Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

La teoria neoclassica, Appunti di Macroeconomia

La Teoria neoclassica: is- lm.

Tipologia: Appunti

2020/2021

Caricato il 05/04/2024

marialetiza-diano
marialetiza-diano 🇮🇹

4 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica La teoria neoclassica e più Appunti in PDF di Macroeconomia solo su Docsity! La Teoria Neoclassica Alla fine del XIX secolo, grazie anche agli strumenti matematici di calcolo infinitesimale, si sviluppa una nuova scuola di pensiero economico, la teoria neoclassica, che vuole affrontare con metodi scientifici rigorosi la teoria del valore e della distribuzione del reddito, e successivamente la teoria della crescita economica. Agli inizi del 1870, tre autori, William Stanley Jevons, Carl Menger, Leon Walras, in modo indipendente, formulano i principi di quella che è stata denominata la Rivoluzione Marginalista. Ciascuno di questi tre autori rappresenta una continuazione della prospettiva individualista e utilitaristica, introdotta negli scritti di Jeremy Bentham (1748-1832), per cui per utilità si intende quella proprietà di un oggetto qualsiasi di produrre beneficio, vantaggio, piacere, bene o felicità. Pertanto, qualsiasi motivazione umana è riconducibile al solo principio di massimizzare l’utilità. Accanto al concetto di utilità viene introdotto il concetto di utilità marginale decrescente. In questa visione il comportamento umano viene fatto consistere esclusivamente nel calcolo razionale teso alla massimizzazione dell’utilità, per cui è l’utilità a determinare i prezzi dei beni. Il principio marginale era stato introdotto dall’economista inglese David Ricardo. Il punto di partenza di questi autori è lo scambio. La determinazione dei prezzi è basata sull’interazione tra domanda e offerta. L’utilità è la determinante ultima dei prezzi dei beni di consumo, ma anche per i prezzi dei fattori di produzione terra, lavoro e capitale. Mentre l’offerta di ciascun fattore è determinata dal calcolo dell’utilità effettuato da chi lo possiede, la domanda del fattore produttivo dipende sia dalla produttività del suo impiego nel processo produttivo, sia dall’utilità che i consumatori derivano dal consumo di quei beni alla cui produzione il fattore concorre. Per cui salari, profitti e rendite, sono almeno in parte, determinati dai prezzi dei beni di consumo. Ciascun fattore riceve il valore del suo contributo produttivo, per cui il valore della produzione totale risulta ‘esaurito’, nel senso che non rimane alcun sovrappiù. Tale teoria in poco tempo si arricchisce di altri importanti contributi da parte di autori quali Marshall, Edgeworth, Wicksteed, Bohm-Bawerk, Fisher, Wicksell, Pareto, che seppure con differenze varie, mantengono lo stesso approccio teorico alle questioni economiche. L’approccio neoclassico domina in modo incontrastato fino agli anni Trenta del secolo scorso quando, al verificarsi della Grande Depressione, alcuni economisti inglesi, tra i quali in particolare John Maynard Keynes, mettono in discussione tale approccio. Nonostante tale critica, l’approccio neoclassico, o marginalista, non scompare, anzi rivitalizza la propria teoria sin dagli anni ’70 del secolo scorso, soprattutto grazie alle critiche alla teoria keynesiana da parte di Robert Lucas, capostipite riconosciuto della scuola di pensiero della Nuova Macroeconomia Classica (New Classical Macroeconomics, NCM), e successivamente attraverso altri autorevoli esponenti, giunge fino ai giorni nostri e costituisce anche attualmente una delle principali correnti di pensiero economico contemporaneo. La teoria neoclassica descrive il funzionamento di un’economia capitalistica come l’operare simultaneo di una molteplicità di mercati. Come si è visto dalla contabilità nazionale il reddito generato dalla produzione è uguale al valore dei beni prodotti, ma a differenza del modello keynesiano, dove la produzione si adegua alla domanda aggregata quando quest’ultima subisce delle variazioni, nella visione neoclassica vige la ‘legge di Say’ (J.B. Say