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Le maschere di Giovanni Giudici: un'analisi delle prime raccolte poetiche, Tesi di laurea di Teoria della Letteratura

L'elaborato analizza il ruolo della maschera nelle prime opere di Giudici, da "La vita in versi" a "La Bovary c'est moi", cercando di evidenziarne i diversi impieghi e significati nella poetica dell'autore.

Tipologia: Tesi di laurea

2019/2020

Caricato il 15/03/2024

giuliabertolucci
giuliabertolucci 🇮🇹

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Scarica Le maschere di Giovanni Giudici: un'analisi delle prime raccolte poetiche e più Tesi di laurea in PDF di Teoria della Letteratura solo su Docsity! Corso di Laurea Triennale in Lettere LE MASCHERE DI GIOVANNI GIUDICI: UN’ANALISI DELLE PRIME RACCOLTE POETICHE Relatore: Prof.ssa Laura Neri Tesi di Laurea di: Giulia Bertolucci Matr. 910182 Anno Accademico 2020-2021 1 INTRODUZIONE L’intento di questo lavoro è presentare il tema della maschera nella produzione di Giovanni Giudici ed esplorare le diverse sembianze e funzioni che esso assume nell’evolversi della sua poetica. Tra gli autori che si legano al motivo della maschera e all’uso di alter ego, è Giovanni Giudici a dare vita ad uno dei risultati più interessanti. La sua produzione segue un’evoluzione progressiva di scoperta di sé e del proprio modo di scrivere poesia. Le raccolte pubblicate da La vita in versi (1965) fino ai lavori della maturità, sono costellate di sosia dell’autore a volte tanto vicini alla figura reale del poeta da risultare difficilmente distinguibili nella loro natura di personaggi, altre volte, invece, presentati esplicitamente come maschere. Il primo e più rilevante doppio dell’autore si presenta già in La vita in versi, nei panni di un «uomo impiegatizio», personaggio chiaramente legato al periodo da impiegato all’Olivetti, azienda emblematica del recente miracolo economico. La necessità di costruirsi una maschera deriva dalla percezione della propria estraneità rispetto ai nuovi valori dell’Italia del boom economico, rappresentata per antonomasia da Milano, vera e propria capitale del progresso. Un dato comune alla genesi dei sosia di Giudici è la presenza costante del senso di colpa, dovuto all’impossibilità di rinunciare a una delle «due chiese»: il poeta si trova diviso tra un’infanzia vissuta nella fede cattolica (L’educazione cattolica, 1963), fondativa per il poeta, e un intenso impegno politico di ideologia comunista. Le ambiguità e le contraddizioni che popolano la vita dell’autore si traducono nei dubbi apparentemente futili riguardanti la vita privata, dalle continue riflessioni sul luogo in cui sarebbe meglio abitare, alla possibilità di tenere un animale domestico in appartamento a Milano. Giudici, dunque, non si limita a indossare una sola maschera, rappresentando un unico personaggio-poeta: la schiera dei suoi gusci è varia e arriva a dare voce anche a personaggi femminili (La Bovary c’est moi, 1968), oppure a figure appartenenti alla tradizione letteraria (Salutz, 1986). L’opera di Giovanni Giudici si dimostra innovativa nell’utilizzo del tema della maschera, topos ricorrente nella storia della letteratura: il travestimento e la creazione di alter ego sempre diversi sono sfruttati per facilitare il rapporto con il prossimo, spesso 2 rappresentato da figure ostili e giudicanti, e con una società nemica della libertà individuale. La maschera diventa necessità e unico mezzo per tentare di mantenere in vita la propria visione critica, in un sistema in cui gli intellettuali svolgono un ruolo sempre più marginale. I travestimenti dell’io lirico nella poetica di Giovanni Giudici sono molteplici e sempre sul punto di cambiare, in modo da adattarsi alla realtà esterna, anch’essa in rapido e costante mutamento. 3 CAPITOLO I – Lo sdoppiamento dell’io Nel suo percorso poetico, Giovanni Giudici non si presenta mai come sé stesso: uno dei temi cardine della sua scrittura è, infatti, l’ambiguità che permea ogni aspetto della vita. Nella sua opera, la condizione di alienazione1 dell’io nella società moderna si oggettiva nel continuo cambio di aspetto dell’io lirico; con il mutare dell’io-personaggio, però, cambia anche la prospettiva sul mondo esterno e il rapporto con l’altro. Comune a tutta la poesia di Giudici è la creazione di doppi dell’io lirico, sempre nuovi e diversi, talvolta così simili all’autore da risultare quasi indistinguibili (come in La vita in versi e Autobiologia), altre volte così distanti da sembrare puro gioco interpretativo, un semplice personaggio (La Bovary c’est moi, Salutz). L’io poetante è alla costante ricerca di un nuovo travestimento, che gli permetta di tenere nascosta, e così salvaguardare, la propria realtà individuale. La società moderna impone una regolarizzazione, una sottomissione che riconduca tutti alla norma e alle regole del progresso; in un mondo simile, un intellettuale difficilmente riesce a inserirsi nel tessuto sociale rimanendo fedele ai propri ideali. Questa consapevolezza di estraneità al proprio contesto di vita emerge anche nel carteggio con Fortini, amico e collega impiegato all’Olivetti, con cui discute della necessità di arrendersi ad un doppio gioco, tra apparente accettazione della società alienante e verità individuale. Giudici esplicita più volte questa scissione tra due tensioni opposte e in reciproca contraddizione: da una parte un desiderio di regolarità, di tranquillità economica e sociale, che nasce probabilmente dalla traumatica esperienza giovanile di figlio di un debitore; dall’altra l’impegno politico, l’alterità rispetto al mondo impiegatizio, la necessità di fare poesia e di rimanere fedele ai propri valori. Non per vivere, ma per sopravvivere, credo di aver speso una somma esorbitante di energie […]: un pezzo del mio cuore era sempre nel campo avverso, dalla parte del nemico. Non credo al taglio netto dei sentimenti: è un’impostura, maschera non di rado un sordido egoismo2. 1 In Comunità, 1960, No. 84, Giudici parla di “alienazione” secondo l’interpretazione di André Gorz in La morale della storia, poi Sul fronte dell’alienazione, in La letteratura verso Hiroshima, Editori riuniti, Roma, 1976, p.139 2 Giovanni Giudici, Non sono un’anima nobile, in Andare in Cina a piedi, a cura di Laura Neri, Milano, Ledizioni, 2018, pp. 61-62 6 bastano due mesi per scoprirlo banale. Il personaggio si trova inserito in un meccanismo ciclico che non presenta reali vie d’uscita, in cui il cambiamento è solo apparente: i nuovi volti e le nuove strade diventeranno presto familiari, e i nuovi padroni non sono diversi da quelli della ditta precedente. L’ironia di Giudici emerge negli ultimi versi: l’io poetico, vincolato a una routine del tutto identica alla precedente, viene visto dai colleghi come nuovo, quando la novità, tanto desiderata, non è mai realmente esistita. Persino la comunicazione del cambiamento, paradossalmente, si fa routine, in una serie di lettere identiche spedite per informare i conoscenti. Eppure, l’io lirico (e lo stesso Giudici) mal sopporta la condizione in cui vive, ma in certa misura decide di acconsentire a un meccanismo sociale necessario, l’unico che può procurargli stabilità e rispettabilità immediate. Sembra, insomma, arrendersi alla norma sociale, e accettare la propria condizione alienata. Allo stesso tempo, l’autore non può accettare di sottrarsi all’impegno politico e intellettuale, non può rinunciare al suo dovere sociale di poeta: la rassegnazione è, in realtà, sempre simulata. L’ossequio è sempre incrinato dal bisogno di ribellione, dal desiderio di riscattare la propria libertà individuale. La consapevolezza dell’inevitabilità della propria condizione lo spinge ad adeguarsi con atteggiamento remissivo, ma la creazione di un personaggio consente all’io di creare uno spazio autonomo di movimento, un guscio in cui mantenere viva la propria individualità. Secondo l’analisi di Maurizio Cucchi, la maschera altro non è che «il fare di sé stesso un personaggio vivo entro una commedia che è l’autentica dimensione, l’unica dimensione possibile concessagli»8. Come il tempo libero è l’unico momento consentito alla scrittura, così l’individuo è costretto a ritagliarsi un luogo segreto in cui potersi rifugiare per resistere a un mondo che vuole regolarizzarlo ad ogni costo. Un’altra caratteristica del linguaggio poetico di Giudici collabora alla sopravvivenza dell’individualità in ambiente avverso: l’autoironia, o meglio, l’ironia con cui è trattato il Giudici-personaggio, che consente di esorcizzare, attraverso il travestimento, una realtà altrimenti troppo opprimente. In questo senso va letto «il gioco di tono che altro non è se non l’unica chance di sopravvivenza, […] l’accettazione implicita e inevitabile, ma critica»9. 