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IL MUSEO COME APPARATO DI COMUNICAZIONE, Dispense di Antropologia Dei Processi Culturali

Il museo come apparato di comunicazione: come far vivere un museo; didascalie; progetti didattici

Tipologia: Dispense

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Scarica IL MUSEO COME APPARATO DI COMUNICAZIONE e più Dispense in PDF di Antropologia Dei Processi Culturali solo su Docsity! Marialuisa Stazio IL MUSEO COME APPARATO DI COMUNICAZIONE Questo articolo è stato pubblicato in: SIMEON Maria I. (2004), Gestione economica e valorizzazione del patrimonio museale: il Caso Napoli , Quaderno IRAT/CNR n.31, dicembre. NAPOLI: IRAT/CNR (ITALY). L’A. lo ripropone in lulu.com per la circolazione didattica e senza scopo di lucro. Ottobre 2007 5 IL MUSEO COME APPARATO DI COMUNICAZIONE Premessa Il presente articolo vuole offrire alcuni spunti di riflessione, scaturiti nel corso di una ormai lunga collaborazione1 nelle ricerche condotte dall’IRAT-CNR, sulle problematiche della comunicazione dell'arte e dei beni culturali. Esso rientra, quindi, nella già folta schiera di contributi che guardano ai beni culturali – e al "museo", in particolare – con un orientamento che spesso si trova ad essere in forte contrasto con la prospettiva di analisi del museologo, focalizzata su aspetti di carattere storico, estetico, scientifico. Premettiamo subito, perciò, che questo intervento è concepito in funzione integrativa, e assolutamente non sostitutiva, di tale punto di vista. Restiamo fermamente convinti, infatti – e siamo in questo bene accompagnati2 – che le "attività caratteristiche" della filiera museale siano la conservazione e il restauro, e che un museo sia un museo se (e soltanto se) è – soprattutto – portatore di valori di carattere storico, estetico e scientifico. Le seguenti riflessioni sono nate nel corso delle ricerche effettuate sulle politiche di valorizzazione del patrimonio storico artistico napoletano, ma crediamo possano essere, in qualche misura, di interesse generale, nonostante il loro carattere parziale e rapsodico. Le competenze disciplinari di chi scrive sono, infatti, ovviamente insufficienti ad affrontare l’argomento nella sua completezza. Trattare la comunicazione museale in un ottica sistemica richiederebbe, infatti, lo sforzo congiunto e coordinato di più specialisti, all’interno del «gioco complesso, contemporaneamente rivalitario e comunitario, che si conduce nell’ambiente scientifico»3. Affrontiamo, quindi, il rischio di rendere pubbliche queste note, sperando di sollecitare con esse una riflessione sistematica, collettiva e multidisciplinare, su una tematica che crediamo di valore strategico per il nostro Paese. 1. Il museo, uno e molteplice Secondo la definizione adottata dal Consiglio Internazionale dei Musei (ICOM), il museo è una «istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che compie ricerche sulle testimonianze materiali dell'uomo e del suo ambiente, le 1 La collaborazione con l'IRAT e con M.I Simeon sulle tematiche della valorizzazione del patrimonio artistico e culturale come componente strutturale per una nuova offerta turistica ha avuto inizio nel 1996 (M.I. Simeon, M. Stazio, Integration policies between culture and tourism in a re-emerging city: the case of Naples, in M. Robinson, P. Callaghan (editor), Managing Cultural Resources for the Tourist, University of Northumbria, Newcastle, 1996, pp. 389- 415) ed è proseguita quasi ininterrottamente fino ad oggi, attraverso la partecipazione, tra l’altro, all'Unità Operativa CNR IRAT- Istituto di Ricerca sulle Attività del Terziario di Napoli nell’ambito del Primo e Secondo Progetto Strategico Turismo e Sviluppo Economico del CNR con il tema: "Politiche di valorizzazione dell'offerta culturale: Il Museo Aperto di Napoli"; cfr. M.I. Simeon, M. Stazio, Sviluppo turistico e risorse culturali: Il Museo Aperto di Napoli, in Marcello Colantoni (a cura di), Turismo. Una tappa per la ricerca. Progetto Strategico Turismo e sviluppo economico CNR, Patron, Bologna 1999, pp. 387-430; M.I. Simeon, M. Stazio, Mercato turistico e nuove politiche d'uso dei Beni Culturali: i risultati di una indagine empirica, in "Economia e Diritto del Terziario", n. 2, Franco Angeli, Milano 2000, pp. 505-535. 2 Cfr. Luca Zan, Conservazione e innovazione nei musei italiani. Management e processi di cambiamento, EtasLab, Milano 1999. 3 E. Morin, Sociologia della Sociologia, Edizioni Lavoro, Roma 1985, p. 73. Sotto questo aspetto – come per numerosi altri – l’oggetto di queste note non differisce da altri segmenti dell’industria culturale. Come abbiamo altrove affermato, «le conoscenze necessarie ad affrontare la ricerca sull’industria culturale (...) costituiscono un sistema in cui convivono concetti, categorie, modelli e teorie tratti da buona parte delle discipline in cui la tradizione, l'accademia, la convenzione e l'abitudine hanno segmentato e suddiviso gli studi umanistici, le scienze sociali e quelle umane. (...) Il lavoro sull'industria culturale (…) è impensabile al di fuori di una pratica di ricerca, oltre che multidisciplinare, collettiva. ». (Cfr. M. Stazio, Classici resistenti al tempo. Il dibattito e la teoria sull’industria culturale, in Mario Morcellini (a cura di), Mediaevo. Televisione e industria culturale nell’Italia del XX secolo, Carocci, Roma 2000). 6 acquisisce, le conserva, le comunica e, soprattutto le espone ai fini di studio, di educazione e di diletto»4. In questa loro funzione di conservazione e trasmissione di memoria, cultura e identità, relativi ad un territorio o ad un campo di interesse, tutti i musei condividono le caratteristiche di "bene pubblico puro"5, di "bene misto" e di "bene di merito"6, ed assolvono le seguenti funzioni7: 1. raccolta; 2. conservazione 3. tutela; 4. studio; 5. interpretazione; 6. esibizione. In termini economici, si è soliti distinguere tre tipi di "benefici" prodotti dai musei, come del resto da tutti i beni culturali. Il primo, in termini economici definito diretto, derivante agli utenti dalla loro esperienza di visita. Una serie di altri benefici, definiti benefici di non-uso, sono legati all'esistenza ed alla pubblica disponibilità dei beni culturali8. Infine, il bene culturale è dotato di quello che gli economisti chiamano un valore d'uso indiretto, che si riferisce ai benefici economici, in termini di maggiori opportunità di lavoro o di affari, che possono ricadere su un'area in cui esso sia presente. Si tratta, in altre parole, del suo valore di "attrattore" di flussi turistici di diversa natura. Ai benefici diretti e indiretti, si correlano due tipi di domanda: 1. la domanda privata espressa dai visitatori, che aspirano ad attività di intrattenimento, studio o ricerca; 2. la domanda sociale, basata sulle esternalità e sugli effetti indiretti sull'economia locale, espressa dagli individui e dalle organizzazioni che beneficiano dell'attività museale. Dal punto di vista della comunicazione – di quelle attività di comunicazione che vanno inquadrate nel novero delle attività economiche – queste due domande presuppongono la possibilità – o, meglio, la necessità – di attivare almeno tre diversi processi comunicativi: 1. un processo comunicativo destinato ai visitatori del museo; 2. un processo comunicativo destinato ai potenziali visitatori del museo; 4 International Council of Museums, "Codice di deontologia professionale", adottato dalla 15a assemblea generale; Buenos Aires 14 novembre 1986). L'ICOM, fondato a Parigi nel 1946, è una filiazione dell'UNESCO creato per promuovere gli interessi della museologia e delle altre discipline che riguardano la gestione e le attività dei musei. 5 Con il termine bene pubblico si intende l'insieme di beni e servizi che sono caratterizzati da non rivalità e non escludibilità. La non rivalità implica che il consumo da parte di un individuo di tali beni non impedisca il consumo simultaneo da parte di un altro, mentre la non escludibilità presuppone una situazione in cui sia tecnicamente impossibile escludere qualcuno dal consumo di un bene. In presenza di beni pubblici, la teoria economica dimostra che il mercato, lasciato libero di funzionare, provvederebbe una quantità del bene inferiore all'ottimo in quanto molti consumatori potrebbero godere dei benefici senza pagare i costi (fenomeno del free-riding, che si riferisce all'espressione free-ride - corsa gratis - rivolta a chi non paga l'autobus, contando sul fatto che il trasporto verrà pagato da altri cittadini). 6 I beni di merito sono beni che la collettività ritiene degni di particolare attenzione perché meritori dal punto di vista sociale e pertanto oggetto di intervento pubblico. Un bene di merito è un bene il cui consumo è ritenuto dall'autorità pubblica desiderabile e meritevole di tutela e di incoraggiamento. Cfr. M. Mazzanti, Note sull'economia dei beni culturali. La valutazione economica, i mercati, il ruolo dello stato e i processi di innovazione istituzionale, Dispense del corso di Economia Politica, Università di Bologna, A.A. 2001-2002. 7 «Cinque sono dunque le funzioni base di un museo moderno: il recupero, la conservazione dei beni culturali, la tutela di questo patrimonio (che è cosa in parte diversa dal recupero e dalla conservazione), la produzione culturale, e cioè la ricerca scientifica e, infine, la funzione di trasmissione culturale (e cioè la divulgazione dei contenuti e delle elaborazioni del museo), nella quale un ruolo non piccolo gioca la didattica rivolta al mondo della scuola. Non tutte queste funzioni sono nuove per il museo: il recupero e la conservazione dei beni culturali sono – per esempio – azioni che stanno alla base della nascita stessa del museo; sono funzioni che i musei hanno sempre attuato, a volte uscendo persino dai limiti stessi dell’azione culturale, come è il caso dei grandi accumuli e delle insanabili spoliazioni. Analogamente, la ricerca scientifica è stata fin dalle origini del museo pubblico una funzione base di questa istituzione», da G. Pinna, Per un museo moderno in L. Binni, G. Pinna, Museo. Storia e funzioni di una macchina culturale dal Cinquecento ad oggi, Milano 1989, pp.81-82. 8 Questi sono legati a quelli che gli economisti chiamano valori di opzione che si riferiscono al valore di conservare il bene per un possibile uso futuro e ai valori di non uso, come il "valore di dono" (che deriva dal fatto di sapere che altri possono utilizzare il bene) o il "valore di esistenza", legato all'attribuire un valore positivo all'esistenza del bene culturale. 