economista francese, 1767-1832), o legge degli sbocchi, per cui il meccanismo può essere sintetizzato nell’affermazione che l’offerta crea la propria domanda, ovvero l’offerta di un determinato ammontare di prodotti genera un reddito di valore identico, e il reddito genera una spesa e quindi una identica domanda aggregata. Qualunque sia il volume di offerta i beni prodotti saranno tutti venduti, non vi è spazio né per un eccesso di domanda aggregata né per un eccesso di offerta, per cui il mercato dei beni sarà sempre in equilibrio. Pertanto, se vale tale legge, il processo economico realizza la piena occupazione delle risorse produttive. Questa affermazione è coerente con il funzionamento dei mercati in concorrenza perfetta, per cui il comportamento del consumatore è finalizzato al raggiungimento della massimizzazione della sua utilità, quello dell’impresa a realizzare la massimizzazione del profitto, per cui queste ultime si spingeranno fino al punto in cui avranno impiegato tutte le risorse produttive disponibili, e quindi anche i mercati nei quali queste risorse produttive sono scambiate avranno raggiunto una posizione di equilibrio. Pertanto, la legge di Say garantisce che vi sia sempre eguaglianza tra domanda e offerta globale. Avere trovato, ad esempio, un equilibrio tra domanda e offerta nel mercato del lavoro, non significa che tutti i lavoratori esistenti abbiano un impiego, ma soltanto che lavorano tutti coloro che al salario corrente si offrono di lavorare, tutti gli altri sono disoccupati volontari, ovvero tutti coloro che desiderano lavorare al salario reale d’equilibrio riescono a trovare un impiego, mentre tutti coloro che a quel livello salariale di equilibrio non lavorano trovano ottimale non farlo. Ipotesi che si contrappone alla visione keynesiana, la quale manifesta invece la presenza di disoccupazione involontaria, definita come la situazione in cui non trovano lavoro tutti i lavoratori che sono disposti a lavorare alle condizioni vigenti nel mercato. Una delle ipotesi fondamentali del modello neoclassico prevede che tutti i mercati (dei beni e dei fattori) siano perfettamente concorrenziali, sia dal lato della domanda che da quello dell’offerta. Gli agenti sono quindi price-takers. Se, ad esempio, una singola impresa assume un lavoratore in più o impiega un macchinario in più, queste sue decisioni non avranno alcun effetto sul salario di equilibro del mercato del lavoro o sul prezzo di mercato del capitale. Il modello neoclassico si basa essenzialmente su alcune ipotesi: 1.Un eccesso di offerta viene eliminato da una diminuzione del prezzo 2.L’economia raggiunge spontaneamente la piena occupazione 3. La produzione aggregata dipende dall’impiego delle varie combinazioni dei fattori produttivi 4. Lo Stato non può svolgere alcun ruolo attivo di politica economica 5. Aumenti dell’offerta di moneta non producono effetti sulle grandezze reali, ma solo aumenti di prezzo (accettazione della teoria quantitativa per la determinazione del livello assoluto dei prezzi) Le condizioni necessarie sono: prezzi flessibili; mercati in concorrenza perfetta; assenza di tesaurizzazione della moneta. Il risultato è l’accettazione della Legge di Say: ogni offerta crea la propria domanda. La produzione trova sempre un suo sbocco: la domanda globale si adegua al crescere della produzione e risulta sempre sufficiente a garantire che la merce prodotta sia venduta. Pertanto, singolarmente, vi potranno essere imprese che sperimenteranno eccessi di offerta, ma nel mercato, nel suo complesso, vi sarà sempre equilibrio tra offerta e domanda, poiché se in alcuni settori la domanda è inferiore all’offerta, ci saranno altri settori dove la domanda è superiore all’offerta di pari ammontare (principio dell’Equilibrio Economico Generale dovuto a L. Walras). La produzione aggregata (offerta) dipende dall’impiego dei fattori produttivi. Il valore della produzione aggregata è necessariamente uguale al valore aggregato dei redditi distribuiti; il reddito viene speso interamente, in modo diretto o