di terzi rispetto al soggetto. Si tratta, dunque, della concezione oggi largamente dominante; a sua volta si distingue in due concezioni, quella c.d. utilitaristica dell’onore-valore sociale, che attribuisce al singolo un determinato valore in base a meriti comunitari, comportando una forte visione del singolo come membro della comunità; e la concezione dell’onore-valore morale, che viene attribuito all’uomo come valore originario, intrinseco in ogni persona in quanto tale, indipendentemente dai giudizi sociali e incondizionatamente meritevole di rispetto e tutela97. È chiaro che secondo la prima concezione, quella utilitaristica, l’onore trova origine nella società: nasce e vive solo all’interno della società tra soggetti che 96 F. MANTOVANI, op. ult. cit., 202. 97 ID., ivi, 203 ss. 42 vivono e operano nella società stessa, e riguarda il soggetto membro di una comunità. Tale concezione presenta però dei limiti, come un pericoloso vuoto di tutela nei confronti di quei soggetti che non fanno parte delle varie comunità sociali, ovvero di soggetti socialmente inutili e dannosi98. Quanto alla concezione dell’onore-valore morale, questo trova la propria fonte nella dignità della persona stessa; è presente in tutti gli esseri umani in pari misura, a prescindere dal loro status sociale, dai meriti e dai demeriti, con la conseguenza che solo il soggetto stesso può causarne una diminuzione, con comportamenti contrari alla propria dignità. Anche questa concezione, invero, presenta alcuni limiti: si dibatte infatti sull’alternativa tra una morale assoluta, fissa e imperitura, e una morale storica, che comporta una storicizzazione dell’onore con il conseguente pericolo del deterioramento della concezione dell’onore. Parte della dottrina99 ha risolto questi inconvenienti creando un’ulteriore concezione, terza e intermedia, che identifica l’onore come bene personalistico costituzionalmente orientato, in considerazione del principio personalistico proprio della nostra Costituzione. Secondo questa concezione, l’onore troverebbe fondamento, oltre che nella legge ordinaria, innanzitutto nella Costituzione, facendolo rientrare tra i diritti inviolabili dell’uomo come singolo e nelle formazioni sociali in cui svolge la sua personalità (pur non essendo specificamente previsto dalla Carta, ma facendo riferimento all’art. 2 come norma aperta e all’art. 3, che, proclamando il diritto alla parità sociale, porrebbe le basi del principio personalistico di tutto il sistema, includendo anche il diritto all’onore come componente essenziale della dignità sociale stessa: in questo senso un membro di una società non potrebbe elevarsi a giudice dell’altrui indecorosità). Inoltre, concepisce l’onore come attributo originario e valore intrinseco della persona umana, tutelato obiettivamente; come tale non è possibile non attribuirlo, né tantomeno diminuirlo o negarlo, cosicché solo il singolo può causarne una diminuzione con comportamenti contrari agli obblighi che derivano dalla propria dignità. 98 ID., ivi, 205 ss. 99 ID., ibidem. 45 offeso; si dovrà dunque allineare alla stima del singolo, anche a fronte della posizione da lui rivestita all’interno della collettività e all’ambiente in cui egli vive e opera110. Il concetto di reputazione, dunque, viene valutato dall’esterno; la Corte di Cassazione ha infatti stabilito che «la condotta asseritamente diffamatoria della persona non va valutata “quam suis”, e cioè in riferimento alla considerazione che ciascuno ha della sua reputazione, bensì come lesione dell’onore e della reputazione di cui la persona goda tra i consociati»111. Reputazione e onore sono unanimemente considerate come da ricondursi al medesimo bene giuridico tutelato, quello dell’onore in un senso ampio e generico; cosicché che si ritiene diffamatorio ogni fatto che costituirebbe ingiuria se fosse stato commesso in presenza dell’offeso. La reputazione di una persona è, secondo una tradizionale distinzione, suddivisibile in oggetto di tutela in senso positivo e negativo. Con riguardo al primo, la norma preserva la c.d. buona reputazione: quella considerazione positiva, favorevole, di cui una persona gode nella sua sfera sociale in cui vive e opera, e che può derivare dalle attività che essa svolge all’interno della società stessa (attività legittime e decorose); per converso, si definisce reputazione in senso negativo quel rispetto sociale minimo che spetta ad ogni soggetto, indipendentemente dalla sua nomea: consiste nella «mancanza di antipatia attuosa»112 (che al contempo non implica necessariamente la presenza di un sentimento di simpatia): si consta dunque della mancanza di un sentimento ostile aprioristico. Congiuntamente al concetto di onore, l’abrogato art. 594 c.p. contempla come oggetto giuridico dell’ingiuria anche il decoro (al contrario dell’art. 594, che parla solo di reputazione). È sorta così la problematica se il decoro costituisca un bene distinto dall’onore, oggetto così di un’autonoma tutela, oppure rientri nell’orbita del 110 F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte speciale, Milano, 2016, 172; in giurisprudenza, Cass. pen., sez. V, 17 maggio 1982. 111 Cass. civ., sez. I, 9 giugno 2017, n. 14447. 112 M. PAPA, I reati contro la persona. Vol. 2: Reati contro l’onore e la libertà individuale, Torino, 2006, 64. 46 suddetto. Parte della dottrina ritiene che l’insieme delle qualità morali, intellettuali, fisiche etc., che determinano il valore sociale della persona, si comporrebbe dell’onore strictu sensu ex art. 594 c.p., concernente le sole qualità morali, e del decoro, pertinente altre qualità; inoltre, anche il decoro andrebbe inteso come decoro soggettivo (rapportato all’ingiuria) e oggettivo (rapportato alla diffamazione), in quanto concepito come aspetto dell’onore inteso dal punto di vista sociopsicologico; infine evidenzia come il concetto di reputazione recepito nel suo significato di sentimento di stima, oggetto giuridico dell’art. 595 c.p., comprenderebbe sia l’onore oggettivo strictu sensu, sia il decoro oggettivo. Secondo un’altra accreditata opinione113 i due concetti di onore e decoro, pur entrambi connessi al più ampio concetto di dignità della persona, presenterebbero diverso tenore, poiché diverse sono le nozioni di “disonorevole” e di “indecoroso”: laddove l’onore riguarda quelle qualità che concernono e inquadrano il valore della persona umana (qualità morali, psichiche, fisiche, intellettuali e così via), il decoro è pertinente a quell’insieme di condotte che incidono sul rispetto, quell’accortezza che spetta ad ogni essere umano. Siffatta interpretazione appare supportata da alcuni dettagli, come l’evidente differenza etimologica tra i due termini (onore, dal latino honor, stima, e decoro, dal latino decorus, che ben si addice), i limiti dell’interpretazione sociopsicologica e il fatto che apparrebbe più confacente alla tutela costituzionale della pari dignità ricomprendervi anche ciò che attiene al decoro, meritevole di tutela al pari dell’onore. È evidente che questo tipo di riflessioni sono alla base dell’argomento trattato nella presente tesi, giacché l’utilizzo dell’immagine sine consensu concorre a cagionare un nocumento e un pregiudizio all’onore e alla reputazione della vittima, che si identificano nella considerazione che il soggetto ha di sé all’interno della collettività, nonché di quella che i consociati hanno del soggetto stesso: il soggetto difatti sviluppa e cura la propria “rappresentazione sociale” all’interno della società, e ha il diritto di preservarla. 113 F. MANTOVANI, op. ult. cit. 47 CAPITOLO II LA LEGGE N. 69 DEL 2019 E LA TUTELA DELLE VITTIME DI VIOLENZA DOMESTICA E DI GENERE SOMMARIO: 1. Considerazioni introduttive sul Codice Rocco – 2. Situazione pre- codice rosso: l’iter legislativo – 3. Il concetto di “violenza di genere” – 4. La violenza di genere in ambito internazionale ed europeo – 4.1 Convention on the Elimination of all forms of Discrimination Against Women e Declaration on the Elimination of Violence against Women – 4.2 Le Conferenze mondiali sulle donne – 4.3 La Convenzione di Istanbul – 4.4 Il diritto dell’Unione Europea – 5. La legge 19 luglio 2019, n. 69 – 5.1 Modifiche al Codice penale – 5.2 Modifiche al codice di procedura penale – 6. Le fattispecie disciplinate dalla novella ex art. 10 – 6.1 Diffamazione (art. 595 c.p.) – 6.2 Illecito trattamento di dati personali (art. 167 codice della Privacy) – 6.3 Atti persecutori (art. 612-bis c.p.) – 6.4 Interferenze illecite nella vita privata (art. 615-bis c.p.) – 6.5 Diffusione di riprese e registrazioni fraudolente (art. 617- septies c.p.) 1. Considerazioni introduttive sul Codice Rocco Secondo i dati statistici ufficiali provenienti dall’Istituto Nazionale di Statistiche (ISTAT) in Italia una donna su tre (il 31,5%) tra i 16 e i 70 anni ha subito, 50 evidentemente di norme che rispecchiano il contesto etico-culturale dell’epoca, oggi fortemente anacronistiche119. Si pensi ai delitti di adulterio (art. 559 c.p.) e di concubinato (art. 560 c.p.), con cui lo Stato esercitava un presunto diritto di intervenire nelle faccende intime dei cittadini, in forme largamente discriminatorie120: la moglie fedifraga era infatti punita anche a seguito di un solo episodio di adulterio, laddove il marito era punibile ex art. 560 solo nel caso in cui tenesse la sua concubina «nella casa coniugale, o notoriamente altrove»121. Questi due delitti sono sopravvissuti fino alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, quando due interventi della Corte costituzionale si sono susseguiti con lo scopo di sopprimerli ed eliminarli dalla nostra legislazione: si tratta delle sentenze n. 126 del 1968 (che dichiarò l’illegittimità dei commi 1 e 2 dell’art. 559 c.p. per contrasto con l’art. 29 Cost.122, rilevando che «alla stregua dell’attuale realtà sociale, la discriminazione [operata, ai danni della donna, dalla disciplina penalistica di adulterio e concubinato], lungi dall’essere utile, è di grave nocumento alla concordia ed alla unità della famiglia»123) e n. 147 del 1969, dichiarativa dell’illegittimità del comma 3 dell’art. 559 c.p., e dell’intero art. 560 c.p. per contrasto con l’art. 29 Cost., con cui la Corte ritenne la complessiva disciplina penalistica di adulterio e concubinato come portatrice di un’«impronta di un’epoca nella quale la donna non godeva della stessa posizione sociale dell’uomo e vedeva riflessa la sua situazione di netta inferiorità nella disciplina dei diritti e dei doveri coniugali»124. A ben vedere, il Codice Rocco comportava un aggravamento della vulnerabilità della vittima donna anche in un altro ambito: infatti, all’interno del 119 È significativo il fatto che quegli elementi un tempo considerati ai fini di una mitigazione della pena, poiché ritenuti significativi dell’esercizio di un potere maschile sulla donna, siano oggi aggravanti, come nel caso del rapporto matrimoniale, aggravante del delitto di violenza sessuale ex art. 609-ter co. 1 n. 5- quater c.p. 120 F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, Milano, 2017, 121 F. ANTOLISEI, op. ult. cit., 347 ss. 122 Art. 29 Cost.: «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare». 123 Corte cost., sent. 19 dicembre 1968, n. 126. 124 Corte cost., sent. 3 dicembre 1969, n. 147. 