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L'identità a più dimensioni: il soggetto e la trasformazione dei legami sociali - Sciolla, Dispense di Sociologia

Riassunto puntuale del libro L'identità a più dimensioni - Sciolla. Analisi del concetto di identità, delle sue dimensioni e della sua evoluzione nel tempo.

Tipologia: Dispense

2015/2016

Caricato il 02/12/2016

evatru
evatru 🇮🇹

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Scarica L'identità a più dimensioni: il soggetto e la trasformazione dei legami sociali - Sciolla e più Dispense in PDF di Sociologia solo su Docsity! L’identità a più dimensioni – Loredana Sciolla CAP. 1 – L’io e l’altro 1. L’esperienza di sé e dell’altro nel senso comune L’esperienza della propria identità può essere sintetizzata nella risposta alla domanda “chi sei?”. È una risposta che varia in base al contesto sociale e in base alla situazione specifica. Il concetto di identità comprende due aspetti:  Un’ “identità formale”  caratteristiche riportate sul documento d’identità, che permettono all’individuo di poter essere classificato in modo univoco e non confondibile con altri.  Un’”identità personale”  Il “riconoscimento” di sé come un certo tipo di persona, con tratti e proprietà fisiche, psicologiche, morali, che ha a che fare con un sentimento più soggettivo. Una recente ricerca svolta dall’INSEE (Istituto nazionale di statistica francese) conduce uno studio sul ruolo che alcune importanti trasformazioni sociali hanno sulla percezione di sé e sul mantenimento della coerenza dell’identità. Gli individui sanno bene quale senso attribuire a se stessi, perché nella nostra società l’atteggiamento riflessivo è molto sviluppato. Le descrizioni raccolte sono riconducibili alla divisione di cui sopra: un’identità formale basata sulla collocazione nello spazio sociale e un’identità personale, che presenta due varianti: una psicologica (tratti della personalità) e una di tipo narrativo (concatenazione di eventi e scelte che delineano un filo conduttore nella biografia di una persona). Fino a questo punto abbiamo tralasciato il contributo degli “altri” che, invece, è fondamentale: l’identità attribuita non solo influisce sul sentimento soggettivo e lo plasma, ma può provocare anche confusione, contraddizioni e insoddisfazioni profonde nella persona che stenta a riconoscersi nell’immagine che gli altri le rimandano. Questo “misconoscimento” da parte degli altri, genera un’immagine in cui la persona non si riconosce ma, nonostante questo, finisce per costituire una parte della propria identità. Erikson è il primo a introdurre il termine “identità” nel linguaggio scientifico e sostiene la tesi che il misconoscimento da parte degli altri posso creare “crisi d’identità”. Egli sostiene che sia impossibile separare (come aveva fatto fino a quel momento il metodo psicanalitico) lo sviluppo personale dai cambiamenti che hanno luogo nelle comunità. È necessaria una teoria che attraverso il concetto di identità leghi individuo e struttura sociale. Ma come mai alla domanda “chi sei?” rispondiamo senza particolare indugio utilizzando le caratteristiche della nostra identità formale oppure quelle della nostra identità personale/soggettiva?  La familiarità con cui parliamo di identità ha radici storiche: è un riflesso della crescente individualizzazione dei rapporti sociali.  La diffusione nel linguaggio comune del termine identità, che segue il discorso scientifico. Il discorso scientifico, a sua volta, moltiplica il suo impatto pubblico quanto più tocca argomenti diffusi. Il rischio è che il termine identità diventi esageratamente vago e polisemico. Ma l’identità è un termine ambiguo già dagli anni Sessanta, quando inizia ad essere oggetto di analisi delle scienze sociali: il concetto di identità rinvia nello stesso tempo all’altro (ciò che rende una persona simile ad altri che occupano lo stesso spazio sociale) e a sé (ciò che rende una persona differente da tutti gli altri). 2. Identità, “io”, “personalità L’”io” diventa oggetto di investigazione filosofica a partire dal momento in cui è diventato definizione dell’uomo stesso. Secondo Cartesio, l’io è coscienza, cioè rapporto con se stessi, soggettività. Ma le discussioni classiche più influenti sono quelle che si pongono il problema logico di come si possa dire che il soggetto rimanga lo stesso (abbia un’identità) e allo stesso tempo esso si modifichi. - Locke rielabora l’idea di coscienza per indicarla come criterio formale dell’io: già alla fine del ‘600, quindi, il principio dell’individuazione non è più trovato in qualche entità metafisica (Es. spirito, anima, essenza). Egli parla, per la prima volta, di identità riferendosi agli aspetti soggettivi e psicologici del sé. Il senso di identità, e quindi di essere sempre la stessa persona nonostante i cambiamenti, non è fondato sull’unità di una sostanza spirituale ma sulla continuità della coscienza, che conserva traccia di tutte le nostre esperienze passate e le lega in una concatenazione di ricordi. - Hume non solo rifiuta ogni soluzione metafisica al problema dell’unità della persona, negando che esista un unico self che ognuno è in grado di cogliere attraverso l’introspezione, ma sostiene addirittura che non esista un’identità personale. L’unità del soggetto è puramente fittizia. Le persone non sono altro che un fascio di percezioni differenti in uno stato costante di trasformazione. La rottura con l’essenzialismo ( identità che coincide con un’essenza spirituale innata che rimane immutata) è, quindi, già nata con la filosofia di fine ‘600, ma bisogna aspettare il XX secolo per fare un passo avanti e riflettere sul fatto che non c’è contraddizione tra dire che una persona è cambiata e dire che si tratta della stessa persona: si tratta di capire quali cambiamenti siano compatibili con la continuità