indiretto (acquisto di beni di consumo e di attività finanziarie, e quindi spesa per investimenti da parte delle imprese), per acquistare i beni e servizi prodotti, tale per cui la spesa in investimenti sia equivalente al risparmio, in quanto non è razionale detenere moneta, e quindi trattenere fondi inoperosi, poiché non generano alcun rendimento. La macroeconomia neoclassica si sviluppa tra il 1870 e i primi decenni del XX secolo. Essa teorizza l’economia di mercato, il principio del liberismo o il lasseiz-faire nelle transazioni economiche, asserendo che i meccanismi automatici del mercato possano riequilibrare gli eventuali squilibri che si possono verificare nei vari settori economici. Le conseguenze di tali principi, in termini di teoria economica, portano alla conclusione che il mercato lasciato a se stesso tende sempre a raggiungere un equilibrio di piena occupazione, il reddito che viene prodotto sarà quello massimo possibile ottenibile con i fattori produttivi di cui si dispone e le crisi, ossia l’allontanamento del reddito corrente dal reddito potenziale, sono fenomeni congiunturali (temporanei). Il punto centrale della teoria neoclassica, come abbiamo detto, è la Legge di Say: ogni offerta crea la propria domanda. Ogni produzione genera una domanda di importo equivalente. La produzione trova sempre un suo sbocco: la domanda globale si adegua al crescere della produzione e risulta sempre sufficiente a garantire che la merce prodotta sia venduta. Pertanto, singolarmente, vi potranno essere imprese che sperimenteranno eccessi di offerta, ma nel mercato, nel suo complesso, vi sarà sempre equilibrio tra offerta e domanda, poiché, come si è visto, se in alcuni settori la domanda è inferiore all’offerta, ci saranno altri settori dove la domanda è superiore all’offerta di pari ammontare. Tale legge si basa sull’idea che il potere di acquisto degli operatori sia determinato dal livello della produzione. Tale convinzione è basata sul fatto che nel processo produttivo le imprese distribuiscono reddito ai proprietari dei fattori di produzione e proprio il reddito costituisce il potere di acquisto delle famiglie, pertanto ogni produzione genera un reddito di importo equivalente. Ma ciò che è più importante, in tale visione, è che il reddito viene speso interamente, in modo diretto o indiretto (acquisto di beni di consumo e di attività finanziarie, e quindi spesa per investimenti da parte delle imprese), per acquistare i beni e servizi prodotti, tale per cui la spesa in investimenti sia equivalente al risparmio, in quanto non è razionale detenere moneta, e quindi trattenere fondi inoperosi, poiché non generano alcun rendimento, e quindi gli operatori non desiderano il denaro per il gusto di averlo, poiché esso non è altro che un mezzo di scambio che permette di evitare le difficoltà connesse con il baratto. Non avendo un rendimento proprio, la moneta non cambia valore al variare del tasso di interesse, mentre è una forma di ricchezza che acquista o perde valore al diminuire o aumentare del livello generale dei prezzi, dato che il potere di acquisto della moneta è pari all’inverso del livello generale dei prezzi. Principio che attiene alla teoria quantitativa della moneta, la quale, come si è visto, è un’altra condizione per la formulazione della teoria neoclassica, che non è incompatibile, ma che è complementare alla Legge di Say, che determina i prezzi relativi tra i beni, ed è compatibile con qualsiasi livello assoluto dei prezzi che si imporrà sul mercato, che è appunto individuato dalla teoria quantitativa. Compatibilità che è assicurata dall’ipotesi, che entrambe le teorie condividono, che nessuno desidera la moneta in quanto tale, per cui le due teorie sono perfettamente coerenti e complementari. Corollario dell’accettazione della Legge di Say, è che il sistema economico lasciato a se stesso ha una tendenza naturale alla piena occupazione, poiché le imprese, proprio perché qualsiasi livello di offerta troverà un corrispondente livello di domanda del prodotto, spingeranno la produzione