51 codice del 1930 il corpo femminile sembrava perdere di unità, viene, «frantumato e parcellizzato»125, fenomeno reso palese dalla separazione fra atti di libidine e violenza carnale vera e propria; la giurisprudenza, infatti, influenzata dalla concezione della sessualità secondo un’imprescindibile finalità riproduttiva, non aveva mai configurato la violenza sessuale fra coniugi (o nei confronti delle prostitute), basandosi su un concetto di corpo della donna «per definizione disponibile e in proprietà reificata di un uomo (o di tutti)»126. Nello specifico le norme sulla violenza allora detta carnale, artt. 519 ss. c.p., erano caratterizzate da una pregnante matrice maschilista: fino al 1996 lo stupro non rientrava tra i delitti contro la libertà personale, ma tra quelli contro la morale pubblica e il buon costume127. Questa impostazione ideologica esprimeva appieno la preoccupazione del legislatore di tutelare l’interesse dello Stato alla repressione dell’istinto sessuale, ritenuto colpevole di innumerevoli delitti, e di assicurare «i beni giuridici della moralità pubblica e del buon costume contro le manifestazioni dell’altrui libidine»128 che sono beni «indisponibili, in quanto tali delitti si possono commettere anche su persone che tale disponibilità non hanno, come ad esempio le monache o le spose»129. Non si può poi prescindere dalla formulazione dell’art. 144 del Codice civile, che fino al 1975 prevedeva, con il titolo “potestà maritale”, che «il marito è il capo della famiglia; la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno di fissare la sua residenza»; fino al 1976, inoltre, se la moglie subiva violenza sessuale da parte del marito, egli veniva condannato solo per delitti minori quali percosse o 125 M. VIRGILIO, op. ult. cit. 163. 126 ID., ibidem. 127 Vedi F. BASILE, La tutela delle donne della violenza dell’uomo: dal Codice Rocco... al codice Rosso, in Diritto penale e Uomo, 2019, 11, 3; M. BERTOLINO, Libertà sessuale e tutela penale, Milano, 1993, 55 ss.; L. GOISIS, La violenza sessuale: profili storici e criminologici. Una storia di ‘genere’, in Dir. pen. cont., 31 ottobre 2012, 12 ss. 128 V. MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, Torino, 1984. 129 ID., ibidem. 52 lesioni, ma non per stupro, sempre che si fosse limitato a compiere atti sessuali secundum naturam130. Ma l’esempio più manifesto di norme pregne e sature di cultura sessista e maschilista era costituito dai c.d. delitti per causa d’onore: nella circostanza in cui il marito uccidesse la moglie «nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale o nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia»131 era punito con la reclusione da tre a sette anni, quasi mai scontata in carcere per l’incidenza di diminuenti e per la prassi dell’indulto (e non già con la reclusione da ventiquattro a trenta anni prevista per l’uxoricidio ex artt. 575 e 577 co. 2 c.p.)132. A ben vedere, l’onore della donna risiedeva dunque nella sua reputazione di illibatezza, di irreprensibilità dei costumi. Questo breve excursus su queste norme ormai retrograde, “frutto di una forma mentis improntata a retrivo egoismo e di concezioni ancestrali dell’onore”133, è necessario per comprendere perché l’odierna morale sia ancora impregnata di pregiudizi e prevaricazione maschilista, in cui ancor oggi trova spazio una cultura della violenza dell’uomo sulla donna. Fortunatamente la legge penale nel tempo è mutata in maniera profonda: a partire dagli anni Sessanta si è posta in discussione la struttura della società, focalizzandosi sul problema dell’uguaglianza giuridica di uomo e donna grazie ad una serie di fenomeni come l’immissione delle donne nel mondo del lavoro, la modernizzazione dei costumi sessuali, e processi di urbanizzazione che hanno comportato un profondo mutamento e sradicamento di costumi più conservatori; la legislazione, seppur con fatica, si è spinta nella direzione sempre più paritaria di una tutela del ruolo della donna nei luoghi di lavoro, all’interno della famiglia, verso una condizione sempre più improntata alle pari opportunità134. Ciò che non è chiaro ai più è se questo mutamento abbia matrice “protettiva”, secondo un’esigenza avvertita 130 Il cambiamento di orientamento giunse ad opera della Cassazione, con la sentenza 16 febbraio 1976, n. 12855, seguita poi da altre conformi pronunce (v., ad esempio, Cass. 13 luglio 1982, n. 10488; Cass. 16 novembre 1988, n. 11243. 131 Così l’art. 587 c.p. 132 F. BASILE, op. ult. cit., 4. 133 F. ANTOLISEI, op. ult. cit., 51. 134 R. MARINO, Violenza sessuale, pedofilia, stalking, Napoli, 2009, 13 ss. 55 necessità di intenderla come persona a sé stante in grado di riaffermare la propria sessualità in rapporto con l’uomo. La legge abrogava il delitto di “violenza carnale” ex art. 519, che puniva chi imponeva alla vittima un rapporto sessuale con minaccia o violenza, quello di “congiunzione carnale commessa con abuso delle qualità di p.u.” ex art. 520, e quello di “atti di libidine violenti” previsto dall’art. 521 c.p., che invece puniva chi commetteva un atto di libidine sempre con violenza o minaccia, al di fuori della violenza carnale; quindi, la distinzione consisteva nella effettiva sussistenza (o non) di un rapporto sessuale completo, cosicché che il secondo reato, che prevedeva una pena meno grave, aveva una natura residuale. Come anticipato poc’anzi, la legge 66/1996 si propose di superare questa distinzione introducendo la fattispecie di violenza sessuale ex art. 609-bis c.p.141; la differenza tra le discipline abrogata e la nuova fattispecie è di immediata evidenza, anzitutto per quanto concerne la collocazione all’interno codice: il nuovo reato, infatti, rientra tra i “delitti contro la libertà personale” nel titolo XII, e non più nel titolo IX “dei delitti contro la moralità e il buon costume”. Infatti, il legislatore ha opportunamente giudicato un rapporto sessuale ottenuto con la violenza non come pregiudizio alla collettività, bensì alla singola vittima, titolare del diritto della libertà sessuale. Con riguardo alle scelte di politica criminale, la nuova collocazione sistematica della fattispecie enfatizza il superamento dell’approccio pubblicistico adottato nel 1930. Inoltre, la dottrina142 ha evidenziato come «l’unificazione in parola persegue, dunque, un obiettivo ben preciso: si vuole risparmiare alla vittima l’ulteriore umiliazione e la profonda interferenza nella sua sfera intima connesse alle indagini degli investigatori e dei magistrati, volte ad accettare quale dei due reati fosse ravvisabile nei fatti denunziati ovvero a verificare se vi fosse stata consumazione o solo tentativo». 141 Art. 609-bis c.p.: «1. Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da sei a dodici anni. 2. Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali: 1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto; 2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona. 3. Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi». 142 G. FIANDACA – E. MUSCO, op. ult. cit., 307. 56 Ciononostante, tale innovazione ha presto dato prova dei suoi innegabili limiti, dal momento che ha comportato il venir meno del riferimento – fino ad allora insito negli artt. 519, 520 e 521 c.p. – al bene giuridico della libertà sessuale, venendo meno la struttura di capo autonomo, presente nell’originaria conformazione del codice Rocco, nonostante il bene giuridico protetto dalla norma rimanga sempre la libertà sessuale143. È, però, necessario tenere in considerazione il fatto che dottrina e giurisprudenza non concordano sull’accezione da attribuire al termine “libertà sessuale”, che infatti risulta essere ambivalente, dal momento che gli può essere riconosciuto sia un contenuto positivo, sia negativo. Da un lato, la libertà sessuale è libertà positiva intesa come «libera disponibilità del proprio corpo a fini sessuali, nel senso di libera disponibilità del proprio corpo a fini sessuali, della possibilità di operare liberamente scelte autonome in relazione alla propria sessualità»144, concepita come “libertà di”; dall’altro lato, il contenuto del diritto può essere inteso come «diritto di non subire l’altrui sopraffazione sessuale e di pretendere che il proprio corpo non venga da altri fatto oggetto di manifestazioni di libidine»145, in altre parole, impedire che il proprio corpo possa essere in qualche modo strumentalizzato da altri in assenza di consenso, dal momento che la sessualità deve derivare da una scelta libera e individuale146. Altre critiche hanno riguardato da un lato l’innalzamento del tetto minimo di pena, da tre a cinque anni, che mira ad aggirare il problema che l’imputato possa patteggiare scongiurando il processo, o possa beneficiare della sospensione condizionale della pena (anche se nei casi di minore gravità ciò è tuttora possibile); dall’altro l’eccessiva indeterminatezza dell’espressione “compiere o subire atti sessuali” presente al primo comma dell’art. 609-bis c.p., sul cui significato si sono 143 G. COCCO, op. ult. cit., 374. 144 G. COCCO, ivi, 375. Sul tema, si veda anche M. BERTOLINO, La tutela penale della persona nella disciplina dei reati sessuali, in L. FIORAVANTI (a cura di), La tutela della persona. Nuove frontiere, difficili equilibri, Milano, 2001, 159; F. MANTOVANI, op. ult. cit., 329; G. MARINI, I delitti contro la persona, Torino, 1997, 954. 145 G. COCCO, op. ult. cit., 375. Cfr. D. BRUNELLI, op. ult. cit., 53 s.; A. CADOPPI, Commento art. 609-bis c.p., in ID. (a cura di), Commentario delle norme contro la violenza sessuale e contro la pedofilia, Padova, 2006, 458 ss. 146 R. MARINO, op. ult. cit., 15. 57 accesi numerosi dibattiti in dottrina e in giurisprudenza147; da una parte, il termine “compiere” è inteso indifferentemente come gli atti sessuali eseguiti dalla vittima su se stessa, sul soggetto attivo del reato, su un terzo anch’egli vittima, dall’altra, con il termine “subire” indica che la persona offesa patisce sul proprio corpo l’atto sessuale, eseguito dal soggetto agente o da un terzo, che può essere anch’egli vittima ed agire contro la sua volontà148. Spostando ora l’attenzione verso la legge la c.d. “legge anti-stalking”149, si tratta della legge 24 aprile 2009, n. 38 (convertita dal d.L. n. 11/2009), che introduce il nuovo delitto di atti persecutori ex art. 612-bis c.p.150: dalla descrizione del 147 «Le locuzioni utilizzate dal codice Rocco rivelavano una valutazione negativa della sessualità, considerata come sfogo di concupiscenza e lussuria, sennò manifestata nel rispetto delle regole della morale familiare. La nuova terminologia vuole invece attribuire significato e valore positivo alla sessualità nello sviluppo della persona e delle sue relazioni interpersonali affettive, quale estrinsecazione della libertà personale. […] Secondo un primo orientamento, il termine “atti sessuali” deve essere interpretato in continuità con la normativa previgente, quale mera espressione di sintesi delle due locuzioni di “congiunzione carnale” e di “atti di libidine”, in tal senso non si registra alcuna modifica sostanziale dell’estensione dell’area del penalmente rilevante, la nozione di atti sessuali copre, infatti, l’intera area di illiceità penale ricoperta dalla nozione di atti di libidine. Una seconda lettura attribuisce nozione “atti sessuali” una portata più ampia rispetto a quella di “atti di libidine”, conseguente ampliamento dell’area di illiceità penale del delitto di violenza sessuale, facendo rientrare in essa ogni condotta che acquisisce un significato erotico nella dimensione soggettiva del rapporto autore/vittima, anche in assenza di un coinvolgimento corporeo e sessuale della vittima, attraverso atti di esibizionismo, voyeurismo ed autoerotismo. […] Per una terza posizione, infine, il concetto di “atti sessuali” ha un contenuto più ristretto di quello di “atti di libidine” ed è connotato in termini oggettivi, avendo rilievo esclusivamente la natura sessuale dell’atto in sé considerato, individuato secondo le scienze mediche, psicologiche, ed antropologico-sociologiche, per cui la nuova fattispecie ricomprende soltanto alcune delle ipotesi prima contemplate nell’abrogato art. 521». Sul punto, v. G. COCCO, op. ult. cit., 386 ss. 148 ID., ivi, 376. 149 Dall’inglese to stalk, etim. inseguire furtivamente la preda (termine derivato dal linguaggio della caccia), fig. perseguitare, molestare. V. Treccani, www.treccani.it per la definizione giuridica italiana e www.merriam-webster.com per quella inglese. 150 Art. 612-bis c.p.: «1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da un anno a sei anni e sei mesi chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita. 2. La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici. 3. La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero con armi o da persona travisata. 4. Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La remissione della querela può essere soltanto processuale. La querela è comunque irrevocabile se il fatto è stato commesso mediante minacce reiterate nei modi di cui all’articolo 612 co. 2. Si procede tuttavia d’ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità di cui 60 violenza nelle relazioni familiari158), con il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa (art. 282-ter c.p.p.159), e con l’introduzione degli obblighi di comunicazione concernenti queste misure, di cui all’art. 282-quater c.p.p.160 Infine, nell’agosto 2013 il d.L. n. 93, convertito dalla legge 25 ottobre 2013, n. 119, ha segnato un’importante tappa nel dibattito concernente le misure da adottare nel contrasto dei delitti caratterizzati da violenza di genere. Il suddetto decreto legge, recante “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere”161, ha introdotto nell’ordinamento italiano una serie di misure, sia preventive che repressive, con lo scopo di contrastare la c.d. violenza di genere, vale a dire la violenza contro le donne in tutte le sue forme, riconosciuta nel 1993 dalla Dichiarazione di Vienna come una violazione dei diritti fondamentali della donna, e annoverata tra le violazioni dei diritti umani162. L’iniziativa legislativa è stata spinta dall’esigenza di contrastare senza l’autorizzazione del giudice che procede. L’eventuale autorizzazione può prescrivere determinate modalità di visita. […]» 158 Si tratta della stessa legge che, in ambito civilistico, ha introdotto gli ordini di protezione contro gli abusi familiari (artt. 342-bis e 342-ter c.c.), v. S. SILVANI, Misure contro la violenza nelle relazioni familiari (L. 4 aprile 2001, n. 154), in Legisl. pen., 2001, 686 ss. 159 Art. 282-ter c.p.p.: «1. Con il provvedimento che dispone il divieto di avvicinamento il giudice prescrive all’imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa ovvero di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla persona offesa. […]» 160 Art. 282-quater c.p.p. «1. I provvedimenti di cui agli articoli 282-bis e 282-ter sono comunicati all’autorità di pubblica sicurezza competente, ai fini dell’eventuale adozione dei provvedimenti in materia di armi e munizioni. Essi sono altresì comunicati alla parte offesa e ai servizi socio-assistenziali del territorio. Quando l’imputato si sottopone positivamente ad un programma di prevenzione della violenza organizzato dai servizi socio-assistenziali del territorio, il responsabile del servizio ne dà comunicazione al pubblico ministero e al giudice ai fini della valutazione ai sensi dell’articolo 299, comma 2. 1-bis. Con la comunicazione prevista dal comma 1, la persona offesa è informata della facoltà di richiedere l’emissione di un ordine di protezione europeo». Su tali innovative misure cautelari di protezione, v. G. CANZIO, La tutela della vittima nel sistema delle garanzie processuali: le misure cautelari e la testimonianza “vulnerabile”, in Dir. pen. proc., 2010, 987; D. NEGRI, Le misure cautelari a tutela della vittima, in Giur. it., 2012, 467 ss.; F. ZACCHÈ, Il sistema cautelare a tutela della vittima, in Arch. pen., 2016, 3, 1 ss. 161 L’intitolazione del decreto legge prosegue: «[…] nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province»: l’ampiezza dell’intitolazione rispecchia l’ampiezza di contenuti del decreto legge (e della relativa legge di conversione), che riguarda gli argomenti più vari, dalla sicurezza nelle regioni del Mezzogiorno all’emergenza del Nord Africa, dalla sicurezza durante le manifestazioni sportive ai furti alle infrastrutture energetiche, ai fuochi pirotecnici, alla protezione civile, alla montagna, agli enti locali. 162 A. MERLI, Violenza di genere e femminicidio, in Dir. pen. cont., 2015, 1, 430 ss. Dichiarazione di Vienna del 25 giugno 1993, adottata dalla Seconda Conferenza Mondiale delle Nazioni Unite sui Diritti Umani, Parte 1, par. 18: «I diritti umani delle donne sono un ́inalienabile, integrale e 61 un’esacerbazione della violenza maschile, resa palese dal preoccupante susseguirsi di numerose notizie di cronaca riguardanti episodi di violenza nei confronti delle donne, spesso per mano dei loro mariti o partner nell’ambito di vicende di coppia o, ancora più spesso, in seguito alla cessazione di relazioni sentimentali, tramite alcune disposizioni che aggravano o estendono la sanzione in relazione a tre categorie di reati (violenza sessuale, maltrattamenti e stalking). È stato al riguardo coniato il neologismo “femminicidio”163, termine che rimanda non soltanto al fatto che la vittima di tali episodi sia una donna, ma soprattutto al fatto che il delitto rientri in un contesto di violenze “di genere”, ossia commesse sulle donne “perché donne”, acquisendo così una specifica accezione, per cui il femminicidio non include tutte le uccisioni di donne, per qualsiasi causa e in qualsiasi contesto164, ma è circoscritto, appunto a tutti i casi in cui la donna sia vittima di omicidio per il solo fatto di essere donna, e dunque con quel principale movente da parte dell’aggressore. Riflettendo ancora sul termine “femminicidio”: si tratta di una parola pervenuta nel dibattito politico e sociale, volta ad esprimere la violenza esercitata da un uomo nei confronti di una donna con un movente di genere, e quindi non come violenza occasionale verso una vittima di sesso femminile per motivi contingenti o per reazione impulsiva o come conseguenza di devianze sociali legate a una patologia o a una sindrome comportamentale dell’individuo165, ma come eventi non indivisibile parte dei diritti umani universali. La completa ed uguale partecipazione delle donne nella vita politica, sociale ed economica a livello nazionale, regionale ed internazionale e lo sradicamento di tutte le forme di discriminazione in base al sesso sono l ́obiettivo prioritario della comunità internazionale». 163 Il femminicidio, come cita il DEVOTO – OLI (2009) è «Qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuare la subordinazione e di annientare l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte». Il termine è registrato anche in ZINGARELLI a partire dal 2010 e nel Vocabolario Treccani on line. Nel merito si è espressa anche l’Accademia della Crusca: www.accademiadellacrusca.it. Il termine è stato impiegato anche in giurisprudenza: v. Cass. Pen., sez. V, 9 aprile 2013, n. 34016. 164 A. MERLI, op. ult. cit., 430. 165 «I media spesso presentano gli autori di femmicidio come vittime di raptus e follia omicida, ingenerando nell’opinione pubblica la falsa idea che i femmicidi vengano per lo più commessi da persone portatrici di disagi psicologici o preda di attacchi di aggressività improvvisa. Al contrario, negli ultimi 5 anni meno del 10% di femmicidi è stato commesso a causa di patologie psichiatriche o altre forme di malattie e meno del 10% è stato commesso per liti legate a problemi economici o lavorativi» “Rapporto Ombra” che il governo italiano ha presentato all’ONU sullo stato di attuazione della “Piattaforma Cedaw” nel nostro Paese (New York, 2011). 62 sporadici correlati ai ruoli sociali che l’uomo (o la società) vorrebbe imporre alle donne; come fatti non sporadici e isolati ma sistemici e organici caratterizzati da elementi e motivazioni comuni. Il termine, nonostante la legge n. 119 del 2013 sia mediaticamente conosciuta come “legge sul femminicidio”166, non è usato nel testo normativo167: in molti, oltretutto, hanno ritenuto la parola offensiva per il fatto che riduca le donne ad una differenza meramente biologica con l’uomo, senza però riconoscere loro pari dignità e valore168, sebbene nel corso degli ultimi anni l’accezione negativa ha destato non poche polemiche, fino ad essere mutata a un’accezione positiva ormai riconosciuta nella letteratura sociologica e criminologica169. Per la trattazione più approfondita dell’argomento relativo alla terminologia utilizzata nell’ambito normativo e nei media si rimanda al successivo paragrafo 3 del presente capitolo. Volendo illustrare brevemente alcune delle novità introdotte, in primo luogo la legge 119/2013 estende ad altre fattispecie di reato le innovazioni introdotte dalla legge del 2009 sullo stalking, con il proposito di coprire sistematicamente tutti i delitti espressione di violenza domestica e nelle relazioni affettive170. Inoltre, apporta significative innovazioni in capo alla disciplina procedurale di alcuni delitti 166 Un riferimento espresso alle parole “femminicidio” e “femmicidio” è contenuto nel d.d.l. n. 860, comunicato alla presidenza del Senato il 20 giugno 2013 (v. Atti parlamentari, XVII Legislatura, Disegni di legge e Relazioni, Documenti), avente ad oggetto la «istituzione di una Commissione parlamentare sul fenomeno dei femmicidi e dei femminicidi». Un altro riferimento alla parola è contenuto, inoltre, nel d.d.l. 17 ottobre 2013, atto senato n.724, in corso di esame in commissione, recante “Disposizioni per la promozione della soggettività femminile e per il contrasto al femminicidio”, il cui art. 1 comma 3 recita: «La presente legge promuove, in particolare, i diritti e la dignità delle donne e prescrive misure volte a contrastare ogni forma di femminicidio, inteso quale negazione della soggettività femminile». 167 Nessuna norma del recente provvedimento legislativo si riferisce alla uccisione di donne da parte di uomini per motivi di genere: le modifiche introdotte riguardando non le norme sull’omicidio, ma quelle relative ai maltrattamenti, alle violenze sessuali e agli atti persecutori. 168 Nel linguaggio comune il termine femmina è per lo più spregiativo: ad es., femmina disonesta, femmina di mondo, meretrice, e indica prevalentemente il sesso, ovvero «la donna che possiede in grado notevole le doti fisiche, fisiologiche e psicologiche che la rendono desiderabile all’uomo, e che sa farle valere per rendersi attraente: una donna veramente femmina». Cfr. la voce Femmina, in Vocabolario on line, Treccani.it. 169Cfr. A. MERLI, op. ult. cit., 451; B. SPINELLI, “Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale”, Milano, 2014. 170 In argomento, v. A. MERLI, op. ult. cit., 436; G. PAVICH, Le novità del decreto legge sulla violenza di genere: cosa cambia per i reati con vittime vulnerabili, in Dir. pen. cont., 24 settembre 2013; S. RECCHIONE, Il decreto sul contrasto alla violenza di genere, in Dir. pen. cont., 15 settembre 2013; nonché la Relazione sulla legge 15 ottobre 2013, Ufficio del Massimario, Cassazione (a cura di), in Dir. pen. cont., 18 ottobre 2013. 65 Direttiva 2012/29/UE, per la cui trattazione si rimanda al paragrafo 4 del presente capitolo. Parrebbe emergere il perseguimento di un intento meramente securitario da parte del legislatore, che ha voluto rassicurare la collettività, piuttosto che preoccuparsi della concreta applicazione delle innovazioni sanzionatorie introdotte179. È infatti noto che risultino più efficaci pene certe e applicate in un intervallo cronologico prossimo al delitto commesso, piuttosto che pene severe: sono, sotto questo punto di vista, illuminanti le parole che Cesare Beccaria dedica alla “prontezza” e alla “dolcezza” della pena: «uno dei più gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità di esse»180; ancora «la certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggiore impressione che non il timore di un altro, più terribile, unito colla speranza dell’impunità; perché i mali, anche minimi, quando son certi, spaventano sempre gli animi umani»181; e infine «quanto la pena sarà più pronta e più vicina al delitto commesso, ella sarà tanto più giusta e tanto più utile»182. 3. Il concetto di violenza di genere Alla luce di quanto considerato finora, è apparso ben chiaro come la violenza di genere sia assurta ad oggetto di un crescente interessamento sotto i profili penalistico, criminologico e di politica criminale e sociale, con la consapevolezza che essa rappresenta un problema non soltanto giudiziario o di ordine domestico, ma di salute fisica e psichica della donna183. 179 Per un’analisi della politica criminale che rassicura e blandisce i cittadini (anziché realmente proteggerli), specie di fronte all’“allarme sociale” suscitato da taluni fatti di cronaca, v. R. BIANCHETTI, La paura del crimine: un’indagine criminologica in tema di mass media e politica criminale ai tempi dell’insicurezza, Milano, 2018, 3 ss. 180 C. BECCARIA, Dei delitti e delle pene, 1764, Torino, 1994, 59. 