dell’identità e quali ne intacchino profondamente la dimensione integrativa. Esistono due tradizioni principali che sostengono questa tesi: o Tradizione psicodinamica o Tradizione sociologica La tradizione psicodinamica comincia con l’introduzione da parte di Freud del termine identificazione, con cui si cerca di cogliere il legame affettivo che lega l’individuo ad un’altra persona o a un gruppo. Il processo di identificazione inizia con l’infanzia ma non termina con essa. Proprio a partire da questo concetto, Erikson (psicologo) ha elaborato la nozione di crisi d’identità. La novità sta nel riconoscere il ruolo svolto dalle trasformazioni sociali nel definire lo sviluppo personale e la formazione dell’identità. L’identificazione assume due funzioni: quella di indicare un 1) Dimensione locativa  l’attore sociale concepisce se stesso all’interno di un campo, entro dei confini, che lo rendono affine ad altri che con lui li condividono. Questa dimensione non è soltanto interindividuale (cioè basata sul confronto dell’individuo con altri individui) ma pienamente sociale poiché l’identificazione che permette l’inserimento in categorie può avvenire solamente in un contesto sociale e culturale in cui gruppi e istituzioni sociali si confrontano. Categorizzare è un’attività che ha funzioni: o Cognitive  serve a organizzare e ridurre la complessità della realtà. Ciò accentua le differenze tra chi appartiene a categorie differenti e le somigliante tra chi appartiene alla medesima categoria. o Valutative  fornisce giudizi basati sull’importanza gerarchica dei gruppi presenti nella società. 2) Dimensione integrativa  si caratterizza per un principio di consistenza interna che serve sia per collegare le esperienze passate e presenti e le prospettive future in un insieme dotato di senso, sia per coordinare motivazioni e credenze eterogenee, legate alla molteplicità dei ruoli e delle appartenenze. Ha una funzione di connessione temporale, spaziale e simbolica. È la capacità riflessiva di trovare un filo conduttore nelle proprie esperienze passate e nella molteplicità delle affinità collettive. 3) Dimensione selettiva  una volta definiti i propri confini e aver trovato il proprio “filo conduttore”, occorre scegliere. La dimensione selettiva rimanda ai meccanismi stabilizzatori delle preferenze che consentono al soggetto di programmare i suoi corsi di azione, sapendo che le proprie preferenze potranno variare nel tempo ma che rimarranno sempre all’interno di un campo, definito dalla coerenza con la dimensione integrativa dell’identità. Tra le dimensioni dell’identità esistono relazioni complesse che danno luogo a tensioni più o meno forti.  Dimensione locativa in contrasto con la dimensione integrativa = non è scontato che i confini attribuiti dagli altri siano anche quelli riconosciuti come validi dallo stesso soggetto (es. immagine del proprio corpo e modelli culturali proposti dai media).  Dimensione integrativa in contrasto con la dimensione selettiva = il soggetto non accetta di mettere in discussione la propria concezione di sé. Cambia preferenze pur di mantenersi coerente con le scelte pregresse (es. La volpe che non arriva all’uva sostiene che sia acerba).  Dimensione locativa in contrasto con la dimensione selettiva = si presenta quando i diversi gruppi di appartenenza richiedono lealtà diverse che possono essere contrastanti. Il soggetto si trova in difficoltà a dover assegnare priorità a questa o a quella cerchia (es. famiglia vs carriera). 3. Il rapporto con l’azione: le scelte cruciali Le possibili incongruenze con la dimensione selettiva introducono il problema del rapporto tra identità e azione. Il concetto di identità rende necessario pensare a diversi tipi di azione, o classi di scelte, che convivono.  Scelte ordinare (di routine)  è per lo più sufficiente seguire una logica razionale oppure seguire l’abitudine.  Scelte cruciali  sono le scelte che non riguardano il “che cosa voglio” ma il “che tipo di persona sono”. Quando il soggetto appartenente a diversi gruppi con lealtà, valori, credenze e ruoli differenti si trova a dover fare una scelta sapendo che in un modo o nell’altro tradirà alcuni di questi, il criterio utilitaristico lascia il posto alle “ragioni” di identità. A orientare la scelta è, quindi, la coerenza rispetto a una certa idea di sé, individuata dalla dimensione integrativa: si sceglierà quel corso di azione che incarna i valori che più degli altri danno significato e coerenza alla propria biografia, a quel tipo di persona che siamo o che aspiriamo a diventare. Quando l’individuo aderisce a un valore piuttosto che a un altro che gli si contrappone, tenderà a scegliere in base a un principio argomentabile di fronte a sé e di fronte ad un “gruppo di riferimento” a cui attribuisce il giudizio sul suo futuro operato. È importante distinguere:  Gruppo di appartenenza: gruppi dei quali il soggetto condivide a un diverso livello di intensità e partecipazione le norme e da cui riceve riconoscimento. Non sempre il soggetto si percepisce appartenente a tali gruppi e di conseguenza potrebbe non accettarne le forme di riconoscimento.  