7 3. un processo comunicativo destinato agli individui e alle organizzazioni che beneficiano indirettamente dell'attività museale. Le prime due pratiche comunicative hanno la funzione e la finalità di migliorare qualitativamente, ed estendere quantitativamente, la fruizione del bene. La terza, ha lo scopo di contribuire a creare condizioni ambientali e contesti normativi favorevoli – nonché a reperire risorse finanziarie – per condurre ad effetto le prime due. Altri benefici economici derivanti dall’esistenza di beni culturali – e dalle correlate attività di raccolta, conservazione, tutela, studio, interpretazione – sono quelli riconducibili allo sfruttamento commerciale delle riproduzioni (fotografiche o video, analogiche o digitali) dei beni, nonché delle conoscenze acquisite nel loro studio. Benefici riconducibili, cioè, alla valenza di “contenuto” che tali beni – materiali (le opere) e immateriali (le conoscenze) – possono assumere, e di fatto assumono, per numerose e diverse attività di tipo editoriale: dall’editoria d’arte, alla televisione, all’editoria multimediale. Ma, in questa sede, di questo aspetto si parlerà solo incidentalmente. 2. La comunicazione con i visitatori Queste annotazioni, pur essendo, in parte, applicabili ai musei e ai beni culturali in generale, sono relative a riflessioni nate durante un percorso di ricerca che ha riguardato essenzialmente i maggiori musei napoletani. Esse si riferiscono, allora, prevalentemente alle problematiche poste dai beni artistici, storici e archeologici e, quindi, a tipologie di beni che, in se stessi, rappresentano testi di peculiare complessità, particolarmente carichi di ambiguità, aperti all’interazione con il fruitore. Su di essi, il trascorrere della storia – oltre a lasciare tracce che vanno a confluire nell’aura benjaminiana – ha sedimentato innumerevoli interpretazioni. Come puntualizza Hans Robert Jauss9, padre dell’estetica della ricezione, la natura delle interpretazioni può essere compresa solo nel contesto delle sue condizioni storiche, sia in termini di storia della critica, che di storia in generale. La singola ricezione avviene, infatti, nell’ambito di un continuum di «successive realizzazioni di un'opera», di successivi dialoghi fra il testo e il fruitore che liberano, in ciascuna epoca, il potenziale semantico-artistico dell'opera, iscrivendo anche le diverse “letture” nella tradizione. Una tradizione che – unitamente all’esperienza – contribuisce a formare l’orizzonte di attesa del fruitore: quanto – cioè – lo orienterà durante la fruizione. Nell'ambito dell'esperienza di visita di un museo si attivano, allora, due diversi processi comunicativi: a) Fra i testi10 o gli oggetti culturali11 e il fruitore; b) Fra l'istituzione e il visitatore. 9 H.R. Jauss, Estetica della ricezione, Guida, Napoli, 1988; Idem, Perchè la storia della letteratura? (1967), Guida, Napoli, 1989. 10 Secondo R. Barthes (Elementi di semiologia (1964), Einaudi, Torino 1966), «la semiologia ha per oggetto il sistema dei segni, quali che siano il contenuto e i confini: le immagini, i gesti, i suoni, gli oggetti e gli insieme di sostrati che si ritrovano nei riti, nei protocolli o negli spettacoli costituiscono, se non dei linguaggi, almeno dei sistemi significanti». Infine, ancora Eco afferma che «usualmente un solo significante veicola contenuti diversi e interallacciati e che pertanto quello che si chiama "messaggio" il più delle volte è un TESTO il cui contenuto è un DISCORSO a più livelli», (Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano, 1975, p. 86). 11 Secondo U. Eco «ogni fenomeno culturale può essere studiato nel suo funzionamento di artificio significante» (Trattato di semiotica generale, Bompiani, cit., p. 21-45). Secondo la definizione di W. Grinswold, (Sociologia della cultura (1994), Il Mulino, Bologna 1997) «un oggetto culturale può definirsi come un significato culturale incorporato in una forma» ed è «il risultato di una operazione analitica che noi compiamo in quanto osservatori; non è qualcosa di intrinseco all’oggetto stesso». 10 operano – la cui attività, nel suo versante espositivo, si concreta in prodotti di comunicazione, destinati a pubblici vari ed eterogenei. Tale attività si configura – fra l'altro – come un'attività economica, caratterizzata da costi anche ingenti e che necessita di investimenti e risorse. Cercheremo di enucleare, qui di seguito, alcuni degli elementi del processo comunicativo messo in atto dall'apparato museale verso i suoi visitatori26. 3.1. Media Il processo comunicativo mediato del museo (in cui non c'è condivisione di spazio e/o di tempo fra emittente e ricevente27) avviene nella compresenza e nell'interazione di diversi codici e testi28. Come abbiamo appena detto, l’apparato museale seleziona oggetti (solitamente particolarmente carichi di senso) e li organizza in uno spazio (anche questo fortemente segnato da codici architettonici29) ed in percorsi. Tale selezione ed organizzazione, oltre a regolare i processi comunicativi che si attivano fra i singoli oggetti/testi – e tra la sequenza e l’organizzazione di oggetti/testo – e il singolo visitatore, attivano processi comunicativi che si svolgono nella interazione fra il visitatore e gli oggetti e la loro sequenza e organizzazione, con il contenitore-architettonico e le scelte di allestimento. Questi processi implicano l'uso integrato di diversi "sistemi significanti": 1. Organizzazione dello spazio (volumi, distanze, percorsi); 2. Organizzazione degli oggetti che compongono le collezioni; 3. Sistemi espositivi (vetrine, pannelli, ecc); 4. Illuminotecnica; 5. Arredo; 6. Decorazione (materiali, colori). La relazione fra utente e museo si articola, inoltre, attraverso una comunicazione mediata – relativa a contenuti scientifici generali, a informazioni su singoli oggetti (didascalie) oppure riferita allo spazio e alle sue funzioni: ingresso, percorsi, direzioni oppure guardaroba, toilette, ecc. (segnaletica simbolica) – che può prevedere l'uso integrato di diversi codici e diverse tecnologie della comunicazione: dai codici linguistici e grafici, alle tecnologie analogiche o digitali di riproduzione (foto, video), fino alle tecnologie digitali interattive (ipermedia) o di simulazione (restituzione e restauro virtuale). 26 Dal nostro punto di vista, è impossibile non evidenziare alcune analogie riscontrabili con il processo comunicativo attivato da apparati di comunicazione facenti capo alle differenti industrie culturali, specificamente e specialmente nelle caratteristiche collettive e complesse dell'emittente, alla varietà e stratificazione dei pubblici ed alle condizioni produttive del messaggio, soggette e largamente coinvolte in attività di presupposizione relative ai pubblici. D’altra parte, come abbiamo scritto altrove, «l’industria culturale rappresenta la forma di organizzazione e produzione culturale propria dell’età contemporanea, dove è, in pratica, difficile trovare una forma culturale (persino quelle più direttamente riconducibili all’avanguardia o alla ricerca) che non sia, in qualche fase, coinvolta nel processo produttivo industriale» (M. Stazio, Classici resistenti al tempo. Il dibattito e la teoria sull’industria culturale, cit.). 27 I processi comunicativi fra istituzione museale e visitatore possono essere anche di tipo interpersonale (modalità che implica la compresenza fra emittente e ricevente) nel caso di visite guidate, servizi educativi, personale di front-office, ecc. Questi processi sono strettamente interdipendenti con i processi comunicativi "interni" dell'apparato (cfr. nota 78). 28 I codici consistono in una rete di segni, che formano un sistema da cui singole unità possono essere scelte; queste unità, combinate secondo determinate regole, hanno significato entro un contesto culturale e specifico. La frase può essere considerata l'unità basilare del discorso o del testo: il suo significato e il suo valore sono superiori a quelli dei suoi elementi costitutivi (gruppi, sintagmi, parole) per l'aggiunta di senso derivante dalle relazioni tra loro. Il testo - da un punto di vista semiotico - è un messaggio comprendente più codici e subcodici, che ha, perciò, un sovrappiù di senso rispetto alla linearità delle frasi di cui si compone. Non consiste, semplicemente, in una somma di frasi - così come una frase non consiste semplicemente in una somma di parole - e ha una coerenza complessiva diversa dalle frasi isolate, considerate singolarmente: chiarisce presupposizioni, precisa connotazioni. Il discorso - o piano dell'enunciazione - è un processo che mette in atto elementi verbali e non verbali (il mittente, il destinatario, il contesto). Poiché, entrambi, enunciati "superiori" alla frase - cioè più articolati di quest'ultima, unità di base per entrambi - testo e discorso vengono allora, abitualmente, adoperati come sinonimi. 29 In più, i musei - almeno in Italia - sono prevalentemente ospitati da edifici di particolare interesse storico, quindi particolarmente carichi di senso. 11 3.2. Emittente Si è detto che la comunicazione museale fa capo a un emittente complesso e collettivo: un'organizzazione composta di professionisti altamente specializzati. Le loro specificità e competenze sono sinteticamente30 riassumibili in quelle del: • Museologo (responsabile scientifico: fornisce i contenuti scientifici e storico-artistici della comunicazione); • Museografo (responsabile del rapporto tra una struttura architettonica e le collezioni: fornisce la sintassi della comunicazione); • Allestitore (responsabile del rapporto tra collezione e pubblico: fornisce la morfologia della comunicazione). A ciascuna figura professionale componente questo emittente collettivo, compete la elaborazione e comunicazione di specifici contenuti: 1. Il Museologo attua una lettura specializzata ed analiticamente motivata degli oggetti e delle collezioni, trasmettendo le ragioni storico critiche di scelta delle opere; 2. Il Museografo fornisce indicazioni sulla lettura dell'architettura e, nello stesso tempo, definisce le caratteristiche, i limiti e le possibilità del "testo museale", descrive cioè le possibilità di relazione fra le parti del testo (oggetti e strutture architettoniche), fra questi e le loro funzioni e le categorie spazio-temporali; 3. L'Allestitore trasmette le ragioni tecnico spaziali adottate per rendere comprensibile la lettura degli oggetti, e regolare, inoltre, l'ordine dei percorsi, i tempi di osservazione, la disciplina nei movimenti, il rispetto del bene pubblico e dell'altrui fruizione. I tre ruoli professionali – se pure nella realtà non sempre effettivamente ricoperti da più persone – sono, però, distinti, almeno concettualmente31. Una figura professionale non prevista – nemmeno a livello concettuale – nell'organizzazione attuale dell'apparato museale è quella specificamente addetta alla comunicazione di contenuti scientifici generali, o di informazioni su singoli oggetti, attraverso l'uso integrato di codici linguistici e grafici e tecnologie dell'informazione e della comunicazione (didascalie, pannelli, materiali audiovisivi, ipermediali, ecc.): un professionista della comunicazione – in perenne dialogo con l'apparato scientifico e di ricerca, capace di rispettare e ottimizzare contributi ed esigenze differenti e spesso in confronto e, talvolta, in conflitto fra loro – responsabile della mediazione fra la completezza, scientificità, approfondimento e, in una parola, la complessità dei contenuti, con la gradevolezza, la facilità d'uso dell'informazione, la chiarezza e adeguatezza a diverse tipologie di utenti32. 