8 Maurizio Cucchi, Giovanni Giudici, in «Belfagor», 30 settembre 1976, Vol. XXXI, No. 5, p. 544 9 Ivi p. 545 7 Il raggiungimento di uno status sociale ed economico privilegiato, apparentemente tanto desiderato, viene di continuo incrinato dal sotterraneo senso d’insoddisfazione per le limitazioni che il benessere impone. La tensione alla rottura con la condizione imposta emerge, spesso esplicitamente, nelle poesie dell’autore: ne è un esempio Mimesi, che offre la confessione del proprio travestimento e della sua voluta malleabilità. In questo componimento l’io lirico assume le sembianze e i tratti, quasi caricaturali, del proprio interlocutore, adattandosi e mutando volto a seconda della contingenza. La vena comica, o forse sarebbe meglio dire umoristica, in senso pirandelliano, emerge sempre più spesso nelle raccolte successive a La vita in versi, con toni ironici e situazioni paradossali, oscillazioni di registro e giochi linguistici. L’io poetante, inoltre, non si limita ad interpretare un solo ruolo, ma assume volti sempre diversi, tanto più distanti dall’identità reale dell’autore quanto più forte è la sua intenzione di oggettività. La Bovary c’est moi rappresenta una delle sequenze più significative della produzione di Giudici; in questa raccolta, sceglie di allontanarsi drasticamente dalla sua maschera abituale. Se, infatti, l’impiegato piccolo-borghese può a tratti sovrapporsi all’immagine reale dell’io lirico e rendere estremamente sbiaditi i confini tra realtà e finzione, ciò non può di certo succedere con un io-personaggio come quello femminile del suddetto gruppo di liriche. Il sottotitolo della raccolta è Poesie per una voce, e consiste in un’autoriflessione, un monologo interiore interamente costruito su dubbio, illusione e assoluta indeterminatezza. Ad un primo sguardo la maschera non potrebbe sembrare più distante dall’autore, ma questa scelta, a prima vista immotivata, potrebbe rivelare proprio l’entità del bisogno esistenziale di travestirsi, di mostrarsi sempre come altro da sé. Similmente, l’io lirico di Salutz si allontana in misura ulteriore nel tempo e nello spazio, interpretando un cantore-cavaliere ispirato alla poesia provenzale e al Minnesang germanico, riletti in chiave ironica. Di quest’ultimo personaggio sarà Giudici stesso a fornire le ragioni e l’interpretazione più corretta; l’opera ha, infatti, poco a che vedere con uno studio programmatico della tradizione trobadorica: la semplice verità è che ebbi allora, nello scriverlo, bisogno di un travestimento che mi aiutasse ad aggirare l’inibizione connessa ad esperienze dolorose. Senza 8 premeditazione alcuna e per puro istinto, mi trovai avvolto in quegli esibiti e illusori panni di scena10. La maschera, dunque, nella poesia di Giudici, non ha sempre la stessa funzione, non è meramente un modo per sopravvivere nel mondo: può essere, anche, rappresentazione tangibile di una determinata realtà, un guscio attraverso il quale affrontare la colpa e le proprie contraddizioni, può servire persino a oggettivarsi in qualcosa di altro, un personaggio estraneo che può essere sottoposto allo sguardo ironico e distaccato dell’autore. Certamente, nella necessità della drammatizzazione di sé, si può intravedere la preoccupazione costante di essere irrimediabilmente fuori posto. Non bisogna dimenticare il contesto in cui nasce la poesia di Giudici, ovvero un mondo in cui l’intellettuale ha perso il suo ruolo guida nella società: nella contemporaneità dell’autore i poeti sono impiegati come copywriter nelle neonate aziende simili all’Olivetti; si occupano di editoria, sono responsabili dei progetti culturali delle grandi industrie. Accanto alla vocazione poetica, che non può essere ignorata, le parole di Giudici esprimono tutti i dubbi da affrontare nel perseguire una carriera artistica: nella sua poesia emergono le inquietudini della sua scelta di vita, «con la coscienza dell’essere “diverso” dagli altri e con quell’opposto voler essere come gli altri che oggi chiamano desiderio d’appartenenza»11. Questa molteplicità di volti, immagini e doppi, con ragioni d’essere che possono variare e sovrapporsi, si dispiega lungo l’arco della produzione poetica di Giudici, tanto da apparire, agli occhi del lettore, come una rappresentazione della complessità della vita moderna. 10 Giovanni Giudici, Bricoler, Bricoleur, Bricolage, in Andare in Cina a piedi, a cura di Laura Neri, 2018, Ledizioni, Milano, p. 28 11 Giovanni Giudici, «Il terrazzo ove leggevo Verne», in Andare in Cina a piedi, 2018, Ledizioni, Milano, p. 101 11 Non bisogna dimenticare, poi, che Giovanni Giudici è uno degli ultimi rappresentanti della letteratura engagée in Italia, come emerge ripetutamente dal carteggio con Fortini negli anni dell’impiego all’Olivetti. Nessuno dei due potrebbe mai rinunciare al ruolo sociale del poeta: la poesia e la letteratura, per Giudici, sono rappresentazione della libertà di pensiero e del desiderio imperituro di individualità, contro l’avanzare dell’alienazione della vita cittadina contemporanea e il peso delle «impiegatizie frustrazioni». Questa spinta alla ribellione, anche solo privata, continua ad essere alimentata nonostante la consapevolezza dell’inevitabilità del compromesso con il meccanismo industriale. Allo stesso tempo, la rassegnazione allo stato delle cose viene evitata attraverso l’esercizio, prima di tutto privato e poi anche pubblico, della letteratura. La poesia stessa si fa guscio, in qualche modo protegge l’autore dal pericolo di confondersi nel grigiore della realtà industriale. Ma Giudici sceglie consapevolmente di far parte del mondo industriale, accettando una vita mediocre e ripetitiva, consapevole di non avere il potere di cambiare lo stato delle cose, ma contemporaneamente sviluppa un desiderio crescente di fuga, di ribellione alla routine impiegatizia. La necessità economica, quindi, combinata alla tentazione degli agi della vita cittadina, stabile e tranquilla, è alla radice della scelta di apparente resa all’alienazione, che viene pagata dall’autore con un opprimente senso di colpa. Quando parla «dal cuore del miracolo», il Giudici-personaggio ha ottenuto i benefici della stessa società capitalistica che sente il bisogno di criticare per la sua illusorietà alienante, ma allo stesso tempo, in una certa misura, accetta la nuova forma di società. È proprio questa la contraddizione fondante del personaggio di La vita in versi: la quasi obbligata resa a una condizione estranea ai propri valori, cui si è spinti da una sorta d’istinto di sopravvivenza, che, però, non rinuncia ad una strenua ribellione individuale. L’irrinunciabile desiderio di libertà intellettuale spinge Giudici al travestimento, all’apparire compiacente nei confronti della società industriale, per poter mantenere un barlume di libertà nel proprio intimo spazio privato. Proprio nel privato, infatti, Giudici si concede di uscire allo scoperto: le poche ore di tempo libero serali sono le uniche rimaste da dedicare alla scrittura, antidoto ultimo all’alienazione. La sfera privata costituisce il guscio dell’individuo, lo spazio di movimento sottratto allo sguardo esterno, giudicante, della contemporaneità. Come egli stesso dichiara: 12 Sopravvivere era per me trovare uno spazio, e dentro questo spazio vivere tra parentesi: parentesi tonde e poi, se necessario, anche parentesi quadre, parentesi a graffa, parentesi delle parentesi, all’infinito14. Sopravvivere nel mondo in cui si trova a vivere, per l’io lirico, significa cercare di costruirsi un guscio, una difesa e un nascondiglio che gli permetta di non omologarsi fino in fondo. All’esterno, l’io lirico sceglie di indossare una maschera, simile a quella di tutti gli altri, ma nel privato continua a mostrare la sua vera natura15, sperando di poter mantenere in vita un’alternativa accettabile. Talvolta, nelle prime due raccolte, il registro si allontana da quello meramente descrittivo, creando una discrepanza e un distacco tra i punti di vista dell’io poetante e del personaggio. La visione messa in scena dall’io lirico spesso si contraddice, si scontra con sé stessa, facendo emergere con evidenza la natura fittizia del personaggio che sta interpretando16. La tentazione a riconoscere nella maschera l’identità reale dell’autore si deve al fatto che Giudici ha, in effetti, prestato alla sua controfigura poetica il proprio bagaglio biografico, e con esso anche le proprie angosce quotidiane. La funzione di questo «uomo impiegatizio» è di permettere all’autore di esplicitare la propria avversione per la società capitalistica in cui si trova a vivere, pur restando nascosto al pubblico sguardo nella sua ricerca di appartenenza, di normalità e di stabilità, ottenute con un’apparente adesione al meccanismo17. Non giudica mai la società dall’alto, decide di immergersi in essa, di viverla, mantenendo costante uno sguardo critico nei confronti delle deformazioni strutturali che la rendono problematica. Giudici, nella rappresentazione del sé-personaggio, non censura i tratti per cui prova vergogna, al contrario, li evidenzia e li mette al centro della sua narrazione, prendendone atto in una sorta di distanziamento autoironico. L’ironia, nella poesia di Giudici, si impone secondo diverse tipologie: si possono distinguere, per esempio, due bersagli 14 G. Giudici, Non sono un’anima nobile, in Andare in Cina a piedi, a cura di Laura Neri, 2018, Ledizioni, Milano, pp. 62-3 15 Giovanni Giudici, La querelle e altro, in Questo e altro, 1963, poi La teologia è piccola e brutta, in La letteratura verso Hiroshima, pp.184-5 16 D. Frasca, Vite ordinarie. Giudici e il Crepuscolarismo, in Atti del convegno di Incontrotesto, Siena, 2011 17 S. Giorgino, Un colletto bianco all’“Inferno”: la poesia di Giudici e le utopie