verso il livello massimo possibile o potenziale. Ne consegue che tutto il reddito viene speso, direttamente o indirettamente, nell’acquisto di beni e servizi. Si è detto che la parte di reddito risparmiata dalle famiglie viene poi indirettamente spesa attraverso gli investimenti delle imprese che ottengono quel risparmio dalle banche, per cui per essere vera la proposizione che tutto il reddito viene speso, risparmio e investimento devono essere equivalenti, I=S. Il meccanismo che tende ad eguagliare risparmio e investimento va individuato nel tasso di interesse. In effetti, per la teoria neoclassica il risparmio viene impiegato in modo fruttifero per acquistare attività finanziarie che danno diritto a percepire dividendi o tassi di interesse. Ne deriva che maggiore è il tasso di interesse, maggiore sarà l’offerta di risparmio. Nel contempo, dal lato delle imprese, il tasso di interesse rappresenta il prezzo da pagare per ottenere il risparmio necessario ai loro investimenti, e da ciò risulterà esserci una relazione inversa tra il tasso di interesse e la domanda di investimenti. Pertanto, il tasso di interesse con le sue variazioni, modificando domanda e offerta di risparmio, è sempre in grado di portare in equilibrio risparmio e investimento. Pertanto, nella teoria neoclassica il tasso di interesse è una grandezza reale che determina l’equilibrio tra offerta di risparmi e domanda di investimenti. Il modello neoclassico è una teoria di equilibrio competitivo come beni-salario, Π la quota di prodotto residuale che va ai profitti e rendite. La rendita è la remunerazione per l’utilizzo della terra, cioè il corrispettivo che percepisce il proprietario terriero nel dare in affitto la terra ai contadini o alle imprese agricole. Oltre che al fattore naturale della terra, si può anche legare il concetto di rendita a determinate posizioni che occupa il produttore nell’attività economica, come ad esempio la rendita monopolistica, legata al profitto che percepisce in più il produttore quando agisce in posizioni di monopolio. • Ricardo (1772-1823), introdusse il concetto di rendita differenziale, per cui le terre più fertili vengono prima messe a coltura, e per l’ipotesi di concorrenza perfetta tra imprenditori, lo stesso livello di profitto si deve ricavare su tutte le unità di lavoro, e questo ragionamento vale non solo per le attività agricole, ma per il sistema economico nel suo complesso, nell’ipotesi che il meccanismo concorrenziale produca saggi di profitto uniformi in tutta l’economia. Nel lungo periodo, la concorrenza tra capitalisti provocherà, secondo Ricardo, la messa in produzione di terre sempre meno fertili, con conseguente abbassamento del profitto marginale su tutto il sistema economico, ed un incremento della rendita, in quanto via via che vengono impiegate anche le terre meno fertili queste produrranno una quantità di prodotto inferiore a quella delle terre più fertili, e questo fa si che gli imprenditori che utilizzano terre meno fertili, per coprire i costi, saranno costretti a vendere sul mercato il prodotto agricolo ad un prezzo più elevato di quello prodotto dagli imprenditori delle terre più fertili, i quali approfittando di tale situazione, avendo costi inferiori, percepiranno una rendita differenziale che aumenterà via via che verranno messe a coltura terre sempre più meno fertili. In assenza di miglioramenti tecnologici, l’economia tenderebbe così verso uno stato stazionario con profitti sempre più bassi, e salari vincolati al livello di sussistenza. L’aumento della rendita differenziale può però essere rallentato, o evitato dal progresso tecnologico che consente di intensificare il raccolto su determinati terreni fertili, evitando di mettere a coltura terreni meno fertili. In relazione alla determinazione del salario dei lavoratori, economisti classici quali Smith, Ricardo accettano il funzionamento della ‘legge o principio della popolazione’ di Malthus, per la quale il prezzo d’uso del lavoro non avrebbe potuto discostarsi, nel lungo periodo, da costo di