30 Non teniamo conto, in questa sede, di componenti e professionalità molto significative all’interno dell’apparato museale considerato come “emittente collettivo”. Ci riferiamo a quelle importantissime quote di lavoro tecnico e artigiano – di altissima specializzazione e forte professionalità – che caratterizzano tutti i processi produttivi degli apparati di comunicazione culturale (dal cinema, all’editoria, alla televisione) –, e contribuiscono (con saperi, competenze e creatività) alla confezione del “prodotto” finale apportando numerosi contributi personali (si pensi soltanto, a titolo di esempio nel caso del museo, al lavoro dei restauratori). 31 Ulteriore figura concettualmente definibile - e praticamente indispensabile - è quella di coordinamento e direzione dell'azione comunicativa: una sorta di regista, insomma, capace di dialogare con le differenti specificità professionali e di amalgamare i diversi apporti. 32 Nell’Atto di indirizzo sui criteri tecnico-scientifici e sugli standard di funzionamento e sviluppo dei musei, frutto della collaborazione fra il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, le Regioni e alcuni esperti del settore e ufficializzato con decreto del Ministro il 10 maggio 2001, e – nello specifico - nell’Ambito IV, dedicato al Personale, è prevista la figura dell’Esperto in comunicazione, le cui attività specifiche sono indicate in: «Informazione, comunicazione e promozione, anche con riferimento alla legge 7 giugno 2000, n. 150». Quest’ultima, “Disciplina delle attività di informazione e di comunicazione delle Pubbliche Amministrazioni”, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 136 del 13 giugno 2000, «in attuazione dei principi che regolano la trasparenza e l'efficacia dell'azione amministrativa», disciplina le attività di informazione e di comunicazione delle P. A., in relazione alle attività di comunicazione esterna e comunicazione interna. La figura delineata nell’Atto di indirizzo – peraltro auspicata, ma ancora non compiutamente introdotta – non corrisponde, quindi, a quella che qui ipotizziamo. 12 3.3. Il "testo" museale Tenteremo di dare ora una definizione descrittiva e operativa (del tutto provvisoria e funzionale al nostro ragionamento, quindi) del testo museale, basandoci sull'osservazione che un museo collega fra di loro, attraverso legami di prossimità spaziale, "testi" di diverso tipo (opere, contenitore, elementi di allestimento, testi scritti, grafica, filmati, multimedia, ecc.), che utilizzano linguaggi differenti. Caratteristici del testo museale sono anche i rapporti dello spazio con il pubblico, che si attualizzano in percorsi di "lettura" qualificati da una grande libertà – se non dall'arbitrio – dell'utente, sia pur nell'ambito e nei limiti delle scelte espositive effettuate dall'emittente. Il testo museale è, quindi: a) esteso nello spazio; b) multimediale; c) non sequenziale; d) interattivo. La leggibilità di questo testo è legata alla sua usabilità, a sua volta legata alle scelte di allestimento – segnaletica, uso degli spazi, apparato didascalico, colori, materiali, pannelli –; di museologia – percorsi espositivi – e di museografia – agevolezza del percorso, predisposizione degli spazi, ecc. La qualità di questo testo sta nella sua capacità di raggiungere i massimi livelli di approfondimento e di esplicitazione dei contenuti scientifici e storico-critici, mantenendo nel frattempo un alto livello di leggibilità. Se potessimo, in questa sede, reinventare la definizione di ipertesto33 – termine coniato dallo statunitense Theodor Holm Nelson negli anni Sessanta, associando l'inglese "text" (testo) con il prefisso "hyper" (derivante dal greco υπερ, letteralmente "sopra"), riferendosi all'uso che se ne fa in geometria, dove ciò che è "hyper" è esteso su uno spazio tridimensionale – ci piacerebbe utilizzarla per descrivere34 il testo museale. Come l'ipertesto, esso è una rete di testi estesa in uno spazio tridimensionale – ma che, prima che in questo, vive in uno spazio logico, si basa su una struttura concettuale di rimandi, una organizzazione e gerarchizzazione di contenuti35 – che consente al fruitore di "navigare" tra testi di varia natura e di 33 Secondo la definizione fornita da G.P. Landow: «L'ipertesto (...) è un testo composto da blocchi di testo - che Barthes chiama lessie - e da collegamenti elettronici fra questi blocchi. Il termine ipermedia estende semplicemente l'idea di testo dell'ipertesto includendovi informazioni visive, suono, animazione e altre forme di dati», (G.P. Landow, Ipertesto. Il futuro della scrittura (1992), Baskerville, Bologna 1993, p. 6). Rispetto alla definizione proposta da Landow, proponiamo qui di rinunciare alla condizione che i collegamenti fra le lessie siano necessariamente "elettronici". Precisiamo, inoltre, che il termine lessia è stato introdotto da Barthes per denotare "unità di lettura" ritagliate all'interno del testo, che sono, quindi, il risultato della «scomposizione (in senso cinematografico) del lavoro di lettura. (...) Questo lavoro di ritaglio, occorre dirlo, sarà quanto possibile arbitrario; non implicherà alcuna responsabilità metodologica (...). La lessia comprenderà ora poche parole, ora qualche frase; sarà questione di comodità: basterà che sia il migliore spazio possibile in cui osservare i sensi; (...) si richiede solo che per ogni lessia non vi siano più di tre o quattro sensi da enumerare», (R. Barthes, S/Z (1970), Einaudi, Torino 1973, pp. 17-18). Sembra quindi improprio denominare "lessie" i blocchi costitutivi dell'ipertesto. 34 L'analogia è, infatti, a livello descrittivo e non certo analitico. McLuhan non la sottoscriverebbe di certo, perché fra testo museale e ipertesto multimediale c'è una profonda differenza inerente alla percezione e all'utilizzazione dello spazio/tempo. In uno lo spazio è fisico, ed il tempo di percorrenza sono legati agli spostamenti e alle azioni del corpo dell'utente, nell'altro lo spazio è virtuale, ed il tempo di lettura è legato a spostamenti istantanei nello spazio virtuale. La "tridimensionalità" dell'ipertesto (per i puristi ipermedia) si estende in "dimensioni" che vanno, infatti, intese diversamente da quelle cui siamo abituati nel nostro mondo fisico (e nelle quali, quindi, si estende il testo museale), perché si estendono in una realtà che esiste in una dimensione puramente concettuale. L'ipertesto ha, infatti - tra le altre - la peculiarità di appartenere a un ambiente di pura informazione: il cyberspace. Comparso per la prima volta nel romanzo Neuromancer (1984), il termine è di William Gibson, che lo conia per alludere alla creazione di un nuovo "luogo" virtuale, simulato in rete e generato dal computer: uno spazio costituito dai dati che passano attraverso le reti e/o vengono custoditi nelle memorie dei computer. Il cyberspazio obbedisce a proprietà del tutto nuove di ubiquità, istantaneità, accessibilità, trasparenza, replica indefinita. Le concezioni "tradizionali" di spazio e di tempo, svaniscono così al confronto di uno spazio-tempo fluido, anche se non privo di frammentazioni. Le differenze fra spazio virtuale e spazio fisico segnano, allora, i maggiori limiti dell'analogia che stiamo descrivendo. E', infatti, evidente che il cyberspace - duttile, potenzialmente infinito - offre limitazioni infinitamente minori alla complessità delle costruzioni ipertestuali di quelle offerte dallo spazio fisico ai testi museali. 35 Cfr. G. Bettetini, B. Gasparini, N. Vittadini, Gli spazi dell'ipertesto, Bompiani, Milano 1999, p. 50-60. 15 dell'importanza della conoscenza dei pubblici ai fini di una corretta comunicazione. Le istituzioni museali – per motivi che vanno dalle "culture di apparato" che le caratterizzano fino alle più "prosaiche" carenze di risorse economiche e umane46– sembrano, però, scarsamente "permeabili" allo sfruttamento della conoscenza dei pubblici già acquisita o conseguibile attraverso specifici strumenti e servizi47. Non solo esse posseggono generalmente una nozione imprecisa – quando non addirittura errata – dei “punti di forza” della loro offerta ma, spesso, sembrano addirittura ignorare la natura dell'offerta che rappresentano per i visitatori. Generalmente, infatti, le istituzioni museali sono concentrate ad offrire un prodotto eccellente, più che accessibile48, ad utenti che piacerebbero a Michel De Certau49 per la loro capacità di "far altro" con ciò che i dispositivi propongono. Dall’insieme delle indagini attualmente disponibili, si delinea – infatti – un profilo di visitatore che sembra considerare l’offerta museale più che altro come una offerta di intrattenimento. L’esperienza di visita è vissuta dai pubblici come un piacevole momento di socialità da trascorrere in luoghi ameni e all'interno di edifici di particolare bellezza e interesse50. Un modo di trascorrere il tempo libero, che certamente non è in contrasto anche con motivazioni culturali, poiché – come è noto – il consumo culturale soddisfa contemporaneamente, una ampia gamma di bisogni: culturale, sociale, emotivo, affettivo, "transizionale"51. qualificazione degli effetti dell'esperienza museale e specializzazione dell'esperienza museale, in relazione alle caratteristiche del pubblico. La Provincia Autonoma di Trento e l'Università degli Studi di Trento hanno finanziato una ricerca, coordinata dal Prof. Renato Mazzolini dell'Università di Trento, che si è avvalsa di un team di psicologi, sociologi e storici della scienza. I risultati sono raccolti nel volume, a cura di Mazzolini, Andare al Museo. Motivazioni, comportamenti e impatto cognitivo (Trento, Provincia autonoma di Trento, Giunta, 2002. Quaderni Trentino Cultura, 6). I risultati della ricerca promossa dalla Regione Lombardia, e curata da Alessandro Bollo, Fondazione Fitzcarraldo appaiono nel marzo 2004 - e sono visionabili in rete all'indirizzo http://www.fitzcarraldo.it/ricerca/pdf/musei_lombardia.pdf. 46 A tale proposito vale la pena sottolineare come nelle linee guida della Regione Lombardia (Regione sensibile al problema dell'individuazione dei pubblici museali, cfr. nota precedente) sui "Profili Professionali degli operatori dei musei e delle raccolte museali in Lombardia" (D.G.R. n. VII/11643, del 20/12/2002) alla figura professionale del custode venga affidato anche il delicato compito della comunicazione interpersonale e dell'orientamento e accoglienza del pubblico. 