181 ID., ivi, 59. 182 ID., ivi, 47. 183 Come avvertito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel rapporto consultabile in italiano al link www.salute.gov.it e in lingua originale al link www.who.int. 66 In primo luogo. è necessario un breve commento sul termine “genere”. Tradotto dall’inglese gender184, comprende un’accezione più ampia rispetto alla tradizionale dualità “uomo-donna”, o “maschile-femminile” secondo cui il genere consiste nel sesso biologico; ma va interpretato in relazione al ruolo assegnato culturalmente e socialmente all’uomo e alla donna. Con tale termine si vuole pertanto mettere in luce una differenza di tipo storico-economico-sociale, di derivazione prettamente culturale185. È essenziale riconoscere che la violenza subita dalle donne, nelle molteplici forme in cui si estrinseca, rivela qualcosa che va oltre l’importanza dell’atto in sé e della sua portata criminale: è opportuno, infatti, riconoscerle un carattere ulteriore a quelli della particolarità (in quanto legata al fatto materiale) e della generalità e genericità (in quanto fatto valutato in sé come reato). Si tratta del carattere “di genere” della violenza. Non si tratta meramente di una questione statistica – seppur di notevole importanza – ma nell’elaborare una rinnovata e migliorata interpretazione della società basata volta a delegittimare la violenza contro le donne, portando alla luce il carattere maschilista e frutto di una relazione sproporzionata di potere, che contraddistingue modalità di relazioni comunemente reputate normali186. È necessario inoltre prendere in considerazione come la nozione di violenza di genere esiga un approccio interdisciplinare187, giacché non si possono ravvisarne i confini esclusivamente con riguardo alle forme di violenza fisica, vi rientrano molteplici fattispecie di reato, espressione di violenza di natura sessuale188, 184 Cfr. P. DI CORI, Introduzione, in ID. (a cura di), Altre storie. La critica femminista alla storia, Bologna, 1996, 27. 185 A. MERLI, op. ult. cit., 444. 186 B. PEZZINI, Il diritto e il genere della violenza: dal codice rocco al codice rosso (passando per la convenzione di Istanbul), in B. PEZZINI – A. LORENZETTI, op. ult. cit.,12 ss. 187 V. F. ROIA, op. ult. cit. 188 Molestie sessuali, violenza sessuale ex art. 609-bis c.p. 67 fisica189, psicologica190, verbale191 ed economica192, ma l’elencazione non si può ritenere tassativa. In questo modo, rientrano nella nozione anche reati non ad essa strettamente connessi. Per una più agevole comprensione del fenomeno, bisogna tenere a mente alcuni dati fenomenologici e criminologici. In primo luogo, la globalità della violenza di genere: come emerge dal rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità, essa concerne tutti i continenti, in quanto in tutto il mondo le donne vittime di episodi di violenza sono oltre un miliardo (circa un terzo)193; in Italia, le donne vittime dei c.d. “reati spia” – quali gli atti persecutori, i maltrattamenti contro familiari o conviventi e le violenze sessuali – sono state 19.128 solo nel primo semestre del 2021 e, tra il 2019 e il 2020, gli omicidi con vittime di sesso femminile hanno subito un aumento del 5% (116 vittime del 2020 a fronte di 110 del 2019)194, cifre a cui si somma poi quella incerta dei casi non denunciati, argomento che ho già analizzato al paragrafo 1 del presente capitolo195. Il secondo dato criminologico-fenomenologico da tenere in considerazione è costituito dalla particolare natura del femminicidio, caratterizzato, nella gran parte 189 Molestie art. 660 c.p., percosse art. 581 c.p., lesioni personali art. 582 c.p., sequestro di persona art. 605 c.p., violenza privata art. 610 c.p., violazione di domicilio art. 614 c.p., maltrattamenti contro familiari e conviventi art. 572 c.p., mutilazioni genitali femminili ex art. 583-bis c.p. 190 Minaccia art. 612 c.p., istigazione o aiuto al suicidio art. 580 c.p., stalking art. 612-bis c.p., costruzione o induzione al matrimonio art. 558-bis c.p., stato di incapacità procurato mediante violenza art. 612 c.p. 191 Ingiuria art. 594 c.p. (abrogato nel 2016, ma se tali comportamenti sono caratterizzati da abitualità e pressante continuità potrebbero integrare il reato di maltrattamenti), diffamazione art. 595 c.p. 192 Violazione degli obblighi di assistenza familiare art. 570 c.p., violazione degli obblighi di assistenza familiare in caso di separazione o di scioglimento di matrimonio art. 570-bis c.p., danneggiamento art. 635 c.p., appropriazione indebita art. 646 c.p., estorsione art. 629 c.p. 193 In maggior misura in Asia (in certe zone della Cina meridionale il 70% delle operaie intervistate ha ammesso di avere subito violenza o molestie sessuali nel luogo di lavoro da parte di colleghi o superiori), in particolare in Medio Oriente (37,4%) e in Africa (36,6%). Seppur in minor misura, i numeri non appaiono incoraggianti neanche nel Nord America (29,8%) e in Europa (25,4), come emerge dal rapporto Global status report on violence prevention 2014 svolto dall’OMS, consultabile online al sito www.who.int. 194 Entrambi i dati riportati provengono dal report Vite violate elaborato dal Servizio analisi criminale della direzione centrale della Polizia criminale diretta dal prefetto VITTORIO RIZZI, consultabile al link www.interno.gov.it. 195 Inoltre, di nodale interesse sono i dati emersi dalla Nota Istat del 17 maggio 2021 “Le richieste di aiuto durante la pandemia”, che hanno evidenziato come nel 2020 le chiamate al 1522, il numero di pubblica utilità contro la violenza e lo stalking (promosso e gestito dal Dipartimento per le Pari Opportunità presso la Presidenza del Consiglio) sono aumentate del 79,5% rispetto al 2019, sia per telefono, sia via chat (+71%). Per un’analisi approfondita del fenomeno, v. www.istat.it. 70 4.1 Convention on the Elimination of all forms of Discrimination Against Women e Declaration on the Elimination of Violence against Women Norma pattizia nodale, nonché primo strumento giuridico internazionale universale dedicato al rafforzamento della figura femminile nella società è la Convenzione per l’eliminazione di tutte le norme di discriminazione delle donne (Convention on the Elimination of all forms of Discrimination Against Women, d’ora in poi CEDAW), adottata il 18 dicembre 1975 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, entrata in vigore nel 1981 e ratificata dall’Italia nel 1985203. Si tratta di un accordo internazionale, onnicomprensivo e legalmente vincolante, comprendente tutte le forme di discriminazione e con l’obiettivo di promuovere misure speciali per realizzare una società non discriminante; la convenzione pone l’ineguaglianza e la discriminazione contro le donne all’interno del contesto relativo alla povertà, alla razza, alla salute e alla rappresentazione politica, nonché qualsiasi tipo di discriminazione che avviene entro le mura domestiche. Il preambolo, che afferma che «è necessario un cambiamento nei ruoli tradizionali sia degli uomini sia delle donne, nella società e nella famiglia, per ottenere una perfetta uguaglianza fra uomini e donne»204, ricostruisce i punti cruciali del dibattito maturato negli anni precedenti, nato dalla prima delle sei Conferenze mondiali sulle donne convocate dalle Nazioni Unite205, svoltasi a Città del Messico nel 1975, individua come obiettivo «la definizione del contenuto dell’obbligo per 203 Disponibile in italiano al link www.cidu.esteri.it. Sito ufficiale: www.un.org 204 CEDAW, 6. 205 A cui sono seguite quella di Copenaghen nel 1980, di Nairobi nel 1985, di Pechino nel 1995. Si sono svolte altre due conferenze, una a New York 2005 e una a Milano nel 2015, che tuttavia non hanno ottenuto la stessa risonanza mediatica. La Conferenza di New York, denominata “Pechino+10”, vide la partecipazione di un centinaio di delegazioni governative, ottanta ministri per le pari opportunità da svariati paesi del mondo e migliaia di attivisti e rappresentanti di organizzazioni non governative; l’obiettivo era quello di tirare le somme del lavoro svolto nei precedenti dieci anni, indicando sette aree prioritarie: diritto all’istruzione, diritto alla salute e a una procreazione sicura e assistita, diritto al tempo, diritto alla proprietà e all’eredità, diritto al lavoro, diritto alla rappresentanza politica, protezione contro ogni forma di violenza. La Conferenza di Milano si è svolta nel contesto dell’EXPO 2015, ed è nata a seguito della costituzione degli “Stati generali delle donne” (un coordinamento permanente, interlocutore autorevole per le Istituzioni che operano nell’ambito delle politiche del lavoro, dell’economia, della finanza, del femminile, dei diritti, della cultura, della scuola, della formazione, della pace e del dialogo, del ben vivere, dello sviluppo) durante il semestre europeo a Roma nel 2014. 71 gli Stati di adottare e attuare specifiche misure volte a contrastare le molteplici forme di discriminazioni nei confronti delle donne nella dimensione pubblica e privata»206. Il testo evidenzia ripetutamente l’esigenza di garantire «la massima partecipazione delle donne»207, esortando al cambiamento dei ruoli tradizionali imposti, della posizione della donna nella società208 e all’instaurazione del «nuovo ordine economico internazionale basato sull’equità e la giustizia»209, con la speranza che questo contribuisca a promuovere la parità di genere, ed esprime esplicitamente il divieto di discriminazione delle donne “in quanto donne”, rifacendosi non solo alla discriminazione basata sul sesso, ma anche a quella basata sui già menzionati ruoli ascritti alla donna nella sua dimensione sia privata che pubblica210. La CEDAW intende in questo modo fortificare la lotta alla discriminazione, determinando i provvedimenti da realizzare in ogni campo per smantellare la struttura della discriminazione di genere e «i modelli socio-culturali di comportamento degli uomini e delle donne, al fine di conseguire l’eliminazione dei pregiudizi e delle pratiche consuetudinarie o di ogni altro genere che sono basate sull’idea dell’inferiorità o della superiorità dell’uno o dell’altro sesso o su ruoli stereotipati per gli uomini e per le donne»211. Non viene però affrontato il tema della violenza nei confronti delle donne; solo nel 1989, con la Raccomandazione generale n. 12212, il Comitato di monitoraggio dell’attuazione della CEDAW (d’ora in poi Comitato CEDAW) arriva a sollecitare gli Stati ad allegare ai rapporti periodici i dati e le misure adottate in relazione ai casi di violenza nei confronti delle donne; inoltre, con la raccomandazione n. 19/1992213 viene fatta rientrare per la prima volta nell’ambito di azione della Convenzione anche la violenza di genere, ossia « […] la violenza 206 I. BOIANO, La violenza nei confronti delle donne nell’ordinamento multilivello, in T. MANENTE, op. ult. cit., 4. 207 CEDAW, 5. 208 M.A. FREEMAN – C. CHINKIN – B. RUDOLF, The UN Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination Against Women: A Commentary, Oxford, 2012, 43. 209 CEDAW, 5. 210 I. BOIANO, op. ult. cit., in T. MANENTE, op. ult. cit., 4. 211 Art. 5 CEDAW. 212 COMITATO CEDAW, Raccomandazione generale n. 12: Violenza nei confronti delle donne, consultabile in italiano al link www.cidu.esteri.it. 30. 213 COMITATO CEDAW, Raccomandazione generale n. 19: La violenza contro le donne, 36. 