sussistenza, che come abbiamo visto, Ricardo intendeva i beni di consumo convenzionalmente necessari legati al grado di sviluppo del sistema. Nei periodi di espansione economica, aumentando la domanda di lavoro, aumentano anche i salari dei lavoratori, i quali, nei periodi di maggior benessere tenderanno a procreare un maggior numero di figli e quindi la popolazione aumenta, che porta quindi ad un aumento dell’offerta di lavoro e ad una conseguente diminuzione dei salari che ritornano intorno al livello di sussistenza. Nella versione di Marx (1813-1883), la teoria della sussistenza spiega le condizioni di offerta del lavoro non attraverso il meccanismo della legge malthusiana della popolazione, che Marx considerava “un oltraggio alla razza umana”, ma attraverso il principio del cosiddetto “esercito industriale di riserva”, che si veniva a creare con l’eccesso di offerta rispetto alla domanda di lavoro. Questo divario tra domanda e offerta di lavoro deriva dalla tendenza degli imprenditori a sostituire macchine a lavoratori, ogni qualvolta che il salario va oltre il livello di sussistenza, nonché dai periodi di crisi di sovrapproduzione che creano altra disoccupazione e dal progresso tecnico che è orientato in direzione di risparmio del lavoro. Per Marx, la suddivisione del sovrappiù tra salari e profitti dipende non solo dalla crescita della popolazione, ma anche dalle innovazioni tecniche, il tipo e il tasso alla quale crescono e dai rapporti di forza tra le classi sociali. E’ proprio l’esistenza di questa massa di disoccupati a spiegare perché il salario si mantenga al livello di semplice sussistenza senza possibilità di aumento in termini reali nel lungo periodo. Se esiste infatti un grande numero di persone disoccupate, i lavoratori occupati non hanno alcuna possibilità di poter ottenere incrementi salariali, per il timore di essere licenziati e sostituiti con lavoratori a più basso salario. • Tornando all’espressione 1), la spiegazione della distribuzione del reddito in termini di valore, e non solo in termini fisici, è introdotta da Ricardo con l’ipotesi che le merci si scambiano secondo la quantità di lavoro necessaria a produrle, pertanto è possibile esprimere il sovrappiù dell’espressione 6) in termini di valore, in quanto sia il prodotto sociale sia il consumo necessario possono essere misurati in termini delle quantità di lavoro occorse a produrre i due aggregati, ottenendo così il saggio di profitto • 7) • Nel cui computo entra solo il capitale circolante, consistente essenzialmente di salari, ritenendo che il capitale fisso non fosse un fattore che potesse influire sul saggio generale di profitto. Il merito di Ricardo pertanto, è stato quello di avere messo in luce la relazione inversa tra saggio salariale e saggio di profitto, in quanto come si può notare dalla 7), se aumenta il salario, e quindi il monte salari percepito da tutti i lavoratori, diminuisce il saggio di profitto. Marx continuò la sua analisi economica sulla stessa via che era stata aperta dalla teoria del valore di Ricardo, compiendo un passo avanti con l’introduzione della teoria dei prezzi di produzione, con la quale tentò di risolvere il problema della misurazione degli aggregati dell’equazione 7) in termini più generali di quelli per i quali le merci si scambiano secondo le quantità di lavoro necessario a produrle. Rispetto a Ricardo, introdusse nel calcolo del saggio di profitto il capitale fisso o capitale costante, per cui anche quest’ultimo influisce sul saggio di profitto e non solo il capitale variabile. Pertanto, se le merci si scambiano secondo le quantità di lavoro incorporato, il saggio di profitto è determinato da • Dove c e v sono le quantità di lavoro incorporate, rispettivamente, nel capitale costante e variabile (mezzi di produzione e salari), mentre s è il ‘plusvalore’ sociale, che equivale a P N− dell’equazione 7), e determinato dal “pluslavoro”, cioè dal lavoro in più oltre quello necessario alla riproduzione dei salari. Dividendo numeratore e denominatore per v , otteniamo • Dove s v