dell’“Ingegner Adriano”, in Annali d’Italianistica, 2014, Vol. XXXII, da “Otium” and “Occupatio” to work and labor in Italian culture (2014), pp.255-273 13 principali, ovvero l’io poetante o la società contemporanea nel suo complesso18. Le discrepanze alla base del processo ironico, tra Giudici reale e Giudici-personaggio, si intensificano drasticamente in Autobiologia. Un facile esempio di questa estraneità dichiarata è il deciso cambio di tono in Della vita in versi19: Ma cosa vuole con questi lamenti questo qui – le solite la vita in versi raccontando cose che rincasando avendo egli una casa ovvero uscendo questa avendo una porta sulla strada che porta dove una strada può portare purché la strada non sia morta o quella volta quando hic et nunci ibi et tunc sempre a qualcuno dichiarando obiettando specificando rompendo i cordoni santissimi apostrofando – ma cosa vuole questo con questi la prego riassuma ho da fare concluda mi mandi un appunto a te questo rosario che le preghiere aduna ma poi ch’io fui al piè d’un colle giunto La poesia è significativamente posta in apertura di Autobiologia: l’autore guarda l’io- personaggio delineato nella raccolta precedente, prendendone le distanze, iniziando il componimento e l’intera raccolta con una forte avversativa. Affronta il proprio travestimento, deridendone i modi e creando una lingua artefatta, ricca di figure etimologiche e di suono, accostate al linguaggio asettico della burocrazia e persino ad una citazione dantesca. Il lessico spazia dal puro tono colloquiale, privo di punteggiatura e ricco di iterazioni, all’inserimento di espressioni latine, semplici ma utili a disorientare il lettore. L’assenza di pause sintattiche ricorda, inoltre, le modalità dello stream of consciousness, adottate da Giudici anche altrove. Questi elementi, uniti agli artifici metrici (rima interna ed equivoca porta/porta) concorrono alla derisione dell’io poetante della produzione precedente, al distanziamento drastico da un personaggio immobilizzato dalle sue contraddizioni. Il linguaggio burocratico, lo sguardo straniato e straniante, la parodia di sé, infatti, sono gli elementi fondanti di Autobiologia e in parte anche delle raccolte più tarde. Giudici, in un certo senso, ha bisogno di una maschera per sopravvivere 18 G. Nava, L’ironia di Giudici, in Atti della Giornata di studi su Giovanni Giudici. I versi e la vita, Accademia Lunigianese di scienze “Giovanni Capellini”, 11-13 settembre 2013, La Spezia, p. 28 19 in Autobiologia, in Giovanni Giudici. Tutte le poesie, p. 132-133 16 C’è il rischio. Ma dipende dal tempo. Dipende da come t’interrompono la scena. Con tante luci e nemmeno un buco Da scappare, capisci anche tu che uno… Il componimento è costruito, evidentemente, sulla metafora del palcoscenico: la scenografia e il linguaggio sono quelli del teatro, o meglio, della commedia. Il pericolo del gioco dei travestimenti è reale, e può avere due volti diversi: da una parte il rischio è di tradirsi davanti a un testimone, di lasciar intravedere la verità dietro la maschera e perciò perdere la propria difesa, il proprio spazio di libertà; dall’altra è possibile cedere, anche involontariamente, alle lusinghe (con tante luci e nemmeno un buco) della società da cui ci si sta nascondendo. C’è il rischio, insomma, di assuefarsi, con il passare del tempo, a una condizione opprimente ma, tuttavia, comoda e rassicurante. Un altro attacco allo stato delle cose prende forma dall’uso del linguaggio prosaico della vita quotidiana: l’ironia critica il «civico decoro» tanto ricercato nella società contemporanea, e persino dallo stesso autore. Le preoccupazioni per la casa, per il lavoro e per le piccole cose di tutti i giorni vengono esaminate e parodiate, sulla pagina, nella loro reale futilità, sottolineata anche dal contrasto con il mezzo poetico, tradizionalmente dedicato a nobili argomenti. Giudici mette in scena il ridicolo della società industriale, l’ipocrisia del boom, di un progresso economico che crea inevitabilmente delle zone di inferiorità sociale, su cui poi opera il suo fascino, da cui trae la sua legittimazione22. Creando l’illusione di un riscatto imminente, la società contemporanea spinge gli individui a seguire le regole dell’azienda e, così, a sostenere e rafforzare il meccanismo stesso. L’autore, perciò, legato ai valori del partito socialista, non può sostenere una struttura evidentemente piramidale, destinata a creare una rigida gerarchia fondata sul potere economico di pochi, ma si vede costretto ad accettare la realtà con un sentimento di impotenza e di colpa, che però convive sempre con la volontà di resistere all’alienazione. È proprio la natura di uomo in continua contraddizione a distinguere la poetica di Giovanni Giudici: l’ambiguità delle sue maschere oscilla ossessivamente tra realtà quasi inconciliabili, come possono essere, ad esempio, l’educazione cattolica e l’adesione al partito socialista. «Tra le sponde/ straniere vado e vengo, portatore/ delle parole d’ordine; 22 M. Cucchi, Giovanni Giudici, in «Belfagor», Vol. XXXI, No. 5, p.546 17 trattengo/ fra due maschere avverse un volto solo»23, così, l’autore, per non rinunciare a nessuna delle «due chiese», sceglie di restare in qualche modo fedele ad entrambe, ma allo stesso tempo è tormentato dalla colpa, perché «c’è più onore in tradire che in esser fedeli a metà»24. A volte la maschera sembra addirittura sfuggire al controllo del proprio creatore che, «a forza di espedienti e vie traverse e parentesi, si viene a trovare in un culdisacco»25. Altre volte, al contrario, il distacco dell’io reale dal proprio personaggio si irrobustisce e il travestimento si fa oggetto di una pungente ironia: l’autoderisione e il compatimento di sé, secondo Giuseppe Nava, emerge con più vivacità quando è messa in primo piano la coscienza e la sua costante indecisione tra l’accettazione della situazione reale e il suo ostinato rifiuto26. La maschera dell’uomo impiegatizio, quindi, esprime l’insofferenza dell’individuo, a maggior ragione se si parla di un intellettuale, nei confronti della società cittadina del miracolo economico, forzato ad adeguarsi ad un sistema in cui non si riconosce per spirito di sopravvivenza, senza liberarsi mai del senso di colpa per tale condizione. Al tempo stesso si sottolinea il grigiore di una vita percepita come sempre identica a sé stessa e a quella di tanti altri impiegati. La patina di comicità di alcuni componimenti si rivela, ad uno sguardo più attento, nella sua natura umoristica27: l’apparente scopo parodico svela tutte le contraddizioni individuali e collettive di una società ancora in fase di sviluppo, e un profondo senso di inevitabilità della resa ad un meccanismo opprimente e innaturale. 23 G. Giudici, L’intelligenza col nemico, in La vita in versi, Giovanni Giudici. Tutte le poesie, p. 9 24 G. Giudici, Una sera come tante, in La vita in versi, Giovanni Giudici. Tutte le poesie p. 60 25 G. Giudici, Non sono un’anima nobile, in Andare in Cina a piedi. In una poesia intitolata Culdisacco, inoltre, si legge: «Uno in una certa situazione irresolvibile/ Può risolverla col sopprimere sé stesso/ Oppure sopprimendo la situazione. / Altre vie d’uscita non si danno. / Vero è che la situazione più precaria/ Ha sempre un margine di sopportabilità/ E finché ne resta al di qua/ Si definisce situazione agibile». Per Giudici, quindi un “culdisacco” non è mai realmente tale, se si tiene conto della straordinaria capacità di resistere in condizioni avverse propria dell’io. 26 Cfr. G. Nava, L’ironia di Giudici, in Atti della Giornata di studi «Giovanni Giudici. I versi e la vita», Accademia Lunigianese di scienze “Giovanni Capellini”, p. 28 27 L’aggettivo è sempre inteso in senso pirandelliano. 18 CAPITOLO III – Una maschera femminile Il ciclo di sei componimenti di La Bovary c’est moi è compreso nella raccolta intitolata Autobiologia, ma se ne discosta per le tematiche affrontate e per la scelta del punto di vista: la prospettiva è, infatti, drasticamente diversa da quella dell’uomo impiegatizio, maschera abituale delle prime due raccolte. L’io lirico adottato da Giudici, in questo caso, è un io femminile, difficilmente sovrapponibile all’io biografico dell’autore. Il tema centrale è quello della storia d’amore, complessa e conflittuale, tra l’io narrante e un tu maschile e assente. Il personaggio messo in scena nella raccolta non è l’unico io femminile adottato da Giudici, che dà vita a numerose figure di questo genere, a volte nel ruolo di io lirico, come una delle due voci di Persona femminile28, in altri casi, invece, compaiono come veri e propri personaggi e comparse del mondo quotidiano raccontato dal poeta. Un aspetto insolito della modalità enunciativa adottata nel ciclo della Bovary è la natura incerta del discorso pronunciato dalla protagonista. L’assenza di un destinatario reale, o meglio, la messa in dubbio dell’esistenza stessa di un interlocutore, fanno sì che il discorso dell’io lirico sia di difficile definizione: non si può parlare di un vero dialogo, mancando un effettivo interlocutore; allo stesso tempo, però, le modalità non corrispondono nemmeno a quelle del soliloquio, in quanto il personaggio femminile è, nella maggior parte dei casi, fermamente convinto dell’esistenza