72 che è diretta contro le donne in quanto donne, o che colpisce le donne in modo sproporzionato. Vi rientrano le azioni che procurano sofferenze o danni fisici, mentali o sessuali, nonché la minaccia di tali azioni, la coercizione e la privazione della libertà»214. Questa qualificazione inserisce la violenza di genere nel novero delle forme di discriminazione delle donne proibite dalla Convenzione, per eliminare la quale le autorità statali sono tenute ad attuare una disciplina legislativa, politica, sociale, economica e amministrativa ad hoc. Così, in prosecuzione delle misure adottate dal Comitato CEDAW, la lotta contro la violenza nei confronti delle donne è stata ufficialmente inserita nell’ambito dei diritti umani, e nel 1993 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha predisposto la Dichiarazione per l’eliminazione di ogni forma di violenza nei confronti delle donne (Declaration on the Elimination of Violence against Women, d’ora in poi DEVAW), atto d’indirizzo destinato alla protezione dei diritti della donna che riconosce, come si legge nel preambolo, tale violenza come una «manifestazione delle relazioni di potere storicamente disuguali tra uomini e donne, che ha portato alla dominazione e alla discriminazione contro le donne da parte degli uomini e ha impedito il pieno avanzamento delle donne, e che la violenza contro le donne è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini»215, ponendo così l’accento sulle radici sociali del fenomeno. Inoltre, la DEVAW analizza il contesto nel quale si registra la violenza sulle donne, precisando all’articolo 2 come essa comprenda, ma non si limiti, alla «violenza fisica, sessuale e psicologica che avviene in famiglia, incluse le percosse, l’abuso sessuale delle bambine nel luogo domestico, la violenza legata alla dote, lo stupro da parte del marito, le mutilazioni genitali femminili e altre pratiche tradizionali dannose per le donne, la violenza non maritale e la violenza legata allo sfruttamento; la violenza fisica, sessuale e psicologica che avviene all’interno della comunità nel suo complesso, incluso lo stupro, l’abuso sessuale, la molestia sessuale e l’intimidazione sul posto di lavoro, 214 COMITATO CEDAW, ibidem. 215 NAZIONI UNITE, Dichiarazione per l’eliminazione di ogni forma di violenza nei confronti delle donne, risoluzione dell’Assemblea Generale n. 48/104 del 20 dicembre 1993, disponibile in italiano all’indirizzo www.esteri.it e in inglese al www.un.org. 75 garantiti alle donne e la loro concreta possibilità di esercitarli; individuò pertanto tre aree nelle quali era fondamentale realizzare interventi specifici e specializzati: un accesso paritario all’istruzione, alle opportunità lavorative e a servizi di assistenza sanitaria adeguati. La Conferenza si chiuse con l’approvazione di un nuovo Programma d’Azione, che elaborava una pluralità di ostacoli all’esercizio dei diritti da parte delle donne220, e invitava gli Stati ad adottare misure nazionali più rigorose volte a garantire la titolarità e il controllo delle proprietà da parte delle donne, il potenziamento dei diritti al patrimonio ereditario, alla custodia dei figli etc. Si ritiene che con la successiva Conferenza di Nairobi221 del 1985 sia nato il c.d. “femminismo globale”: in quegli anni il movimento delle donne divenne una forza internazionale unificata sotto l’egida dell’uguaglianza, dello sviluppo e della pace. Durante la suddetta conferenza, emerse come solo una minoranza di donne avevano effettivamente beneficiato delle migliorie intervenute, e gli obiettivi auspicati dall’ONU non erano stati conseguiti. Vi parteciparono 157 governi e presentarono le Strategie Orientate al Futuro per l’Anno 2000, un programma il cui nucleo era rappresentato da una serie di priorità, riassumibili in tre categorie fondamentali: Azioni costituzionali e legali, Uguaglianza nella partecipazione sociale, e Uguaglianza nella partecipazione politica e nell’assunzione delle decisioni222. Con la Conferenza di Nairobi si predispose un approccio di più generale 220 La mancanza di un sufficiente coinvolgimento da parte degli uomini, nel migliorare il ruolo delle donne nella società; una insufficiente volontà politica; il mancato riconoscimento del valore dei contributi femminili alla società; la mancanza di attenzione, in fase di pianificazione, alle particolari esigenze delle donne; una scarsità di donne nelle posizioni elevate ai fini del processo decisionale; l’insufficienza dei servizi necessari a supportare il ruolo delle donne nella vita nazionale, quali cooperative, centri per l’assistenza quotidiana e facilitazioni creditizie; la generale scarsità delle risorse finanziarie necessarie; la mancanza di consapevolezza fra le donne circa le opportunità che erano a loro disposizione. 221 Intitolata “Conferenza Mondiale per riesaminare e Valutare i Risultati del Decennio delle Nazioni Unite per le Donne: Uguaglianza, Sviluppo e Pace”. 15.000 rappresentanti di organizzazioni non governative parteciparono al parallelo Forum delle ONG. 222 Le misure raccomandate dalle Strategie Orientate al Futuro di Nairobi coprivano un’ampia varietà di soggetti, dall’occupazione alla sanità, all’istruzione ai servizi sociali, all’industria alla scienza, alle comunicazioni all’ambiente. In aggiunta, venivano formulate delle linee guida per le misure nazionali volte a incentivare la partecipazione femminile agli sforzi per promuovere la pace, oltre che per assistere le donne in situazioni di particolare difficoltà. Conseguentemente, la Conferenza di Nairobi sollecitava i governi a delegare le responsabilità per le questioni femminili a tutti gli uffici e programmi istituzionali. Per di più, l’Assemblea Generale chiese alle Nazioni Unite di istituire, ove non esistessero già, dei punti focali sulla questione femminile in tutte le aree di lavoro dell’Organizzazione. 76 entità al tema del progresso femminile, prendendo atto dell’interessamento della questione in ogni sfera dell’attività umana, e non considerandola più, pertanto, come un aspetto isolato. La Conferenza di Pechino223, tenutasi nel 1995, ribadì il valore dei diritti delle donne come diritti umani nel significato più totale del termine e affermò i principi delle pari opportunità tra i generi e della non discriminazione delle donne in ogni settore della vita – pubblica e privata – come valore universale. La Conferenza adottò due documenti, la Dichiarazione e la Piattaforma d’Azione; quest’ultima raccoglie la lista degli obiettivi che governi, organizzazioni internazionali e società civile avrebbero da allora dovuto perseguire al fine di conseguire gli intenti della Conferenza224, individuando dodici aree di crisi ritenute come le principali ostruzioni al miglioramento della condizione femminile: Donne e povertà; Istruzione e formazione delle donne; Donne e salute; La violenza contro le donne; Donne e conflitti armati; Donne ed economia; Donne, potere e processi decisionali; Meccanismi istituzionali per favorire il progresso delle donne; Diritti fondamentali delle donne; Donne e media; Donne e ambiente; Le bambine. Dalle sopraccennate conferenze, deriva a carico degli Stati l’obbligo di garantire alle donne una vita libera da ogni forma di violenza, noto come “obbligo delle 5 P”: to promote, promuovere una cultura che non le discrimini; to prevent, adottare ogni misura atta a prevenire la violenza maschile sulle donne; to protect, proteggere le donne che vogliono fuggire da tale violenza; to punish, perseguire detti i crimini; to procure compensation, risarcire le vittime225. 4.3 La Convenzione di Istanbul 223 Parteciparono 5.307 delegate e delegati ufficiali dei Governi e 3.824 rappresentanti delle ONG; erano inoltre presenti 3.200 operatori dei media e 4.041 giornalisti provenienti da 124 paesi. Contemporaneamente, al Forum delle ONG di Huairou parteciparono 31.000 donne, rappresentanti di più di 2.000 organizzazioni di 200 diversi paesi. 224 Il cuore della Conferenza di Pechino è rappresentato dai termini empower (“dare autorità e potere” alle donne, nella famiglia, nella società e nella politica) e mainstreaming (promuovere una prospettiva di genere nelle pratiche istituzionali e di governo, e garantirne la piena partecipazione alla vita economica, sociale, politica, culturale). 225 A. MERLI, op. ult. cit. 437. 77 A livello internazionale è opportuno fare riferimento alla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, nota anche come Convenzione di Istanbul226, trattato approvato dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 7 aprile 2011227 ed entrato in vigore il 1° agosto 2014228. Firmata da quarantacinque Stati, è stata ratificata da trentaquattro allo stato attuale229; nell’ordinamento giuridico italiano è stata resa esecutiva con la legge 27 giugno 2013, n. 77 sulla prevenzione e la lotta contra la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica230. Si tratta del primo strumento giuridicamente vincolante adottato nell’ambito del Consiglio d’Europa con lo specifico obiettivo di predisporre una disciplina complessiva e integrata che favorisca la protezione del genere femminile contro qualsiasi forma di violenza e che consenta di prevenire e sopprimere la violenza domestica e contro le donne. In quanto trattato internazionale231, è vincolante per gli Stati firmatari, che sono obbligati a rispettare le disposizioni 226 Consultabile in italiano all’indirizzo www.coe.int. L’explanatory report (rapporto esplicativo) si trova invece al link www.coe.int. 227 È il prodotto del lavoro del comitato ad hoc per prevenire e combattere la violenza contro le donne e la violenza domestica (Ad hoc committee on preventing and combating violence against women and domestic violence, CAHVIO), istituito nel dicembre 2008 dal Comitato dei ministri del consiglio d’Europa con l’incarico di elaborare un progetto di convenzione in questo campo. 228 A seguito della ratifica di 10 Stati, di cui erano necessari almeno 8 Stati membri. 229 Si tratta di Albania, Andorra, Austria, Belgio, Bosnia e Erzegovina, Cipro, Croazia, Estonia, Finlandia, Francia, Georgia, Germania, Grecia, Irlanda, Islanda, Italia, Lussemburgo, Malta, Monaco, Montenegro, Nord Macedonia, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Romania, San Marino, Serbia, Slovenia, Spagna, Svezia, Svizzera e Turchia. L’Unione Europea ha firmato il Trattato il 13 giugno 2017, ma per entrare in vigore deve essere ratificato da tutti i Parlamenti nazionali degli Stati membri. Per questo motivo nel novembre 2019 il Parlamento dell’Unione Europea ha adottato una risoluzione, con 500 voti favorevoli, 91 contrari e 50 astensioni, in cui ha invitato il Consiglio europeo a completare la ratifica della Convenzione da parte dell’Unione Europea ed esortato i sette Stati membri (Bulgaria, Repubblica ceca, Ungheria, Lituania, Lettonia, Slovacchia, Lettonia, Slovacchia e Regno Unito) sottoscrittori della Convenzione a ratificarla. In data 28 novembre 2019 il Parlamento slovacco ha adottato una risoluzione con cui esorta UE a non ratificare la convenzione di Istanbul, in quanto ispirata a valori in contrasto con i principi costituzionali nazionali. Inoltre, nel marzo 2021, ben nove anni dopo la ratifica, la Turchia ha revocato la propria partecipazione alla convenzione, attraverso un decreto firmato dal presidente Erdoğan. 230 Il 19 giugno 2013, dopo l’approvazione unanime del testo alla Camera, il senato ha votato il documento con 274 favorevoli e un solo astenuto. 231 Consta di 81 articoli, divisi in dodici capitoli: I. Obiettivi, definizioni, uguaglianza e non discriminazione, obblighi generali; II. Politiche integrate e raccolta dei dati; III. prevenzione; IV. Protezione e sostegno; V. Diritto sostanziale; VI. Indagini, procedimenti penali, diritto procedurale e misure protettive; VII. Migrazione e asilo; VIII. Cooperazione internazionale; IX. Meccanismo di controllo; X. Relazioni con altri strumenti internazionali; XI. Emendamenti alla Convenzione; XII. Clausole finali. 80 gli uomini, la situazione può portarli ad affermare la propria “mascolinità” per mezzi violenti; politici, infatti la sottorappresentanza delle donne nel potere e nella politica implica per loro minori occasioni di influenzare le politiche e di bloccare la violenza con maggiore efficienza239. 