Gruppo di riferimento: gruppi ai quali il soggetto si ispira e di cui vorrebbe far parte. Es: non pagare il biglietto del bus.  non lo pago come atto di sfida, coerentemente con il gruppo di cui faccio parte, il quale critica le istituzioni. se non lo pago ho il senso di colpa, non tanto perché ho fortemente interiorizzato quella norma sociale ma perché ho tradito me stesso e i valori della cerchia di cui faccio parte o di cui aspiro a far parte. In conclusione, identità e razionalità non sono concetti contrapposti ma semplicemente complementari che operano in situazioni diverse. CAP. 3 – Riconoscimento 1. Libertà e determinismo Questa visione di identità e razionalità come concetti complementari porta naturalmente a riflettere sul rapporto tra libertà e determinismo. Come può l’essere sociale essere considerati libero quando dipende dai condizionamenti sociali? In sociologia, l’homo sociologicus è considerato decisamente passivo rispetto al contesto sociale ( massimo determinismo). In economia, l’homo oeconomicus agisce sempre secondo un calcolo razionale: è un soggetto attivo, autonomo, dotato di intenzionalità e trasparente a se stesso ( massima libertà). Entrambi i modelli sono riduttivi: non si occupano del funzionamento interno dell’attore sociale, tendendo a demandare questo compito alla psicologia. L’introduzione del concetto di identità (processuale e internamente differenziata) in sociologia ha rappresentato un tentativo di ridisegnare l’homo sociologicus come sottoposto alle richieste normative della vita sociale ma anche capace di rinegoziare ruoli e convenzioni sociali. Centrale nella definizione dell’identità come composta da diverse dimensioni e in continuo divenire è il concetto di riconoscimento, che è alla base della dimensione locativa (dimensione dell’identificazione) e della dimensione integrativa (dimensione dell’individuazione). l’aspetto del determinismo sociale è rappresentato dall’identificazione. l’aspetto della libertà è rappresentato dall’individuazione. 2. Soggetti a riconoscimento Ma come opera il riconoscimento? Il riconoscimento opera attraverso il meccanismo esterno dell’identificazione, che ha due aspetti:  Aspetto valutativo  riconoscere significa approvare e disapprovare qualcuno.  Aspetto cognitivo  riconoscere significa anche collocare i soggetti entro classi, categorie più ampie in modo da definirne le coordinate sociali. Chi ha in società il potere di giudicare gruppi e persone? Le istituzioni (famiglia, scuola, chiesa), le quali hanno il compito di socializzare le giovani generazioni e di valutare i loro comportamenti. Esistono anche le “istituzioni totali”, cioè regimi chiusi e formalmente amministrati la cui finalità istituzionale è quella della spoliazione dell’identità (carceri, ospedali psichiatrici, lager, caserme, conventi di clausura). Ci sono poi altri gruppi informali che hanno questa capacità di attribuire o negare riconoscimento (associazioni, gruppi di amici…). In poche parole, ogni volta che si entra in contatto con l’altro in un contesto sociale si entra in un rapporto di riconoscimento. Il riconoscimento non è completo se non c’è la possibilità da parte del soggetto di accertarsi che il riconoscimento gli sia stato attribuito: quando il riconoscimento non è reciproco oppure esso non risponde alla concezione che egli si è fatto di se stesso, possono sorgere dei conflitti (che sono una delle caratteristiche centrali della società). 3. Modalità di riconoscimento La modalità di riconoscimento è stata a lungo studiata attribuendo, in certi casi, maggiore importanza al riconoscimento altrui e in altri casi maggiore importanza all’autoriconoscimento. La concezione di identità che ne emerge è sensibilmente diversa a seconda delle prospettive sul riconoscimento. Il riconoscimento è costituito da processi: - Di identificazione  modo in cui avviene il riconoscimento sociale. Il processo di identificazione avviene attraverso due meccanismi:  Condizionamento: identificazione che opera in modo unidirezionale rispetto al soggetto.  Reciprocità: identificazione che opera in modo biunivoco, cioè comporta interpretazione e adattamento attivo del soggetto rispetto alle richieste di conformità. - Crescente individualizzazione dei rapporti sociali  cambia il rapporto individuo-società, l’individuo si sgancia dalle unità sociali da cui poteva in passato aspettarsi aiuto e protezione. Ciò non significa, comunque, che la conseguenza di queste condizioni sia la solitudine dell’individuo e la frammentazione sociale. In questa trasformazione, infatti, non tutti gli strati della società sono stati coinvolti, non tutti i vincoli sono venuti meno e neanche l’identificazione con e da parte degli è diventata inutile. Il processo di individualizzazione è qualcosa di più complesso: a cambiare sono il numero, la forma e la dimensione delle cerche sociali. L’effetto della differenziazione sociale non è la scomparsa, ma piuttosto il moltiplicarsi di gruppi e cerchie sociali, che non sono più rappresentabili come concentriche, poiché il passaggio ereditario dall’una all’altra non è più dato per scontato. Ciò consente all’individuo di assumere posizione diversificate, di sentirsi parte di un gruppo ma anche di prendere le distanze da esso. I gruppi a cui il singolo appartiene formano un sistema di coordinate e ogni nuovo gruppo che si aggiunge, lo determina in modo più preciso e univoco. Sopra le diverse appartenenze, l’individuo moderno può fare riferimento a una cerchia molto ampia: la dimensione statuale della cittadinanza, che esiste da momento che lo Stato segna una serie di regole uguali per tutti i cittadini. Strettamente connesso all’indebolirsi delle gerarchie è l’affermarsi di un ideale di libertà ed eguaglianza (che sfocia nel riconoscimento dei diritti universali dell’uomo) che pone al centro la dignità dell’uomo in quanto individuo. Ogni individuo, per il solo fatto di esistere, ha diritto alla stima e al riconoscimento altrui. Si fa, quindi, strada l’idea che ognuno possa trovare in se stesso il proprio valore ma il valore, in quanto soggettivo, ha bisogno di essere riconosciuto e di ottenere l’approvazione altrui. È per questa ragione che, quanto più cresce il sentimento della propria individualità, tanto più aumenta la dipendenza dal mondo sociale in cui viviamo. L’individualismo, mettendo al centro del mondo l’individuo, i suoi diritti e i suoi valori, fa sì che la componente singolare dell’identità personale sia accentuata e questo può portare alla trasformazione dell’individualismo