47 Vi sono, però, delle eccezioni. Ad esempio, nel 2000, nell'ambito degli uffici afferenti ai Musei Civici Veneziani, è stato creato un servizio “Marketing, Immagine e Promozione”. Scopo strategico del servizio, coordinato da Monica da Cortà Fumei, è quello di lavorare per una ridefinizione dell'approccio del museo al pubblico, favorendo la considerazione del punto di vista del visitatore e, in generale, del fruitore, senza che per ciò il museo abdichi alle proprie funzioni primarie. In questo contesto, i compiti dell'ufficio si esplicitano su due versanti: da un lato come supporto di servizio alle altre strutture museali, ai fini di fornire dati utili nelle scelte di programmazione delle attività e di elaborarne e migliorarne la comunicazione; dall'altro sull'insieme assai ampio dei servizi al pubblico, a livello di informazione, di diversificazione dell'offerta, di monitoraggio della qualità dei servizi gestiti da terzi. Gli strumenti del servizio si articolano nel contributo del servizio alle fasi di programmazione, attraverso lo studio dei bisogni degli utenti (attraverso una sistematica raccolta ed elaborazione dati, interni ed esterni); in un osservatorio permanente sulla percezione del sistema attraverso inchieste di mercato e nella condivisione, con i responsabili scientifici e quelli delle risorse finanziarie, dell'elaborazione progettuale e delle fasi produttive delle attività, al fine di acquisire una conoscenza adeguata dei "prodotti". Sulla base di questa, il servizio procede all'individuazione dei target e alla conseguente elaborazione di strategie, prodotti e attività di comunicazione nelle varie, numerosissime, possibili articolazioni. A questo livello appartiene anche la comunicazione specificamente rivolta al mondo della stampa. Il servizio si occupa, attraverso scambi di informazioni, collaborazioni comuni, compartecipazione a programmi, anche delle relazioni esterne nonché - attraverso la gestione sportello web, la manutenzione e l'aggiornamento della qualità dell'immagine del sistema e della realizzazione progetti/strumenti di comunicazione ordinaria e straordinaria - delle relazioni con il pubblico, in riferimento ai servizi erogati, (www.museiciviciveneziani.it). Anche in questo caso di buona articolazione del servizio, però, l'individuazione dei target viene concettualmente collocata a posteriori: dopo e non prima la creazione del prodotto (vedi nota seguente). 48 Il problema non è soltanto italiano. Anche in un paese dove la comunicazione museale si avvale di espedienti “spettacolari” per noi al limite dello scandalo (statue di cera che ricostruiscono scene del passato, effetti son et lumière , animazione e giochi di ambientazione storica), Fiona McLean, docente al Dipartimento di Marketing dell'Università di Stirling, Scozia, e autrice di uno studio qualitativo, tramite interviste approfondite, ai direttori di dodici musei di diverse dimensioni, tipo e localizzazione di un campione in tutta la Scozia, nota che: «alcuni musei sembravano avere problemi nel trovare un equilibrio nella loro identità tra eccellenza e accessibilità. In questo caso la questione della qualità diventa una questione importante, esattamente come il problema delle tensioni inerenti lo sviluppo della qualità per cui l'aderire a standard professionali può impedire la sensibilità organizzativa e verso il mercato. (...) A dispetto delle affermazioni esplicite sulla centralità del pubblico all'interno dei musei, questa è invece apparente perché i musei piuttosto che essere orientati al mercato sono spesso orientati al prodotto. (...) Come ha riconosciuto un direttore: “il marketing nei musei è secondario perché si cerca solo di vendere qualcosa che è stato deciso a partire da una motivazione che non ha affatto il pubblico in mente”», (F. McLean, Identità istituzionale nei musei: uno studio esplorativo, Fitzcarraldo Consulting, 2000, http://www.fizz.it/index.htm; corsivi nostri). 49 M. De Certau, L'invention du quotidien,Union Générale d'Etition, Paris, 1980 (ed. it. Edizioni Lavoro, Roma 2001). 50 In particolare, la ricerca Andare al Museo. Motivazioni, comportamenti e impatto cognitivo (cfr. nota 45) evidenzia come, per la maggior parte dei visitatori, la visita si dimostra essere un'esperienza prevalentemente sociale, da effettuarsi – nella maggioranza dei casi – in compagnia. Dalla ricerca si evince, inoltre, che le motivazioni sottostanti alla visita sono riconducibili principalmente alla volontà di "imparare qualcosa" e al desiderio di "vedere cose belle". Risultati in qualche modo analoghi emergono dalla ricerca da noi condotta con l’IRAT nei sette principali musei napoletani e presentata in questo volume. 51 Questa ultima affermazione è particolarmente suffragata da una vasta letteratura sul consumo mediale. In particolare vedi Roger Silverstone, La televisione e la vita quotidiana, Il Mulino, Bologna 2000 e Idem, Perché studiare i media, Il Mulino, Bologna 2002. 16 Senza nulla togliere, quindi, alla legittimità di un tale "uso" del museo, ci limitiamo qui ad osservare che un testo museale destinato ad essere poco e mal compreso dalla maggior parte degli utenti – a causa di scarsi o scorretti “sforzi presupposizionali”, derivanti da una cattiva conoscenza dei pubblici da parte dell’emittente – "costringe" i visitatori a limitarsi (pur, magari, in presenza di intenti conoscitivi) ad una fruizione di "semplice" godimento52: ad appropriarsi, cioè, di ciò che è possibile ottenere senza mediazioni – né intermediazioni – culturali. Se non dimentichiamo che tutte le ricerche finora effettuate sul pubblico53 evidenziano un non trascurabile segmento dell'utenza che si limita ad una fruizione distratta54 del museo, quello che noi vorremmo qui sottolineare è che questa modalità di fruizione dovrebbe rappresentare una delle opzioni possibili, e non il risultato di una palese incomprensione fra domanda e offerta. In altre parole, ci piacerebbe che l'utente il quale – unitamente a bisogni sociali, affettivi, di di-vertimento – abbia anche bisogni conoscitivi (a diversi livelli di specializzazione e approfondimento), sia messo in grado di soddisfarli agevolmente. 4. Economia della comunicazione Secondo il nostro punto di vista, il museo deve apprendere a considerare se stesso anche (ma non secondariamente, né in via accessoria) come un apparato complesso che istituisce processi comunicativi multipli e complessi con i suoi fruitori. E' nostra ferma convinzione che, se l'istituzione museale non individua chiaramente se stessa come un apparato di comunicazione, è anche perché nella cultura delle istituzioni italiane non è presente la consapevolezza che i musei – per espletare appieno le missioni di comunicazione e trasmissione loro assegnate – necessiterebbero di capitoli di budget specificamente dedicati, nonché di specifiche competenze e figure professionali al loro interno. E che andrebbero, quindi, dotati di strutture e apparati produttivi specificamente dedicati alla messa in atto di processi comunicativi sofisticati, risultanti da processi produttivi costosi, in termini di denaro e risorse umane. Ma, dove ci sono costi, dovrebbero esserci anche dei ricavi. E qui si pone il problema del modello economico adeguato all'apparato comunicativo museo. Lo studio delle industrie culturali mette a nostra disposizione due modelli economici, stabilitisi e assestatisi intorno alla metà del Novecento: 1) un modello definibile editoriale, che si caratterizza per l'importanza accordata al ruolo dell'editore nel processo di produzione. Storicamente è questo l'attore che decide di riprodurre opere uniche – i manoscritti – in un certo numero di esemplari: i libri. Nell'attuale momento dell'evoluzione storica questo modello concerne il libro, ma anche il disco (cd, cd-rom, DVD, DVD-rom) e il film. Le opere prodotte in questo modello sono, di solito, vendute (talvolta affittate) al consumatore tramite l'intermediazione di una distribuzione. Si può dire, quindi, che questo è un tipo di commercializzazione classica all'interno dell'economia capitalistica; 52 Tale modalità potrebbe anche essere vista sotto l'aspetto di una sorta di guerriglia semiologica: «una tattica della decodifica» - come scrive Eco - «in cui il messaggio in quanto espressione non muta, ma il destinatario riscopre la sua libertà di risposta». Qui si tratta dell'intero testo museale, concepito per istruire, tramandare, educare, ed usato come pretesto per passeggiare, chiacchierare, socializzare, in un contesto ricco di "cose belle" e per di più confortati e appagati dalla coscienza di stare compiendo una attività socialmente e culturalmente apprezzabile. 53 Cfr. nota 45. 54 Ricordiamo, ancora una volta, le parole di Benjamin: «La distrazione e il raccoglimento vengono contrapposti in modo tale che consente questa formulazione: colui che si raccoglie davanti all'opera d'arte vi si sprofonda (...). Inversamente, la massa distratta fa sprofondare nel proprio grembo l'opera d'arte», (L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., p. 44). Possiamo azzardare l’ipotesi che tale distrazione sia un portato, anche, delle particolari modalità di vicinanza e appropriazione introdotte dalla riproducibilità tecnica dell’arte. Con questa evidenza – con il fatto che, cioè, i fruitori abbiano piena disponibilità di riproduzioni degli oggetti attraverso stampa, fotografia, video, televisione, Cd-rom e Dvd-rom – le organizzazioni museali devono fare i conti anche dal punto di vista comunicativo. Non siamo certi, però, che la riproposizione di questi mezzi all’interno delle esposizioni museali possa aggiornare – sic et simpliciter – i linguaggi del museo adeguandoli alle nuove condizioni della fruizione d’arte. Si vedano le critiche all’uso delle tecnologie mediali in R. Silverstone, The Medium is the Museum: on Objects and Logics in Times and Spaces, in John Durant (ed.) Museums and the Public Understanding of Science, Science Museum, London 1992, 34-42. 