rappresenta quello che Marx chiama il saggio di sfruttamento, da lui ritenuto costante nel tempo, che misura l’eccesso del plusvalore rispetto al valore della forza lavoro. Al denominatore il rapporto c v , detto composizione organica del capitale, tende come accennato ad aumentare a causa della concorrenza tra i capitalisti. Il saggio di profitto deve quindi diminuire nel tempo (legge della caduta tendenziale del saggio di profitto). Il punto debole principale di questa argomentazione sta nell’ipotesi di costanza del saggio di sfruttamento, da Marx non spiegata. Se essa viene meno, non è detto che il saggio di profitto debba per forza diminuire. Inoltre, come riconosciuto esplicitamente da Marx, vi sono forze di segno opposto che possono arrestare per periodi più o meno lunghi la caduta del saggio di profitto, come ad esempio il progresso tecnico, e per questo si deve parlare, secondo Marx, di caduta tendenziale. • Marx si rese conto che le merci non si scambiavano secondo le quantità di lavoro necessarie a produrle, cioè la teoria del valore-lavoro sarebbe valida solo nei due casi estremi (oltre al fatto che il saggio di plusvalore sia lo stesso in tutti i settori produttivi) in cui π =0, e c/v, la composizione organica del capitale, fosse la stessa in tutti i settori produttivi, per cui porterebbero entrambi allo stesso risultato che i prezzi eguagliano i valori, cioè la quantità di lavoro impiegata. Poiché secondo Marx, i capitalisti aggiungono ai costi di produzione una percentuale pari al saggio di profitto medio: • • Dove i n =1, 2,.... settori produttivi, si ha che • Cioè il prezzo di produzione eguaglia il valore li, che indica la quantità di lavoro occorsa per produrre il bene i-esimo. Al di fuori dei due casi estremi, la concorrenza tra i capitalisti avrebbe teso a distribuire i profitti in proporzione ai prezzi di produzione del capitale costante e variabile, e non in proporzione ai loro valori riferiti alla quantità di lavoro incorporata. Marx, pur intuendo tale errore, non tentò mai di correggerlo, cosa che fu fatta successivamente da altri autori (Bortkiewicz (1907), Sraffa (1960), Garegnani (1960)), applicando i prezzi di produzione sia al capitale costante che a quello variabile, in modo che il saggio di profitto uniforme del sistema è determinato simultaneamente al prezzo delle merci, cioè fu risolto il problema di Marx della trasformazione dei valori in prezzi. Ad esempio per due beni qualsiasi, acciaio e grano, dove l’acciaio è considerato il capitale costante, e il grano il capitale variabile, si avrà: • • Nel cui sistema è sufficiente dividere entrambe le equazioni per uno dei due prezzi (es. g p ) per avere una sola incognita, il prezzo relativo a dell’acciaio in termini di grano, e il saggio di profitto π dovrà essere determinato simultaneamente al prezzo relativo delle due merci. • La teoria neoclassica della distribuzione nota anche come teoria marginalista della distribuzione, studia come vengono determinate le remunerazioni dei vari fattori utilizzati nel processo produttivo. Questa teoria è stata elaborata da numerosi economisti, tra i quali abbiamo già citato Jevons, Walras, Edgeworth e Pareto alla fine del XIX secolo, fino ad Arrow, Samuelson, Solow, ai giorni nostri. • Rispetto alla teoria classica il marginalismo rivoluziona il concetto di valore: mentre per i classici e per Marx i beni sono dotati di un valore “oggettivo”, incorporato in essi e rappresentato dalla quantità di lavoro necessaria alla loro produzione, per i marginalisti il valore di un bene è un concetto “soggettivo”, e corrisponde al grado di utilità ricevuta da chi lo consuma. Per il pensiero marginalistico la suddivisione della società in classi è irrilevante: si riceve un reddito solo a seguito della fornitura di un fattore produttivo (terra, lavoro, capitale, attività imprenditoriale), non ha importanza a quale classe sociale si appartiene. • La proposta che emerge da tale analisi è la regola di distribuzione basata sulla produttività, ovvero ciascun fattore produttivo riceve una