di un tu. Si può pensare, con una certa dose di approssimazione, a un monologo o a un dialogo in absentia, in cui, però, il parlante non è consapevole della propria solitudine. La raccolta consiste, quindi, in un discorso continuo che a tratti prende le forme dello stream of consciousness, ricreando una claustrofobica atmosfera di incomunicabilità e smarrimento, in cui l’io narrante perde tutte le sue certezze. La soggettivizzazione totale del discorso, inoltre, porta alla cancellazione dell’io autoriale, che lascia spazio alla sola voce della protagonista29. Si viene così a creare un netto distacco tra l’identità del poeta, eliminata quasi totalmente dalla scena, e l’identità artificiale del personaggio, unico tramite tra il lettore e la finzione poetica. La fisionomia della maschera adottata consente all’io reale di nascondersi completamente, in una sorta di distanziamento drastico 28 Compresa a sua volta in Il ristorante dei morti 29 Débat e psicomachia: per una rilettura di «La Bovary c’est moi», di Maria Rosa Giacon, in Atti della giornata di studi in onore di Giovanni Giudici «Giovanni Giudici. I versi e la vita», 21 all’inizio, vero ed esistente, sembra a tratti sparire, rendendo dubbio uno dei pochi riferimenti concreti alla realtà. Ma è soprattutto la voce del tu, cui si rivolge la protagonista, il punto focale attorno a cui si costruisce l’alternanza tra illusione e realtà. Gli posso far pensare ogni pensiero che voglio: lei pensa che io penso – mi penserà. Pensami nella mia camera ingombra del mio niente. Pensami nel mio niente carico di tutto. Di me diranno che ho visioni che sono magra. Di me diranno abbia cura della salute. Ma tace il bambino vero se resto in ascolto. Tace se resto in ascolto il tic-tac dell’orologio. Mi ha detto non avere paura non è quello il tempo vero Non guardare non toccare le vene sulle tue mani. In questi ultimi versi, invece, lo sguardo si sposta dall’ambito della parola a quello della mente, come sottolineato dall’insistenza sulla sfera semantica del pensiero. Oltre alla contrapposizione tra tutto e niente, la strofa crea anche una confusa opposizione tra il silenzio e il suono, come il vagito del bambino o il rumore delle lancette di un orologio. La sensazione di immobilità e l’ossessività dei pensieri del personaggio, immobilizzato all’interno della sua stessa mente, sono enfatizzati dalla frammentazione del discorso, grazie alle frasi brevi le cui pause sintattiche coincidono con la fine del verso. La protagonista sembra non arrivare mai ad una efficace distinzione tra illusione e realtà, persino gli elementi che prima sembravano tangibili, ad uno sguardo più attento sembrano sparire. Allo stesso tempo, l’io lirico sembra pienamente cosciente dei pareri della gente sul proprio conto, percepiti come giudicanti del suo perenne stato di attesa. In questo contesto di totale smarrimento, di perdita di contatto con la realtà, persino lo scorrere del tempo sembra perdere significato, diventando illusione e convincendo l’io che non è quello il tempo vero. Il linguaggio utilizzato dall’autore, inoltre, crea un’atmosfera eterea e dai contorni sbiaditi, anche grazie alla consapevole assenza di precisi riferimenti spaziali o temporali: sono presenti alcuni deittici, ma il loro utilizzo, in un contesto privo di concretezza, sembra solo amplificare il disorientamento dell’io lirico, in un’oscillazione continua tra realtà e mondo illusorio. 22 Giudici parla dell’ispirazione alla base dell’insolito personaggio di La Bovary c’est moi in Poetica volontaria e poetica involontaria32, ricollegando la creazione della propria maschera femminile a un tentativo di immaginare La Sorcière33 di Jules Michelet in un contesto moderno e più familiare. L’autore, inizialmente, si accorge di non riuscire a ottenere il risultato sperato: la poeticità dell’argomento non basta a creare poesia. Solo l’intersezione dell’oggetto poetico con l’elemento biografico del sentimento tormentato consentì a Giudici di giungere al ciclo di La Bovary c’est moi. V Dico che arriverai da un lungo treno del mattino. e devo voltarmi ad ogni socchiudersi di porta se non sia tu – o trasalire allo squillo uguale a ogni altro se mai non fosse la tua voce dall’altro capo a parlare, immaginarmi rispondendo nel tenore convenuto che a tutti indifferenza significhi e a te invece: dove sei, mio amore, mio benvenuto? Quale dei lunghi treni ti porterà? Quale dei lunghi treni ti avrà portato?34 Il quinto componimento della serie si concentra sul tema della speranza e dell’attesa, in questo caso per l’arrivo dell’amato: l’io lirico non riesce a sopportare il tempo che la separa dall’arrivo del tu e spera che ogni rumore o movimento indichi la fine della sua sofferenza. L’intera poesia è costruita sul presupposto dell’arrivo, ormai prossimo e inevitabile, dell’uomo: l’evento stesso viene proiettato nella realtà prima ancora che avvenga, come mostrano le domande a fine strofa, che prevedono una risposta certa ma, allo stesso tempo, ancora irrealizzata. Al tono interrogativo degli ultimi versi, poi, si ricollega anche il dubbio alla base della raccolta: la protagonista sente il bisogno di risposte per convincersi della realtà del suo interlocutore. […] Brevi minuti ancora mi restano per supporre il tempo che tu raggiunga la strada della mia casa e un suono di citofono a questi miei inferi emerga 32 La dama non cercata, di G. Giudici, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1985, pp. 16-17 33 pubblicato nel 1862 34 V, in La Bovary c’est moi, in Autobiologia, in Giovanni Giudici. Tutte le poesie, p. 193 23 definitivo come un lieto annuncio di morte Ti scambieranno per uno come un altro – ho scherzato. Arriverai domani se oggi non sei arrivato. La fine dell’attesa, contrariamente a quello che ci si aspetterebbe, coincide, nella poesia, con un “lieto annuncio di morte”: viene quasi preannunciato l’esito inevitabile della vicenda, con l’invocazione della morte per amore da parte dell’io femminile. La sententia finale ribadisce, in una chiusa lapidaria, la ferma convinzione dell’arrivo dell’amato, e, dunque, della reale esistenza di quest’ultimo. La struttura complessiva del ciclo di La Bovary c’est moi non dà origine a una narrazione progressiva che porti dall’illusione alla comprensione della verità: non si tratta di una bildung lineare, ma, al contrario, un continuo cadere e riemergere dalla finzione immaginativa, senza un preciso ordine consequenziale. Persino nel componimento conclusivo, alla fine del ciclo poetico, l’io lirico non è ancora riuscito ad accettare totalmente la realtà: da una parte appare consapevole dell’autoinganno subito, ma, allo stesso tempo, non sembra riuscire ad abbandonare del tutto l’illusione confortante di un futuro ricongiungimento con il tu maschile immaginario. VI La cosa che affastello per molte notti nel sonno che s’interrompe frequentemente e più nel dormiveglia dell’alba fastidiosa che domani è oggi e porta una nuova cosa. Eppure la certezza è che tu non sei presente nell’attimo a noi ben noto – il NO di altra cosa che altro non può aggiungersi: la verità del dubbio che tu sia niente pensiero della mia mente ma veri i giorni gli anni che per sempre non ti avrò.35 La prima strofa si apre con il topos delle notti insonni causate dall’amore infelice, il quale dipinge la donna angosciata al punto da non trovare pace nemmeno nel sonno. In questo caso, l’alba viene vista come emblema di un nuovo inizio, una speranza di novità, ma allo stesso tempo è fastidiosa, poiché le attese dell’io lirico saranno nuovamente disilluse. I primi quattro versi del componimento si susseguono senza pause sintattiche, in una 35 IV, in La Bovary c’est moi, in Autobiologia, in Giovanni Giudici. Tutte le poesie, p. 194 26 CAPITOLO IV – La lingua poetica Il titolo di O beatrice (1972), evidente riferimento di matrice dantesca, pone in primo piano il tu, la beatrice, appunto, cui sono rivolte alcune tra le poesie di questa raccolta. La lingua poetica, e il suo ruolo nel processo creativo, è un tema comune a tutta la produzione dell’autore, ma in alcuni componimenti di O beatrice si fa centrale, fino ad assumere la posizione di vero e proprio interlocutore dell’io lirico. Nella sua produzione saggistica, l’autore ha più volte posto l’accento sulla necessità di una poesia semplice, di cui anche il destinatario più distratto possa cogliere il significato più profondo. Il concetto di semplicità, per Giudici, è strettamente connesso al desiderio di verità: il lavoro del poeta si muove in direzione di una coincidenza tra poesia e vita, verso l’espressione del vero. «Credo […] che il messaggio più efficace debba essere quello che il più distratto destinatario riceverà come improvviso richiamo ad una sua banale dimenticanza»38, vale a dire che la verità del messaggio poetico deve essere così istintivamente comprensibile da sembrare già conosciuta, ovvia e inattaccabile. La volontà di comunicare ad un pubblico che sia il più ampio possibile riflette la tensione della ricerca di una poesia democratica, lontana dall’artificiosità e dall’ elitarismo di una classe culturale sempre più autoriferita39. Come sottolinea anche Luigi Surdich nella sua analisi40, la natura stessa del linguaggio poetico, nella sua