17 2) un modello definibile per flusso, che si caratterizza per la continuità della diffusione e l'impossibilità di appropriarsi di una copia individuale. Di conseguenza, i suoi prodotti sono rapidamente colpiti da obsolescenza. La radio e la televisione generalisti ne sono i migliori esempi. Il modo di finanziamento indiretto (tramite la pubblicità o i contributi governativi) e il modo di distribuzione (attraverso reti tecniche) distinguono il modello per flusso dalle caratteristiche classiche del capitalismo55. All'interno del primo modello è notevole il caso dell'editoria giornalistica, che accoppia alla commercializzazione tramite distribuzione, una modalità di finanziamento indiretta: la vendita di spazi pubblicitari. Se, per quanto riguarda le industrie culturali, è sempre più raro che gli utili provengano esclusivamente dalla vendita di beni e servizi culturali al pubblico, a maggior ragione il museo che – considerandolo soltanto nella sua funzione di apparato di comunicazione e lasciando da parte le altre sue funzioni – non produce beni di cui sia possibile appropriarsi (come libri e dischi, cd e dvd) o che comunque, fissati su supporto (come i film), possano venire distribuiti attraverso una rete di distribuzione e vendita, sembra "naturalmente" destinato a forme di finanziamento indirette56. Una di queste – individuata dalla Legge 14 Gennaio 1993 n°4 (Legge Ronchey), concernente la gestione dei servizi aggiuntivi57 negli Istituti d'Arte e Antichità dello Stato – rappresentava, nel 1999, con una movimentazione di circa 38 miliardi di lire, il 26% dei ricavi58. I dati e le informazioni raccolte dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e dall'Ufficio Servizi Aggiuntivi per il 2003 indicano una movimentazione di circa 33 milioni di euro, per una cifra di royalties di circa 5 milioni di euro59. Osservando i dati, si evince inoltre che – specialmente nei piccoli musei, dove il numero dei visitatori è 55 Cfr. Bernard Miège, La societé conquise par la communication, 1° vol.: Logiques sociales, PUG, Grenoble 1989, pp.177-186. Escludiamo, per brevità, altre forme ibride, derivanti - per la maggior parte - da nuove forme di commercializzazione consentite dalle tecnologie digitali, come - ad esempio - pay tv o pay per view. 56 La forma di finanziamento indiretta più vicina a quella della pubblicità è, nel campo dei Beni Culturali, la sponsorizzazione. Su questo strumento si è fatto – a nostro avviso – un eccessivo affidamento. Le sponsorizzazioni, oltre ad essere generalmente concentrate sui "valori" più accreditati e quindi immediatamente utili alla promozione dell'immagine aziendale dello sponsor, vedono il "ritorno di immagine" che garantiscono in diretta concorrenza con altre forme di PR, più economiche e meno rischiose per le aziende. Le sponsorizzazioni, inoltre, sono entrate a far parte in maniera stabile delle fonti di finanziamento di tutte le attività culturali. Gli altri segmenti di attività culturale rappresentano, così, per i Beni Culturali, concorrenti temibili. Dalle ricerche risulta che il 44% delle maggiori aziende italiane investe in iniziative di carattere sociale. La quasi totalità (97,3%) del 56% che non investe, dichiara che continuerà a non farlo. Le aziende che investono in iniziative sociali sono soprattutto quelle di grandi dimensioni, sia in termini di fatturato, sia in termini di numero di dipendenti (imprese con un fatturato annuo di 100 miliardi ed un numero di dipendenti superiore alle 300 unità). Tra le tipologie di intervento predominano le campagne di solidarietà, cui seguono le mostre e le manifestazioni culturali (in cui prevalgono concerti, esposizioni di arti figurative e di design, convegni e premi letterari, manifestazioni teatrali); seguono le iniziative di carattere ambientale. In ultima posizione i restauri di monumenti e opere d'arte (cfr. Luca Introini e Francesca Iannone, L'utilizzo strategico delle sponsorizzazioni nel mondo della cultura, I Cantieri d'Innovazione, Federculture, Bologna 30 marzo 2004). 57 L'istituzione dei cosiddetti "servizi aggiuntivi" estende la concessione a privati di servizi che vanno dalla ristorazione alla vendita di merci culturali, alla biglietteria (con annesso marketing di prevendita per "pacchetti" di servizi annessi), alla vigilanza-accoglienza-animazione e all'organizzazione delle mostre, in funzione degli «aumenti di proventi, nuovi proventi o minori costi» così realizzabili (Regolamento ministeriale pubblicato come decreto n. 139/1997). Dato che i proventi derivano da contratti di partecipazione agli utili dei servizi appaltati o "aggiunti", si determina il cointeressamento dell'istituto culturale ad incrementare la fruizione quale condizione per il consumo indotto: d'altra parte, i minori costi derivanti dall'utilizzo di forza-lavoro, per vigilanza e organizzazione di mostre, "volontaria" (a rimborso spese) oppure "multifunzionale", intermediata rispettivamente da associazioni di derivazione sindacale come l'Auser, oppure da società delegate al workfare (assistenza in cambio di lavoro) come la Gepi, rendono possibile aumentare l'offerta integrata di servizi senza restringerne l'accesso con un prezzo altrettanto aumentato del biglietto. Cfr. P. Ferraris, Dai "beni" ai servizi culturali, ritorna la "politica culturale”, in "Titolo. Rivista scientifico-culturale d'arte contemporanea, a.VIII - n.24 - autunno 1997. 58 Primo Rapporto Nomisma sull'applicazione della Legge Ronchey, ricerca promossa in occasione del Salone dei Prodotti e Servizi dedicati all'Arte, Centro Affari e Convegni, Arezzo 12 - 15 Maggio 2000. 59 Cfr. Ufficio Statistica MBAC, http://www.sistan.beniculturali.it. L'articolo 117 del testo unico sui Beni Culturali e Ambientali approvato con decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, comma 2, prevedeva che i canoni e i corrispettivi conseguenti alla concessione dei servizi ai privati, all'uso dei beni culturali ed alla riproduzione dei medesimi, «affluiscono ad apposita unità previsionale di base dello stato di previsione dell'entrata per essere riassegnati alle competenti unità previsionali di base dello stato di previsione della spesa del ministero e destinati, in misura non inferiore al 50 % del loro ammontare, agli istituti di provenienza». Il Codice dei beni culturali e del paesaggio-Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, all’Articolo 110 – Incasso e riparto di proventi – dispone, al comma 1: «i proventi derivanti dalla vendita dei biglietti di ingresso agli istituti ed ai luoghi della cultura, nonché dai canoni di concessione e dai corrispettivi per la riproduzione dei beni culturali, sono versati ai soggetti pubblici cui gli istituti, i luoghi o i singoli beni appartengono o sono in consegna, in conformità alle rispettive disposizioni di contabilità pubblica»; e, al comma 2, « Il Ministro dell'economia e delle finanze riassegna le somme incassate alle competenti unità previsionali di base dello stato di previsione della spesa del Ministero, secondo i criteri e nella misura fissati dal Ministero medesimo». 20 potremmo dire che il bene culturale viene in questo caso utilizzato come testimonial dell'unicità di un territorio, mentre – nello stesso tempo – costituisce un fattore essenziale di tale unicità. Va da sé che, in una offerta centrata sui beni culturali, l'efficienza e l'efficacia nella loro gestione sono condizioni di "qualità" imprescindibili. Nella gestione dei Beni Culturali va quindi effettuata una ricerca di innovazione di prodotto, che si finalizzi ad un miglioramento della qualità dei servizi, della quantità e tipologia degli stessi, tali da assolvere in modo esteso le funzioni pubblico-collettive proprie delle istituzioni culturali. A queste condizioni, i Beni Culturali possono rappresentare uno dei punti di forza delle strategie di comunicazione delle campagne pubblicitarie volte a promuovere l'affluenza turistica in un territorio. Anzi, per meglio dire, in una offerta turistica centrata sui beni culturali, l'efficienza-efficacia nella loro gestione è una condizione di qualità imprescindibile e soltanto in tali condizioni i Beni Culturali possono/devono essere convenientemente utilizzati in qualità di punti di forza delle strategie di comunicazione di campagne volte a promuovere l'affluenza turistica in un territorio. 7. Investire nei Beni Culturali E’ noto che – in un'ottica di marketing dei beni culturali – gli ambiti in cui è possibile agire per la "creazione" del prodotto riguardano essenzialmente l'allargamento quantitativo e miglioramento qualitativo dei "valori d'uso" dei beni, quei valori, cioè, connessi alla loro fruizione. Si è già affermato, inoltre (con una istanza, forse, "imperialistica", ma sicuramente ormai sufficientemente condivisa e non troppo lontana – crediamo – dalla percezione "comune" da parte dei pubblici) che tutti gli aspetti concernenti l'esibizione (e, quindi, la fruizione) dei beni riguardano problematiche intrinsecamente comunicative. E come, in considerazione di questa evidenza, gli apparati che fanno capo a questa funzione debbano apprendere a considerare la comunicazione – unitamente a quelle della raccolta, della conservazione, del restauro e della ricerca – una missione a loro propria. E che, per far questo, dovrebbero essere messi in grado di dotarsi di strutture e di apparati produttivi abili – e dedicati – a mettere in atto processi produttivi costosi in termini di denaro e risorse umane. Il tutto in un quadro di crescente domanda di iniziative culturali e di contemporanea contrazione della spesa pubblica. Il tema delle fonti di finanziamento si ripropone, quindi, con tutta evidenza, e con una certa urgenza. Si è detto come, attualmente, lo si stia affrontando integrando la proprietà (e il sostegno finanziario) dello Stato con forme gestionali che si avvalgono (anche) di servizi commerciali. Ma si è detto, anche, come queste soluzioni si stiano rivelando sicuramente efficaci, ma altrettanto sicuramente parziali. Si tratta, allora, di accelerare un processo di innovazione gestionale, finanziaria ed amministrativa, che coinvolga pubblico e privato, stato e mercato, offerta e domanda. E questo è possibile soltanto abbandonando l'ottica – a nostro avviso dannosa – per la quale i nostri beni culturali sono stati paragonati a "giacimenti" (quasi che da essi si possa far "zampillare", con un lavoro relativamente ridotto67, fiumi di ricchezze tali da irrorare beneficamente tutto quanto li circonda), e contrastare anche l'idea che il patrimonio culturale possa/debba fruttare delle rendite per altri attori economici del territorio. Per "spostare" l'equilibrio dinamico di domanda e offerta verso un maggiore livello quanti-qualitativo sono necessari investimenti, in un'ottica in cui l'efficienza gestionale del bene culturale non venga valutata (soltanto) in termini di riduzione di costi, ma in termini di espansione del mercato culturale. E, soprattutto, del mercato turistico legato ad istanze di tipo culturale. Valutata, in altre parole in relazione ai benefici totali che, nel lungo periodo, sono destinati a Ciò suppone il coordinamento tra decisori pubblici ai diversi livelli istituzionali, e tra questi ed il mondo dei privati. Gli obiettivi da perseguire nella creazione del prodotto devono tenere conto della necessità di equilibrio ed armonia tra risorse (limitate ed esauribili) e sviluppo sostenibile. Essi, quindi, devono comprendere la localizzazione o, al contrario (in casi di territori già congestionati turisticamente), la de-localizzazione dei flussi, la creazione di turismo e non di escursionismo e la regolazione dei flussi in relazione alla capacità di carico del territorio. 67 Il settore dei Beni Culturali è, invece, sicuramente labour intensive. Ma non solo. Esso richiede una “qualità” di lavoro altamente qualificata e competente, ma anche capace di innovazione: un lavoro intellettuale altamente specializzato e creativo. 