in egoismo. Ma ciò rimane comunque limitato a livello di patologia sociale e non deve essere generalizzato. FASE 2. Società post-industriale. Le condizioni di base sono le stesse della precedente fase, ma con alcune aggiunte e differenze. Innanzitutto, la crisi delle istituzioni che fino a quel momento avevano il compito di socializzare le nuove generazioni attraverso il lavoro di personale professionale che era legittimato per la sua “vocazione” e per essere “l’istituzione in quanto tale” (scuola, ospedali, sistema giudiziario). Con l’avvento della società di massa, le forme gerarchiche di autorità cessano di essere fondate sul principio della vocazione e su principi condivisi e le istituzioni sono sottoposte a crescenti atteggiamenti di insoddisfazione e sfiducia. L’individualismo perde i suoi caratteri istituzionalizzati trasmessi dai processi di socializzazione e ormai diventa una “seconda pelle” degli individui, data per scontata. L’individualizzazione, in questa nuova fase, genera tipi diversi di individualismo:  Individualismo eterodiretto (Riesman) = insaziabile bisogno di approvazione, desiderio di piacere, superficialità e ansia. Che si contrappone a quello autodiretto, austero, poco sensibile al giudizio altrui e orientato ai dettami della propria coscienza, tipico dell’uomo del Rinascimento. Nasce dalla preoccupazione per il destino dell’individuo in un’epoca di massa.  Individualismo narcisista (Lasch) = ansia, gratificazione immediata, ripiegamento su se stessi, mentalità terapeutica basata sul perfezionamento psichico. Nasce dalla caduta della tensione politica Entrambi questi individualismi hanno qualcosa in comune: non sono individualismi asociali. Sia l’eterodiretto che il narcisista dipendono costantemente dagli altri per ottenere approvazione e ammirazione. La realtà sociale è molto complessa, mostra spazi in cui lo sviluppo dell’individuale non è disgiunto da processi di ricomposizione del sociale: l’autoaffermazione, infatti, può correlarsi positivamente con forme non convenzionali di partecipazione politica e di impegno pubblico, come mostrano altri individualismi, che manifestano solidarietà verso gli altri e un orientamento universalistico, non disgiunti da una forte componente identitaria:  Individualismo dei diritti = legato alle forme di emancipazione degli anni ’60 – ’70. Chi considera importante la difesa dei diritti civili sarà è propenso a riconosce agli altri gli stessi diritti e la stessa dignità: individualismo e dignità vanno, in questo caso, di pari passo.  Individualismo cosmopolita = orientato alla costruzione di identità più ampie, che superano i confini dello stato-nazione e della cittadinanza tradizionale (anni ’80 –’90 – 2000). Robertson, a questo proposito, introduce il concetto di glocalization, che suggerisce che le tendenze globali agiscono sempre a livello locale, che esiste un rapporto reciproco tra globale e locale e che questo intreccio spesso genera ibridazioni a livello socio-culturale tra il nuovo e il vecchio. La globalizzazione da un lato distrugge legami tradizionali, dall’altro crea nuove forme di identità collettive e comunità. La situazione attuale, quindi, non solo non segnala la fine della società ma nemmeno il vuoto lasciato dai legami sociali. Considerando la grande quantità di gruppi a cui l’individuo appartiene, possiamo dire che oggi non ci sia scarsità ma addirittura eccedenza di riconoscimento, il quale genera conflitto quando i gruppi hanno valori contrastanti. Ciò che viene davvero messo in discussione è l’idea di società come “comunità coesa”: interessi e valori divergenti sono costitutivi della nuova situazione. In una società definita dal consenso comunitario, il conflitto è temuto, mentre, in una società individualizzata, può addirittura rappresentare un fattore di coesione sociale. Esistono, certamente, conflitti non negoziabili (tipici dei nuovi fondamentalismi) che sono un ostacolo insormontabile per la cooperazione sociale, ma l’esperienza più diffusa rimane quella dell’appartenenza dei singolo a più gruppi e ciò favorisce la tolleranza e la cooperazione. 2. Una critica a due riduzionismi L’identità è quindi strettamente collegata all’emergere e al consolidarsi della “società orizzontale” (Friedman), le cui caratteristiche di fondo sono: - Ascesa dell’individualismo nelle sue varie forme; - Declino della tradizione, sostituita da reti orizzontali di rapporti, in cui è fondamentale la scelta individuale; - L’indebolirsi della struttura gerarchica dell’autorità e dell’identificazione collettiva nello stato nazionale. L’equilibrio tra dimensione dell’identificazione e dimensione dell’individuazione non è determinato ma è variabile nel corso del tempo: nel periodo moderno e tardo-moderno, a prevalere è la dimensione dell’individuazione. Negli ultimi decenni, però, la complessità e multidimensionalità dell’identità sembra essere trascurata da due posizioni riduttive: 1) La prima posizione riduzionista parte dal presupposto che, nella società pluralista e individualizzata, l’identità può formarsi solo ancorandosi a radici certe e oggettive: quanto più scompaiono linee di divisione tradizionale (come la classe sociale) tanto più si affermano differenze etniche e culturali. È un filone di pensiero che tende ad appiattire l’identità su una sola delle dimensioni: quella dell’identificazione. 