autonomia dalla volontà dell’autore, deve portare la comunicazione del messaggio sul piano della comprensione istintuale. In diverse occasioni, infatti, Giovanni Giudici ribadisce l’importanza di concedere alla parola una certa autonomia: Il testo, ho suggerito, è un oggetto. Ma non è un oggetto inerte e statico: ha una sua propria dinamica, è […] un oggetto-soggetto. Fin quando sia in corso la sua elaborazione, le sue diverse componenti continuano a muoversi in direzione di un 38 G. Giudici, Costruendo messaggi, in La dama non cercata, p. 141 39 In Ha ancora senso la poesia? l’autore parla del sospetto di «esercitare un’arte che non serva più quasi a nessuno, se non alla limitata schiera di coloro che si trovino o aspirino ad esercitarla […]. I poeti scrivono per i poeti o per i critici e questi per altri critici e altri poeti.», in Per forza e per amore, Garzanti, Milano, 1996, p. 9 40 «Non c’è dubbio che il senso della nostra poesia lo si possa senza tante difficoltà esprimere in prosa. Ma, in verità, solo l’ordine e il sistema della poesia permettono […] di indirizzare la lettura verso il nucleo profondo del tema affrontato dalla poesia». Da Giovanni Giudici, la semplicità, il tempo, in «Nuova Corrente», Vol. XLVI, No. 123, 1999, pp. 67-110 27 compimento che l’autore non sarà sempre in grado di riconoscere al primo impatto, per quanto possa illudersi di averlo raggiunto.41 Fare poesia è un’attività che, secondo questa visione, richiede una certa passività: l’autore di un testo poetico, per riuscire nel suo intento, non deve dominare e controllare la lingua poetica, non serve a nulla seguire una rigida norma letteraria. Il poeta deve lasciarsi guidare dalla lingua, «quasi che il testo crescesse da sé, gravitando verso un suo traguardo, un suo destino, una sua necessità»42. La lingua, e in particolare la lingua poetica, possiede una propria autonomia, come se fosse un’entità dotata di vita propria: il poeta scrive perché ne sente il bisogno, ma non ha controllo su ciò che il testo poetico è destinato a diventare. In Alla Beatrice43 il poeta costruisce un’allegoria fondata sul parallelismo beatrice/lingua poetica; l’io lirico cede il ruolo di protagonista alla propria interlocutrice, che riempie la scena anche grazie all’iterazione del suo nome, che compare in anafora al primo verso di ogni strofa. Beatrice sui tuoi seni io ci sto alla finestra arrampicato su una scala di corda affacciato dal fuori in posiziona precaria dentro i tuoi occhi celeste vetro dentro i tuoi vizi capitali dentro i tuoi tremori e mali La scelta del senhal assume importanza nel discorso sulla lingua che Giudici intraprende nell’opera: l’iniziale minuscola di beatrice, trasforma il ben noto nome proprio femminile in un nome comune, spostando l’attenzione sulla funzione del tu, identificato con il suo scopo. Il nome Beatrice si trova, in questo componimento, sempre a inizio di strofa, così che sia impossibile attribuire con certezza l’iniziale maiuscola a una scelta tipografica o alla natura di nome proprio del sostantivo. In questo modo viene amplificata l’ambiguità riguardante l’interlocutrice, e il confine tra un referente femminile, suggerito dal senhal dantesco, e un tu astratto, sovrapponibile alla lingua poetica, si fa volutamente più sbiadito. Si noti anche come al nome Beatrice sia sempre accostato un verbo appartenente alla sfera semantica della vista: l’atto del vedere, e perciò del conoscere, è permesso 41 G. Giudici, Design in versi, lettura alla tavola rotonda su «Letteratura e industria», Congresso dell’AISLLI, Torino, Maggio 1994, poi in Per forza e per amore, Garzanti, Milano, 1996, p. 15 42 Ivi p. 17 43 in O beatrice, in Giovanni Giudici. Tutte le poesie, p. 245 28 esclusivamente dalla mediazione della beatrice. La lingua è descritta in questo componimento come un essere concreto44, ma anche come strumento conoscitivo per eccellenza: l’attività poetica è percepita come tramite indispensabile nell’instaurare un rapporto tra io e mondo. D’altra parte, la lingua, come si evince sin dalle prime raccolte, è l’unico mezzo disponibile per difendere la propria individualità nel mondo contemporaneo, è un travestimento flessibile e adattabile di volta in volta alla contingenza. Grazie alla propria abilità nel modificare e piegare il linguaggio a seconda delle necessità, l’io-personaggio può fingere di essersi arreso all’omologazione e perciò mantenere la propria libertà privata. […] Beatrice dai tuoi seni io guardo dentro la casa della notte esteriore superstite luce nella selva selvaggia che a te conduce dalla padella alla brace estrema escursione termica che mi resta più fuoco per me tua minestra Beatrice – costruttrice della mia beatitudine infelice Sempre seguendo il parallelismo beatrice/lingua poetica, si può notare, nella terza strofa, il riferimento ad un'altra funzione che la poesia assume nell’orizzonte dell’opera di Giovanni Giudici: la vita privata, che si svolge tra le mura domestiche, è il luogo prescelto per l’attività creativa, guscio sicuro in cui l’io lirico può togliere la maschera che la società gli impone di indossare. L’intimità domestica è, quindi, della notte esteriore superstite luce, ultimo spiraglio di una libertà individuale sempre più difficile da trovare nella società del boom economico, raggiungibile solo attraverso la pratica della poesia. La citazione dantesca rimanda all’ambiente ostile e oppressivo in cui l’io si muove, accostato alla selva oscura della Commedia. Beatrice è, poi, identificata come costruttrice e, perciò, causa attiva della beatitudine infelice dell’io lirico; con questo ossimoro l’autore vuole forse mettere in luce il compromesso con la realtà contemporanea che un intellettuale, e 44 Si faccia caso all’iterazione del termine seni, elemento femminile che porta ad attribuire istintivamente una corporeità alla beatrice. 31 a lui più vicina, che non sembra essere nemmeno turbata dall’imminenza della morte del suo compagno e, anzi, lo esorta a prepararsi. Ero il bambino che si accompagna dal dentista E che si esorta: sii uomo, non è niente. Perciò conforme al modello mi apparecchiai virilmente; Con un vestito decente, lo sguardo atteggiato a sereno, Appena un po’ deglutendo nel domandare: c’è altro? Ero io come sono ma un po’ più grigio un po’ più alto. Andammo a piedi sul posto che non era Quello che normalmente penso che dovrà essere Ma nel paese vicino al mio paese Su due terrazze di costa guardanti a ponente. C’era un bel sole non caldo, poca gente, L’ufficio di una signora che sembrava già aspettarmi. Un accenno alla recita cui è costretto l’io lirico della poesia si può notare nella scelta delle parole conforme al modello mi apparecchiai virilmente, lo sguardo atteggiato a sereno: viene svelato l’atto di travestirsi, di nascondere il proprio terrore dietro a una maschera di serenità, come richiesto dal decoro che la società impone persino in un momento di estremo turbamento. L’uso di frasi idiomatiche o proprie delle conversazioni della routine si fa più insistente: la totale indifferenza per l’imminenza della fine non può essere condiviso dal lettore, suscitando, così, un forte senso di straniamento. Nel paese vicino al mio paese, c’era un bel sole caldo, poca gente, sono espressioni che ricalcano il tono colloquiale e poco sorvegliato della banale conversazione quotidiana, delle chiacchiere prive di importanza, decisamente stridenti con la solennità e l’angoscia che dovrebbe essere riservata, nella realtà, al pensiero della propria morte. Ci fece accomodare, sorrise un po’ burocratica, Disse: prego di là – dove la cassa era pronta, Deposta a terra su un fianco, di sontuosissimo legno, E nel suo vano in penombra io misurai la mia altezza. Pensai per un legno così chi mai l’avrebbe pagato, Forse in segno di stima la mia Città e lo Stato. Di quel legno rossiccio era anche l’apparecchio Da incorporare alla cassa che avrebbe dovuto finirmi. 