21 remunerare gli investimenti. Se dal versante della gestione dei beni culturali, l'efficienza va perseguita abbassando i rapporti fra costi e produzione (e costi/consumo) investendo sull'espansione dei fattori produzione e consumo – se, in altre parole, la moltiplicazione delle offerte culturali e la conseguente moltiplicazione della domanda sono destinate ad abbassare il rapporto unitario produzione/costi e domanda/costi – la valutazione costi/benefici non va effettuata soltanto all'interno del sistema offerta/domanda dei beni culturali ma, piuttosto, in relazione a tutto il sistema economico-territoriale e, quindi, in relazione alla qualità di volano dei beni culturali in relazione alla crescita economica di un territorio, ma anche di una migliore offerta di servizi, strutture e infrastrutture – culturali e non – nel territorio stesso, per residenti e turisti. L'obiettivo è, quindi, quello di estendere la domanda e l'offerta culturale tramite politiche di "sviluppo" del settore, che vanno certamente realizzate termini di efficienza gestionale ma, altrettanto certamente, attraverso una "ottimizzazione" delle risorse, in termini di flessibilità, pluralità ed aumento delle fonti di finanziamento, che deve essere analizzata e pianificata soprattutto in termini di distribuzione di costi e benefici. Crediamo, quindi, sia possibile ipotizzare una politica tesa all'incremento dei visitatori, e all'incentivazione all'accesso per le classi sottorappresentate e alla qualità dell'offerta e che – a fronte di una maggiore attenzione alle caratteristiche socioeconomiche del pubblico, alle sue aspettative e preferenze, ai suoi bisogni di socialità, intellettuali, ricreativi – solleciti (sviluppando obiettivi di qualità e distribuzione, ricerca di innovazione di prodotto, finalizzati ad un miglioramento della qualità, quantità e tipologia dei servizi) la disponibilità a pagare degli utenti per diversi servizi e diversi profili alternativi di offerta68. Ma, come abbiamo già detto, non sono soltanto i visitatori i beneficiari dei valori creati dai beni culturali. Avvalendoci dei più "tradizionali" strumenti delle analisi di marketing territoriale, possiamo individuare i diversi agenti interessati (stake-holders), complementarmente e conflittualmente, al mercato dell'offerta e della domanda culturale. Questi possono essere identificati come: • Agenti che beneficiano di e domandano servizi culturali di uso diretto (fruizione); • Agenti interessati e beneficiari (a livello locale, nazionale, globale) dei valori di "non uso" del bene, associati ad obiettivi di tutela e conservazione; • Agenti economici interessati a beneficiare di rendite di profitto derivanti dal capitale "bene culturale"; • Agenti economici, facenti parti di settori di attività economica, che ricevono benefici indiretti sotto forma di esternalità positive, a livello locale-regionale. Inoltre, come si è già detto, l’esistenza di beni culturali – con quanto è ad essa connesso di attività di raccolta, conservazione, restauro, tutela, studio e interpretazione – “alimenta” di contenuti numerose e diverse attività di tipo editoriale: dall’editoria d’arte a quella più “commerciale” delle cartoline e delle guide turistiche; dalla televisione all’editoria elettronica multimediale. E questa affermazione è tanto più valida nel mercato globale della multimedialità, dove la proprietà di un vasto magazzino di contenuti assume un valore strategico. Il fatto che le grandi case di software, entrate nell'editoria elettronica, stiano acquisendo i diritti per la riproduzione non solo di film e capolavori letterari, ma anche di opere d'arte – ne sono un esempio l'acquisto dei diritti del Codice di Leonardo da parte di Bill Gates, re di Microsoft, o della Cappella Sistina da parte dei giapponesi – è sintomo di come i contenuti, 68 Si tratterebbe, in sintesi, di attivare politiche tariffarie, che siano informate, strutturate, differenziate per fascia di utenza (volte, cioè, a incrementare - e/o riallocare fra gli utenti - il reddito generato dalla fruizione-valorizzazione del bene) e differenziate anche in relazione a domande e offerte quanti/qualitativamente differenti. 22 compresi quelli riguardanti il patrimonio artistico e culturale mondiale, costituiscano un fattore produttivo essenziale per le imprese operanti nel campo della comunicazione e dell'informazione. Infatti, la moltiplicazione dei canali di trasmissione prefigurata dai sistemi via cavo e satellitari e lo sviluppo di servizi di pay-tv, pay-per-view e on-demand, implica la necessità di disporre di grandi magazzini di contenuti. E una volta che le reti telematiche saranno diventate "onnipervasive", sostituendo l'attuale frammentazione dei mass media con la media convergence, e la vera lotta sarà concentrata su cosa immettere in rete, avrà la meglio chi sarà dotato del miglior “serbatoio” di contenuti. Ampi magazzini rappresentano, infatti, la possibilità di conquistare una posizione di vantaggio nei confronti della concorrenza, abbassando la voce relativa ai costi per l'acquisizione dei diritti e aumentando quella relativa ai profitti, derivanti dall'eventuale cessione dei diritti stessi o dalla pubblicità. Il nostro patrimonio nazionale di beni culturali costituisce – da questo punto di vista – una voce importante, non soltanto per la sua importanza quantitativa ma, soprattutto, nella sua valenza qualitativa, fondante della cultura e dell’arte occidentale, classica e moderna, e per la sua “onnipresenza” in una memoria e in un immaginario collettivo ancora largamente eurocentrici, almeno a livello di riferimenti culturali “alti”. E, decisamente, l’importanza di questo patrimonio è tale che la questione del suo sfruttamento editoriale andrebbe affrontata con attenzione molto maggiore69. Riprendiamo, allora, il discorso iniziato nel paragrafo Economia della comunicazione, e riguardante l’attribuzione dei costi economici del sistema dei beni culturali a quanti ne godono i benefici: diretti (derivanti dall'esperienza di visita), di non-uso (legati alle missioni di custodia di identità e memoria, di conservazione, tutela e studio e di pubblica disponibilità del bene) e indiretti. Se, a fronte dei primi, vale il discorso sul biglietto d’ingresso70 e – a fronte di benefici di non uso – va mantenuto il ricorso alla tassazione generale per opera dello Stato71, va altrettanto operata la traduzione dei flussi di 69 La materia è stata per la prima volta regolamentata della legge 4 del 14.1.1993 – meglio nota come legge Ronchey –, successivamente dal Testo Unico Beni Ambientali – D. Lg.vo 29 ottobre 1999 n. 490, ed ora dal Codice dei beni culturali e del paesaggio-Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, in vigore dal 1 maggio 2004. Rispetto alla normativa della legge Ronchey, che prevedeva per la riproduzione dei beni un tariffario e delle royalties per utilizzazioni delle riproduzioni oltre la prima – norme che, anche se non espressamente abrogate, cadono in disuso – con la nuova normativa la regolamentazione delle riprese e l’applicazione di “canoni” da pagare è stata, di fatto, demandata ai singoli responsabili delle strutture, decentrando le decisioni e le tariffazioni. L’articolo 108 – Canoni di concessione, corrispettivi di riproduzione, cauzione –, al punto 1 stabilisce che: «I canoni di concessione ed i corrispettivi connessi alle riproduzioni di beni culturali sono determinati dall'autorità che ha in consegna i beni tenendo anche conto: a) del carattere delle attività cui si riferiscono le concessioni d'uso; b) dei mezzi e delle modalità di esecuzione delle riproduzioni; c) del tipo e del tempo di utilizzazione degli spazi e dei beni; d) dell'uso e della destinazione delle riproduzioni, nonché dei benefici economici che ne derivano al richiedente». Al punto 2 si stabilisce che «I canoni e i corrispettivi sono corrisposti, di regola, in via anticipata» e al punto 6 che «Gli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per l'uso e la riproduzione dei beni sono fissati con provvedimento dell'amministrazione concedente». Nell’articolo 109, il punto 1 prescrive: «la restituzione, dopo l'uso, del fotocolor originale con relativo codice». Benché i beni, quindi, per l'articolo 107, possano essere messi a disposizione per la riproduzione «nel rispetto del diritto d'autore», nell'art. 109 si prevede che debbano essere consegnati all’amministrazione concedente – oltre a due copie della riproduzione – anche il negativo (o comunque l'originale) della riproduzione stessa. La norma è coerente con il fatto di prevedere, al comma 2 dell’articolo 108, il pagamento anticipato dei canoni e dei corrispettivi: escludendo il pagamento di royalties, si escludono in via di principio anche usi delle riproduzioni successivi al primo, d’altronde non prevedibili (e quindi non quantificabili economicamente) al momento delle riprese. Se si pone attenzione – però – allo sfruttamento concreto che è possibile fare, ad esempio, di un documentario televisivo - che può “passare” molte volte su diverse reti e in diverse modalità (pay-per-view, on demand) nel paese di produzione (con “redditività” diversa – nella tv generalista o tematica e dal punto di vista pubblicitario, secondo la fascia oraria in cui viene collocato) ed essere venduto a televisioni estere, ed in più fissato su VHS o DVD- la normativa appare in palese contrasto con ogni logica produttiva dell’industria culturale, ed adeguata – al più – ad uno sfruttamento ristretto e locale. Mentre invece, un’opera d’arte nota a livello mondiale può offrire possibilità di sfruttamento enormi. Si pensi, ad esempio, ad un uso delle immagini nella pubblicità, come nella famosa campagna di Anna Maria Testa – ormai risalente ad alcuni decenni fa, ma ancora viva nella memoria collettiva – che utilizzava la Monna Lisa per la pubblicità di un’acqua minerale, e che invase – per molti mesi – muri, rotocalchi, televisioni e fiancate di autobus urbani. 70 Non tutti sono concordi sull’utilità e l’opportunità di mantenere il biglietto d’ingresso nei musei. Alcuni economisti ritengono che – dato che il costo marginale di un visitatore è prossimo allo zero, e il fatto che le visite ai musei generano esternalità positive – l’ingresso gratuito possa essere altrettanto (se non più) efficiente di quello a pagamento. 