2) La seconda posizione riduttiva si contrappone alla prima: l’identità, in questo caso, viene appiattita sulla dimensione dell’individuazione. In una società incerta e instabile, dove gli antichi legami sono dissolti, diventa impossibile per l’individuo identificarsi con qualcuno. L’individuazione estrema dell’identità, senza possibili riconoscimenti, porta l’individuo a vagare in uno spazio libero da vincoli e a vedere l’identità come qualcosa che si può cambiare a piacimento. CAP. 5 – L’identità dei soggetti individuali 1. La socializzazione “orizzontale” L’individuo non nasce membro della società, ma lo diventa tramite la socializzazione, un processo complesso attraverso il quale la nuova generazione apprende dalla precedente modi di pensare, norme e valori. Il processo si svolge attraverso diverse tappe e può coinvolgere diversi livelli contemporaneamente. È allo stesso tempo una trasmissione intergenerazionale, una trasmissione istituzionale e una formazione personale. L’identità è, quindi, costruita socialmente e legata ai principi, valori e norme che vengono gradualmente interiorizzati soprattutto durante infanzia e adolescenza. Trasmissione e interiorizzazione sono i termini chiave. Nel modello generale dominante fino agli anni Cinquanta, trasmissione e interiorizzazione sono definiti in questo modo: - Trasmissione: processo top-down da chi detiene il potere (genitori, insegnanti, sacerdote) a chi no (figli, allievi). - Interiorizzazione: dispositivo psicologico inconscio il cui esito è il raggiungimento di un forte autocontrollo dei propri impulsi ed emozioni. Già alla fine degli anni Sessanta, in seguito anche al “conflitto generazionale” dell’epoca, alcuni studi cominciano a riconoscere elementi nuovi nel processo di socializzazione: il nuovo concetto di socializzazione è meno deterministico, basato su uno scambio reciproco più che su un processo top-down. Berger e Luckmann definiscono la socializzazione come il processo simbolico attraverso cui la realtà oggettiva viene interiorizzata, diventando per lui significativa: essa consiste, sì, 3. Identità di genere Il sesso è generalmente definito in maniera “binaria”: non è concessa socialmente alcuna ambiguità. In ogni cultura, ai due sessi, sono richiesti comportamenti diversi, anche se le aspettative sociali variano nettamente in base al luogo, al periodo storico, alla classe sociale, all’origine etnica, all’età. Il comune denominatore è quello della subordinazione del sesso femminile a quello maschile. Le discipline sociali distinguono:  Sesso = differenze biologiche e anatomiche.  Genere = processo di costruzione sociale, l’attribuzione dei ruoli che si innesta sulle caratteristiche biologiche. Il concetto di genere, introdotto negli anni Settanta dai Gender Studies, è relazionale ed esprime come avviene il cambiamento del rapporto tra i sessi in famiglia e nella società in generale. Ma cosa si intende con identità di genere? L’identità di genere è il grado con cui una persona si identifica con le aspettative sociali attribuite al proprio sesso. Come tutte le altre forme di identità, non basta che gli altri identifichino una persona come appartenente a un sesso, ma è necessario che la persona si autoriconosca in questa assegnazione esterna. Per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta prevale la posizione classica freudiana che ritiene l’identità di genere forte e sicura un ingrediente fondamentale per la salute mentale e per la stabilità di famiglia e società. Anni ’50  Talcott Parsons considerava indispensabile per la famiglia il mantenimento della tradizionale divisione dei ruoli maschili e femminili: ruolo strumentale del marito-padre, ruolo espressivo della moglie-madre. Secondo Parsons, l’identificazione su base sessuale avveniva esclusivamente in famiglia, secondo processi di imitazione e distacco dai modelli. Anni ’70  è stato messo in discussione dagli psicologi che cosa stia alla base dei “disordini dell’identità di genere”, la rigidità dei ruoli e la semplicità con cui si riteneva venissero appresi. Questo cambiamento di visione, avviene senza dubbio grazie all’emancipazione della donna e alla trasformazione del rapporto tra i sessi che subisce un’accelerazione a partire da metà degli anni Sessanta. Gli aspetti principali che hanno inciso sull’identità di genere sono:  Cambiamenti strutturali  condizione della donna e della famiglia. Maggiore autonomia della donna, uguaglianza giuridica con gli uomini, aumento dei divorzi, diminuzione di natalità e nuzialità, nuove forme di famiglia.  Cambiamenti culturali  processo di individualizzazione, rivoluzione culturale degli anni ’60 e ’70 (movimenti studenteschi e femministi). Esiti: - Cambiamento di modello familiare e professionale per le donne: non esiste più un modello unico di ruolo femminile ma può essere scelto e non subito passivamente. L’identità di genere assume molte facce nel momento in cui bisogna conciliare lavoro e cura domestica. - Cambiamento nell’identità di genere maschile: si confrontano già dalla prima socializzazione con ruoli sia femminili che maschili molteplici, molto più sfumati e flessibili. - La relazione amorosa si emancipa dalle forme istituzionalizzate: la relazione coniugale appare sempre più come un’opzione e una libera scelta. - Cambiamento nella rappresentazione dell’identità sessuale: passaggio dalla naturalità del percorso identitario, visto come problematico e scontato, alla sua costruzione sociale. A questo proposito, sono state fatte due ricerche che riportano testimonianza di come tutto ciò, un tempo, non veniva messo in discussione: Michel Foucault (1978) = memorie di Herculine Barbin, ermafrodito, registrata alla nascita (1838) come femmina. Constatato il suo ermafroditismo, e poiché si era innamorata di una donna, la situazione viene risolta registrandola come uomo e costretta ad indossare abiti maschili. L’assunzione di questo nuovo ruolo la condurrà al suicidio. Harold Garfinkel (2000) = nell’America degli anni ’50 Agnes, ritenuta e socializzata come maschio, si rivolge ai medici per cambiare sesso. Questo caso è interessante per lo studioso poiché permette di capire quali attività una persona deve mettere in atto per passare per “femmina”. Garfinkel dimostra, quindi, come l’identità di genere non sia un punto di partenza inoppugnabile ma, invece, un punto di arrivo costruito attraverso micropratiche e controllo costante dell’impressione che si esercita sugli altri. 4. L’identità professionale Nella ricerca francese, il lavoro è riconosciuto come secondo ambito di definizione di sé dopo la famiglia. Il livello di identificazione con il proprio lavoro cambia a seconda del tipo di impiego: le persone con scarsa qualificazione e mal pagati attribuiscono un posto meno importante al lavoro nella definizione della propria identità. Degna di nota è l’asimmetria tra uomini e donne: per le donne, avere dei bambini contribuisce a ridurre notevolmente l’importanza del lavoro. L’identità professionale, come quella di genere, si apprende tramite un processo di socializzazione che segue diverse tappe: Prima tappa. Immersione nella cultura professionale e identificazione con il ruolo. Seconda tappa. Più tormentata, porta l’individuo a verificare l’esistenza di una distanza tra il modello ideale e il modello pratico, ossia la vera routine quotidiana. La gestione di questo dualismo avviene tramite l’adesione a un gruppo di riferimento (cioè un gruppo a cui l’individuo aspira) interno alla professione. Terza tappa. Presa di coscienza del percorso di carriera realizzabile e abbandono degli stereotipi. Questo modello, per quanto ancora valido, si deve confrontare con il postfordismo, cioè il passaggio ad una società deindustrializzata, terziarizzata, informatizzata, meno regolata, più flessibile. Le imprese sono sempre più snelle, orizzontali, delocalizzate. Diventa cruciale un uso flessibile della forza lavoro, intesa come flessibilità numerica dei lavoratori, ma anche come flessibilità funzionale (possibilità di spostare i lavoratori all’interno dell’azienda). Ciò provoca una sorta di paradosso: la flessibilità funzionale implica la disponibilità dei lavoratori ad accettare processi di riqualificazione, condizione che presuppone un saldo attaccamento e un elevato coinvolgimento nei fini produttivi dell’azienda, ottenibili solo con un’occupazione stabile. Il lavoro è diventato, quindi, più mobile, differenziato e temporaneo e il concetto di flessibilità è diventato fondamentale anche per i lavoratori. Questa flessibilità crea un distacco tra lavoratore e azienda: il lavoratore, passando da un’azienda all’altra non riesce a immergersi nella “cultura professionale” considerata parte rilevante della socializzazione professionale. Si cancella ciò che dava il senso della durata e del controllo sulla propria vita, causando anche crisi identitarie. Ma non sempre la flessibilità ha questi esiti negativi: anche la precarietà può dar vita a nuove forme di identità professionale. Una precarietà identificante, un modello di identità di rete si instaura quando un comportamento esplorativo in un ambito professionale avviene attraverso esperienze brevi ma arricchenti. Si rileva questo tipo di identità nei gruppi di giovani con istruzione superiore, che vedono all’esterno dell’azienda un’opportunità di mobilità sociale. Essi sono individualisti, critici, si definiscono in base alla formazione e alle competenze, non mostrano di appartenere ad un’entità collettiva all’interno dell’impresa ma appartengono al proprio gruppo professionale, che trascende i confini aziendali. Altre forme di identità si possono individuare per i gruppi meno giovani di lavoratori: - Identità marginale  l’identità del lavoratore salariato che si considera emarginato, periferico nell’impresa e minacciato dal licenziamento si è evoluta verso una modalità nuova, caratterizzata dall’esclusione dal lavoro e dall’esperienza della disoccupazione. Si configura come una vera e propria de socializzazione - Identità di categoria  nostalgica delle protezioni dell’identità di mestiere, si caratterizza per il sentimento di blocco tra una riconversione e la riclassificazione in impieghi spesso svalutati. - Identità d’impresa  caratterizza i lavoratori coinvolti nell’innovazione della loro azienda che sperano di essere ripagati con una promozione interna. È un tipo in forte crisi che non ha ancora trovato una valida alternativa. La speranza è che le identità di rete abbiano la possibilità di svilupparsi grazie a nuove filiere d’impiego e a nuove carriere. CAP. 6 – Strategie Identitarie 1. Riconoscimenti multipli L’identità è così importante per ciascuno poiché attraverso di essa non si manifesta soltanto la nostra esistenza fisica e sociale, ma anche il nostro valore. Questo valore non può essere asserito solo da noi stessi, ma deve essere “accertato” dagli altri. Quali sono le fonti principali di questo riconoscimento? L’individuo, nella nostra società complessa, fa parte di una serie di gruppi sociali (amici, famiglia, associazioni), rientra in diverse categorie sociali (sesso, cittadinanza, razza) e fa riferimento a una serie di cerchie sociali, le quali sono in grado di dare giudizi sulle scelte del soggetto, anche se questi non ha nessuna intenzione di appartenere al loro gruppo. Le cerchie sociali sono, quindi, referenti e possibili giudici che magari non conosciamo direttamente ma alla cui valutazione in qualche modo teniamo (es. studenti per un professore, soldati per un comandante, elettori per un politico). Vi sono somiglianze e differenze con i problemi legati alla molteplicità delle affiliazioni e alla dissonanza: Somiglianze:  In tutti i casi, anche se è principalmente la dimensione integrativa ad essere coinvolta, le altre due (locativa e selettiva) ne risultano comunque influenzate.  In tutti i casi, queste strategie hanno successo se c’è un qualche tipo di sostegno sociale o gruppo di riferimento a cui fare ricorso. Differenze:  Gli eventi traumatici espongono l’individuo ad effetti di spiazzamento in quanto li mettono di fronte a situazioni non codificate, generando uno spaesamento che intacca non solo la propria biografia, causando una rottura con il passato, ma anche la propria visione del mondo e, quindi, la progettualità futura ( difficoltà nella connessione temporale). Riguardo agli eventi traumatici, di fondamentale importanza è l’elemento narrativo. La narrazione di fronte a sé e agli altri, è una modalità di formazione e mantenimento del sé per il fatto che attraverso il linguaggio e la narrazione, l’esperienza viene tesaurizzata, selezionandone gli aspetti più significativi in una trama capace di fornire un senso all’insieme biografico. Diventa un elemento cruciale per “ricucire” il prima e il dopo dell’evento e per immaginare svolgimenti futuri. È importante sottolineare che incongruenze, dissonanze ed eventi traumatici possono presentarsi contemporaneamente ed essere l’uno la causa dell’altro. Gli eventi traumatici possono essere di diversi tipi: 1) Sprofondamenti  accadimento che causa una caduta a spirale. Es. nascita di un figlio handicappato; approdo in strada come homeless; caduta nella tossicodipendenza. Ciò che accomuna questi casi è la percezione di discontinuità col passato, la difficoltà di integrare in un’unità dotata di senso le esperienze, la restrizione dell’orizzonte temporale, il collasso del capitale sociale, la perdita di capacità individuali. L’identità profondamente danneggiata può, comunque, essere preservata attraverso l’attivazione di pratiche di adattamento personale e la riorganizzazione di risorse relazionali. 2) Ristrutturazioni  è totale poiché richiede all’individuo di ripercorrere da adulto una nuova socializzazione primaria. Es. conversione religiosa. Le modalità per una vera e propria ristrutturazione dell’identità sono l’affiliazione a una comunità identificante (una comunità chiusa e separata dalle altre) e la reinterpretazione narrativa del “vecchio” mondo all’interno del nuovo frame (tutto ciò che precede la ristrutturazione è visto come qualcosa che tendeva ad essa). 3) Esperienze di vita al limite della sopravvivenza  es. permanenza in un campo di concentramento. L’identità della persona viene continuamente negata ed essa sopravvive solo attraverso la volontà di preservare un’identità negata attraverso la pratica di piccole virtù quotidiane. Prima fra tutte la dignità. CAP. 7 – L’identità dei soggetti collettivi 1. Soggetti collettivi Con il termine “identità collettiva”, attribuito a gruppi di persone, si fa riferimento a soggetti che non sono riducibili alle identificazioni condivise dei suoi membri. Spesso, per riferirsi ad attori collettivi si utilizza il termine persone artificiali: sono diversi dalle persone fisiche ma con capacità e responsabilità di azione autonoma. Per definire l’identità di una persona artificiale, proprio come avviene per le persone fisiche, non basta dire che un certo numero di persone naturali si riconosce in essa, ma bisogna aggiungere che essa deve essere riconosciuta da altri. Ma come viene costituita l’identità di soggetti collettivi? La critica spesso mossa al concetto di identità collettiva è quella di reificazione, cioè di attribuzione di un’esistenza sostanziale a ciò che non ne è provvisto. Ma si può anche non cadere in personificazioni senza negare la consistenza del fenomeno e la sua rilevanza per l’agire sociale. Il concetto di identità riferito a persone artificiali è utile se si considera che esso presenta gli stessi criteri o dimensioni costitutive dell’identità riferita a persone naturali: - Integrità cognitiva e simbolica  funzione di stabilità e controllo sul mondo interno - Definizione di confini nel mondo esterno Il livello di queste distinzioni è puramente concettuale e analitico, pertanto, a questo livello, l’individuo o il soggetto/persona non è più concreto del soggetto collettivo. L’identità di un gruppo dipende, almeno in parte, dalle motivazioni e dal senso di appartenenza dei singoli membri, tuttavia essa può essere definita a prescindere da questi. La differenza dalla persona naturale è che, mentre le due componenti del sé nella persona naturale sono unite nella medesima unità fisico-naturale, nell’attore collettivo questa divisione del sé corrisponde a parti fisicamente differenti: il sé oggetto è rappresentato dai membri del gruppo, il sé agente dai suoi funzionari e dirigenti. 2. Una tipologia Prendendo ad esempio il tema del gruppo religioso, è possibile individuare quattro tipi di identità collettiva. Le tipologie si distinguono a partire dalla dimensione integrativa, che può rendere un gruppo stabile o instabile (in base alla presenza di forme organizzative e sistemi simbolici) e da quella locativa, che può caratterizzare il gruppo per apertura o chiusura (in base ai confini, territoriali o simbolici, fissi o negoziabili. L’apertura/chiusura del gruppo religioso si vede dalla soglia di accesso richiesta e dalla tolleranza dell’eterodossia interna). DIMENSIONE LOCATIVA Riconoscimento confini Apertura Chiusura DIMENSIONE INTEGRATIVA Strutturazione interna Stabilità Chiese Gruppi e Movimenti fondamentalisti Instabilità Movimenti mistico- esoterici Comunità emozionali; Sette Chiese  entità stabili e aperte. Alto grado di strutturazione organizzativa (gerarchia) e simbolica (credenze codificate) che le rende stabili. Allo stesso tempo i loro confini sono aperti e inclusivi e viene tollerato un certo grado di scostamento dall’ortodossia. Comunità emozionali  entità instabili e chiuse. Presentano fenomeni di aggregazione spontanea intorno ad una personalità carismatica. La soglia di accesso al gruppo è molto elevata (requisiti molto selettivi) e il grado di tolleranza di posizioni eterodosse è molto basso. Al tempo stesso sono instabili: non c’è una forte strutturazione interna né organizzazione simbolica, in quanto il fulcro della comunità rimane il leader carismatico. Sette  basate sui sentimenti di fratellanza e fiducia reciproca. Anche nelle sette non c’è gerarchia né strutturazione. Esse tendono con il tempo a scomparire o a trasformarsi in chiese. Gruppi o movimenti fondamentalisti  entità stabili e chiuse. Stabili: centro organizzativo, credenze e valori omogenei, netta demarcazione dei confini; chiuse: elevata soglia di accesso, scarsa tolleranza dell’eterodossia. Movimenti mistico/esoterici  entità aperte e instabili. Es. Movimento New Age. Sono scarsamente strutturati, basati su reti diffuse e orizzontali, hanno un sistema di credenze eterogeneo. Sono aperte in quanto i confini sono labili. 3. La forza delle identità collettive La vitalità ed esplosività dei conflitti etnici, religiosi, regionalistici negli ultimi quarant’anni dimostra la rinnovata forza delle identità collettive. La diffusione nelle società moderne di questo mosaico di gruppi minoritari molto diversi tra loro ha favorito l’introduzione del concetto di multiculturalismo. Il multiculturalismo si riferisce a una prospettiva ideale: le culture e le etnie meritano il riconoscimento pubblico delle loro differenze all’interno della cultura dominante, soprattutto in ragione del loro passato di discriminazione. Esso si pone come alternativa all’ideale del meltin’ pot americano, che dà priorità all’unificazione di tutti i gruppi in un’unica nazione. Ma come si concilia la sempre più spinta individualizzazione sociale con questo ritorno del collettivo? È proprio in un ambiente dominato dall’ideale egualitario e individualistico che i gruppi minoritari, svantaggiati ed esclusi dai diritti, potendo confrontarsi con altri in condizioni migliori, subiscono questa marginalizzazione come un’ingiustizia e un’umiliazione. I gruppi si comportano esattamente come individui che non accettano identità imposte gerarchicamente da una società orizzontale e pretendono di essere riconosciuti nella loro individualità. Le loro istanze non implicano affatto un ritorno alla tradizione (anche quando così può sembrare), poiché nelle società tradizionali le differenze etniche e culturali non sono solo accettate, ma approvate e condivise anche dagli stessi gruppi marginali, in quanto riproducono una secolare e istituzionalizzata gerarchia di status. Il problema dell’identità collettiva, quindi, non si poneva quando vigevano convenzioni e ruoli rigidi. L’identità collettiva, con tutto ciò che concerne il riconoscimento, la definizione dei confini, la coerenza, passi in secondo piano una volta che questi organismi si sono stabilizzati e torni alla ribalta quando si devono affrontare importanti processi di cambiamento. Non è infatti un caso se il periodo di crisi dei partiti politici è sempre contemporaneo a quello dei sindacati. Entrambi risentono delle trasformazioni nella struttura di classe che ha visto diminuire a dismisura la classe operaia: - Deindustrializzazione, terziarizzazione che favorisce l’emergere di un ceto medio più individualizzato. - Globalizzazione dell’economia che segna l’indebolimento del controllo degli stati nazionali sui processi economici, la flessibilità delle imprese e della forza lavoro, tendenza alla delocalizzazione, deterritorializzazione e diversificazione delle strutture produttive. - Eventi esterni come la caduta del muro di Berlino, il crollo dei regimi comunisti che hanno privato i partiti di importanti elementi ideologici e simbolici (anche i partiti avversari). - In Italia il collasso del sistema partitico seguito a Tangentopoli negli anni ’90. - Autonomia e autorealizzazione personale, esigenza di un lavoro gratificante, valore della coscienza individuale, bontà della competizione e del successo personale. Come hanno risposto, questi soggetti collettivi, alle tensioni a cui la loro identità è stata sottoposta? Più che soluzioni possiamo indicare i problemi che sono stati sollevati, uno riguardante la dimensione locativa e la definizione dei confini e l’altro la dimensione integrativa.  Dimensione locativa I partiti e i sindacati sono costituiti da diversi livelli, detti circoli interni: 1) nucleo dei dirigenti, 2) impiegati professionali intermedi, 3) militanti e attivisti, 4) iscritti, 5) elettori fedeli. Per quanto riguarda i partiti, assistiamo a un paradosso: l’indebolimento delle fratture di classe come base identificativa e la completa professionalizzazione del partito fanno sì che i militanti, il cui impegno viene fornito nella speranza di entrare a far parte dei dirigenti, passino al “nemico” quando si rendono conto che questa scalata non è possibile. La politica si personalizza, i partiti mantengono ideali di lungo periodo come “collante”, ma nel breve devono sottostare alle pressioni di lobby e gruppi di pressione. Infine, l’utilizzo del mezzo televisivo per parlare con i propri elettori non fa che peggiorare questo distacco, con il risultato che a questi partiti-impresa corrispondono elettori demotivati e attenti a calcolare i vantaggi materiali dell’appartenenza. I sindacati vedono, anch’essi, sfumare i propri confini: l’impresa cambia, permette sempre meno l’identificazione del lavoratore in un “classe” unita e induce il lavoratore a identificarsi con la propria identità professionale che trascende i confini aziendali. Il sindacato non può più contare su quella fiducia e lealtà che aveva prima.  Dimensione integrativa Anche l’autorappresentazione del gruppo è in crisi. Bisogna creare una nuova memoria collettiva che possa essere adattata a una progettualità futura e questo percorso indispensabile deve tenere conto del fatto inedito che i modelli di riferimento di elettori e lavoratori non si focalizzano più esclusivamente sul mondo del lavoro o della politica. I giovani lavoratori, per esempio, possono essere più sensibili alla condizione giovanile che li accomuna piuttosto che a quella che li differenzia.
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