32 Sarà meno di un attimo – mi assicurò la signora. Mia moglie stava attenta come chi fa un acquisto. Era una specie di garrotta o altro patibolo. Mi avrebbe rotto il collo sul crac della chiusura. La descrizione dell’ambiente è realistica, quasi clinica, nella sua freddezza: l’io lirico prende totalmente le distanze dall’evento, in una narrazione tanto più distaccata quanto più grotteschi si fanno i dettagli della pratica della morte programmata. L’ironia del componimento ha come bersaglio la progressiva perdita di contatto con la propria umanità, causata, ancora una volta, dall’ossessiva automatizzazione del sistema sociale della modernità. Assuefatti dalla routine, i membri della nuova società del progresso perdono il contatto con la propria individualità, con i propri sentimenti più intimi, processo che Giudici porta all’estremo in questo componimento, nella descrizione di un uomo che sembra accettare la propria morte, almeno inizialmente, come una normale ricorrenza burocratica. La moglie, che partecipa all’evento come semplice spettatrice, quando nella realtà dovrebbe essere la persona più angosciata dalla situazione, sembra curarsi solo dell’aspetto economico e funzionale, come se avesse perduto la capacità di creare legami empatici e affettivi persino con la persona amata. Sapevo che ero obbligato a non avere paura. E allora dopo il prezzo trovai la scusa dei capelli Domandando se mi avrebbero rasato Come uno che vidi operato inutilmente. La donna scosse la testa: non sarà niente, Non è un problema, non faccia il bambino. Forse perché piangevo. Ma a quel punto dissi: basta, Paghi chi deve, io chiedo scusa del disturbo. Uscii dal luogo e ridiscesi nella strada, Che importa anche se era questione solo di ore. C’era un bel sole, volevo vivere la mia morte. Morire la mia vita non era naturale. L’obbligo di non avere paura, persino di fronte all’ignoto della morte, è l’esito estremo e immaginato di una realtà che tende a controllare sempre più aspetti della vita individuale: i sentimenti e la vita interiore degli individui, nella precedente produzione di Giudici, sono rimaste luogo inviolabile di libertà personale, proprio perché impossibili da 33 controllare, è perciò significativo il riferimento ad un tentativo di soppressione obbligatoria degli istinti. Solo a questo punto del componimento, l’io lirico inizia a esplicitare il proprio disagio per la situazione: inizia a cercare modi per rimandare l’inevitabile, provocando un ulteriore rimprovero. Tuttavia, è solo al primo verso dell’ultima strofa che l’io si oppone attivamente alla procedura disumanizzante cui dovrebbe sottoporsi: basta, in posizione finale al primo verso, segna un brusco punto di svolta nella narrazione, che da qui inizierà a seguire un’ultima dichiarazione di libertà dell’io personaggio. Gli ultimi due versi costituiscono una sententia finale, molto comune nella produzione poetica dell’autore. In questi versi l’io lirico contrappone due espressioni solo in apparenza simili: vivere la morte e morire la vita, in realtà, sono atteggiamenti opposti, come dimostrato dal repentino cambio di comportamento dell’io lirico. Vivere la morte rappresenta un’azione attiva, volontaria e cosciente, pur in una situazione, come la morte, che normalmente sfugge al controllo e alla comprensione umana. Al contrario, non sembra giusto morire la vita: l’espressione denota una passività non più sopportabile, soprattutto in relazione ad un evento personale e definitivo come la morte. L’io lirico di Descrizione della mia morte rivendica, proprio al termine della sua vita, il proprio diritto all’individualismo e alla libertà di vivere secondo le proprie volontà, rifiutando di seguire un percorso predefinito, progettato secondo le regole dell’efficienza industriale moderna, profondamente omologante e innaturale. Servendosi di un componimento di stampo e linguaggio fortemente ironico, l’autore vuole in realtà denunciare, con la descrizione iperbolica ed estrema di un’industrializzazione della morte, alcune tendenze comunemente accettate della routine della vita impiegatizia, che tende ad anestetizzare progressivamente i membri della società contemporanea, che perdono sempre più il contatto con la propria volontà individuale. Oltre alla tematica della lingua poetica e il suo evolversi in funzione della narrazione, O beatrice contiene anche alcune poesie apertamente polemiche nei confronti della società contemporanea. In particolare, Alcuni48 si sofferma sulla solitudine e sui giudizi che gravitano attorno alle persone che ancora si ostinano, nella modernità omologante, a inseguire un obiettivo personale, per quanto futile o lontano possa sembrare. In una società come quella descritta nelle poesie di Giudici, infatti, mantenere viva una passione 48 in O beatrice, in Giovanni Giudici. Tutte le poesie, p. 251-252 36 io chiedo la tua insania perché la mia abbia forza perché si possa dire che è una cosa reale quella che due distinte persone vedono identica. E tutto questo è ancora poco al confronto del nulla di chi insegue un solitario ideale. Essere umani può anche significare rassegnarsi. Ma essere più umani è persistere a darsi. L’io lirico torna a descrivere le sorti di quegli uomini che hanno continuato a esercitare la propria individualità: nessuno li ricorda, i loro nomi sono andati perduti, dimenticati perché non conformi a una società in cui non si riconoscevano; non è concessa loro nemmeno l’infamia, eppure l’io lirico affida a loro il senso dell’esistenza del genere umano. Chi ha scelto una strada non conforme al sistema viene automaticamente ostracizzato, costretto alla solitudine e relegato dove non possa ispirare qualcun altro a seguire le sue orme. Nella penultima strofa, l’io lirico esprime la sua paura di rimanere solo proprio come questi uomini, chiede che il suo interlocutore gli assicuri comprensione e spera di poter condividere la propria ribellione con qualcuno, come se avesse bisogno di una conferma della propria sanità. Riconosce, allo stesso tempo, che la scelta, se condivisa con qualcuno, non sarebbe eroica come la strenua resistenza solitaria degli individui descritti nelle prime strofe. Il distico finale è l’unico legato da una rima baciata, espediente retorico adottato dal poeta per sottolineare il senso del componimento, racchiuso in questa sententia conclusiva. L’io lirico di Giudici non biasima la scelta di coloro che si sono rassegnati, per ragioni di sopravvivenza, al sistema vigente, ma elegge a più umani, che qui significa più eroici nell’inseguimento dei propri ideali, coloro che non si sono arresi allo stato ingiusto della realtà contemporanea. In Alcuni il poeta sceglie di riconoscere il valore di coloro che, pur consapevoli delle scarse probabilità di riuscita, hanno deciso di continuare a seguire un percorso alternativo al normale disegno di progresso previsto dalla società contemporanea. Il tema si ricollega a una delle principali frustrazioni di Giovanni Giudici, che sente di vivere in un mondo in cui la letteratura, e in particolare la poesia, è sempre più marginale, relegata a occupazione di una élite specializzata, ben lontana dall’ideale di poesia democratica cui tende l’autore. 37 Un altro componimento di O beatrice, intitolato Noi50, mostra un ulteriore punto di vista: Giudici non biasima chi sceglie di sottoporsi alla norma sociale perché ne comprende le ragioni. L’io lirico di questi versi si fa portavoce di coloro che hanno scelto, loro malgrado, di sottomettersi, preferendo la stabilità quotidiana e una vita tranquilla a ideali ambiziosi ma irraggiungibili. Siamo così privi di coraggio Indifesa è la nostra natura E chiediamo conforto al conformarci A idee già incarnate nella specie […] Vogliamo chi assicuri che in eterno Per due punti una sola retta passerà Vogliamo l’immutabile Andare senza pericolo chiudendo gli occhi L’autore si dichiara, sin dal primo verso, parte integrante e consapevole di una schiera di individui nella medesima situazione: la società contemporanea con cui devono rapportarsi li porta alla sottomissione promettendo stabilità economica e il confortante pensiero di poter vivere una vita tranquilla. L’uomo della contemporaneità si trova a fare i conti con una realtà ostile, già descritta nelle sue storture in Alcuni, e sente la necessità di trovare conforto nell’immutabile, nell’omologazione sociale, unica che consente di seguire un percorso già scritto, privo di imprevisti, ottenuto rinunciando alla propria individualità. La sicurezza e l’immobilità tanto desiderate dall’io lirico sono simboleggiate, in questo componimento, dall’adozione di un registro linguistico che attinge dalle scienze matematiche, emblema di rigida invariabilità e certezza. Giudici, così come il suo alter ego letterario, anche a causa del trauma di un’infanzia vissuta nella miseria, sceglie la stabilità economica accettando l’impiego all’Olivetti, dove le sue inclinazioni letterarie saranno messe al servizio del profitto economico. L’autore è conscio dell’ambiguità della propria posizione e il compromesso che si vede costretto ad accettare è causa di un irrisolvibile senso di colpa, come sottolinea in più 50 in O beatrice, in Giovanni Giudici. Tutte le poesie, p. 283-284 38 occasioni. Secondo l’analisi di Giorgino, però, Giudici non cerca di nascondere o risolvere l’ambiguità: anzi, ne fa il centro di una poesia tutta giocata fra il volto e la maschera, tra dottrina poetica e simulata ordinarietà di una vita da impiegato. Il disagio che l’intellettuale vive nei confronti della società capitalistica è dovuto all’impossibilità di trasformare quel mondo da cui, suo malgrado, si trova a dipendere economicamente.51 In questo modo Giudici si trova a vivere una vita divisa tra la passione e l’ambizione poetica e i doveri dell’impiego in fabbrica, scissione interiore parallela, tra le altre, alla sua devozione per le «due chiese», cristianesimo e marxismo52. Il verso Andare senza pericolo chiudendo gli occhi, posto in chiusura di strofa, esemplifica perfettamente il tacito contratto tra società e individuo: in cambio di non doversi più preoccupare di nulla, l’io rinuncia alla propria libertà, il proprio arbitrio e la propria indipendenza, consegnandola nelle mani del meccanismo della modernità. Nell’odio-desiderio di un domani euclideo E anche nello schifo delle sue panie ci adagiamo Assurda fame divorante il futuro Per la miseria di un come volevasi dimostrare Cerchiamo libertà dalla paura Per paura cerchiamo la libertà dal nome Vogliamo essere come, essere come Alla forma del grembo ci prepariamo Ci tranquillizza un’evidenza tolemaica Voltar di spalle diventa la scelta cruciale Quando sia il prezzo un minimo di dolore Perché il corpo è nudo e vulnerabile In questi versi appare ancora più evidente che la sottoscrizione del compromesso non sia in realtà pacifica come appare: l’odio-desiderio per un futuro già scritto, euclideo, e quindi certo e prevedibile, descrive una decisione presa per ottenere l’opzione più sicura, ma non certo quella ideale. L’accettazione del meccanismo, disumano e soffocante, si 51 S. Giorgino, Un colletto bianco all’“inferno”: la poesia di Giudici e le utopie dell’“ingegner Adriano”, in Annali d’Italianistica, 2014, Vol. XXXII, From “otium” and “occupatio” to work and labor in Italian culture (2014), Arizona State University, p. 262 52 Ibid. 41 raggiungimento di una maggiore semplicità espressiva, altrimenti ostacolata da artifici retorici o tradizioni stilistiche poco spontanee e, dunque, poco sincere. 42 CAPITOLO V – La maschera nel rapporto con l’altro Nella raccolta Il male dei creditori53, Giovanni Giudici evolve ulteriormente nell’uso della maschera, raggiungendo nuovi livelli di sperimentazione narrativa: il travestimento viene sfruttato nelle sue diverse potenzialità, spaziando tra componimenti più grotteschi o parodici e altri di ispirazione più apertamente autobiografica. L’io personaggio si avvicina ulteriormente alla figura reale del suo creatore e le sovrapposizioni con l’esperienza di vita di Giudici si fanno più insistenti e definite. Il titolo stesso rimanda all’infanzia dell’autore, turbata dalle difficoltà economiche e dalla figura imprevedibile del padre. Il rapporto con il genitore è descritto come particolarmente tormentato e segnato da un doloroso senso di colpa per i sentimenti contrastanti suscitati dal complicato rapporto. Il titolo Il male dei creditori, evidente riferimento al trauma della miseria, presenta una certa ambiguità interpretativa a causa delle due possibili letture del genitivo, che potrebbe essere sia oggettivo sia soggettivo: il male, secondo la visione di Giudici, è una condizione esistenziale che affligge il padre, vessato dai creditori, ma anche questi ultimi, che non sono immuni alla sofferenza propria della condizione umana. L’io lirico di questa raccolta guarda al passato con sguardo ormai adulto, allo stesso tempo più lucido di quello infantile, ma anche influenzato da una certa deformazione degli eventi, tipica dei ricordi lontani. Il rapporto con la propria esperienza autobiografica è instaurato attraverso una precisa strategia: figure, fatti, personaggi (uno, in particolare) che dal passato affiorano, ma che nel presente si rivelano per intero […] in quanto elementi di una conoscenza nuova, più completa, più obiettiva; se vogliamo meno nevrotica o in ogni caso senza compiacimenti elegiaci.54 La poesia offre una nuova possibilità testimoniale all’autore, consentendo di rivivere e affrontare un passato altrimenti difficile da accettare. L’atto rielaborativo della memoria, anche quando è involontario, facilita il confronto con il trauma e il senso di colpa, distanziando fisicamente da sé il nucleo di una sofferenza altrimenti insuperabile. 53 Pubblicata nel 1977, poi in Giovanni Giudici. Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 2014 54 Giovanni Giudici di M. Cucchi, in Belfagor, Vol. XXXI, No. 5, 30 settembre 1976, pp. 543-561 43 Un componimento esemplare del rapporto di Giudici con la società a lui contemporanea è Rappresentazione di sé nell’atto di rappresentarsi colpevole e compiacente55. Lo stesso titolo anticipa alcune tra le tematiche caratterizzanti della poetica giudiciana: la rappresentazione di sé, o di una versione fittizia di sé, ma spesso strettamente legata all’esperienza autobiografica dell’autore, rimanda alla necessità di una letteraturizzazione della vita, unico strumento di sopravvivenza dell’identità individuale. La poesia si fa strumento conoscitivo della realtà, unico tramite del contatto con la realtà ostile. Il rapporto conflittuale con una società ingiusta e opprimente, in particolare nei confronti degli intellettuali impegnati, diviene quasi sopportabile attraverso la scrittura poetica e, soprattutto, lo schermo dell’ironia. Nel quotidiano, però, l’individuo è costretto ad attuare dei meccanismi di difesa, e il primo tra questi è il «mostrarsi colpevole e compiacente»: per proteggere la propria individualità, l’io lirico deve ingannare il mondo esterno, fingendo di sottomettersi alle sue regole e di cedere alla norma vigente. Questa sottomissione, però, è vissuta dall’io lirico come un tradimento, anche se solo esteriore, dei propri valori e ideali, ed è perciò sempre accompagnata dall’inevitabile senso di colpa che ne consegue. La colpa è un guscio, io ci sto dentro. Per uscirne non mi resta che sorridere. E non dico con ciò di annuire al potente, Ma di più – in qualsivoglia circostanza Essere premuroso e ossequiente Affinché di rompere il guscio Non si rompa l’esigua speranza. La colpa è collegata, al primo verso, con l’immagine del guscio, ovvero all’elemento simbolo della protezione e della sicurezza. L’io lirico ha pieno controllo della situazione, grazie alla protezione che tale guscio gli fornisce: può facilmente uscire grazie a un’azione semplice come un sorriso. Allo stesso tempo, però, il guscio può facilmente trasformarsi in prigione, quando non si riesce più a controllare il rapporto con l’esterno. A differenza dell’io lirico delle raccolte precedenti, quello di Il male dei creditori sembra più esperto nel rapportarsi con i meccanismi della società: è più consapevole di quanto sia facile fingere per soddisfare le aspettative, conosce le strategie migliori per ogni 55 In Il male dei creditori, in Giovanni Giudici. Tutte le poesie, p. 344-345 46 linguistico comicamente ridondante, simbolo dell’innaturalezza e della forzatura espressiva. Il riferimento alla pantomima, poi, trasporta la scena sul piano drammatico e teatrale, facendo apparire l’atteggiamento dell’io-personaggio come una vera e propria farsa, una finzione consapevole ma inevitabile. L’ironia dell’autore colpisce l’ipocrisia del «bel gioco dell’esser gentile / senza prendere sberle», rappresentazione esemplare di una società che finge di essere benevola, mentre, in realtà, nasconde scopi utilitaristici. [...] E io che mi frusto e consumo In questa scena! E chi mi ama che mi pretenderebbe Eroico su cavalli trasvolante il vento! Mentre penso – purché di me una particola Duri oltre la sparizione dei punitori! Senza timori potrei lasciare questo guscio. L’ultima strofa del componimento, dunque, fa riferimento alla metafora della scena teatrale, sulla quale l’io poetante è costretto a piegarsi al volere dello spettatore. L’io sa bene che chi lo conosce realmente lo vorrebbe libero dal meccanismo in cui si sente costretto: la figura dell’eroe a cavallo fa pensare al desiderio, represso a causa delle circostanze ostili, di ribellarsi all’ingiustizia e di assumere un atteggiamento apertamente avverso al sistema di norme sociali della modernità. Nonostante la frustrazione che ne deriva l’io lirico sembra accettare l’impossibilità di ottenere una tale libertà: l’unico modo per vincere i propri oppressori è fare in modo che anche solo una piccola parte di sé, una particola, sopravviva alle vessazioni. In questo modo l’individualità dell’io potrà liberarsi, pur limitatamente, ma solo in seguito alla scomparsa definitiva dei punitori. La conclusione del componimento, quindi, ribadisce che per uscire dal guscio e non dover più fingere è necessario uscire dal sistema stesso alla base dell’oppressione. Questa liberazione, però, non è ottenibile attivamente, come conseguenza di un’azione dell’io singolo, ma può essere raggiunta solo aspettando e sperando nel crollo del sistema vigente. Il male dei creditori, poi, raccoglie molti dei temi più vicini al poeta, e accanto a componimenti più simbolici e universali, si trovano anche testi d’ispirazione strettamente autobiografica. 47 Il tema della maschera, come già affrontato, è trasversale a tutta l’opera di Giovanni Giudici e permea ogni ambito della vita, da quello sociale e lavorativo, fino a quello privato e familiare. In un caso particolarmente interessante l’io lirico si fa osservatore di un travestimento altrui, nella poesia Gli abiti e i corpi58, la maschera protagonista del racconto non è quella dell’io lirico, che ha solo la funzione di fornire una prospettiva per la narrazione, ma quella indossata dal padre, ignaro attore studiato nei suoi rituali quotidiani. Ormai sfibrate le asole e sapienti Rammendi qua e là – ma gli abiti Sembravano come nuovi. Egli Accurato ogni sera li deponeva Sopra una sedia – quali Che fossero l’umore o la stabilità L’uxorio brontolamento che lo affliggeva. E deponeva con essi il tic-tac Che gli scandiva giorni e notti, l’oriolo Da tasca con una croce Elvetica in campo rosso – emblema Di esattezza agganciato a una teca di cristallo Con dentro una trapunta di velluto In attesa di reliquie microscopiche. Gli abiti, in questo componimento, rappresentano una nuova declinazione del concetto di maschera: sono il travestimento concreto che scegliamo di indossare ogni giorno, diversi in base alla circostanza, e servono in primo luogo a nascondere alla vista i corpi, che in questi versi rappresentano la verità che deve essere protetta da sguardi esterni. Il vestito che si sceglie di indossare è ciò che si decide di mostrare agli altri, quello che preferiamo ci rappresenti, evitando di esporre altri tratti della realtà che si desidera far passare inosservati. Protagonista della narrazione, legata a un ricordo infantile dell’autore, è la figura ambigua del padre: la prospettiva è quella dell’io poetico di Giudici che, ancora bambino, osserva i rituali quotidiani del padre, che ai suoi occhi sembrano quasi incomprensibili. La realtà degli eventi è filtrata in parte dallo sguardo esterno del bambino, e in parte 58 in Il male dei creditori, in Giovanni Giudici. Tutte le poesie, p. 349-351 48 dall’interpretazione più lucida e distante dell’io ormai adulto, che si rapporta con la figura paterna attraverso una memoria inevitabilmente distorta dal tempo trascorso. Il Giudici bambino stentava a conciliare le contraddizioni nelle azioni e nel comportamento del padre: la stessa persona sembra essere brusca e scontrosa, ma, allo stesso tempo, delicata e attenta nella cura dei propri averi personali, in particolare degli abiti, strumento di contatto con l’esterno. Nel corso del componimento si instaura un legame, solo in parte simbolico, tra lo stato di usura degli abiti e la condizione di stabilità, sia economica sia emotiva, del padre. La cura degli oggetti a lui cari rappresenta il suo controllo della situazione e dell’idea di sé che desidera trasmettere. La seconda strofa è interamente concentrata sulla descrizione dell’orologio da taschino del padre, significativamente svizzero, come indica la croce elvetica decorativa: lo sguardo esterno dell’io lirico lo identifica come emblema di esattezza. L’oriolo, indicato dal suo nome dialettale, e perciò forse collegato ad un senso di familiarità, è trattato con cura persino maggiore degli abiti; l’oggetto è visto, forse, nella sua natura di status symbol, oltre a mantenere un evidente legame metaforico con il concetto di precisione e di stabilità. La teca di vetro e il panno di velluto in cui viene riposto accuratamente il prezioso oggetto rappresentano le attenzioni quasi ossessive che il padre riserva al proprio aspetto esteriore. Gli abiti duravano anni: il nero, il grigetto, un altro a spina di pesce. […] Lui certe sere era greve di vino. Si spogliava nel sonno, puntava al mattino. […] Quale decoro l’abito Rinnovato ogni giorno, restaurato Dal persistere della giovinezza! Dico il nero, il grigetto, un altro a spina di pesce E un quarto credo ereditato da un parente Defunto: duravano anni. Io li spiavo mattina dopo mattina E lui spiavo impassibile a tutto: Al passare del tempo, 51 che le apparenze vengano incrinate e che la vera natura del meccanismo vigente venga alla luce. L’insensata vestizione della morte, la necessità di nascondere il vero, rimanda, forse, a un tema più ampio e complesso che attraversa tutte le raccolte analizzate finora: la società del boom economico, per sopravvivere e continuare a crescere, è costretta a mentire continuamente. Il motivo principale per cui l’uomo sceglie di sottoporsi al meccanismo capitalista, per quanto ingiusto e logorante, è la tacita promessa di ottenere qualche vantaggio in cambio della propria fatica. L’opera di Giudici, adottando il punto di vista di un osservatore interno ma segretamente divergente, descrive con estrema efficacia la capacità del sistema di creare aspettative e mete da raggiungere che si dimostrano sistematicamente illusorie o temporanee. Il meccanismo funziona perché chi ne fa parte si convince di aver bisogno di obiettivi e soddisfazioni materiali sempre più grandi, sperando di raggiungere una felicità inesistente. In qualche modo la società, nascondendo il suo scopo, costruisce una facciata positiva che le permette di sopravvivere senza difendersi da ribellioni o disertori: di fatto, indossa una maschera. 52 CONCLUSIONI Nonostante l’analisi prenda in considerazione solo le prime raccolte della produzione poetica di Giovanni Giudici, si può facilmente intuire perché non si possa parlare di una sola maschera: solitamente il travestimento adottato da un poeta nella propria opera è uno, l’io lirico, implicito alter ego dell’autore. Nel caso di Giudici, il personaggio messo in scena assume sembianze sempre diverse, flessibili a seconda della situazione e della necessità. L’autore costruisce, nei componimenti analizzati, una sorta di recita grottesca, ambientata nella quotidianità della vita cittadina degli anni ’60 e ’70 del Novecento; l’ambiente in fermento della Milano del boom economico, emblema di progresso, viene descritto attraverso le sue storture e la sua disumanità. Le parole di Giovanni Giudici fanno emergere un mondo fatto di finzione, in cui tutto e tutti cercano di mostrare una facciata migliore di quella reale. Attraverso il controllo sulla lingua e sui suoi registri, l’io lirico deve continuare a mentire per districarsi tra i meccanismi del «decoro» della contemporaneità ostile. La deformazione del proprio atteggiamento, ma anche del proprio viso, in una maschera di compiacenza e normalità permettono al Giudici-personaggio di evitare l’ostracizzazione. Ma il guscio, costruito con tanta cura, rischia di non lasciare vie d’uscita, perciò la poesia e l’attività artistica sono essenziali per non assuefarsi al travestimento, per mantenere viva la propria realtà personale. Il mondo che Giudici dipinge è un mondo in cui tutti fingono e tutti vivono nel terrore di essere scoperti, ma, nonostante questa consapevolezza, mostrare la verità sembra un’impresa impossibile. Una visione poetica di questo genere rispecchia perfettamente le ansie e le preoccupazioni etiche di un autore come Giovanni Giudici, politicamente impegnato ma costretto alla collaborazione, in un’epoca in cui gli intellettuali vengono inglobati da un meccanismo che ne soffoca le voci più eccentriche. Il senso di colpa che permea ogni componimento è causato dall’inevitabile compromesso cui ogni individuo deve sottomettersi in una società come quella dipinta dall’autore: questa sofferenza per la propria condizione, e la strenua e invisibile resistenza opposta tramite l’atto di mostrarsi colpevole e compiacente, rendono Giovanni Giudici l’interprete onesto di una categoria di ribelli silenziosi. Questi individui, pur costretti all’omologazione, scelgono, nella propria vita intima e nascosta, di opporsi al normale meccanismo sociale, praticando in segreto una qualsiasi forma di libertà. 53 Le maschere che abitano la poesia di Giovanni Giudici, quindi, sono uno strumento per mantenere la propria individualità, per non doversi piegare, almeno in una realtà di sua creazione, all’omologazione di un sistema sociale in cui l’autore non si riconosce. Cortellessa Andrea, Qualcosa che c’è, in «Due poeti, due amici, due uomini comuni: Giudici e Zanzotto», Atti della giornata di studi di Roma, 16 dicembre 2011, «L’Immaginazione», Vol. CCLXVIII, marzo-aprile 2012, pp. 14-19 Cucchi Maurizio, Giovanni Giudici, in «Belfagor», 30 settembre 1976, Vol. XXXI, No. 5, Casa Editrice Leo S. Olschki (1976), pp. 543-561 Di Alesio Carlo, Un’amicizia di poesie e dialetti: Giudici e Bertolani, in Atti della giornata di studi «Giovanni Giudici. I versi e la vita», a cura di Paola Polito e Antonio Zollino, in «Memorie dell’Accademia Lunigianese di Scienza», «Giovanni Capellini» ONLUS, Vol. LXXXIV, La Spezia, 2014 Ferretti Gian Carlo, La poesia di Giovanni Giudici, in «Studi novecenteschi», Vol. I, No. 2, Accademia Editoriale, Luglio 1972, pp. 211-218 Ferroni Giulio, Gli ultimi poeti. Giovanni Giudici e Andrea Zanzotto, il Saggiatore, Milano, 2013 Frasca Damiano, Vite ordinarie. Giudici e il crepuscolarismo, in Atti di Incontrotesto. Ciclo di incontri su e con scrittori del Novecento e contemporanei, Siena, ottobre- novembre 2011, Pisa, Pacini editore, 2011, pp. 85–91 Galgano Andrea, L’insufficienza nitida di Giovanni Giudici, in «Frontiera di pagine», 13 Novembre 2014 Gambaro Elisa (a cura di), «è questione di comunicare attraverso l’essenziale»: alcune note inedite di Giovanni Giudici, in «La modernità letteraria», Vol. VI, Fabrizio Serra Editore, Pisa, 2013, pp. 151-157 Giacon Maria Rosa, Débat e psicomachia: una rilettura di «La Bovary c’est moi», in Atti della giornata di studi «Giovanni Giudici. I versi e la vita», a cura di Paola Polito e Antonio Zollino, in «Memorie dell’Accademia Lunigianese di Scienza», «Giovanni Capellini» ONLUS, Vol. LXXXIV, La Spezia, 2014, pp. 39-58 Giorgino Simone, Un colletto bianco all’“inferno”: la poesia di Giudici e le utopie dell’“ingegner Adriano”, in “Annali d’Italianistica”, 2014, Vol. XXXII, da «From “Otium” and “Occupatio” to work and labor in italian culture» (2014), pp. 255-273 Marchese Lorenzo, Giovanni Giudici narratore, in «Le parole e le cose2, 12 gennaio 2017, <leparoleelecose.it> Massimiliano Cappello, “Trascurabili realtà”: lavoro produttivo e riproduttivo nelle Ore migliori di Giovanni Giudici, in «StatusQuaestionis», No. 16 (2019) Morando Simona, Vita con le parole. La poesia di Giovanni Giudici, Campanotto Editore, Pasian di Prato, 2001 Nassi Francesca, Giudici e Pascoli, in Atti della giornata di studi «Giovanni Giudici. 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