4.4 Il diritto dell’Unione Europea L’Unione Europea ha fatto fronte al problema della violenza nei confronti delle donne in attuazione degli articoli 2240 e 3241 del Trattato sull’Unione Europea, dell’articolo 21242 della Carta dei diritti fondamentali e dell’articolo 8243 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, che attribuisce all’Unione il compito politico di sopprimere le disuguaglianze e di incentivare la parità tra uomini e donne tramite un’incorporazione di tale aspetto nelle politiche dell’Unione. In quest’ottica è fondamentale citare la dichiarazione n. 19 allegata all’atto finale della Conferenza intergovernativa che ha istituito il trattato di Lisbona244, la quale stabilisce che, «nell’ambito degli sforzi generali per eliminare le ineguaglianze tra donne e uomini, l’Unione mirerà, nelle sue varie politiche, a lottare contro tutte le forme di violenza domestica», e gli Stati membri «dovrebbero 239 Per una trattazione più approfondita dell’argomento, rimando al documento in lingua originale consultabile all’indirizzo www.coe.int. 240 Art. 2 TUE: «L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini». 241 Art. 3 TUE: «L’Unione si prefigge di promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli. […] L’Unione combatte l’esclusione sociale e le discriminazioni e promuove la giustizia e la protezione sociali, la parità tra donne e uomini, la solidarietà tra le generazioni e la tutela dei diritti del minore. […]» 242 Art. 21 CDFUE: «1. È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale. 2. Nell’ambito d’applicazione dei trattati e fatte salve disposizioni specifiche in essi contenute, è vietata qualsiasi discriminazione in base alla nazionalità». 243 Art. 8 TFUE: «Nelle sue azioni l’Unione mira ad eliminare le ineguaglianze, nonché a promuovere la parità, tra uomini e donne». 244 Firmato il 13 dicembre 2007 ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009, il Trattato di Lisbona modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea, senza tuttavia sostituirli; dota l’Unione del quadro giuridico e degli strumenti necessari per far fronte alle sfide del futuro e rispondere alle aspettative dei cittadini. È consultabile in italiano al link www.eur-lex.europa.eu. 81 adottare tutte le misure necessarie per prevenire e punire questi atti criminali e per sostenere e proteggere le vittime»245. Gli organi dell’Unione, pertanto, hanno introdotto progressivamente strumenti di soft law246 – raccomandazioni, comunicazioni, risoluzioni – tramite cui hanno formulato i principi guida e promosso il potenziamento di competenze247. A partire dal 1998 il Consiglio dell’Unione europea ha elaborato raccomandazioni, formulato indicatori e prodotto documenti non vincolanti sul tema: tra gli altri, di particolare rilevanza risulta il programma di Stoccolma, approvato nel dicembre 2009, atto a «stabilire una nuova agenda per l’Unione Europea in materia di giustizia, libertà e sicurezza»248 per il periodo 2010-2014, con l’obiettivo di incrementare l’impegno dell’Unione tramite l’adozione di misure di protezione e una legislazione globale sui diritti delle vittime249; con riguardo alle conclusioni del Consiglio, se ne sono susseguite molteplici aventi ad oggetto il tema della violenza contro le donne (per citarne alcune, le conclusioni del marzo 2010 sull’eliminazione della violenza contro le donne nell’Unione europea250 e quelle del 245 Dichiarazioni allegate all’atto finale della Conferenza intergovernativa che ha adottato il Trattato di Lisbona, file disponibile in italiano al link www.eur-lex.europa.eu. 246 Con soft law si intendono alcuni tipi di atti privi di efficacia immediatamente vincolante. V. E. MOSTACCI, La soft law nel sistema delle fonti: uno studio comparato, Milano, 2008. 247 Ad esempio, attraverso i programmi di finanziamento di progetti transnazionali che supportano le organizzazioni della società civile e le istituzioni nazionali degli Stati membri. V. I. BOIANO, op. ult. cit., in T. MANENTE, op. ult. cit., 15. 248 Consultabile in italiano all’indirizzo www.eur-lex.europa.eu. 249 Nel programma di Stoccolma la questione della violenza contro le donne è affrontata in un quadro generale riguardante le esigenze dei gruppi vulnerabili, e non come un fenomeno sociale autonomo; ciò ha portato ad un ridimensionamento del problema, scoraggiando la realizzazione di una prospettiva di prevenzione, di contrasto e di protezione ad hoc. 250 Con le quali è stato stabilito il programma per gli Stati membri di potenziare, aggiornare o elaborare strategie nazionali, incentivare la prevenzione e sensibilizzazione sul tema e investire in strutture di consulenza. CONSIGLIO DELL’UNIONE EUROPEA, Conclusioni del Consiglio del marzo 2010 sull’eliminazione della violenza contro le donne, Bruxelles, 7 marzo 2010, disponibile al link www.eur- lex.europa.eu. 82 2011 sul patto europeo per la parità di genere per il periodo 2011-2020251, nonché quelle del 2018 sulla parità di genere252). Il Parlamento ha affrontato il tema a più riprese, rispetto alle quali è bene mettere in luce almeno i precipitati più recenti: la Risoluzione del Parlamento europeo del 28 novembre 2019 sull’adesione dell’UE alla convenzione di Istanbul e altre misure per combattere la violenza di genere253, e la Risoluzione del Parlamento europeo del 21 gennaio 2021 sulla strategia dell’UE per la parità di genere254, in cui il Parlamento sollecita la Commissione a fare pressione per la ratifica della Convenzione di Istanbul a livello dell’Unione, ed esorta i sette stati membri che l’hanno firmata, ma non ancora ratificata, a farlo senza indugio. Inoltre i deputati hanno affermato che la violenza contro le donne dovrebbe essere inoltre inserita nella lista dei crimini riconosciuti dall’UE. 251 Che hanno ribadito l’impegno dell’UE ad appianare le disparità di genere in campi quali l’occupazione, l’istruzione e la protezione sociale, nonché a contrastare tutte le forme di violenza nei confronti delle donne «al fine di garantire il pieno godimento dei diritti umani delle donne e di realizzare la parità di genere, anche nell’ottica di una crescita inclusiva». CONSIGLIO DELL’UNIONE EUROPEA, Conclusioni del Consiglio sul patto europeo per la parità di genere per il periodo 2011-2020, Bruxelles, 7 marzo 2011, consultabile qui: www.eur-lex.europa.eu. 252 L’obiettivo del piano d’azione dell’UE sulla parità di genere è rafforzare la parità di genere e l’emancipazione femminile nell’azione esterna dell’UE; ribadisce inoltre che la parità di genere e il pieno godimento di tutti i diritti umani da parte delle donne delle ragazze, nonché la loro emancipazione sono al centro dell’agenda 2030, sia in quanto obiettivo indipendente che come priorità trasversale coerente con il principio di non lasciare indietro nessuno. CONSIGLIO DELL’UNIONE EUROPEA, Conclusioni del Consiglio concernenti l’attuazione del piano d’azione dell’UE sulla parità di genere II nel 2017. Disponibile al link www.data.consilium.europa.eu. 253 In cui il Parlamento chiede alla Commissione di aggiungere la lotta contro la violenza di genere tra le priorità della prossima strategia europea per la parità di genere includendovi misure politiche, legislative e non legislative adeguate, nonché di presentare un atto legislativo sulla prevenzione e repressione di tutte le forme di violenza di genere, «compresa la violenza nei confronti delle donne e delle ragazze; si impegna, a tal proposito, ad esplorare tutte le possibili misure, anche in materia di violenza informatica, avvalendosi del diritto di iniziativa legislativa sancito dall’articolo 225 TFUE». PARLAMENTO EUROPEO, Risoluzione del Parlamento europeo del 28 novembre 2019 sull’adesione dell’UE alla convenzione di Istanbul e altre misure per combattere la violenza di genere, 2019/2855(RSP), consultabile al sito www.europarl.europa.eu. 254 PARLAMENTO EUROPEO, Risoluzione del Parlamento europeo del 21 gennaio 2021 sulla strategia dell’UE per la parità di genere, 2019/2169(INI), consultabile qui: www.europarl.europa.eu. Il Parlamento europeo «condanna la campagna condotta contro la Convenzione di Istanbul, che affronta la violenza nei confronti delle donne, e la campagna deliberatamente intesa a screditarla; esprime preoccupazione per il rifiuto di applicare la norma della tolleranza zero in relazione ai casi di violenza nei confronti delle donne e di violenza di genere, norma che si basa su un forte consenso internazionale; segnala che ciò mette in discussione l’essenza dei diritti umani, come l’uguaglianza, l’autonomia e la dignità» e «invita la Commissione a rafforzare ulteriormente il ruolo dell’UE quale catalizzatore della parità di genere in tutto il mondo». 85 proprio obiettivo, quello di tutelare la persona offesa, tramite l’informazione, l’assistenza, la protezione e la partecipazione al procedimento penale265, attraverso un approccio «rispettoso, sensibile, personalizzato, professionale e non discriminatorio, prescindendo dal titolo con il quale la vittima soggiorna nello Stato membro». Infine, viene fornita una definizione in linea con gli interventi fino a questo momento citati. Così la Commissione corrobora la tesi per cui per violenza di genere si intende «la violenza diretta contro una persona a causa del suo genere, della sua identità di genere o della sua espressione di genere o che colpisce in modo sproporzionato le persone di un particolare genere. Può provocare un danno fisico, sessuale, emotivo o psicologico, o una perdita economica alla vittima. La violenza di genere è considerata una forma di discriminazione e una violazione delle libertà fondamentali della vittima e comprende la violenza nelle relazioni strette, la violenza sessuale (compresi lo stupro, l’aggressione sessuale e le molestie sessuali), la tratta di esseri umani, la schiavitù e varie forme di pratiche dannose, quali i matrimoni forzati, la mutilazione genitale femminile e i cosiddetti “reati d’onore”. Le donne vittime della violenza di genere e i loro figli hanno spesso bisogno di un’assistenza e protezione speciali a motivo dell’elevato rischio di vittimizzazione secondaria e ripetuta, di intimidazione e di ritorsioni connesso a tale violenza»266. 5. La legge 19 luglio 2019, n. 69 (rinvio) Il 19 luglio 2019, con 97 voti a favore, 47 astensioni e nessun voto contrario è stata approvata la legge n. 69, mediaticamente presentata come “Codice Rosso”, recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere”, la quale prevede un eterogeneo complesso di disposizioni atte a intervenire sul piano Vittima: «la persona fisica che ha subito un danno psicofisico o patrimoniale causato direttamente dal reato, ovvero il familiare della persona la cui morte è stata causata dal reato e che da quella stessa morte ha riportato un danno». Giustizia riparativa: «qualsiasi procedimento che permette alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, se vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l’aiuto di un terzo imparziale». 265 Art. 1 Dir. 2012/29/UE. 266 Considerazione introduttiva alla Dir. 2012/29/UE. 86 del diritto sostanziale e procedurale; il provvedimento normativo consta di ventuno articoli riguardanti la disciplina della “violenza domestica e di genere”267. Il legislatore si è adoperato per incrementare la tutela delle vittime di ipotesi delittuose che rientrano nel campo della violenza sopracitata, e rafforzare il trattamento penale di suddetti delitti. Ad avviso di chi scrive, non si può tralasciare una breve analisi delle modifiche apportate dalla legge al Codice penale e al codice di rito, mentre per una trattazione più esaustiva dell’argomento si rimanda al paragrafo 2 del presente capitolo. 5. 1 Modifiche al Codice penale La nuova legge, come intuibile dalla sua intitolazione, prevede in primis alcune modifiche al Codice penale, delle quali la più significativa prevede l’introduzione di quattro nuovi delitti: il delitto di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa ex art. 387-bis c.p., tramite il quale si è provveduto a punire con la reclusione da sei mesi a tre anni chiunque violi gli obblighi o i divieti derivanti dai provvedimenti menzionati, e la cui violazione, precedentemente, prevedeva solamente un aggravamento della misura (ex art. 276 c.p.p.); il delitto di costrizione o induzione al matrimonio di cui all’art. 558-bis c.p., con il quale si punisce con la reclusione da uno a cinque anni chiunque induca un altro soggetto a sposarsi o a concludere un’unione civile, tramite violenza, minaccia o approfittando di un’inferiorità psico-fisica o per precetti religiosi, allo scopo di prevenire – e punire – il fenomeno dei matrimoni forzati, che coinvolge specialmente donne immigrate, spesso giovanissime, di prima o seconda generazione. La fattispecie è aggravata qualora il reato sia commesso a danno di un minore; peraltro, vi si procede anche nel caso in cui la commissione avvenga all’estero, da, o in danno, di un 267 L’appellativo “codice rosso” deriva proprio dalla volontà di mettere in risalto il livello di emergenza, nonché di priorità e severità, con cui bisogna trattare questi casi: l’allora Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede dichiarò «raccogliendo la proposta dell’associazione “Doppia difesa” [...] abbiamo deciso di dar vita a una legge che stabilisca, proprio come avviene nei pronto soccorso, i casi in cui le denunce devono essere trattate immediatamente [...] Con la nuova legge ci saranno procedimenti più snelli, senza fasi di stallo per la tutela tempestiva delle vittime di violenze domestiche e di genere» (cfr. A. BONAFEDE, Un “codice rosso” per le donne vittime di violenza, in blogdellestelle.it, 25 ottobre 2018). 