71 Oltre all’attività di tassazione, lo Stato può garantire flussi finanziari stabili al sistema di offerta dei Beni Culturali attraverso altre modalità. Una di queste è, ad esempio la destinazione programmata di fondi da parte della "Lottomatica", assicurata, grazie alla Legge n. 662 del 96, grazie alla quale una quota degli utili derivanti dall'estrazione del lotto del mercoledì, aggiuntiva e permanente, pari ad un importo annuo di circa 155 milioni di euro, viene destinata ai Beni Culturali. Le tipologie di intervento finanziabili sono limitate alle sole spese per il recupero e la conservazione dei beni culturali, e le risorse devono, per legge, essere destinate alle sole spese in conto capitale. Le attribuzioni di tali risorse hanno portato ad un aumento degli investimenti in cultura di oltre il 40%. I fondi vengono assegnati in base ad un programma triennale e vengono destinati al recupero ed alla conservazione di beni architettonici, paesaggistici, archeologici, artistici e storici, archivisti e librari. Nel triennio 1998-2000, il Ministero ha deciso di orientare le risorse su opere che presentassero alcuni specifici aspetti: una particolare rappresentatività, la condivisione delle proposte da parte di altri enti o istituzioni del 25 dell'uomo e del suo ambiente» – fra le risorse umane e finanziarie disponibili (ma anche fra le logiche e le culture che le caratterizzano) e i processi necessari al loro funzionamento ottimale. Eppure questo sistema riesce a garantire – a circa 85 milioni di persone ogni anno78 – un’esperienza che la maggior parte dei visitatori continua a definire complessivamente positiva. Questo dato va sicuramente attribuito all’altissimo valore culturale e cultuale79 del nostro patrimonio. E’ – altrettanto sicuramente – connesso al godimento che i beni culturali sono in grado di attivare, e a una attività e ad una creatività degli utenti, capaci di usare le risorse messe loro a disposizione e di trarre da esse gratificazioni anche molto lontane dalle intenzioni degli apparati. In questo processo non va dimenticato il ruolo di un contesto ambientale e territoriale ricco di attrattive naturali, sociali, culturali. Ma, soprattutto, non va dimenticato il lavoro – intenso, appassionato, ostinato, esperto, coraggioso, generoso, ingegnoso – di quanti nel nostro Paese operano nel sistema dei Beni Culturali. Queste donne e questi uomini, la maggior parte dei quali è sinceramente e individualmente vocato a conservare, tutelare e studiare le «testimonianze materiali dell'uomo e del suo ambiente», hanno speso e spendono tempo, lavoro, intelligenza, impegno, nella costruzione di abilità professionali tese a queste funzioni e a questi scopi; sono stati selezionati – fra altri – per aver dimostrato di possedere questo tipo di capacità e cultura. Sono loro che, fra molte difficoltà, riescono a mantenere vivo attivo – e, nonostante tutto, “comunicativo” – il patrimonio più ricco del mondo (e al quale vengono destinate risorse fra le più esigue dell’Occidente industrializzato)80. E rappresentano, per questo, una grande risorsa di intelligenza, passione, competenza. Fra di essi, sono molti coloro i quali – ormai da vari anni – si stanno facendo carico, in prima persona e spesso a titolo individuale, senza i necessari strumenti e supporti (e, soprattutto, in assenza di risorse 78 Dato riferito ai visitatori nel 2003, Fonte ISTAT. 79 Secondo W. Benjamin, (L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, cit.) si possono distinguere due tipi di valore dell’opera d'arte: quello cultuale e quello espositivo. Il primo anticipa – anche cronologicamente – il secondo: «la riproduzione artistica comincia con figurazioni che sono al servizio del culto. Di queste figurazioni si può ammettere che il fatto che esistano è più importante del fatto che vengano viste. […]. Il valore cultuale come tale induce a mantenere l'opera d'arte nascosta: certe statue degli dei sono accessibili soltanto al sacerdote nella sua cella. Certe immagini della Madonna rimangono invisibili tutto l'anno» (p. 27, corsivi nostri). Il valore espositivo è il valore dell'opera d'arte in quanto accessibile: «con l'emancipazione di determinati esercizi artistici dall'ambito del rituale, le occasioni di esposizione dei prodotti aumentano. L’esponibilità di un ritratto a mezzo busto, che può essere inviato in qualunque luogo, è maggiore di quella di una statua di un dio che ha la sua sede permanente all'interno di un tempio», (ivi, p. 28). E, come scrive ancora Benjamin, «il valore unico dell’opera d’arte autentica trova una sua fondazione nel rituale, nell’ambito del quale ha avuto il suo primo e originale valore d’uso. Questo fondarsi, per mediato che sia, è riconoscibile, nella forma di un rituale secolarizzato, anche nelle forme più profane del culto della bellezza» (p. 26). E’ ipotizzabile che, con l’avvento della riproducibilità tecnica, quando l’opera d’arte diventa accessibile per tutti, sempre e dovunque, sia iniziata una dialettica tra visibilità dell’opera d’arte riprodotta e invisibilità (o difficile accessibilità) dell’”autentico”. Ipotizziamo, allora, che il contatto con l’opera – conosciuta, studiata, amata e mai vista (se non in riproduzione) – nel suo hic et nunc, possa riportare in primo piano, per il fruitore, anche in un luogo e in modalità tipicamente espositive come quelle del museo, una modalità di percezione cultuale. La percezione dello spirituale nell’arte, in quanto strumento di «rivelazione di una verità trascendente» attraversa tutto il Novecento, secolo nel quale l’arte e la ricerca artistica collimano con una ricerca di ciò che sta oltre le immanenze del mondo. Rimanendo all’interno dell’orizzonte francofortese, cui appartiene Benjamin, ricorderemo che per gli esponenti dell’Istituto per le Ricerche Sociali, e specialmente per Adorno, la vera arte è – con una definizione mutuata da Stendhal – una promesse de bonheur, l’espressione dell’interesse legittimo dell’uomo per la propria felicità futura, sempre, in qualche modo, negativa, critica verso lo stato di cose presente. L’armonia utopica dell’arte – anticipazione di una società e di un mondo Altri – conserva un elemento di protesta contro le pressioni delle istituzioni dominanti e, anche là dove l’armonia estetica è insufficiente, questa frattura rappresenta l’espressione delle fratture e delle scissioni storico-sociali. Calando nel contesto attuale, della fruizione dei beni culturali italiani, questa particolare concezione dell’arte come modalità di comunicazione con un “oltre” (o – per dirla con i francofortesi – con l’Altro), vorremmo ricordare alcune ipotesi relative alla cosiddetta sindrome di Stendhal, che si ispirano a quanto narrato dall’autore francese, a proposito delle sua visita in Santa Croce, a Firenze: «En sortant de Santa Croce, j'avais un battement de cœur, la vie était épuisée chez moi, je marchais avec la crainte de tomber», (Stendhal, Rome, Naples Et Florence en 1817 par M. de Stendhal, officier de cavalerie). Malesseri analoghi – lo stesso Freud descrive, in una lettera al fratello, un disagio simile, occorsogli ad Atene – vengono costantemente riscontrati nei viaggiatori. Graziella Magherini, (La sindrome di Stendhal. Il malessere del viaggiatore di fronte alla grandezza dell’arte, Ponte delle Grazie, Firenze 1996) vi ha dedicato un libro, che trae origine da uno studio decennale, e da un’indagine su un campione di controllo, del Servizio per la salute mentale dell'Arcispedale di Santa Maria Nuova di Firenze, su turisti stranieri giunti d'urgenza al servizio e ricoverati in preda a uno scompenso psichico acuto. La sindrome di Stendhal pare colpire soltanto persone in viaggio, tutte straniere e tutte partite da casa in uno stato di benessere o di compenso psichico, che vengono colpite da crisi d’identità in seguito alla congiunzione di tre elementi: la storia personale del soggetto, e dunque la struttura della sua personalità, l’elemento del viaggio e l’immersione in un ambiente carico di arte e di storia. Secondo la Magherini, tali crisi riguardano la percezione di trovarsi molto vicini a ciò che va al di là dell’esperienza comune: a un “oltre” – o a un “Altro” – che trascende l’esperienza. Tali esperienze sarebbero, quindi, confrontabili con quelle dei viaggiatori pellegrini in luoghi santi, per i quali l'esperienza estetica slitta verso una esperienza estatico- mistica. 80 Ne Il tesoro degli italiani, il ministro ai Beni culturali Giuliano Urbani (Mondadori, Milano 2003) afferma che gli italiani spendono per il settore dei Beni Culturali lo 0,17% del Pil. La media europea parte dallo 0,50 e sale sino all'1%, per patrimoni artistici sicuramente inferiori, per entità, a quello italiano. L'Italia spende, in pratica, proporzionalmente al Pil prodotto, da un terzo ad un decimo di quanto spendono gli altri Paesi. 26 umane e finanziarie), di quell’orientamento al pubblico che tutti auspichiamo, come espressione più alta delle funzioni pubblico-collettive che il sistema dei Beni Culturali deve mantenere e – anzi – incrementare. Degli sforzi di questi operatori si rileva spesso l’insufficienza degli esiti. Non si sottolinea mai abbastanza il fatto che, però, mancano, in realtà, tutti i presupposti – da quelli normativi, a quelli organizzativi; dalle risorse umane a quelle finanziarie – perché tali esiti risultino soddisfacenti. Né che lavorare nei beni culturali, in queste condizioni e perseguendone l’orientamento al pubblico, assomiglia all’assurda fatica di Sisifo, cosciente dell’inanità del suo lavoro81, ma ostinato nel tentativo di dare senso all’esperienza82. E come tale impegno sia strettamente connaturato alla natura dello studioso, che sconta, alla radice del suo impegno, «un’ansia di dare senso al mondo»83 che non può non comprendere anche il senso del proprio lavoro e della propria missione. Si è detto – e noi ne siamo convinti – che un museo «insegna ciò che lui stesso pensa e non le cose che sono state pensate da altri»84. Un buon testo museale, quindi, si basa necessariamente su una buona ricerca museale. Ed è realizzabile soltanto attraverso un processo cooperativo – rispettoso di ruoli e funzioni – al cui cuore siano il lavoro e le funzioni “tradizionali” (che, lo ricordiamo con Pinna, sono: recupero, conservazione e ricerca85) degli operatori dei beni culturali, e i cui terminali siano le abilità di allestimento e comunicazione, i servizi, l’accoglienza. Malgrado l’ovvietà di questa affermazione, ci sembra, al contrario, di poter individuare più “tendenze” contrarie a quest’optimum. C’è chi, in nome dell’”efficienza” e dell’“orientamento al mercato”, svaluta il lavoro e le funzioni tradizionali degli operatori dei beni culturali86, guardando alla “privatizzazione” del settore (più o meno parziale e/o controllata) come a una panacea di tutti i mali. Di solito, questa posizione contraddistingue quanti vedono, nei beni culturali, una risorsa economica importante, ma sottoutilizzata, e pongono l’accento sulla insufficiente valorizzazione dei beni a causa della scarsa propensione al marketing di Musei e Soprintendenze. Tale atteggiamento si basa, in modo più o meno esplicito, sull’assunto che la “cultura” sia una merce, atta ad essere stoccata, distribuita, venduta, come le altre. Il che può essere considerato vero87, ma solo a patto di considerare come il prodotto e la produzione culturali abbiano peculiarità imprescindibili, tanto più evidenti e ineludibili quanto maggiore – e quanto più complesso, sofisticato, creativo, concreto88 – è il lavoro intellettuale che ne è all’origine89, quanto più ampio, antico, venerato è il capitale culturale su cui si innesta. 