quota del prodotto commisurata al contributo che ha fornito per la sua creazione. Tale contributo produttivo del fattore, viene quantificato dai marginalisti nella sua produttività marginale. Pertanto, ne consegue che ciascun fattore produttivo viene retribuito in base alla sua produttività marginale. • Una delle ipotesi fondamentali del modello neoclassico prevede che tutti i mercati (dei beni e dei fattori) siano perfettamente concorrenziali, sia dal lato della domanda che da quello dell’offerta. Gli agenti sono quindi price-takers. Se, ad esempio, una singola impresa assume un lavoratore in più o impiega un macchinario in più, queste sue decisioni non avranno alcun effetto sul salario di equilibro del mercato del lavoro o sul prezzo di mercato del capitale. Allo stesso modo, se uno studente decide di entrare nel mercato del lavoro, questa sua decisione (che aumenta l’offerta complessiva di lavoro) non provoca una riduzione del salario di mercato. L’obiettivo di ogni impresa è la massimizzazione del profitto, dati i vincoli dei costi e della tecnologia prevalente, e quello di ogni individuo è la massimizzazione della propria utilità, dato un vincolo di bilancio. Quanto abbiamo visto per il lavoro vale per qualsiasi fattore della produzione, cosicché possiamo concludere che, per la teoria neoclassica, la remunerazione di ogni fattore è pari, in equilibrio, al valore della sua produttività marginale. Se, per semplificare, l’economia è caratterizzata dalla presenza di due fattori produttivi, lavoro (N) e capitale (K), se w è il saggio del salario e i il costo d’uso del capitale, o saggio di interesse, in equilibrio, come abbiamo visto, per ciascun fattore avremo: • ; E analogamente per il fattore capitale • • Le uguaglianze riportate a destra indicano che in equilibrio la produttività del lavoro è uguale al salario reale, cioè al salario espresso in termini dei beni e servizi che permette di acquistare (p è il prezzo unitario venduto sul mercato), e che la produttività marginale del capitale è uguale al saggio di interesse reale. L’applicazione di questa regola generale della produttività soddisfa sia il principio di efficienza, dato che risorse improduttive non possono prendere parte alla distribuzione del reddito, e il principio di equità, in quanto è legittimo dal punto di vista etico che ciascuno abbia in rapporto a quanto ha contribuito a produrre. Inoltre, lo studio della distribuzione funzionale del reddito marginalista coincide con lo studio dei mercati dei fattori, visto che è in questi mercati che si formano i prezzi dei fattori e risultano determinate le quantità degli stessi. Nella teoria marginalista il problema della distribuzione equivale a quello di analizzare una teoria della domanda e dell’offerta di fattori, simmetrica a quella della domanda e offerta dei beni. • Passiamo ora dalle remunerazioni dei singoli fattori alla suddivisione dell’intero reddito nazionale. Ovviamente il problema della distribuzione del reddito nel contesto marginalista può considerarsi risolto solo quando si potrà dimostrare che la somma delle quote che spettano ai fattori produttivi impiegati nella produzione, eguagli esattamente il reddito che hanno contribuito a produrre. Con una semplice applicazione del teorema di Eulero3 , è possibile affermare che se tutti i fattori vengono remunerati al valore della propria produttività marginale, e se l’economia è rappresentata da una funzione di produzione aggregata del tipo Y=F(K,N) con rendimenti costanti di scala, allora l’intero reddito nazionale è uguale alla somma dei redditi dei fattori: • • dove Y è il volume complessivo dell’output prodotto dal sistema economico e quindi, moltiplicando entrambi i lati per p avremo: • • Sostituendo le produttività marginali in valore con i rispettivi prezzi dei fattori abbiamo • • Non esiste dunque un problema distributivo dal momento che la distribuzione dei redditi viene automaticamente determinata dall’operare delle forze della domanda e dell’offerta. Ogni fattore produttivo riceve un compenso pari al