87 cittadino italiano o di uno straniero residente in Italia. Proseguendo l’elencazione, è stato introdotto inoltre il delitto di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso di cui all’art. 583-quinquies c.p., consistente nel passaggio da circostanza aggravante del delitto di lesioni personali (v. art. 583 co. 2 n. 4 c.p., ora abrogato) a delitto autonomo, allo scopo di intensificare il trattamento sanzionatorio previsto (che passa da essere da sei a dodici anni, ad essere da otto a quattordici anni di reclusione), il quale potrà a sua volta venire aggravato ai sensi dell’art. 585 c.p.268, comportando la pena dell’ergastolo qualora dalla commissione di tale delitto ne consegua l’omicidio269. Infine, è stato introdotto il delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti ex art. 612-ter c.p., per la cui trattazione si rimanda al cap. III del presente lavoro. Ulteriori modifiche concernono, nell’ambito del delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi ex art. 572 c.p., sia un inasprimento della pena, sostituendo la precedente pena detentiva (da due a sei anni) con la reclusione da tre a sette anni, sia una fattispecie aggravata speciale, consistente nella previsione della violenza c.d. assistita270 (nuovo comma secondo art. 572 c.p.), la cui pena sarà aumentata fino alla metà; inoltre, di fondamentale rilevanza è l’inserimento del delitto nella fattispecie di pericolosità qualificata dall’art. 4 co. 1 lett. i ter del codice antimafia (d.lgs. 159/2011), che consente, nei confronti degli indiziati, l’applicazione delle misure di prevenzione (sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona protetta, confisca di prevenzione)271. 268 Art. 585 c.p.: «Nei casi previsti dagli artt. 582, 583, 583-bis, 583-quinquies e 584, la pena è aumentata da un terzo alla metà, se concorre alcuna delle circostanze aggravanti previste dall’art. 576, ed è aumentata fino a un terzo, se concorre alcuna delle circostanze aggravanti previste dall’art. 577, ovvero se il fatto è commesso con armi o con sostanze corrosive, ovvero da persona travisata o da più persone riunite» 269 Peraltro, ai sensi del novellato art. 4-bis della legge 354/75, i condannati al delitto in esame potranno godere di benefici penitenziari solo a seguito di un’osservazione scientifica della personalità condotta per almeno un anno. 270 Qualora il delitto venga commesso in presenza di un minore; la fattispecie include anche il delitto commesso in presenza o in danno di una donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità, ovvero se sia stato commesso con armi. 271 Cfr. L. ALGERI, op. ult. cit., 1367 ss.; F. BASILE, op. ult. cit., 10 ss.; A. DE SANTIS, “Codice Rosso”. Le modifiche al Codice penale, in Studium Iuris, Padova, 2020, 1, 7 ss. 90 cui all’art. 612-bis c.p.)277; si tratta di un termine prorogabile solamente nel caso concreto di gravi e imprescindibili esigenze riguardanti la tutela di minori, la riservatezza delle indagini o l’interesse della persona offesa278; la norma è stata intesa pressoché all’unanimità conferendo la delegabilità all’atto: lo si deduce dal combinato disposto degli artt. 362 co. 1-ter e 370 co. 1 c.p.p. Ulteriori modifiche degne di nota riguardano gli obblighi di informazione e comunicazione alla persona offesa (art. 90-bis e 90-ter c.p.p., 659 co. 1 bis)279, la soglia di età del testimone per procedere al suo esame (art. 190-bis co. 1 bis c.p.p.)280 277 Parte della dottrina (v. D. RUSSO, Emergenza Codice Rosso. A proposito della legge 19 luglio 2019, n 69 in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, in Sist. pen., 2020, 1, 10) ritiene che l’omesso richiamo dell’art. 612-ter c.p. sia dovuto a una mera svista del legislatore; è di opposto giudizio altra parte di dottrina (v. G. AMATO, Spazio alla delega dell’obbligo di sentire la persona offesa, in Guida dir., 37, 7 settembre 2019, pp. 71 ss.), secondo il quale «è ragionevole supporre che il legislatore abbia ritenuto autosufficiente la denuncia e non necessaria l’immediata escussione della vittima nell’ottica di assicurarne una più incisiva tutela». 278 La norma è stata intesa pressoché all’unanimità conferendo delegabilità all’atto: lo si deduce dal combinato disposto degli artt. 362 co. 1-ter e 370 co. 1 c.p.p., secondo cui «il Pubblico Ministero compie personalmente ogni attività di indagine» ma, in generale, «può avvalersi della polizia giudiziaria per il compimento di attività di indagine e di atti specificamente delegati». Se ne deduce che gli unici atti non delegabili sono l’interrogatorio e il confronto a cui partecipa la persona sottoposta alle indagini, qualora non si trovi in stato di libertà. 279 Art. 90-bis c.p.p.: «1. Alla persona offesa, sin dal primo contatto con l’autorità procedente, vengono fornite, in una lingua a lei comprensibile, informazioni in merito: […] p) alle strutture sanitarie presenti sul territorio, alle case famiglia, ai centri antiviolenza, alle case rifugio e ai servizi di assistenza alle vittime di reato». Art. 90-ter c.p.p.: «1. Fermo quanto previsto dall’articolo 299, nei procedimenti per delitti commessi con violenza alla persona sono immediatamente comunicati alla persona offesa che ne faccia richiesta, con l’ausilio della polizia giudiziaria, i provvedimenti di scarcerazione e di cessazione della misura di sicurezza detentiva, ed è altresì data tempestiva notizia, con le stesse modalità, dell’evasione dell’imputato in stato di custodia cautelare o del condannato, nonché della volontaria sottrazione dell’internato all’esecuzione della misura di sicurezza detentiva, salvo che risulti, anche nella ipotesi di cui all’articolo 299, il pericolo concreto di un danno per l’autore del reato». Art. 659 co. 1-bis: «[…] Quando a seguito di un provvedimento del giudice di sorveglianza deve essere disposta la scarcerazione del condannato per uno dei delitti previsti dagli articoli 572, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies e 612-bis del codice penale, nonché dagli articoli 582 e 583- quinquies del codice penale nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, del codice penale, il pubblico ministero che cura l’esecuzione ne dà immediata comunicazione, a mezzo della polizia giudiziaria, alla persona offesa e, ove nominato, al suo difensore». 280 Art. 190-bis c.p.p.: «1. Nei procedimenti per taluno dei delitti indicati nell’articolo 51, comma 3-bis, quando è richiesto l’esame di un testimone o di una delle persone indicate nell’articolo 210 e queste hanno già reso dichiarazioni in sede di incidente probatorio o in dibattimento nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime saranno utilizzate ovvero dichiarazioni i cui verbali sono stati acquisiti a norma dell’articolo 238, l’esame è ammesso solo se riguarda fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni ovvero se il giudice o taluna delle parti lo ritengono necessario sulla base di specifiche esigenze. 1-bis. La stessa disposizione si applica quando si procede per uno dei reati previsti dagli articoli 600-bis, primo comma, 600-ter, 600-quater, 600-quinquies, 609-bis, 609-ter, 609-quater, anche se relativi al 91 e l’aggiunta della procedura di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici – c.d. braccialetto elettronico– ex art. 275-bis c.p.p.281, al fine di garantire il rispetto della misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa. Infine, è stato introdotto l’obbligo per il giudice penale, qualora siano in corso procedimenti civili di separazione di due coniugi, o cause per l’affidamento di minori, o concernenti responsabilità parentale, di fornire senza ritardo al giudice civile eventuali provvedimenti adottati nei confronti di una delle due parti (art. 64- bis att. c.p.p.). L’emanazione della legge Codice rosso ha generato opinioni discordanti. Gran parte della dottrina282 l’ha ritenuta una risposta lodevole – in astratto – alle pressioni sovranazionali283, ma insoddisfacente nel risultato, un intervento di natura materiale pornografico di cui all’articolo 600-quater 1, 609-quinquies e 609-octies del codice penale, se l’esame richiesto riguarda una testimone minore degli anni diciotto e, in ogni caso, quando l’esame testimoniale richiesto riguarda una persona offesa in condizione di particolare vulnerabilità». 281 Art. 275-bis c.p.p.: «1. Nel disporre la misura degli arresti domiciliari anche in sostituzione della custodia cautelare in carcere, il giudice, salvo che le ritenga non necessarie in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto, prescrive procedure di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici, quando ne abbia accertato la disponibilità da parte della polizia giudiziaria. Con lo stesso provvedimento il giudice prevede l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere qualora l’imputato neghi il consenso all’adozione dei mezzi e strumenti anzidetti. 2. L’imputato accetta i mezzi e gli strumenti di controllo di cui al comma 1 ovvero nega il consenso all’applicazione di essi, con dichiarazione espressa resa all’ufficiale o all’agente incaricato di eseguire l’ordinanza che ha disposto la misura. La dichiarazione è trasmessa al giudice che ha emesso l’ordinanza ed al pubblico ministero, insieme con il verbale previsto dall’articolo 293, comma 1. 3. L’imputato che ha accettato l’applicazione dei mezzi e strumenti di cui al comma 1 è tenuto ad agevolare le procedure di installazione e ad osservare le altre prescrizioni impostegli». 282 Cfr. L. ALGERI, op. ult. cit., 1373 ss.; G. CALETTI, “Revenge porn”. Prime considerazioni in vista dell’introduzione dell’art 612 ter cp: una fattispecie “esemplare”, ma davvero efficace?, in Dir. pen. cont., 2019; A. DE SANTIS, op. ult. cit.; G. MAZZA, Lo spettro delle misure di prevenzione per i reati perseguiti dalla legge c.d. Codice rosso: un’alternativa alle misure cautelari?, in Dir. pen. proc., 2019, 1278 ss.; B. NICOTRA, Il “Codice rosso” per estirpare il virus della violenza di genere: un primo commento a meno di un anno dalla sua entrata in vigore, in Magistratura indipendente, 8 aprile 2020; F. PAGLIONICO, La tutela delle vittime da Codice Rosso tra celerità procedimentale e obblighi informativi, in Sist. pen., 2020, 9, 168 ss.; D. RUSSO, op. ult. cit., 14 ss.; A. VALSECCHI, “Codice Rosso” e diritto penale sostanziale: le principali novità, in Dir. pen. proc., 2020, 2, 172 ss. 283 In particolar modo a seguito della sentenza di condanna pronunciata dalla Corte EDU nei confronti dell’Italia per violazione dell’art. 2 CEDU (diritto alla vita), dell’art. 3 CEDU (divieto di [...] trattamenti inumani e degradanti) e dell’art. 14 CEDU (divieto di discriminazioni, nella specie basate sul genere) per non aver agito prontamente in seguito a molteplici denunce di violenza domestica proveniente da una donna, contribuendo così al reiterarsi degli atti violenti, culminati con il tragico epilogo del suo tentato omicidio da parte del marito e dell’omicidio del figlio della ricorrente. Corte EDU, sez. I, sent. 2 marzo 2017, Talpis c. Italia, pubblicata, con nota di R. CASIRAGHI, La Corte di Strasburgo condanna l’Italia per la mancata tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, in Dir. pen. cont., 2017, 3, 378 ss. 92 non sistematica che non tiene presente l’esito generale e le eventuali conseguenze sul procedimento in toto. Una delle principali contestazioni mosse riguarda il carattere emergenziale della riforma che, a fronte di una risposta mediatica positiva, risulta meno adeguato di quanto sperato con riguardo alle soluzioni prospettate284: la novella, difatti, di focalizza pressoché esclusivamente sulla repressione del fenomeno della violenza di genere, senza però muovere alcun passo in merito alla matrice culturale del problema, che necessita piuttosto un intervento di ordine preventivo, educativo e sociale285. Altra criticità riguarda l’aspetto processuale: infatti il legislatore ha rivolto la propria attenzione esclusivamente sul momento delle indagini, determinando sì un oggettivo acceleramento dell’attività di queste ultime, a cui però non è susseguito un intervento sulle criticità tutt’ora persistenti nella fase del processo286. Effettivamente, a fronte del maggiore impegno gravante sui professionisti interessati – giuridici e sociali – nella lotta alla violenza di genere è totalmente assente uno stanziamento di idonee risorse economiche, comparendo tuttavia una “clausola di invarianza finanziaria” che esclude che possano derivare a carico della finanza pubblica nuovi o più ingenti obblighi dalla realizzazione delle disposizioni introdotte dalla novella. Un’ulteriore problematica si ravvisa nella disposizione che prescrive che la vittima sia ascoltata entro tre giorni dall’iscrizione del reato, dal momento che una tale imposizione porterebbe non sporadicamente a una sottovalutazione e 284 Cfr. Relazione di minoranza della 2° Commissione permanente (giustizia) comunicata alla Presidenza del Senato l’11 luglio 2019. Secondo F. FILICE, Linguaggio giuridico e patriarcato. Perché il contrasto alla violenza di genere non sia utilizzato per affermare un diritto maschile a “difendere” le donne, in giudicedonna.it, 2019, 1, il Codice Rosso «rivela un approccio culturalmente sbagliato alla problematica della violenza sulle donne: Alla massimizzazione della violenza punitiva – innalzamento delle pene, creazione di nuove fattispecie – corrisponde infatti la massimizzazione dello stereotipo di genere in base al quale, proprio come avvertiva bel hooks, i maschi riaffermano la propria sovranità su un territorio anche tramite la difesa del corpo delle donne». D. RUSSO, op. ult. cit., 14 ss. 285 Il legislatore, infatti, non solo non si è mosso in direzione di un potenziamento delle strutture, sia pubbliche, quali i Servizi Sociali e i Consultori delle ASL, che private, come i Centri Anti-violenza e le Case Rifugio (v. art. 18 legge cit., che interviene sul d. l. 93/2013 in materia di riparto di somme tra le regioni per il rafforzamento della rete dei servizi territoriali, dei centri antiviolenza e dei servizi di assistenza alle donne vittime di violenza; art. 5-bis co. 2, con cui viene eliminata la previsione che imponeva di riservare un terzo dei fondi disponibili all’istituzione di nuovi centri e di nuove case- rifugio), ma le ha messe a rischio di depotenziamento in mancanza di sufficienti mezzi e risorse economiche. 286 Si parla in proposito di riforma c.d. a costo zero. 95 Il legislatore punisce «chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 1.032». La norma poi prosegue affermando quanto segue: «Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a euro 2.065. Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516. […]». Il bene giuridicamente tutelato dalla disposizione è l’onore293; in particolare la norma dà specifico rilievo alla “proiezione esterna” della reputazione, che risulta danneggiata dalla condotta offensiva realizzata tramite la comunicazione con una molteplicità di persone. Dal tenore letterale della norma si evince che, affinché si possa integrare la fattispecie, sono determinanti tre requisiti. Il primo lo si può desumere dalla formula con cui si apre l’articolo («fuori dei casi indicati nell’articolo precedente»294) e si tratta dell’assenza dell’offeso, vale a dire l’elemento negativo che comporta l’impossibilità per la persona offesa di difendersi o replicare295. Il secondo aspetto è Si potrebbe altresì citare Cass. pen., sez. V, 15 ottobre 2013, n. 45966, una condanna per diffamazione aggravata in seguito alla diffusione digitale di un video amatoriale sessualmente esplicito, il quale ritraeva la vittima insieme all’imputato. Si tratta di un reato comune, il cui oggetto giuridico è la reputazione, e il soggetto passivo è il titolare di tale bene; l’elemento oggettivo del delitto è a forma libera. Per un’analisi più approfondita del delitto, cfr. F. ANTOLISEI, op. ult. cit.., 256 ss.; G. COCCO, op. ult. cit., 554 ss.; F. MANTOVANI, op. ult. cit., 200; L. BISORI, La diffamazione, in M. PAPA, op. ult. cit., 57 ss. 293 Difatti, l’articolo è collocato nel Libro II («Dei delitti in particolare»), Titolo XII («Dei delitti contro la persona»), Capo II («Dei delitti contro l’onore»). 294 Il legislatore fa riferimento all’art 594 c.p., riguardante la fattispecie dell’ingiuria (ora depenalizzata con d.lgs. 15 gennaio 2016, n.7), il quale puniva «Chiunque offende l’onore o il decoro di una persona presente». L’assenza della persona offesa rappresenta proprio il criterio di discrimen rispetto all’ingiuria. 295 «L’assenza non va intesa in senso strettamente fisico spaziale, ma come impossibilità della percezione fisica dell’offesa da parte del destinatario o per sua assenza o, in sua presenza, perché la condotta offensiva è inidonea, da valutarsi con giudizio ex ante – alla percezione, come nel caso di offesa a voce troppo bassa o a notevole distanza Se invece la condotta, anche se non percepita, appare idonea ad esserlo si ha tentata ingiuria (eventualmente aggravata ex art. 594/4 in caso di presenza di più persone)», G. COCCO, op. ult. cit., 554. Sul punto anche G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale: parte speciale, cit., 107: «Secondo la dottrina e la giurisprudenza largamente dominante l’assenza non va intesa in senso rigorosamente fisico spaziale, ma come impossibilità di percezione fisica dell’offesa da parte del soggetto passivo: per cui si ha 96 rappresentato dall’«offesa all’altrui reputazione», considerata come il «riflesso oggettivo dell’onore in senso ampio, la valutazione sociale dell’offeso»296. Infine, il terzo elemento caratterizzante è costituito dalla comunicazione, attraverso qualsiasi mezzo, con più persone: occorre dunque che la condotta abbia portata divulgativa, giacché i destinatari devono essere almeno due persone, essendo la divulgazione la «caratteristica intrinseca del delitto»297. Senza pretese di esaustività, dalla breve analisi del reato di diffamazione appena operata è possibile prendere le mosse per verificare l’eventuale idoneità di tale fattispecie all’incriminazione del fenomeno della pornografia non consensuale. Invero, gran parte della dottrina ha ritenuto che i principi che regolano la materia della diffamazione non siano adatti a cogliere la natura dei beni giuridici colpiti dal revenge porn, e di conseguenza il disvalore della condotta stessa. Infatti, la vittima di tale condotta non può considerarsi diffamata, dal momento che non vi è una “verità contraria” da contestare: ad essere lesi sono invero molteplici aspetti della sua sfera emotiva e personale, quali la sua privacy, la sua intimità, la sua capacità di determinare la propria sfera sessuale, e così via, sia nell’eventualità in cui la vittima fosse consapevole di essere fotografata (o filmata) ma non abbia prestato il consenso alla diffusione del materiale, sia nell’ipotesi in cui sia stata vittima di voyeurismo, spy cameras o virus sui suoi dispositivi. In aggiunta, con riguardo al revenge porn non sussistono i contro limiti previsti per i casi di diffamazione, ovverosia la libertà di espressione e il diritto all’informazione: difatti il soggetto attivo del delitto non divulga verità o falsità, né la propria opinione riguardo ad un fatto o ad una condotta. diffamazione anche nell’ipotesi in cui, per qualsivoglia ragione, il soggetto passivo, pur presente non è in grado di percepire l’offesa. Questa opzione interpretativa pone, poi, il problema della distinzione tra diffamazione e tentativo di ingiuria aggravata dalla presenza di più persone: valgono al riguardo, i consolidati principi in materia di idoneità ex ante a percepire l’offesa». 296 G. COCCO, op. ult. cit., 554: «La valutazione sociale dell’offeso. La reputazione, quindi, non si identifica con la considerazione che ciascuno ha di sé, ma con il senso della dignità personale in conformità all’opinione del gruppo sociale, secondo il particolare contesto storico». 297 G. COCCO, ibidem. Secondo la dottrina maggioritaria, la comunicazione richiede la percezione e la comprensione da parte dei terzi. In tal senso, anche G. FIANDACA – E. MUSCO, op. ult. cit., 107; F. ANTOLISEI, op. ult. cit.., 257; F. MANTOVANI, op. ult. cit., 310; P. SIRACUSANO, Ingiuria e diffamazione, in Dig. Pen., 1993, VII, 42. Contra Cass. pen., sez. V, 17 novembre 2000, n. 4741. 97 Il consenso, (se) presente al momento della produzione delle immagini, le rende “vere”; è la dimensione privata, in cui sono state prodotte, a escludere che debbano e possano essere divulgate298. In dottrina, si è ritenuto che «l’aggressione non si rivolge solo all’onore e alla reputazione dell’individuo, ma ancor prima a quell’insieme di valori che fanno capo all’affidamento che il soggetto ha riposto nell’agente, e che sono da rinvenire nella riservatezza, nell’intimità, nella fiducia prestata»299. È significativo rilevare come il trattamento sanzionatorio non fosse poi idoneo a cogliere in toto il disvalore penale della pornografia non consensuale, e questo nonostante il reato di diffamazione preveda l’aggravante dell’utilizzo del mezzo della pubblicità di cui al comma 3 dell’art. 595 c.p., propriamente calzante nel caso in cui la divulgazione si svolga tramite social network300. Con riguardo all’aspetto applicativo del reato, un ulteriore aspetto che depone a favore dell’incompatibilità tra le due condotte è dato dal requisito oggettivo della “comunicazione con più persone”, che nel revenge porn si svolge su social network, siti web o mezzi di comunicazione digitale; porterebbe inoltre ad un’esclusione della punibilità di alcune condotte rientranti nel fenomeno301, giacché la casistica relativa alla pornografia non consensuale è talmente varia e complessa che è spesso logico contemplare ipotesi nelle quali la prima condivisione avviene solo tra due individui, con la successiva realizzazione della “viralità”. Inoltre, i “controlimiti” del reato di diffamazione (la libertà di espressione e di opinione) non si possono correlare ai casi di revenge porn, in quanto l’autore di 298 Per ulteriori approfondimenti, v. N. AMORE, op. ult. cit., 15 ss.; C. ANDREUCCIOLI, op. ult. cit.; G.M. CALETTI, op. ult. cit., 83 ss.; S. CORSI, Revenge porn: analisi sulla ragionevolezza di un intervento legislativo, in Cyberlaws, 2019. 299 M. BIANCHI, Il “Sexting minorile” non è più reato?, in Dir. pen. cont., Riv. Trim., 2016, 1, 153. 300 Sul punto, è rilevante indicare che dottrina e giurisprudenza prevalenti classificano i social network e i sistemi di messaggistica istantanea come mezzi di pubblicità, vista la loro abilità di raggiungere un numero indeterminato di persone in pochissimi istanti. In tal senso si veda Cass. pen., sez. V, 22 febbraio 2017, n. 8482, nella quale la Corte afferma che nella categoria dei mezzi di pubblicità sono inclusi «tutti quei sistemi di comunicazione e, quindi, di diffusione – dal fax ai social media – che, grazie all’evoluzione tecnologica, rendono possibile la trasmissione di dati e notizie ad un numero ampio o addirittura indeterminato di soggetti». 301 Quali, ad esempio, l’invio esclusivo al datore di lavoro della vittima di un file contenente immagini intime della stessa, al fine di causarne il licenziamento per evitare un’ulteriore diffusione delle stesse con un conseguente scandalo.
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