81 «In che consisterebbe la pena, se, ad ogni passo, fosse sostenuto dalla speranza di riuscire?», A. Camus, Il mito di Sisifo. Saggio sull'assurdo, (1942), Bompiani, Milano 1996. 82 «Ma ciò che è assurdo, è il confronto di questo irrazionale con il desiderio violento di chiarezza il cui richiamo risuona nel più profondo dell'uomo», Ibidem. 83 C. Wright Mills, L’immaginazione sociologica, Il Saggiatore, Milano 1962, p. 223. 84 G. Pinna, Per un museo moderno in L. Binni, G. Pinna, Museo. Storia e funzioni di una macchina culturale dal Cinquecento ad oggi, cit. 85 Ibidem 86 Fra questi sembra essere persino l’attuale ministro Urbani che, come riporta Carmela Piccione, (“Notiziario speciale per la Presidenza del Consiglio”, Urbani, le nostre città d'arte? Costituiscono oggi la più importante risorsa economica e civile del Paese, ma occorre potenziare il settore, ADNKRONOS, Gennaio 2003), così si esprime: «Vogliono svendere il patrimonio italiano…- ricorda Urbani - E' questa l'accusa che ci è stata più volte rivolta. Ricordo che per la gestione e la tutela l'ultima parola spetta sempre ai Sovrintendenti. Sono convinto, comunque, che i privati gestiscono i soldi sicuramente meglio di un burocrate». 87 Non siamo, infatti, contrari all’idea che la cultura sia – o possa essere – una merce. Ciò che contestiamo è che sia una merce “come le altre”. Siamo, anzi, propensi a credere che siano le merci tradizionali – che hanno incorporato, nel secolo scorso, in misura progressivamente crescente, componenti “immateriali” (design, innovazione, ricerca) e potenziali comunicativi – ad avvicinarsi sempre più allo statuto di prodotti culturali. 88 Mentre il lavoro astratto viene definito da Marx «assolutamente indifferente alla sua particolare determinatezza, ma capace di ogni determinatezza», (K.Marx, Fondamenti della critica sell’economia politica (1857-58), trad. it. p. 245), oppure «semplice, indifferenziato, uniforme», il lavoro concreto – identificabile, con qualche approssimazione, con il lavoro di tipo artigianale – mantiene forti qualità legate alle componenti individuali, che in genere in epoca industriale sono viste come ostacoli ai processi di valorizzazione. Come scrive Asor Rosa: «In termini generali, si può dire che la vecchia e per certi versi perenne distinzione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale viene integrata e in parte sostituita nella realtà capitalistica dalla distinzione fra lavoro concreto e lavoro astratto, non nel senso che il lavoro intellettuale corrisponda (sempre) al lavoro astratto e quello manuale al lavoro concreto o viceversa, bensì nel senso che la nuova distinzione diviene determinante, come già l'altra in passato, per valutare scientificamente le diverse forme di lavoro esistenti in una società capitalistica avanzata. La forma precipua di lavoro astratto è il lavoro operaio, cioè il lavoro che viene più direttamente inserito nel processo di produzione capitalistico e più drasticamente costretto ad esser liberato, come s'è detto, della sua qualità individuale. Più difficile una valutazione della 27 Altri, in prevalenza specialisti interni al campo dell’arte e dei beni culturali, difendono – e non senza ottime ragioni – le peculiarità del lavoro e delle funzioni di recupero, conservazione e ricerca, ma con tentazioni di “arroccamento” culturale e di “resistenza” a ogni processo di valorizzazione economica; a tutela di una missione alta, ma che rischia di rimanere destinata to the happy few. A conclusione di queste note, vorremmo segnalare almeno due equivoci, purtroppo comuni quando si affrontano le problematiche comunicative, e che derivano ambedue da una palese incomprensione delle dinamiche della produzione culturale. Da una parte c’è la propensione a credere che la comunicazione nel museo possa essere qualcosa di “spontaneo” (essendo la comunicazione stessa connaturata all’essere umano nella sua dimensione culturale), e che non necessiti altro che di buona volontà, di una certa flessibilità culturale ed apertura al “nuovo” da parte degli operatori, e di strumenti (un bel numero di didascalie, pannelli, schede di sala e magari qualche buon multimedia). Dall’altra, c’è l’orientamento a ritenere che la comunicazione sia un epifenomeno importabile dall’esterno dell’organizzazione90, riducendola, quindi, a mera tecnica. Per promuovere lo sviluppo del consumo e del turismo culturale, allora, basterebbe utilizzare specialisti capaci di “applicare” alle attività e caratteristiche fondamentali del museo dosi convenienti di artifici comunicativi, capaci di sedurre e attirare il pubblico. Quasi che le attività di comunicazione fossero considerabili qualcosa di “posticcio” – un ornamento (quando non un “trucco”) – da sovrapporre alle “vere” funzioni del museo, per nascondere una qualità di servizi insufficiente e, di converso, una qualità culturale tanto “alta” da non essere accessibile alle masse. E da utilizzare, verso i pubblici potenziali del museo come una sirena, capace di attirarli nelle sale a prescindere da motivazioni individuali e pratiche sociali91. natura del lavoro intellettuale, più ancora del lavoro artistico. Non c'è dubbio, infatti, che in tutta una serie di professioni intellettuali, attraverso processi di associazione e organizzazione del lavoro, esaurientemente descritti da Max Weber già agli inizi del secolo nei suoi studi sulla burocrazia e sulle professioni [19I8], si verifichi un aumento considerevole dei procedimenti astrattivi e una tendenziale equiparazione alle forme del lavoro astratto operaio. E vero però anche, in generale, che la sussistenza e in taluni casi lo sviluppo dl forma di lavoro particolare, differenziato, complesso (per riprendere e rovesciare la terminologia marxiana più usata), sono affidate soprattutto al lavoro intellettuale, che non smette quindi mai di presentarsi come una forma, sia pure speciale e diversa dal passato, di lavoro concreto». Cfr. A. Asor Rosa, Avanguardia, in Enciclopedia, vol. 2, Einaudi, Torino 1977, pp. 195-231. Al proposito, vedi anche A. Abruzzese, Verso una sociologia del lavoro intellettuale, Liguori, Napoli, 1979, pp. 131-176. 89 «Le industrie culturali sono caratterizzate da una forte centralità del modo di produzione e del processo tecnico di lavoro; i prodotti dell’industria culturale sono strettamente legati al loro carattere di prodotti industriali e al loro ritmo di produzione quotidiano. Ma, se è vero che i processi produttivi delle industrie culturali s’ispirano alla produzione collettiva, alla specializzazione e alla divisione del lavoro dell’organizzazione industriale tout court, e se è vero che le leggi che le governano sono quelle del mercato e che le loro dinamiche derivano dalle dinamiche tra produzione e consumo, è pur vero che il consumo di beni culturali possiede caratteristiche specifiche», (cfr. M. Stazio, La Comunicazione. Elementi di storia, discipline, teorie, tradizioni di ricerca, Ellissi, Napoli 2002, p. 295-6). Così, il ciclo produttivo industriale della produzione culturale ha sempre incorporato – anche in epoca di organizzazione “fordista” del lavoro – forti quote di lavoro creativo, individuale, complesso, per soddisfare le esigenze di novità e di individualizzazione poste dal consumo. Le industrie culturali sembrano essere, quindi, fin dal loro nascere, lo scenario privilegiato per la dialettica e la convivenza delle diverse forme di lavoro: intellettuale e manuale, astratto e concreto (cfr. A. Asor Rosa, Avanguardia, cit.; A. Abruzzese, Verso una sociologia del lavoro intellettuale, cit.). Nelle industrie culturali i lavoratori intellettuali (scrittori, giornalisti, illustratori, sceneggiatori, registi, musicisti) vedono progressivamente aumentare le loro quote di “lavoro astratto”, non potendo tuttavia evitare di mantenere nel lavoro caratteristiche particolari – differenziate, complesse, individuali, creative. Sono, però, obbligati a rinunziare a una caratteristica fondamentale del lavoro concreto: il controllo sul prodotto dalla fase di ideazione a quella della realizzazione. Il carattere concreto del lavoro intellettuale, in ogni caso, più che essere un ostacolo ai processi di valorizzazione, ne costituisce l’ineliminabile, necessario presupposto: una merce culturale che non origini da un lavoro creativo, innovativo, individuale – che non sia quindi, almeno in qualche misura, “nuova” e originale – non è un “prodotto” vendibile. Ma, anche al di fuori dell’ambito delle industrie culturali, basti vedere il ruolo della ricerca di base in relazione alla realizzazioni rese possibili dalla ricerca applicata, per comprendere che il processo di valorizzazione – in ambito culturale – segue regole differenti rispetto ad altri settori di mercato. 90 In questo ambito ci sembra essere inquadrabile l’affidamento a società private delle funzioni e dei servizi didattici. Come abbiamo già ricordato, siamo inclini a credere che un museo «insegna ciò che lui stesso pensa e non le cose che sono state pensate da altri» (cfr. Pinna, cit.) e che esista, quindi, una evidente continuità fra le funzioni della ricerca e quelle della didattica, anche quando questa sia destinata a fasce di utenti in età scolare. L’inserimento dei servizi didattici fra quelli c.d. aggiuntivi denota una apprezzabile attenzione ai metodi e alle tecniche della didattica, ma una – certamente meno apprezzabile – minore attenzione ai contenuti innovativi della comunicazione,che sarebbero sicuramente meglio garantiti da uno più stretto raccordo fra funzioni di ricerca e di “divulgazione”. 91 Questa visione è riconducibile a una concezione della comunicazione – assimilabile ad una forma di “manipolazione” – ormai completamente superata nell’ambito degli studi comunicativi (dove pure ha avuto, da Lippmann a Lasswell e da Packard in poi, notevole fortuna), ma tuttora forte nel senso comune, dove vive ancora il timore (e, in alcuni casi, la speranza) della possibilità di esercitare, attraverso le forme della comunicazione pubblicitaria e dell’informazione, una sorta di persuasione occulta. Per motivi di brevità e di opportunità tralasciamo di citare la letteratura e la ricerca sociologica che hanno stemperato questa concezione, fino a metterla radicalmente in discussione, rimandando all’ormai diffusa manualistica (cfr. Wolf M., Teorie delle comunicazioni di massa, Milano, Bompiani, 1985; idem, Gli effetti sociali dei media, Milano, Bompiani, 1992; Cheli E., La realtà mediata. L'influenza dei mass media tra persuasione e costruzione sociale della realtà, Milano, FrancoAngeli, 1992). Per contrastare questa opinione diffusa, ci limiteremo allora ad utilizzare strumenti essenzialmente interni al campo semiotico: la “scienza dei segni” che – come l’ha definita Umberto Eco – è «la disciplina che studia
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