valore del proprio prodotto marginale, e tutto l’output viene distribuito tra i fattori, in ragione delle diverse produttività marginali. Gli interessi dei diversi fattori non sono dunque conflittuali, poiché per comprendere la distribuzione del reddito non è rilevante il conflitto tra classi diverse, come nei classici e soprattutto in Marx, ma solo come i diversi fattori produttivi si suddividono tra gli agenti economici. In questo schema, il ruolo del profitto risulta nettamente ridimensionato: i redditi che tradizionalmente vengono fatti ricadere nella categoria del profitto sono assimilati in parte ai salari, in quanto compenso dell’attività imprenditoriale, ed in parte all’interesse. Il profitto eccedente il normale compenso per il lavoro di direzione viene ritenuto una rendita dovuta a situazioni di monopolio, necessariamente transitoria. La terra non merita più un trattamento privilegiato, e viene considerata come una componente dello stock di capitale. 3 Se la funzione f(x1, …, xn) = f(x) è omogenea di grado 1 nelle variabili indipendenti, allora f(x1, …, xn)=Σi (δf(x)/δxi)xi; ciò significa che il valore della funzione si può ottenere moltiplicando ciascuna variabile indipendente per la propria derivata parziale, e sommando questi addendi. Una funzione è omogenea di grado 1, o linearmente omogenea, se, moltiplicando tutte le variabili indipendenti per una costante λ, il valore della funzione risulta moltiplicato a sua volta per λ. Le variabili indipendenti e la variabile dipendente si muovono dunque nella stessa proporzione. • Contrariamente alla visione neoclassica, come si è visto durante il corso, Keynes rifiuta l’idea che il sistema economico tenda naturalmente ad un equilibrio di pieno impiego dei fattori. Il livello di attività economica non dipende dal volume dell’offerta (legge di Say), ma dalla domanda aggregata, in particolare dalle voci della domanda che non sono funzione del reddito disponibile, cioè gli investimenti e la spesa pubblica in beni e servizi. Attraverso il meccanismo del moltiplicatore, sono queste voci che determinano la domanda aggregata complessiva e quindi il livello di attività economica. Se una economia si trova in condizione di sotto-occupazione, non esiste alcun meccanismo automatico di aggiustamento al pieno impiego. Il tasso di interesse non riesce più a svolgere il ruolo di equilibratore della domanda e dell’offerta di moneta, perché è del tutto razionale che la gente possa preferire, in certe condizioni, la liquidità all’acquisto di titoli; l’economia si trova così in una “trappola della liquidità”. In questi casi è opportuno l’intervento dello Stato, che con un aumento della spesa pubblica dovrebbe compensare la mancata domanda privata. • Posto che la produzione si fissa ad un livello che può essere anche molto inferiore alla piena occupazione, come si determina la sua ripartizione tra i fattori? I salari sono determinati esogenamente dalla contrattazione tra sindacati e imprese; il potere negoziale dei sindacati varia col ciclo economico, ma una riduzione dei salari in recessione, a differenza di quanto ritenevano i marginalisti, avrebbe l’effetto di ridurre il livello di attività produttiva, a causa del calo della domanda aggregata. Una volta fissata in questo modo la quota del prodotto nazionale che va ai lavoratori, il volume dei profitti dipende dal livello della produzione totale, aumentando in espansione e riducendosi in recessione. Alcuni autori postkeynesiani, soprattutto Kalecki, hanno messo in evidenza il ruolo del grado di monopolio presente nell’economia: quanto esso è maggiore, tanto più elevata sarà la quota del prodotto che va a favore dei profitti. • Secondo Keynes, infine, la distribuzione del reddito influenza la domanda aggregata: se infatti la propensione al consumo decresce all’aumentare del reddito, una redistribuzione del reddito dai capitalisti ai lavoratori dipendenti, che hanno propensione al risparmio inferiore, provoca un aumento della domanda aggregata.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved