Scarica Libro "La legge e la sua giustizia" - Interpretazione giudiziaria della Costituzione - 2 e più Dispense in PDF di Giustizia Costituzionale solo su Docsity! 1 Capitolo II Natura e limiti dell’interpretazione giudiziaria della Costituzione Sommario: 1. Interpretazione e applicazione del diritto. - 2. Il caso e le sue esigenze. - 3. L’attribuzione di significato e valore al caso. - 4. Lo status concettuale dei principi di diritto rispetto a quello dei valori e delle regole. - 5. La ricerca della norma di diritto. Il problema dei metodi. - 6. L'interpretazione costituzionale. - 7. I limiti della risoluzione giudiziaria delle questioni politiche. 1. Interpretazione e applicazione del diritto I caratteri dell'uso pratico della costituzione sono determinati essenzial- mente dalla sua interpretazione presso i giudici e, principalmente, presso la Corte costituzionale. Solo l’interpretazione che proviene da questa ultima assume carattere vincolante per tutti, cittadini, autorità amministrativa, autorità giudiziaria, legislatore. Alla costituzione può essere fatto riferimento in molti altri modi, da parte dei più diversi soggetti: forze politiche, come motivo o pretesto di polemica circa la costituzionalità o l’incostituzionalità di questo o di quel comportamento o atto; soggetti culturali, come argomento di formazione di una coscienza civile, ecc. Ma solo l’interpretazione che viene dalla Corte costituzionale assume quella forza obbligante ufficiale che si è detta. Occorre perciò concentrarsi su di essa. La comprensione degli aspetti fondamentali dell'interpretazione costituzionale presuppone la conoscenza di alcuni importanti aspetti dell'interpretazione giuridica in generale, qui da richiamare per sommi capi. 2 Per esercitare una concreta funzione regolatrice, qualunque fonte del diritto deve essere determinata nel suo contenuto normativo. Secondo il consueto modo di vedere, l'interpretazione è il processo intellettivo attraverso il quale, partendo dalle formule linguistiche contenute negli atti normativi, si perviene alla conoscenza del loro contenuto normativo: dai significanti (gli enunciati) ai significati (le norme). Secondo una terminologia entrata nell'uso, si dice che l'atto normativo, come punto di espressione finale di un potere normativo, si manifesta in disposizioni. Nelle disposizioni, attraverso certi enunciati idonei a essere compresi in generale dai soggetti facenti parte dell’ordinamento, è impresso un certo contenuto normativo voluto dal legislatore. Le disposizioni così poste in essere devono poi, a loro volta, esprimere il loro significato con riguardo a coloro ai quali esse si indirizzano. A ciò varrebbe l'interpretazione, mezzo di espressione dei contenuti normativi, cioè delle norme impresse delle disposizioni. L'interpretazione sarebbe, per esprimerci in breve in altro modo, l'attività di trasformazione delle disposizioni in norme. L'interpretazione e le norme che scaturiscono dalle disposizioni interpretate, secondo questo punto di vista, sono le fonti normative nel loro significato pratico- concreto. L'insieme delle disposizioni, come tali, cioè in assenza di interpretazioni, sarebbe invece solo un numero indefinito di possibilità interpretative, cioè un coacervo astratto di norme potenziali che attendono qualcuno, l’interprete appunto, che le tragga dal mondo delle quali nulla può dirsi circa il loro valore concreto. Questo modo di vedere, tradizionale negli studi sull'interpretazione giuridica, è però unilaterale e quindi fondamentalmente inesatto. Esso trascura un lato essenziale di questa attività, offrendone una descrizione parziale. Come ogni interpretazione, anche l'interpretazione giuridica è un'attività che si svolge tra due lati, uno rappresentato dal diritto, l'altro rappresentato dal caso da regolarsi secondo il diritto. Importa qui sottolineare soprattutto il 5 generica)4, si accompagna però una certezza circa il valore della preposizione, indicante un’attività mediana o mediatrice che qui, per il nostro uso, possiamo collocare sulla linea di tensione tra la realtà dei casi della vita e il diritto; in altra prospettiva, potremmo dire – con riserva di precisazioni – che l’interpretazione giuridica unisce il diritto ex parte societatis (dove stanno i casi) al diritto ex parte potestatis (dove sta la volontà legislatrice). L’'interpretazione giuridica è dunque stretta tra due poli: il caso da regolare e la norma regolatrice. Il caso non può comprendersi giuridicamente se non in riferimento alla norma e questa non ha significato se non in riferimento a quello, poiché il caso deve orientarsi alla norma e la norma deve orientarsi al caso5. L'interpretazione è l'attività che mira a congiungere l'uno all'altra, fino a farli «combaciare» in un risultato appagante su entrambi i lati. Essa non è al servizio esclusivo né dell'uno né dell'altro, ma - semmai - e dell'uno e dell'altro, manifestando così su ciascuno dei due lati una certa autonomia che le deriva dal legame che la unisce anche con l'altro. L'interpretazione giudiziale può così essere definita la ricerca della norma regolatrice adeguata sia al caso che al diritto 5. E necessario insistere sull’importanza del caso, dalle concezioni tradizionali completamente trascurata. Esse parlano dell’interpretazione giuridica come parte di un’attività rivolta alla “risoluzione del caso”, analogamente alla risoluzione di un problema matematico, tramite l’applicazione di tutte le regole preesistenti. In questa semplice formulazione rientrano tutte le concezioni esclusivamente normativistiche dell’interpretazione. 4 In A. Walde, Lateinisches etymologisches Wörterbuch, vol. I, Heidelberg, Carl Winter, 1965, IV ed., pp. 710 ss. E A. Ernout – A Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine – Histoire des mots, Paris, Librairie C. Klincksieck, 1951, III ed., pp. 571 s., svariate ipotesi ricostruttive, alcune legate all’attività materiale di intermediazione d’affari, altre all’intelligenza del pensiero e della volontà altrui. 5 N. Luhmann, Rechtssystem und Rechtsdogmatik, Stuttgart, Kohlhammer, 1974, trad. it., Sistema giuridico e dogmatica giuridica, a cura di A. Febbrajo, Bologna, II Mulino, 1978, p. 48 e F. Müller, Richterrecht. Elemente einer Verfassungstheorie, Berlin, Duncker & Humblot, 1986, pp. 46 ss., a proposito dell'illusione di una lex ante casum e del concetto di `concretizzazione' del diritto, in termini analoghi a quelli del testo. 6 Quali che ne siano le tante e più o meno elaborate varianti, esse trattano, tutte, l’attività di applicazione del diritto come quella che (indipendentemente dalla natura dei materiali normativi utilizzati - diritto naturale o diritto positivo, nelle diverse loro accezioni, principi di diritto, precedenti, ecc. - e dalla complessità più o meno elevata delle operazioni dirette a determinarne il contenuto) consiste in una semplice operazione deduttiva: dalla norma che è stata individuata, valida in generale e in astratto, alla sentenza, cioè al precetto individuale e concreto che riguarda il caso da decidere, contenente qualificazioni giuridiche (liceità, illiceità, validità, invalidità, doverosità, facoltatività, ecc.) e, eventualmente poi, misure conseguenziali (sanzioni, risarcimenti, annullamenti, ecc.). Un’actio simplex dal mondo delle norme – la parte attiva – a quello dei fatti – la parte passiva - tramite l’opera del giudice che «applica», cioè appoggia le prime, «facendole discendere»6 sui secondi. In questo modo si ritiene di perseguire un apprezzabile duplice fine: l’uno di ordine teorico, l’altro pratico: preservare innanzitutto la sfera delle norme dalle perturbazioni dei fatti, mantenendo ferma la grande dicotomia: mondo del dover essere – mondo dell’essere; inoltre, configurare la risoluzione giuridica dei casi alla stregua dell’applicazione rigorosa di una regola, secondo ciò che si ritiene sia la risoluzione di un problema secondo le scienze teoretiche, come la matematica o la geometria. Il giudice-matematico o il giudice-geometra sarebbe quello che più si avvicina all’ideale della scienza del diritto come scienza esatta, improntata all’esattezza, con quel che segue quanto a prevedibilità, stabilità, certezza delle sue soluzioni. come un matematico o un geometra geometrico. L’ideale di ciò che si potrebbe dire la matematizzazione della giurisprudenza è stato coltivato particolarmente dal razionalismo giuridico del ‘6 e ‘700. 6 Secondo l’espressione di R. Sacco, in L’interpretazione, in Trattato di Diritto civile diretto da R. Sacco, Le fonti del diritto italiano, 2, Le fonti non scritte e l’interpretazione, 7 Il diritto sarebbe così una grande rete o ragnatela7 di fattispecie legali, tesa sulla società e pronta ad acciuffare i fatti della vita che vi incappano, non appena vi sia un uccellatore - il giudice - che fa scattare la trappola. Secondo un’altra metafora di tipo organicista, dovuta a Rudolf Jehring8, “l’intero diritto non [sarebbe] altro che un’unica creazione teleologica, un possente polipo giuridico con tentacoli innumerevoli, chiamati norme giuridiche, ciascuno dei quali vuole, persegue, tende a qualcosa”, acchiappando con le sue ventose quanto gli capita a tiro. Se queste immagini appaiono triviali, si può pensare a Gottfried W. Leibniz e al suo ideale matematico-geometrico del mondo metafisico e, in esso, di una giurisprudenza - per così dire - «more mathematico demonstrata»9, un ideale largamente perseguito nei secoli XVII e XVIII10 soprattutto dal giusnaturalismo razionalista. Come il suo modello, la giurisprudenza consisterebbe in definizioni razionalmente stabilite e che si sviluppano in enunciati gli uni tratti dagli altri, secondo le regole della logica deduttiva. Esse determinano proporzioni, valide in quanto vere in se stesse, indipendentemente dal fatto che ci sia qualcuno che le debba utilizzare per giudicare o qualcosa da giudicare, esattamente come Torino 1999, p. 166. 7 Da cui la saggezza popolare espressa – con la sostituzione degli uccelli con le mosche – in «La legge è come una ragnatela: se la mosca ci casca dentro è finita – ma se casca un moscone – ci fa un bucone»: v. B. Mortara Garavelli, Le parole e la giustizia. Divagazioni grammaticali e retoriche su testi giuridici italiani, Torino, Einaudi, 2001, XI che ne riporta anche la versione culta, risalente a Diogene Laerzio: «Le leggi sono simili alle ragnatele: se vi cade dentro qualcosa di leggero e debole, lo trattengono; ma se è più pesante, le strappa e se ne va». 8 Zweck im Recht, I, 417, trad. it., Lo scopo nel diritto, a cura di M. Losano, Torino, Einaudi, 1972, p. 300. 9 Sulla concezione del diritto in Leibniz, v. M. Mugnai, Introduzione alla filosofia di Leibniz, Torino, 2001, pp. 205 ss 10 Ma anche, sporadicamente, in precedenza. Il teologo ‘conciliarista’ Jean Gerson all’inizio del XV secolo, in De vita spirituali animae del 1402, nello sviluppare attraverso deduzioni la sua teoria della prevalenza della Chiesa come corpo sulla Chiesa come capo (il papa), considerò lo ius come una categoria fondamentale del pensiero, dalla quale potevano essere derivati altri concetti giuridici e politici e, come i teorici dei diritti di epoche successive, sostenne di stare ragionando in modo matematico, ossia di stare costruendo una sorta di geometria giuridica: egli si paragonava a un ‘geometer vel arithmeticus’: tutto ciò in B. Tierney, The Idea of Natural Rights. Studies on Natural Rights, Natural Law and Church Law 10 determinata la norma, la sua applicazione al caso – tramite sussunzione o deduzione sillogistica – sarebbe “uno scherzo da bambino”14. Tutto ciò trascura la circostanza - il nocciolo di tutta la questione - che nel processo interpretativo davanti al giudice il caso è la molla che lo mette in moto e dà la direzione. Muovendo da esso, ci si rivolge al diritto, per interrogarlo e avere da esso una risposta. Dal caso, l'interprete procede e ad esso ritorna, in un procedi- mento circolare (il «circolo interpretativo») di riconduzione bipolare che trova la sua pace nel momento in cui si compongono nel modo più soddisfacente possibile le esigenze del caso e quelle del diritto15. Quando il risultato interpretativo non fa violenza né all'uno né all'altro (o fa la violenza minore possibile), allora l'interpretazione potrà dirsi 'riuscita'. In caso di conflitto insanabile, non soccorrerà più l'interpretazione ma si dovrà mettere in discussione la norma stessa, sotto il profilo della sua arbitrarietà (infra, ...). L'esistenza di questo canone di legittimità costituzionale delle leggi dimostra una essenziale novità nei caratteri fondamentali del diritto, nella situazione spirituale del nostro tempo: nel conflitto tra il diritto e il caso (cioè: le esigenze del caso), l'ordinamento sceglie quest'ultimo. La massima essenziale del positivismo acritico: dura lex sed lex non vale più. semplici lineari, è concettualmente estranea la possibilità di una incidenza del momento applicativo. L’ideologia giuridica postilluministica è profondamente turbata dalla visione di una norma che vive oltre la sua produzione ed elasticamente si modifica a seconda del percorso, che – insomma – continuamente si produce ricevendo i messaggi dei diversi terreni storici su cui si adagia”. 14 P. Grossi, Oltre le mitologie giuridiche della modernità, in Mitologie giuridiche, cit., 74. 15 Il concetto di circolo interpretativo si trova espresso in vario modo, anche al di fuori della teoria del ‘circolo ermeneutico', cui si fa riferimento con le indicazioni bibliografiche della nota successiva. K. Engisch (Logische Studien zur Gesetzanwendung, Heidelberg, Winter, 19633, p. 15) parla di continua interazione, di andare e venire dello sguardo dalla premessa maggiore al fatto e viceversa; K. Larenz (Methodeslehre der Rechtswissenschaft, Berlin, Springer, 19753, p. 189) mette in luce il rapporto dialettico tra norma astratta e decisione concreta; A. Kaufmann (Analogie und Natur der Sache, Karlsruhe, Decker & Miiller, 1965, p. 32) parla di un Wiedererkennen della norma nel fatto e viceversa, di un ininterrotto `tastare all'indietro' (Hinübertasten) dal campo dell'essere in quello del dover-essere e viceversa. Per queste e altre indicazioni, L. De Ruggiero, Sul concetto di precompressione, in «Po1itica del diritto», 1984, p. 580. 11 Queste osservazioni sono solo preliminari allusioni ai problemi fondamentali dell'interpretazione giuridica. Prima di poter affrontare quelli dell'interpretazione costituzionale, si richiedono molte precisazioni su ciascuno degli elementi cui si è fatto cenno nella definizione di interpretazione come ricerca della norma regolatrice adeguata sia al caso che al diritto16. 2. Il caso e le sue esigenze Il caso preme sul diritto. L'interpretazione è la via attraverso la quale la pressione si fa valere. La scienza del diritto non si occupa di regole etiche, sempre eguali a loro stesse in quanto portatrici del loro intrinseco valore. I1 valore delle regole giuridiche si misura guardando fuori di loro, nella capacità di regolamentazione adeguata dei casi che la dinamica sociale propone. In presenza di certi casi, var- ranno certe regole; mutando i casi, si manifesterà la tendenza a ricercare nell'ordinamento norme nuove, diverse da quelle anteriori, regolative di casi ormai superati. Anzi, come è stato notato in relazione alla massima in claris n o n f i t i n t e r p r e t a t i o 17, «un testo, che sulla carta o alla luce della esperienza 16 II contesto di queste osservazioni è quello della cosiddetta ermeneutica delle scienze dello spirito. I riferimenti principali, oltre che a H.G. Gadamer, Wahrheit und Methode - Grundzüge einer philosophischen Hermeneutik, Tübingen, J.C.B. Mohr (Paul Siebeck), 19652 (trad. it., Verità e metodo, a cura di G. Vattimo, Milano, Bompiani, 1972, sono a J. Esser, Vorverständnis und Methodenwahl in der Rechtsfindung, Frankfurt a.M., Athenäum Verlag (trad. it. Precompressione e scelta del metodo nel processo di individuazione del diritto, Napoli, ESI, 1983); H. Rottleuthner, Richterliches Handeln - Zur Kritik der juristischen Dogmatik, Frankfurt a.M., Athenäum Verlag, 1973; F. Müller, Juristiche Methodik, Berlin, Duncker & Humblot, 19712; Id.,, Juristische Methodik und politischen Systemelemente einer Verfassungstheorie, Berlin, Duncker & Humblot, 1976. Nella dottrina italiana, L. Mengoni, Problema e sistema nelle controversie sul metodo giuridico (1976), La polemica di Betti con Gadamer (1978), Ancora sul metodo giuridico (1983), raccolti ora in Diritto e valori, Bologna, II Mulino, 1985; Id., Interpretazione e nuova dogmatica. L'autorità della dottrina, in «Jus», 1985, p. 469 ss.; L. De Ruggiero, Tra consenso e ideologia. Studio di ermeneutica giuridica, Napoli, Jovene, 1977; Id., Sul concetto di precompressione, cit., p. 577 ss.; G. Zaccaria, Ermeneutica e giurisprudenza, Milano, Giuffrè, 2 voll., 1984. 17 L. Mengoni, Interpretazione e nuova dogmatica, cit., p. 480. 12 applicativa precedente sembra chiaro, può oscurarsi di fronte alla provocazione di un nuovo caso», ove per “nuovo” deve intendersi sia ciò che mai, finora, si è verificato in passato, sia ciò che, pur già verificatosi in passato nella sua materialità, appare ora sotto una nuova luce problematica.. I principi morali non falliscono il loro scopo normativo né entrano in crisi perché l’evoluzione sociale li rende desueti: essi esprimono valori assoluti ed è perciò comprensibile che valgano a prescindere dai casi. Questi potranno, se mai, influire sulle modalità della sua attuazione, non sul loro contenuto18. La regola giuridica si distingue proprio in questo, nel non aspirare a una astratta e immobile giustizia, ma alla composizione nel modo più adeguato possibile (adeguato a che cosa, è altro e successivo problema) della convivenza tra soggetti individuali e collettivi. Quando il diritto, per come anteriormente interpretato, non appare più idoneo a questo fine, il caso nuovo preme attraverso l'interpretazione, affinché nell'ordinamento si ricerchi una nuova norma, più adeguata. In questo senso, si può parlare di «produttività del caso concreto»19 e così si spiega l’interpretazione cosiddetta evolutiva. Solo nelle situazioni storiche statiche questa pressione. rinnovatrice del caso può non essere avvertita, riscontrandosi allora un arresto del flusso delle interpretazioni derivante dalla staticità delle esigenze cui il diritto deve provvedere; solo allora si potrebbe pensare all'interpretazione come attività scissa dal caso e concentrata unilateralmente sul diritto. L’irrilevanza del caso deriverebbe però solo dalla circostanza che, non sollevando problemi, passerebbe sotto silenzio, sarebbe semplicemente sottinteso. Ma chi pretendesse di fermare l'interpretazione di fronte alle trasformazioni sociali, chiudendola in un gioco intellettivo puramente interno all'insieme delle norme, pretenderebbe in realtà che 18 Contrariamente a ciò che si sostiene in un'ottica di relativismo dei valori etici, cioè in un'ottica di immiserimento `giuridicistico' della morale:l riguardo, H.G. Gadamer, Wahrheit und Methode, cit., p. 63. 19 H.G. Gadamer, Wahrheit und Methode, cít., p. 63. 15 o significato di un'azione, cioè della sua "logica sociale"21i, si ha sempre solo mettendola in connessione con ciò che essa è idonea a determinare nella sfera pubblica che la riceve. Ad esempio, lo stesso fatto materiale della morte procurata a un uomo può essere inteso in molti differenti significati: come mezzo rivolto contro la vita altrui, oppure contro le sofferenze altrui (eutanasia), contro la degenerazione della specie umana (eugenetica) oppure come strumento della guerra, oppure come difesa di un bene primario proprio o altrui (legittima difesa), o come sanzione di un delitto (pena capitale) o ancora come prezzo della sperimentazione medica su esseri umani per il bene futuro di altri esseri umani, o, infine, come via obbligata per l'espianto di organi utilizzabili per trapianti. L'acquisto di minori, figli di genitori indigenti, può essere visto come un commercio di esseri umani oppure come atto di beneficenza rivolto a migliorarne le condizioni di vita, oppure ancora come soddisfazione di un'esigenza affettiva degli adulti acquirenti. La costrizione fisica e psichica di un tossicodipendente può essere vista come un mezzo di sopraffazione della sua libertà o come il mezzo per liberarlo da un'altra e più profonda sopraffazione. Eccetera, eccetera. Il positivismo legalista, che riduce la vita concreta del diritto alla meccanica sussunzione del fatto nello schema legale o nella deduzione sillogistica della conseguenza concreta dalla previsione legale astratta, ignora o, meglio, intende soffocare questo elemento di comprensione del caso. Intende privare l’interprete del diritto di comprendere i casi che deve giudicare. La fattispecie concreta sarebbe solo un insieme di materiali bruti, deprivati di ogni significato culturale, da confrontare con la fattispecie legale. Esso intende perciò espungere dall’applicazione del diritto ogni considerazione circa il significato sociale, id est culturale, dei casi da decidere. Il che è una pretesa impossibile, perché contro natura – considerato che ogni essere umano è costantemente e inevitabilmente 21 S. Natoli, La logica delle azioni. Senso, regole, valori, in Filosofia politica, 1991, pp. 399 ss. 16 immerso in significati: anzi, che ogni cosa che gli si prospetta appare sempre e necessariamente sotto l’aspetto di significato della cosa, e non come cosa, punto e basta. Poiché l’interpretazione del diritto è attività umana, e fino a tanto che tale sarà, in attesa che qualcuno proponga qualche macchina giudicante, secondo un’idea da folli che ogni tanto emerge e riemerge, questa pretesa del positivismo legalista, oltre che arbitraria è anche contro natura, contro la natura di questa attività. Il valore. La comprensione del significato conduce e condiziona la comprensione di valore in vista del giudizio. Si tratta di due momenti logicamente distinti ma collegati. Innanzitutto, la categorizzazione di significato mette in azione valori che dipendono dal risultato di tale prima operazione. Non è indifferente, rispetto ai valori, che, ad esempio, un fatto sia inteso come attentato alla vita umana ovvero come difesa della dignità della vita umana. Al rovescio, l’assunzione di un determinato valore farà sì che il caso sia inteso nel suo significato in un senso o in un altro. Chi assume come valore sommo la vita umana, in tutte le sue manifestazioni, anche quelle meramente biologiche, prive della dimensione della coscienza, e quindi di capacità intellettuali, morali e relazionali, sarà inevitabilmente portato, nell’esempio portato poco sopra, a valorizzare, come elemento di comprensione, la soppressione della vita, dunque ad attribuire valore centrale a un elemento del fatto e a ignorarne altri. Al contrario, si giungerà a una diversa comprensione del significato dei fatti ove si parta da altre premesse di valore. Il valore, così, dà o toglie risalto a questo o quell’elemento del fatto, ai fini della comprensione del suo significato. Onde può dirsi che comprensione del significato e attribuzione di valore sono attività diverse, la prima (apparentemente solo) cognitiva, la seconda valutativa. 17 In un certo senso, dunque, anche il caso deve essere interpretato22, in quanto a esso deve attribuirsi un significato e un valore. La «categorizzazione di significato e di valore» è quanto muove l'interpretazione giudiziaria, ponendo le domande alle quali l'interprete deve risposte in termini giuridici, ricavate cioè dall'ordinamento giuridico. Questa categorizzazione è quanto si denomina «precomprensione», per indicare l'esistenza di una «anticipazione di significato e valore» che richiede conferme, cioè risposte o soluzioni «adeguate», nelle norme dell'ordinamento: è una anticipazione di massima e provvisoria del tipo di soluzione che il caso richiede, un’anticipazione che necessita di conferme al di là della prima comprensione soggettiva, che indicare la direzione della ricerca che deve essere compiuta. Quella che precede è una descrizione che pretende di essere realistica e corrispondente a processi reali: qui, prima che nella sua fondazione teoretica nelle «scienze dello spirito» e nelle sue ascendenze filosofiche, sta la sua forza. Essa indica che l'interprete è necessariamente orientato nella sua ricerca, quando cerca la norma che può risolvere adeguatamente il caso da decidere. Si potrebbe dire, con Luis Borges23 12: «qualcuno osserverà che le conclusioni precedettero senza dubbio le `prove'. Ma chi si rassegnerebbe a cercare prove di cose che già non creda e di cui non gli importi?». 3. L’attribuzione di significato e valore al caso 22 R. Guastini, Problemi di analisi logica della motivazione, in «Contratto e impresa», 1986, pp. 122 ss 23 L.. Borges, Tre versioni di Giuda (1944), da Finzioni, in Tutte le opere, a cura di D. Porzio, Milano, A. Mondadori, 1984, vol. I, p. 784. 20 Questa prospettiva sposta parzialmente fuori del campo dell'individuale la responsabilità delle scelte giudiziarie: dipenderà dai caratteri generali (democratici e aperti, antidemocratici e chiusi) della vita politica e sociale anche il carattere della giurisprudenza: una giuriprudenza orientata ai valori della democrazia e della libertà è impensabile in una società orientata nel suo complesso ai loro contrari, e viceversa. Ulteriormente precisando, si può notare che il contesto di significato e valore non è un elemento sempre necessariamente dato, rispetto al quale il giudice sia posto in posizione solo passiva. Egli ha la possibilità, in misura variabile alla stregua di molti fattori, di contribuire alla formazione e al consolidamento di quelle strutture «obiettive» di significato e valore che qualificano la sua attività come giudice. Il «magistero» spirituale che i giudici possono svolgere è, infatti, del più alto significato e contribuisce fattivamente alla creazione, al mantenimento e al mutamento del quadro culturale di cui si sta parlando. b) In tale quadro, si collocano i principi di diritto, i quali orientano immediatamente le categorizzazioni di senso e di valore relativamente ai singoli casi che devono essere ‘trattati’ giuridicamente. Le norme giuridiche di principio sono dunque anch'esse fattori di precomprensione, in quanto partecipano alla determinazione delle coordinate culturali dell'interprete entro le quali ‘cade’ il caso da decidere. Nessun più significativo riferimento esemplificativo può farsi che all'arringa «In difesa di Danilo Dolci»27, pronunciata il 30 marzo 1956 da Piero Calamandrei, un giurista normativista e positivista, il quale all'Assemblea costituente aveva decisamente osteggiato l'inserimento delle norme di valore 27 In «Il Ponte», 1956, p. 529 ss. 21 nella Costituzione, in quanto le si pretendeva prive di significato giuridico e fonti di confusione28. Nell’occasione appena ricordata, invece, di fronte a un caso concreto, proprio a quelle proclamazioni che in precedenza erano state squalificate come inutili e vuotamente retoriche egli assegnò la decisiva funzione di inquadrare in una adeguata comprensione di senso e valore i fatti di causa, legati alle lotte per l'emancipazione delle popolazioni meridionali, ai fini della ricerca della specifica norma giuridica adeguata alla risoluzione del caso: un caso di blocco stradale che non poteva essere ‘inteso’, ‘precompreso’ come una banale violazione della legge di polizia, ma come un atto di resistenza all’ingiustizia sociale condannata dall’art. 3, secondo comma, della Costituzione. Sorprendente è invece l’incomprensione del significato delle norme di principio che risulta dalle sentenze n. 372, 378 e 379 del 2004 Della Corte costituzionale, a proposito di norme di principio inserite in Statuti regionale (a proposito del diritto di voto degli stranieri, delle convivenze di fatto, della protezione dell’ambiente e dei diritti degli animali). Si legge: “alle enunciazioni in esame, anche se materialmente inserite in un atto-fonte, non può essere riconosciuta alcuna efficacia giuridica (?), collocandosi esse precipuamente sul piano dei convincimenti espressivi delle diverse (?) sensibilità politiche presenti nella comunità regionale al momento dell’approvazione dello Statuto. D’altra parte tali proclamazioni di obiettivi e di impegni non possono certo (!) essere assimilate alle c.d. norme programmatiche della Costituzione, alle quali, per il loro valore di principio, sono stati generalmente riconosciuti non solo un valore programmatico nei confronti della futura disciplina legislativa, ma soprattutto una funzione di integrazione e di interpretazione delle norme vigenti. Qui però non siamo in presenza di Carte costituzionali ma solo (?) di ‘fonti regionali a competenza riservata e specializzata’, cioè di Statuti di autonomia, i quali, anche se costituzionalmente garantiti, debbono comunque ‘essere in armonia con i precetti e i principi tutti ricavabili dalla Costituzione’ (sent 196/2003). Se dunque si accolgono le premesse già formulate sul carattere non prescrittive e non vincolante delle enunciazioni statutarie di questo tipo ne deriva che esse esplicano una funzione, per così dire, di natura culturale o anche politica, ma certo non normativa”. A queste proposizioni, che difficilmente potrebbero definirsi motivazione, alla stregua delle considerazioni fin qui svolte (e per tacere di altre critiche) può opporsi questo rilievo: la funzione culturale di una norma non è un meno, ma un più rispetto alla normatività propria delle singole regole giuridiche. La Corte pare così caduta nel più angusto normativismo delle regole (così 28 Al riguardo, P. Calamandrei, La Costituzione della Repubblica italiana (1948), ora in Opere giuridiche, Napoli, Jovene, vol. III, 1968, p. 245 s. e P. Barile, La nascita della Costitu- zione: Piero Calamandrei e le libertà, in Scelte della Costituente e cultura giuridica, vol. II, Protagonisti e momenti del dibattito costituzionale, a cura di U. De Siervo, Bologna, Il Mulino, 1980, p. 15 ss. 22 anche là dove definisce il ruolo dei principi, riducendolo a uno scopo solo servente, integrativo e interpretativo di regole giuridiche). 4. Lo status concettuale dei principi di diritto rispetto a quello dei valori e delle regole. Stante la grande importanza dei principi nella vita del diritto è opportuna, a questo punto, una precisazione circa il loro statuto concettuale. I principi si collocano tra i valori e le regole, quali criteri di azione o di giudizio. Sullo sfondo della trattazione analitica di queste nozioni, sono in gioco questioni capitali come il fondamento di legittimità della giurisdizione e della giurisdizione costituzionale in particolare; la separazione dei poteri; la concezione stessa del diritto. a) valori e principi. Il valore nel senso che qui interessa è, per usare una terminologia classica, un valor naturalis, cioè un bene finale, fine a se stesso che chiede di realizzarsi attraverso attività teleologicamente orientate29. Esso “vale” come autorizzazione all’azione o al giudizio diretti al risultato, non come criterio di azione e di giudizio legittimi. Il criterio di validità dell’azione o del giudizio, infatti, non è nel valore ma nell’efficienza al fine-valore. Ogni mezzo è autorizzato in quanto sia funzionale. Il valore giustifica qualunque mezzo e tutti i mezzi possono, nelle diverse circostanze, essere (spacciati per) utili o necessari. Tra l’inizio e la fine dell’agire “per valori”, può esserci di tutto, perché il valore copre di sé qualsiasi azione e interesse corrispondente. Il più nobile valore può giustificare la più abietta delle azioni; il dritto può nobilitare il rovescio: la pace, la guerra; la libertà, gli stermini di massa. Perciò chi, almeno nel campo del diritto, troppo sbandiera valori è spesso un imbroglione. La massima dell’etica dei valori è: giudica e agisci 29 J. Habermas, Faktizität und Geltung, Frankfurt a.Main, Suhrkamp, 1992, pp. 309 ss. (trad. it., Fatti e norme, Milano, Guerini, 1996, pp. 302 ss. 25 secondo. «Quando i fini [i valori] sono grandi», è stato scritto, «l’umanità […] non giudica più il delitto come tale, anche se usasse i mezzi più spaventosi». Valori e principi si esprimono entrambi all’indicativo: è, sono. Nel caso dei valori, il predicato è “è valido”, dunque deve essere assicurato; nel caso dei principi, il predicato è normativo: “è intangibile; è immodificabile; è inviolabile”. Questa è una differenza esteriore che consente di distinguere i valori dai principi. Tuttavia la differenza è sottile, cosicché uno stesso bene della vita può essere trattato come valore o come principio, con esiti diametralmente opposti. Ad esempio, il richiamo al bene della vita, come valore, vale per i fanatici a giustificare le azioni violente contro le équipes mediche delle cliniche che operano aborti; la protezione della vita come principio, invece, apre la discussione sulle effetti che razionalmente il principio implica rispetto a un fatto come l’interruzione volontaria della gravidanza, nelle diverse circostanze della vita in cui può presentarsi come possibilità o necessità. Onde la conclusione che l’elemento decisivo della distinzione non si trova tanto nel contenuto, ma nel modo di considerare quel contenuto. Uno stesso contenuto può essere visto come valore o come principio, con le opposte conseguenze pratiche che si sono indicate. La necessità di tenere nettamente distinte le due prospettive deriva anche dall’esigenza poi di difendere la “giurisprudenza per principi” dalle molte critiche che, in nome prima di tutto della prevedibilità e della certezza, sono rivolte alla “giurisprudenza per valori”. b) principi e regole. Si è molto discusso sulla natura dei principi e su ciò che li distingue dalle regole33. Se si lascia da parte la tesi del carattere non giuridico, ma politico o 33 Per un esposizione critica delle dottrine tradizionali sui principi e sul loro rapporto con le regole, F. Modugno, Principi e norme. La funzione limitatrice dei principi e i principi supremi o fondamentali, in AA. VV., Esperienze giuridiche del ‘900, Milano, Giuffrè, 2000, 26 morale, dei principi, posizione derivante dalla ormai generalmente superata concezione imperativistica del diritto (il diritto come comando del legislatore), il positivismo giuridico si richiama ancora all’art. 12 delle disp. prel. al codice civile e concepisce i principi come generalizzazioni delle regole, dunque come “norme” non scritte molto generali, implicite nelle singole norme particolari. Esse dovrebbero portarsi alla luce dall’interprete per colmare lacune dell’ordinamento giuridico e, così, formerebbero un elemento essenziale delle teorie che sostengono la cosiddetta “completezza dell’ordinamento giuridico”. E’ solo un perfezionamento di questa concezione – perfezionamento che tiene conto del fatto che sempre più spesso, a incominciare dalla Costituzione, il diritto attuale si esprime per mezzo di norme espressamente poste che si richiama all’idea del diritto come comando o precetto posto dal legislatore (concezione imperativista) – quella che ha condotto, sulla base di un famoso studio di Vezio Crisafulli34, ad attribuire ai principi costituzionali la funzione di criteri per saggiare la validità di regole particolari (oltre che di orientarne l’interpretazione). Sarebbe come dire che il principio contiene un nucleo precettivo al quale le regole che riguardano fattispecie particolari devono confrontarsi. Se principio e regola sono posti da fonti aventi la stessa efficacia giuridica (ad es. da due leggi), la regola, come disposizione di specie, prevale normalmente sul principio, secondo i criteri ordinari dell’interpretazione (lex specialis derogat generali). Ma ciò non vale più se il principio è posto da una fonte costituzionale. In questo caso, esso invaliderà la regola. Questo è un modo per attribuire valore giuridico ai principi, ma sempre nella prospettiva del loro carattere di norma molto generale, dunque di norma che non si distingue qualitativamente dalle regole. pp. 85 ss. e pp. 111 ss., con posizione che non differisce, se non su aspetti particolari, da quella qui esposta nel testo. 34 V. Crisafulli, La Costituzione e le sue disposizioni di principio, Milano, Giuffré, 1952. 27 La critica più chiara (e convincente) a questo modo di concepire i principi come “norme molto generali” è ancora quella mossa da Emilio Betti35, per il quale non sarebbe possibile formularli in termini precettivi, ciò che li ridurrebbe al rango di “norme qualunque”. Nei principi sarebbe compresa una potenzialità di natura valutativa e assiologia, una “eccedenza di contenuto deontologico (o assiologico, che dir si voglia)” incompatibile sia con la loro ricavabilità per induzione da regole particolari, sia con la semplice riduzione a fonte di regole particolari tramite la deduzione. Onde, una differenza di status concettuale tra principi e regole. Fin qui, tra questa concezione e quanto qui sostenuto c’è accordo. Il distacco sta invece nella conseguenza che Emilio Betti trae da queste proposizioni: il carattere non giuridico ma di meri criteri interpretativi e programmatici per lo sviluppo della legislazione. La tesi che qui sosteniamo è, per l’appunto, che il principio è qualcosa di diverso da una regola molto generale e che, ciò non ostante, esso è norma giuridica, anzi norma giuridica del massimo valore nell’attività interpretativa e applicativa del diritto, secondo quanto già osservato circa la loro importanza nella categorizzazione del significato e del valore dei casi. Principi e regole orientano azioni e decisioni in circostanze determinate ma cambia il carattere dell’orientamento che ne deriva. Le regole, secondo la formula ormai celebre di Ronald Dworkin36, valgono nella logica del o-tutto-o-niente: esse sono cogenti e o le si rispetta integralmente o le si viola altrettanto integralmente. Dati certi fatti che esse prevedono ne devono derivare le conseguenze predeterminate. E’, in altri termini, il modello di regola giuridica che Hans Kelsen esprime con l’altrettanto celebre formula imperativa ipotetica: se è a, deve essere b, senza margini di discrezionalità. 35 E. Betti, Interpretazione della legge e degli atti giuridici (Teoria generale e dogmatica), II ed. a cura di G. Crifò, Milano, Giuffré, 1971, p. 316. 30 richiede la sua “concretizzazione”, cioè la sua riduzione a una formula che contenga sia una fattispecie riferibile a un accadimento storico, sia la conseguenza che ne deve derivare. La concretizzazione del principio avviene a opera o dal legislatore per mezzo di una regola che guarda agli accadimenti futuri, o dal giudice per mezzo di una decisione che guarda agli accadimenti passati. In determinate materie, questa seconda ipotesi, in cui il giudice viene indubbiamente a svolgere una funzione normativa nel caso concreto – sia pure una funzione non libera ma vincolata al ed esecutiva del principio da attuare - viene espressamente esclusa. È il caso, normalmente, del diritto penale dove, in nome del principio di legalità inteso in senso stretto (art. 27 Cost.) si preferisce che sia sempre il legislatore tramite regole preventive e il più possibile certe a prevedere reati e pene. Ed è il caso dell’art. II-112 del progetto di Trattato costituzionale per l’Unione europea, dettato al fine di evitare un potenziamento oltre misura della giurisdizione, in attuazione diretta del ricchissimo catalogo dei diritti, riconosciuti in disposizioni di principio, che tale Trattato contiene38. Ma, al di là di questa eccezione, regole e principi operano spesso congiuntamente o parallelamente. Rispetto ai principi, le categorie tradizionali della interpretazione e della creazione di diritto, elaborate dal positivismo delle regole, devono essere intese avendo riguardo alla natura particolare di queste norme. (a) Non si tratta di interpretazione, nel senso ad esempio dell’art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile, perché le formule che esprimono i principi giuridici contengono ben poco da interpretare. Esse sono spesso espressioni “basate su sempre nuove ricezioni di terza o quarta mano” (Rudolf Smend), ma non per questo meno venerabili, di tradizioni storiche (ad es., 38 art. II-112, § 3: “Le disposizioni della presente Carta che contengono principi possono essere attuate da atti legislativi ed esecutivi adottati da istituzioni, organi e organismi dell’Unione e da atti di Stati membri allorché essi danno attuazione al diritto dell’Unione, nell’esercizio delle rispettive competenze. Esse possono essere invocate dinanzi a un giudice solo ai gini dell’interpretazione e del controllo di legalità di detti atti”. 31 l’habeas corpus) o di contesti filosofici di significato (ad es., la persona umana) che, più che essere interpretate attraverso l’analisi del linguaggio contenuto in un testo, come è per le regole, devono essere intese nel loro ethos. Tante volte è stato ormai notato che il diritto per principi ne comporta inevitabilmente una “eticizzazione”. Perciò, si può dire in breve che, mentre alle regole si ubbidisce, ai principi si aderisce. (b) La concretizzazione del principio non è nemmeno creazione di diritto nuovo, nel senso di una estensione del campo di riferimento del diritto a materie, rapporti, situazioni nuove. Il caso ricade già sotto il diritto. In presenza di un principio pertinente, il giudice non può trincerarsi dietro la carenza di diritto per rigettare una domanda per irrilevanza giuridica. Egli deve invece ragionare costruttivamente sul caso, alla luce del principio, e da qui dare una risposta. Non sarà un ragionamento sillogistico, ma un ragionamento non formalizzabile, fatto di inferenze e deduzioni di varia natura. Ma sarebbe una forzatura dire che i principi sono regole incomplete, cioè regole difettose e incapaci di operare come diritto, come se l’ideale sistema giuridico dovesse ritenersi quello composto da sole regole. In realtà principi e regole sono modi di normazione che sollecitano in pratica diversi atteggiamenti pratici. Se l’ordinamento giuridico fosse composto solo di regole, sarebbe un orario ferroviario e i giuristi sarebbero manovratori di scambi nei tempi e luoghi stabiliti. Per fortuna, il diritto non corrisponde a questo ideale dei positivisti delle regole e il lavoro dei giudici e dei giuristi non è quello di un impiegato delle ferrovie. Trattandosi dunque di diritto applicabile, come quello contenuto in regole, si comprende la doppia funzione dei principi: (a) essi, come abbiamo già visto, svolgono una funzione essenziale nell’orientare la comprensione del significato e del valore del caso da decidere; a ciò si aggiunge (b) la funzione di orientare la determinazione della regola da applicare al caso. In un ordinamento composto 32 esclusivamente da principi, la giurisprudenza è segnata profondamente in senso etico, in conseguenza dell’adesione che esso richiede ai suoi giudici, e in senso costruttivistico, in conseguenza della necessità in cui i giudici si trovano di costruire argomentando, a partire dai principi, la regola necessaria alla decisione del caso. c) valori, principi e regole. E’ possibile collocare regola, principio e valore in una sequenza di inferenze. La regola che commina una pena a compie atti di tortura presuppone il principio dell’intangibilità della dignità della persona e quest’ultimo rinvia alla persona umana come valore. La regola che punisce il sequestro di persona presuppone il principio dell’inviolabilità della libertà personale e ciò rinvia alla libertà come valore. La regola che stabilisce una pena per l’omicida, rimanda al principio dell’indisponibilità della vita umana da parte di altri esseri umani e questo principio rinvia alla vita come valore. La regola che prescrive la punizione del ladro presuppone il principio della garanzia della proprietà che a sua volta rinvia alla proprietà come valore. Anche per le regole apparentemente solo tecniche, come quelle della circolazione del traffico automobilistico – un topos in queste discussioni – si può ripetere la stessa cosa. La regola che impone il lato destro (o, eventualmente, il sinistro) nella circolazione delle automobili presuppone il principio della necessaria disciplina uniforme del traffico in vista dell’incolumità delle persone come valore. In astratto, si può dire che non c’è regola che non risponda a un principio e non c’è principio che non si colleghi a un valore. Il principio è il medium nel quale troviamo un’apertura “morale” al valore e un’apertura “pratica” alla regola. 35 esistente in un’epoca determinata. Qui basta questo accenno che porterebbe molto lontano, in questioni di teoria generale del diritto la cui esistenza qui importa semplicemente che sia evocata. 5. La ricerca della norma di diritto. Il problema dei metodi Dalla categorizzazione di significato e valore del caso si dipana la ricerca della norma giuridica adeguata (in tedesco, si usa l’espressione Rechtsfindung), facendo uso dei diversi metodi dell'interpretazione. Naturalmente, la persuasività dell’intera ricostruzione dell’interpretazione e applicazione del diritto che si sta proponendo in questo capitolo si basa sul seguente duplice presupposto: che la norma non esista prima dell’interpretazione, ma debba essere costruita attraverso l’interpretazione; e che l’interpretazione non sia predeterminata da ragioni integralmente fissate dal diritto stesso. Se si trattasse di un dato e non di un risultato, e se questo risultato fosse già rigidamente precostituito dalla norma, la “pressione del caso” si scontrerebbe con la “graniticità” della norma stessa e l’idea fondamentale della ricerca a partire da qualcosa di esterno alla norma - il caso - non sarebbe giustificata. Il positivismo normativista, almeno nelle sue versioni più semplici e ingenue, si basa per l’appunto su queste premesse, per escludere dall’interpretazione ogni rilievo di elementi esterni al diritto. Poiché l’ordinamento giuridico non lascia libertà all’interprete ma disciplina specificamente l’interpretazione, stabilendo quali sono i criteri o metodi ammessi, si dovrebbe dire – secondo il positivismo – che il risultato interpretativo ammissibile non potrebbe che essere uno e uno solo, quello che deriva derivante dall’unica ed esclusiva applicazione corretta dei metodi dell’interpretazione. 36 Sennonché, questo modo di vedere l’interpretazione è totalmente irrealistico. La ricerca interpretativa non è determinata dal metodo: è la scelta del metodo a essere determinata dalla (direzione della) ricerca interpretativa. Le tradizionali concezioni che risolvono il problema dell'interpretazione in questioni di corretta scelta dei metodi non aiutano in alcun modo data l'evidente improduttività di ogni ricerca basata sui soli metodi di per se stessi privi di significato. In effetti, nessun interprete ha mai ricevuto ausilio, in caso di dubbio, dalle indicazioni dell'art. 12 delle disp. prel. c.c., il quale prescrive, oltretutto con poca chiarezza, come metodi dell’interpretazione, la lettera, il sistema, e l’intenzione, senza peraltro alcuna determinazione di gerarchie tra di essi. Si è os- servato41 che le motivazioni delle sentenze e anche i reali processi di formazione del convincimento del giudice rimangono sostanzialmente indifferenti a ogni indicazione di metodo aprioristica e astratta, tanto .più – si deve aggiungere - che è frutto di un pensiero che si avvolge su se stesso l'idea stessa che i criteri dell'interpretazione possano essere posti dalle stesse fonti da interpretare. Le norme sull’interpretazione devono infatti essere esse stesse interpretate e, evidentemente, la loro interpretazione è libera, non potendo essere condizionata dai metodi interpretativi che esse prescrivono, conoscibili solo dopo effettuata l’interpretazione. Vale qui l’impossibile autoreferenzialità di tutte le proposizioni, comprese quelle giuridiche42. Così, l’intenzione del legislatore, prescritta come criterio di interpretazione dall’art. 12 delle disp. prel. c.c., può liberamente essere intesa (come è in effetti) come attinente sia al legislatore storico che ha creato la legge, sia al legislatore ipotetico che crei la legge nel momento in cui la si interpreta. La differenza è radicale perché conduce a escludere l’interpretazione evolutiva nel primo caso, e ad ammetterla nel secondo. Questa decisiva questione 41 L. De Ruggiero, Sul concetto di precompressione, cit., p. 577. 42 G. Zagrebelsky, Appunti in tema di interpretazione e di interpreti della costituzione, in «Giur. cost.», 1970, pp. 911 ss. 37 dell’interpretazione non è dunque risolvibile alla stregua della norma sull’interpretazione. I canoni dell’interpretazione sono infatti per loro natura esterni ai testi da interpretare, compreso il testo che pretende di stabilirli. Ribadiamo: la scelta del metodo interpretativo non viene prima dell'interpretazione; il problema dell’interpretazione non è, insomma, il problema della scelta del metodo interpretativo. Quest’ultimo è solo un mezzo al fine. Non si deve però arrivare a dire nichilisticamente che il metodo si riduce a semplice artificio retorico per giustificare qualunque decisione interpretativa già definitivamente assunta in precedenza. L'aspettativa di soluzione che la precompressione contiene in sé deve infatti dimostrare di poter essere soddisfatta con l’impiego dei metodi di cui l'interpretazione giuridica può legittimamente avvalersi. Allo stesso modo, a nessuno verrebbe in mente di pensare che l'interpretazione di una pagina musicale consista in sf, p, pp, f, ff, mf, crescendo o diminuendo, rubato o ritardato, legato o staccato: questi sono strumenti espressivi di cui si avvale l'interprete per raggiungere il suo scopo, ma l'interpretazione è ciò che muove la scelta di tali strumenti, avvalendosi di essi per raggiungere il suo risultato interpretativo. L'esistenza di un mezzo che produce il risultato conforme all'aspettativa è condizione di realizzabilità dell'aspettativa. La pluralità dei metodi è condizione di una ricerca aperta, adeguata caso per caso. Ma non esiste la sicurezza che sempre si possa trovare ciò che si cerca. Come in qualsiasi ricerca, può accadere che non si trovi nulla o si trovi qualcosa di diverso da quel che si cercava. I metodi sono dunque, al tempo stesso, limite e mezzo della ricerca: quanto più sono numerosi, tanto maggiori saranno le possibilità di successo dell'interpretazione, cioè le possibilità di esprimere dall'ordinamento una norma 40 esclusivamente casistica della giurisprudenza, come vogliono le tendenze che si richiamano, più o meno da vicino, alle posizioni del «diritto libero». La struttura globale della giurisprudenza, come riflesso del diritto in quanto ordinamento, non può essere determinata soltanto dal caso. Attribuire il primato assoluto al caso problematico significa negare il vincolo dell'interprete al diritto, il richiamo al quale avrebbe allora, nell’argomentazione giuridica, nient’altro che il significato di un topos come un altro, di un punto di vista meritevole di considerazione ma pur sempre superabile quando altri punti di vista persuadessero diversamente. Contro l'immagine di una scienza giuridica interamente determinata dal caso, si può dire che «di per se stessa non avrebbe più nulla a che fare con la giurisprudenza»46 24. I criteri interpretativi sono numerosi: oltre a quelli dell'art. 12 disp. prel. c.c., è fondamentale il ricorso alle norme costituzionali di principio. Esse, pur non regolando nulla, nel senso delle norme del positivismo giuridico, possono tuttavia, oltre che – come già visto - condizionare la categorizzazione del caso, costituire chiavi per aprire nell'ordinamento porte che altrimenti resterebbero chiuse. Queste norme, squalificate dal positivismo (e dalle sentenze della Cosrte costituzionale sopra citate) al rango di inutili proclamazioni, mostrano al contrario il loro doppio valore, su entrambi i Iati dell'interpretazione giuridica che ne risulta così totalmente dominata. Malgrado l’apertura dell’interpretazione alle esigenze dei casi, un punto deve egualmente essere considerato con la massima cura: il carattere sistematico del diritto (dal quale nasce la possibilità di procedere attraverso sue progressive «dogmatizzazioni») . Il diritto è ordinamento giuridico e questo, per essere tale, deve concepirsi sotto l'imperativo del principio di non contraddizione. Se questo principio vale in modo evidente per le leggi, la cui contraddizione è causa di 46 L. Mengoni, Problema e sistema, cit., p. 47. 41 incostituzionalità per irrazionalità (v. infra, …), vale allo stesso modo per le interpretazioni delle leggi: anzi, le due esigenze di coerenza - delle leggi e delle interpretazioni - si confondono tra loro. Le interpretazioni ammissibili, conformemente all'idea (e al valore) del diritto come ordinamento, sono solo quelle riconducibili a una unità sistematica. Il problema della sistematicità delle interpretazioni si manifesta tutte le volte in cui alle esigenze dei «casi» si contrappone l'esigenza del diritto. La «regola adeguata al diritto», di cui si è parlato nella definizione dell'interpretazione, non è perciò quella giustificabile solo alla stregua di uno dei molteplici possibili metodi di interpretazione (ciò che, per le ragioni anzidette, sarebbe cosa assai banale e privo di fondamento) ma è quella che rispetta altresì la natura del diritto come ordinamento. Un ordinamento, si deve aggiungere, non concepito come qualcosa di immobile e indifferente, ma potenzialmente idoneo a essere ri-creato sistematicamente in occasione di una nuova interpretazione che risulti così generalizzabile nel sistema e non sia una «rottura» episodica dello stesso. Il caso dunque preme sul diritto in vista di una regola, ma di una regola giustificata sistematicamente. A sua volta, la necessità sistematica limita e orienta la ricerca della regola, «definendo le condizioni di ciò che è giuridicamente possibile e, in particolare, le possibilità di costruire giuridicamente i casi»47 25. L'influenza del caso nell'interpretazione non distrugge così la possibilità di pensare il diritto come sistema, per mezzo di schemi generali di riferimento, costruiti sistematicamente sulla base dei rapporti genere-specie, regola-eccezione. Su questa base, si possono elaborare i c.d. dogmi giuridici, la cui esistenza è d'altronde essenziale esigenza di una cultura giuridica che voglia procedere senza accumuli progressivi di dubbi, incertezze e continui ricominciamenti e miri a 42 creare una communis opinio giuridica. Senza riferimenti generali, ogni opinione varrebbe come un'altra e dovrebbe riconoscere la sua relatività, ponendosi così le premesse dell'anarchia nel diritto. Il pensiero giuridico sistematico e dogmatico non è dunque bandito dall’idea della continua interrogazione dell’ordinamento a partire dai casi ma, per essere compatibile con quello che si può definire - secondo l’espressione di Luigi Mengoni - il “pensiero problematico”, non deve assumere posizioni rigide assoluta che comportino la pietrificazione difensiva dei suoi prodotti contro le novità che la vita del diritto gli presenta come sfide. L'una e l'altra forma di pensiero (sistematica e problematica) possono beneficiarsi reciprocamente, in quel gioco di influenze che forma il circolo interpretativo. Il pensiero problematico sollecita la «fantasia dogmatica»48 e così il pensiero dogmatico sollecita la riconsiderazione problematica del caso, mettendo alla prova le categorie di significato e valore che siano state utilizzate nella sua prima considerazione. Insomma, «la dogmatica giuridica assoggetta i risultati del pensiero problematico a una verifica ulteriore dal punto di vista della razionalità del sistema, il quale `ha le sue ragioni' che non sono necessariamente coincidenti con quelle fatte valere da punti di vista extrasistematici»49. E’ questa una posizione difficile nella pratica quotidiana del diritto, ma è l’unica che non sacrifica le «novità» della vita sociale mortificandole sotto la cappa di un pensiero giuridico morto e, al contempo, fa salve le ragioni essenziali del diritto come sistema. Quanto ora osservato vale per differenziare qualitativamente l’attività di interpretazione da quella di creazione del diritto, cioè - sotto altro aspetto - l'attività del giudice da quella del legislatore. Si potrà sostenere che le decisioni dei giudici creano diritto, in uno dei possibili sensi di questa equivoca espressione, 47 L. Luhmann, Rechtssystem, cit., p. 50. 48 L. Mengoni, Problema e sistema, cit., p. 57. 45 sistematiche che ricombinano in nuove architetture i singoli elementi del diritto costituzionale. In questo contesto, la pressione innovatrice dei casi è maggiore che altrove. E’ del resto un luogo comune la sottolineatura della particolare plasticità dell’interpretazione costituzionale che spiega la capacità delle Costituzioni di adattarsi, evolvendo senza riforme esplicite, a condizioni storiche nuove. La natura di ‘principi’ senza fattispecie delle sue principali norme della spiega la speciale malleabilità della materia di cui è fatta la Costituzione. Queste considerazioni trovano evidenti conferme e amplificazioni in riferimento alle norme costituzionali che si esprimono attraverso concetti indeterminati che richiedono di essere sostanziati attraverso l'impiego di concezioni. Le concezioni dei concetti sono fuori della Costituzione e necessariamente spetta all’interprete determinarle. Basterebbe pensare alla «non arbitrarietà» delle leggi (infra, …). Per quanti sforzi si facciano per raziona- lizzare l'uso di questo criterio di legittimità costituzionale delle leggi, è evidente che in questa evenienza ci si trova di fronte alla «categorizzazione» del caso quasi allo stato puro, mentre i vincoli derivanti dal diritto costituzionale sono assai sfumati: il caso è già risolto nel momento in cui viene «inteso» dall'interprete. È fuorviante illusione di un'ingenua aspirazione alla certezza assoluta il presupporre l’esistenza di un «modello» costituzionale oggettivo per poi confrontare o contrapporre, come soggettive e perciò «politiche», le interpretazione che vengono date, in primo luogo, dalla Corte costituzionale. Il modello costituzionale non è un dato ma un risultato che si costruisce in relazione ai casi. Occorre rammentare la funzione dei criteri generali di categorizzazione di significato e di valore. Senza di essi, non si esce dalle strettoie di due opposte unilateralità: una concezione cristallizzata della costituzione, da un lato; una visione solo casistica della decisione costituzionale, dall'altro. Tali criteri sono invece il termine medio che può dare consistenza all'interpretazione, sottraendo 46 sia la comprensione di significato e di valore del caso, sia la ricerca della regola al puro soggettivismo dell’interprete e, al contempo, relativizzando la visione statica e fredda della costituzione e rendendola sensibile alle esigenze regolative cui deve corrispondere. Tali criteri insomma stabilizzano e insieme consentono il progresso dell'interpretazione. Ecco allora l'importanza dei topoi costituzionali, per così dire luoghi comuni cui attenersi nella determinazione del punto di equilibrio tra esigenze casistiche e esigenze sistematiche. Quel che da una teoria dell'interpretazione costituzionale si dovrebbe pretendere non è un insensato discorso sui metodi dell'interpretazione, ma una messa a punto di questi «luoghi» interpretativi, conformemente ai caratteri della costituzione che deve essere fatta valere e dei casi che devono essere decisi. Qui di seguito, si tenta di dare qualche indicazione su alcuni di questi «luoghi comuni» che orientano le interpretazioni e le applicazioni della Costituzione. (a) Scopo generale di una costituzione pluralistica come quella vigente (supra, ...) è preservare intatte le possibilità della competizione politica e sociale, cioè. impedire che una forza, una maggioranza, un movimento giungano a imporre modelli politico-culturali totalizzanti, che escludano tutti gli altri, una volta per tutte. L'interpretazione costituzionale mira all'organizzazione di una società aperta al conflitto, al quale possano accedere le parti senza discriminazioni e privilegi. Questo comporta la particolare attenzione che deve essere dedicata alla difesa delle c.d. regole del gioco democratico che sono garanzia del carattere ‘aperto’ della costituzione pluralista. In questo senso, si spiega la distanza che la Corte costituzionale ha preso, nella sentenza n. 34 del 1985, dalla c.d. contrattazione neocorporativa, quale super-fonte materiale, definita “costituzionalmente anomala”, una fonte che avrebbe cristallizzato la produzione del diritto nella materia delle relazioni sindacali. 47 Per la medesima ragione, l’interpretazione delle norme non procedurali ma sostanziali della Costituzione deve essere condotta dalla Corte costituzionale in vista non dell’imposizione positiva di una soluzione con l’esclusione di ogni altra, ma in vista dell’esclusione di quelle incompatibili con il quadro costituzionale. Entro tale cornice, devono rimanere possibili determinazioni diverse, lasciate alla libera dinamica politica (la c.d. discrezionalità del legislatore). Molto appropriatamente anche dal punto di vista italiano, è stato detto dal Tribunale costituzionale spagnolo che «in un sistema di pluralismo politico, la funzione del Tribunale costituzionale è fissare i limiti entro i quali possono operarsi legittimamente le distinte opzioni politiche, poiché in linea di massima risulta chiaro che l'esistenza di una sola scelta è la negazione del pluralismo». «La Costituzione offre un quadro di riferimento sufficientemente ampio da consentire scelte politiche di segno diversissimo. L'attività di interpretazione della Costituzione non consiste necessariamente nello sbarrare il passo a determinate scelte o ai cambiamenti, imponendo d'autorità uno di essi. A questa conclusione si dovrà giungere soltanto quando il carattere univoco dell'interpretazione sia imposto dal gioco dei criteri ermeneutici. Vogliamo dire che le scelte politiche e di governo non sono preventivamente stabilite una volta per tutte, in modo che l'unica cosa che resti da fare in seguito sia sviluppare questo programma stabilito»51 29. Nella giurisprudenza della Corte costituzionale italiana non si riscontrano affermazioni altrettanto chiare ma lo stesso criterio sottostà a varie linee giurisprudenziali ed è particolarmente visibile, e giustificato, su quei temi che sono oggetto di contrasto forte e vivo tra le forze politiche e culturali. La riluttanza a dare definizioni costituzionali irrimediabili per le posizioni di qualcuna delle parti è del tutto giustificata dalla funzione che è assegnata alla giustizia costituzionale. La Corte costituzionale è chiamata a chiarire i limiti massimi del confronto legittimo, non a includere o escludere definitivamente questa o quella posizione (a meno che non si esca dai limiti). Essa svolge dunque 51 Sentenze 2 febbraio e 8 aprile 1981 su cui J. Salas, Il Tribunale costituzionale spagnolo e la sua competenza in riferimento alla forma di governo. I suoi rapporti con i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, in «Quaderni costituzionali»,1982, pp. 631 ss. 50 alle esigenze della società, è una interpretazione nemica della costituzione; e così pure le interpretazioni solitarie, ignare delle loro conseguenze, le interpretazioni incapaci di sollecitare dialogo e confronto. La categorizzazione del senso e valore operata dalla Corte dipende (deve dipendere) dunque anche dallo stato del dibattito giuridico-politico. L'intelleggibilità sociale delle decisioni della giustizia costituzionale e la costruzione di un contesto comunicativo in cui le sue decisioni devono inserirsi esigono questa attitudine. Una esemplificazione pratica di quanto si è detto può essere tratta, nella giurisprudenza costituzionale, dalla percezione di atteggiamento di chiusura centralistica nei confronti delle aspettative delle autonomie regionali, percezione diffusasi nel corso degli anni '70. Una conseguenza fu quella che venne definita la «fuga» delle regioni dalla giurisdizione costituzionale. La fiducia nella giustizia costituzionale era crollata. Il risultato è stato la «decostituzionalizzazione» dei rapporti tra stato e regioni. Il quadro è stato modificato nel decennio successivo attraverso una sostanziale correzione di rotta della giurisprudenza costituzionale che ha conseguentemente alimentato una «ricostituzíonalizzazione» di questo essenziale settore di rapporti costituzionali. Una situazione analoga, secondo alcuni commentatori, rischia di riprodursi nei anni in corso, dopo la modifica del Titolo V della II parte della Costituzione che, sulla carta ha potenziato posizione e ruolo delle Regioni e delle autonomie locali nell’ambito dell’organizzazione complessiva della Repubblica: una modifica il cui spirito non sembra entrato nell’aria che si respira nel Palazzo della Consulta. Ecco dunque un altro canone: l'interpretazione della costituzione come mezzo per promuovere il valore della costituzione come intero. Questa proposizione richiede un approfondimento. Ogni parte in causa nelle controversie costituzionali è naturalmente portata a intendere la regola costituzionale secondo il punto di vista favorevole alla difesa delle proprie posizioni. Si comprende allora pienamente l'importanza che per l'effettività della giustizia costituzionale assume la tessitura di un dialogo, da cui trovare alimento e sostegno, con una «opinione pubblica costituzionale», con un comune sentire costituzionale non partigiano, proprio di quanti siano interessati alla stabilizzazione della vita politica attorno a 54 Formula di K. Hesse, Die normative Kraft der Verfassung, in Verfassung, a cura di M. Friederích, 51 principi fondamentali sottratti alla competizione quotidiana. La giustizia costituzionale presuppone un'opinione pubblica costituzionale, quasi un «partito della costituzione» (che naturalmente non sarebbe un partito come gli altri) su cui appoggiarsi per uscire dall'abbraccio distruttivo della vita politica partitica in senso stretto. Inutile dire, tuttavia, che spetta anche alla Corte stessa il primo passo, aprendo un dialogo per mezzo delle proprie pronunce con quella parte della società che è disposta a una visione «costituzionale» della vita politica55. (d) Le considerazioni che precedono aprono un discorso che si riprenderà tra breve circa l'esigenza di tenere la giustizia costituzionale al riparo dai «casi» in cui il carattere politico-conflittuale è assorbente, rispetto a quello costituzionale. Qui, occorre precisare che il consenso la cui promozione spetta alla Corte, nell'interesse della Costituzione e dell’efficacia pratica della giustizia costituzionale, riguarda il suo compito generale, non le sue singole decisioni. L'intento di promuovere il consenso di tutti su ciascuna decisione produrrebbe o l’impossibilità di decidere oppure decisioni di equità e mediazioni di interessi caso per caso56, non pronunce giudiziarie in nome e sul fondamento obiettivo del Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1978, pp. 86 ss. 55 Si veda l'appello alla «pubblica opinione», ricorrente nei discorsi dei Presidenti della Corte costitu- zionale, appello che, alla luce di quel che si dice nel testo, non ha nulla di retorico: ad es. E. De Nicola, Allocuzione del 23 aprile 1956 (in occasione della prima udienza pubblica}, in «Giur. cost.», 1956, p. 166; F.P. Bonifacio, Conferenza-stampa del 20 gennaio 1975, ibidem, 1975, p. 679. Alla stessa esigenza corrispondono molti degli interventi, più o meno ufficiali, con i quali i presidenti della Corte o singoli giudici intervengono a illustrare i significati delle maggiori decisioni. Sull'essenzialità di questo aspetto dell'opera della Corte costituzionale, C. Mortati, La Corte costituzionale e i presupposti della sua vitalità, ora in Raccolta di scritti, vol. III, Milano, Giuffrè, 1972, p. 690. 56 In argomento, con diversità di posizioni, L. Elia, La Corte nel quadro dei poteri costituzionali, in AA.VV., Corte costituzionale e sviluppo della forma di governo in Italia, a cura di P. Barile, E. Cheli, S. Grassi, Bologna, Il Mulino, 1982, p. 524; id., Giustizia costituzionale e diritto comparato, in «Quaderni costituzionali», 1984, p. 14 (con la precisazione che la mediazione - ma solo «dei grandi interessi» - si considera sempre arrischiata); P. Caretti - E. Cheli, Influenza dei valori costituzionali sulla forma di governo: il ruolo della giustizia costituzionale, ivi, p. 33; C. Mezzanotte, La Corte costituzionale: esperienze e prospettive, in AA.VV., Attualità e attuazione della costituzione, Bari, Laterza, 1979, pp. 169 ss.; F. Modugno, La Corte costituzionale oggi, in Scritti su «La giustizia costituzionale», in onore di V. Crisafulli, cit., p. 581; id., La funzione legislativa complementare della Corte costituzionale, in «Giur. cost.», 1981, p. 1662; A. Cervati, Riflessioni su alcuni orientamenti costituzionali in tema di procedimento legislativo, in Critica dello stato sociale, Bari, Laterza, 1982, p. 180; E. Cheli, Introduzione, in Corte costituzionale e sviluppo della forma di governo, cit., p. 17. Considerazioni nel senso del testo, già in La Corte costituzionale e il legislatore, in Corte costituzionale e sviluppo della f orma di governo in Italia, cit., p. 155. Per l'esigenza di distinzioni qualitative tra le sedi di composizione politica e giuridica dei 52 diritto costituzionale. È qui in gioco l'essenziale distinzione tra decisione di controversie giuridiche e la composizione forzosa di interessi57, quest'ultima da intendersi come presa di posizione sugli «interessi nudi» delle parti, come accade presso gli uffici di conciliazione, dove tali interessi non sono filtrati da criteri giuridici di valutazione. E’ chiaro che ogni controversia giuridica è sempre un contrasto di interessi e può perfino ammettersi che ogni risoluzione giudiziaria di controversie si risolva sempre in una composizione di interessi. Ma ciò non ha nulla a che vedere con la natura della decisione che li riguarda e in particolare non significa affatto postulare che tale composizione consista nel loro mero bilanciamento materiale. La risoluzione giudiziaria dei contrasti di interesse è un'altra cosa: essa richiede l'inserimento degli interessi in gioco in un quadro di regole indipendenti dalla forza materiale di ciascuna delle parti in contrasto. Il richiamo a una regola, di cui la decisione si presenti come applicazione nel caso concreto, è dunque il carattere minimo di ogni trattazione giuridica dei casi e di ogni loro risoluzione in via giurisdizionale. La regola potrà sì essere in molti casi, secondo quanto detto sopra, il risultato di bilanciamenti e mediazioni tra principi; ma l’applicazione della regola e quindi la soluzione del caso non potrà essere un compromesso, un arbitrato. Il richiamo a una regola da parte del giudice porta necessariamente a distinguere il campo tra ciò che è diritto e ciò che è violazione del diritto, tra chi ha ragione e chi ha torto, nella specifica controversia. Poiché la Corte costituzionale è una giurisdizione costituzionale e non un ufficio di conciliazione o di arbitrato e poiché ogni controversia costituzionale presuppone l'esistenza di una regola obiettiva da applicare (anche se il contenuto di tale conflitti sociali, M. Luciani, Le decisioni processuali e la logica del giudizio incidentale, Padova, Cedam, 1984, p. 176, nt. 94. 57 Sulla differenza tra controversia giuridica e contrasto d'interessi, H. Triepel, Streitigkeiten zwischen Reich und Ländern. Beiträge zur Auslegung des Artikels 19 der Weimarer Reichsverfassung, cit., pp. 19 ss. 55 qualunque tipo di giustizia, richiede necessariamente soluzioni eguali di casi uguali60. Naturalmente, la messa in opera dell’arte della distinzione è sempre possibile e frequentemente la Corte se ne avvale per argomentare la specificità del caso da decidere rispetto ad altri già decisi e quindi per rappresentare la la possibilità di invocare l'autorità dei propri precedenti. Ma dove questa possibilità di distinzione non c'è, la forza del precedente si fa e si deve far sentire. Da ricordare è il caso della seconda decisione circa la legittimità costituzionale della legge introduttiva dello scioglimento del matrimonio concordatario. Essendosi modificato il collegio giudicante, tra la prima (sent. del ) e la seconda decisione (sent. n. del ), ed essendo stato sostituito un giudice da un altro presumibilmente orientato diversamente e potendosi determinare un rovesciamento di maggioranza, la precedente decisione venne tuttavia confermata in pieno, in base all'esigenza di coerenza, prevalente sulla possibilità di una nuova valutazione nel merito della questione e di un rovesciamento della precedente decisione61 40. La continuità non esclude tuttavia la sua combinazione con il mutamento, anch'esso da valutare positivamente, alla stregua di una concezione non pietrificata della giurisprudenza. Il netto rev irement in tema di adulterio femminile (sent. nn. ) non è rappresentativo delle virtù innovative, nella continuità, che devono presiedere all’attività della Corte costituzionale. In quel caso, molto studiato, si è trattato infatti di una puntuale contraddizione di una decisione anteriore, successivamente ritenuta erronea e inadeguata. Si noterà però, a rileggere le motivazioni, che, anche allora, si è cercato di far apparire la seconda sentenza come uno sviluppo della prima, a riprova della difficoltà che la Corte costituzionale annette ai mutamenti di giurisprudenza e alla tendenza alla 60 Al riguardo, è significativo il monito di C. Esposito, La irresponsabilità dello Stato per eventi di servizio e gli artt. 28 e 3 della Costituzione, in «Giur. cost.», 1962, p. 5: «ancora peggiori degli indirizzi inesatti sono quelli contraddittori della Corte, che legittimano il dubbio che il legislatore e i sudditi della legge, più che ai giudizi, siano sottoposti alla volontà sovrana o arbitraria della Corte». 61 V. la testimonianza sul punto dell'allora giudice della Corte costituzionale F.P. Bonifacio, in A. Lopez P i n a (a cura di), Division de poderes y interpretacion. Hacia una teoria de la praxis constitucional, cit., pp. 178 ss. 56 dissimulazione62. A parte ciò, però, non c’è grande settore materiale di intervento della Corte in cui l’evoluzione non sia riscontrabile facilmente. Si può dire che in ciò si manifesta una funzione, non dichiarata ma preziosa, della giustizia costituzionale: far vivere e rivivere la Costituzione nel suo tempo conciliando continuità e innovazione: continuità nell’ispirazione fondamentale, innovazione nelle applicazioni particolari. (f) Le decisioni della Corte costituzionale non sono fatti isolati dall'insieme dello svolgimento della costituzione come realtà o esperienza costituzionale. Il compito della giustizia costituzionale non è l'applicazione formale del diritto costituzionale ai casi particolari, con totale indifferenza di fronte alle sue conseguenze, ma è la riconduzione della effettiva vita costituzionale alle norme della Costituzione. La Costituzione dello stato contemporaneo, essendo orientata a risultati materiali di giustizia, non si accontenta di una corrispondenza esclusivamente formale tra atti, senza consapevolezza degli effetti sociali concreti delle decisioni di costituzionalità, ma pretende di ricondurre alla costituzione non solo la catena degli atti giuridici ma anche la realtà della vita sociale e politica. Nell'ambito della ricerca della regola «adeguata ai casi», anche le conseguenze che decisioni, astrattamente possibili, possono determinare nella vita costituzionale e nel funzionamento concreto dell’ordinamento giuridico, assumono e devono assumere il loro posto63. Solo una concezione assurdamente cieca di fronte alla realtà del compito della giustizia costituzionale potrebbe ignorare questa necessaria conoscenza prognostica degli effetti della decisione da adottare, in ordine allo svolgimento regolare della vita costituzionale, nell'ambito della costituzione. Quest'ultima 62 Tendenza che non esiste presso altre Corti, operanti in altri sistemi e contesti giuridico- culturali, come le Corti supreme statali e federale degli Stati Uniti d’America. I loro siti informatici che promuovono ufficialmente la diffusione delle decisioni segnalano esplicitamente i casi di overruling. 57 precisazione dice che non si tratta (non si deve trattare) di una meschina «paura delle conseguenze dei propri atti», ma di una giustificata valutazione degli effetti, rispetto alla costituzione come insieme, di eventuali decisioni che, pur essendo particolari, possono avere conseguenze al di là del caso deciso. Si pensi alle decisioni che possono dare luogo a conseguenze incontrollabili sul funzionamento della forma di governo, sull'equilibrio del sistema economico, sull'equilibrata dislocazione del potere «privato» nella società, in vista della sua struttura pluralista, ecc. Sebbene i giudici costituzionali, in generale, dimostrino una certa reticenza – conseguente a un’inadeguata rappresentazione del compito della giustizia costituzionale, in rapporto al suo essere parte di un sistema costituzionale dalle numerose e delicate interdipendenze – non c'è dubbio che la weberiana ‘etica della responsabilità’ trovi in questo campo un terreno privilegiato di applicazione, fino al punto giustificare decisioni deludenti per le aspettative particolari, pur se saldamente fondate in termini di astratta argomentazione giuridica sul punto specifico in contestazione. Da ciò che precede, la regola potrebbe esprimersi sinteticamente così: la giustizia costituzionale deve facilitare, non rendere difficile l’integrazione dei rapporti tra soggetti privati e tra questi e soggetti istituzionali, nel senso della costituzione. Nella pratica, valutazioni di questo tipo sono frequenti. Esse spiegano la reticenza della Corte costituzionale a pronunciare decisioni incidenti sull'equilibrio finanziario dei soggetti pubblici e privati; ad affermare principi, in sé ineccepibili, che sconvolgerebbero però il regolare funzionamento di organi della Costituzione (sent. 212/1986, in tema di pubblicità delle udienze delle commissioni tributarie, ove si riconosce a chiare lettere l'incostituzionalità della disciplina vigente, ma non la si dichiara, «al fine di evitare gravi conseguenze», invitando il legislatore ad 63 L. Mengoni, L’argomentazione orientata alle conseguenze, in Ermeneutica e dogmatica giuridica, cit., pp. 91 ss. 60 «spazi vuoti di diritto costituzionale» nei quali la discrezionalità politica esiste e deve essere protetta dalle possibili ingerenze della giurisdizione costituzionale. L'idea, così esposta: dove c'è una norma per decidere il caso, questo è «giustiziabile»; dove non c'è, non è «giustiziabile», è chiara ma troppo semplice. A complicare la questione stanno le numerose norme costituzionali indeterminate, le quali si prestano a usi estensivi o restrittivi e quindi possono consentire al giudice costituzionale atteggiamenti più o meno attivistici, con la conseguenza di estendere o ridurre la sfera delle scelte costituzionalmente impregiudicate. Contro l'inclusione di queste norme nella costituzione si era pronunciato, già agli albori della giustizia costituzionale, Hans Kelsen, come si è già ricordato in precedenza. La preoccupazione, oltre a quella dell’eccessiva discrezionalità o ‘politicità’ che esse avrebbero comportato nell’esercizio della giurisdizione, era anche quella di preservare la sfera di attività degli organi politici e di proteggerla da incursioni improprie da parte di soggetti non politici, quali sono le corti di giustizia. Le corti costituzionali non sono chiamate a decidere in base al diritto naturale, un diritto nel quale ciascuno è libero di vedere i contenuti che vuole. Ma «la situazione è diversa solo in apparenza quando, come spesso accade, la stessa costituzione si riferisce a questi principi richiamando gli ideali di equità, di giustizia, di libertà, di eguaglianza, di moralità, ecc., senza minimamente precisare di che si tratti. Se queste formule servono solo a coprire 1'ideología politica corrente con la quale ogni ordinamento cerca di rivestirsi, il rinvio all'equità, alla libertà ecc. in mancanza di precisazione di questi valori, significa solo che tanto il legislatore quanto gli organi preposti all'esecuzione della legge sono autorizzati a riempire discrezionalmente lo spazio loro lasciato dalla costituzione e dalla legge. Le concezioni della giustizia, della libertà, dell'uguaglianza, della moralità, ecc., differiscono infatti talmente, a seconda dei punti di vista degli interessati, che, se il diritto positivo non consacra l'uno o l'altro di essi, qualunque regola di diritto può essere giustificata con una qualunque di queste possibili concezioni... Nel campo della giustizia costituzionale esse possono svolgere un ruolo assai pericoloso. Le disposizioni costituzionali che invitano il legislatore a conformarsi alla giustizia, all'equità, all'uguaglianza ecc., potrebbero infatti essere interpretate come direttive sul contenuto delle leggi: naturalmente a torto, giacché sarebbe così solo se la costituzione stabilisse una direttiva precisa». Se così av- venisse «la concezione della giustizia della maggioranza dei giudici del tribunale costituzionale 64 Utili, in proposito, le intuizioni di R. Thoma e H. Heller nel dibattito seguito alla proposta di H. Kelsen, in Wesen und Entwicklung der Staatsgerichtsbarkeit, cit., pp. 104 ss. e 110 ss 61 potrebbe essere considerata semplicemente intollerabile. La concezione della giustizia della maggioranza dei giudici di questo tribunale potrebbe contrastare del tutto con quella della maggioranza della popolazione e contrasterebbe evidentemente con quella del parlamento che ha voluto la legge... Per evitare un simile spostamento di potere - certamente non voluto e politicamente del tutto controindicato - dal parlamento a un organo estraneo e che può diventare il rappresentante di forze politiche ben diverse da quelle che si esprimono nel parlamento, la costituzione deve, specie quando crea un tribunale costituzionale, astenersi da questa fraseologia e, se intende porre principi relativi al contenuto delle leggi, li deve formulare nel modo più preciso possibile»65. In replica a Carl Schmitt e alla sua convinzione circa l’inevitabile politicità e, dunque, della mancanza di limiti della giustizia costituzionale, incompatibile con il rispetto dell'autonomia della politica, lo stesso concetto è ribadito da Kelsen riconoscendo l'importanza della questione circa i confini della giurisdizione costituzionale rispetto alla politica e risolvendola con l'invito a limitare quanto più possibile la discrezionalità che la costituzione attribuisce ai suoi interpreti quando contiene norme indeterminate. Ciò che occorre evitare sono gli arbitrari spostamenti di potere66. L'idea che la politicità della giustizia costituzionale si possa contenere eliminando le norme indeterminate – il che è quanto dire le norme di principio - è però inaccettabile e ingenua, anzi rappresenta una vera contraddizione, dal punto di vista storico-costituzionale. Ciò si comprende considerando che la giustizia costituzionale, come si è detto nel primo Capitolo, è coessenzialmente legata allo stato pluralistico e che le disposizioni costituzionali indeterminate, contenenti principi, sono appunto l'inevitabile conseguenza dello stato pluralista. Tutt'al contrario dell'opinione di chi vede in questa caratteristica della costituzione il pericolo da evitare per la giustizia costituzionale, si deve ritenere che vi sia un'interdipendenza necessaria, derivante dal comune legame fondativo – delle norme di principio e della giustizia costituzionale - con lo stato democratico pluralista dei nostri tempi. 65 H. Kelsen, La giustizia costituzionale, cit., p. 189 s. 66 H. Kelsen. ivi, p. 253 s. Analogamente E.W. Böckenförde, Die Methoden der Verfassungsinterpre- tation, in Neue Juristische Wochenschrift, 1976, pp. 2089 ss.; C. Starck, Die Bindung des Richters an Gesetz und Verfassung, in Veröffentlichungen der Vereinigung der deutschen Staatsrechtslehrer (34), cit., 1976, pp. 62 Ciò vale in primo luogo e con la massima evidenza per il controllo sull'eguaglianza delle leggi e sulla loro non arbitrarietà, controllo che si è diffuso in termini molto simili in tutte 1e giurisdizioni costituzionali del mondo. Si può certo ritenere che le clausole costituzionali che contengono concetti indeterminati richiedono necessariamente di essere determinate attraverso concezioni storicamente determinate di tali concetti. Questo fa sì che la costituzione dello stato pluralista, con le sue clausole indeterminate, non è più una costituzione nel senso del positivismo giuridico ma è, almeno per una parte (ma è una parte molto importante) un insieme di rinvii a nozioni di diritto non giuridicamente determinate. Se non ci si accontenta di dire che queste clausole rinviano puramente e semplicemente all'ispirazione soggettiva e quindi all'arbitrio dell'interprete (come ritengono coerentemente coloro che riducono il diritto al diritto positivo nel senso del positivismo) si deve pensare che, nelle costituzioni di questo nostro tempo, il «diritto materiale» si prende una storica rivincita sull'idea, dominante dalla rivoluzione francese in poi, della riduzione e concentrazione del diritto in manifestazioni formali di volontà di organi investiti del potere (esclusivo) di creare il diritto. Quali possano essere questi caratteri «materiali» del diritto, che rinviano a uno «strato di diritto» più profondo di quello formale, condizionandone la validità67 (diritto naturale, nelle sue varie possibili concezioni, «diritto sociale», «diritto essenziale» contrapposto alla «volontà arbitraria» del legislatore, natura delle cose, o preferibilmente, giudizi di valore sui concreti rapporti ispirati alla tavola orientativa della costituzione, alla luce anche delle precisazioni circa le «pretese del caso» esposte a proposito dell'interpretazione, ecc.) è un argomento che attende di essere studiato al di là della mera razionalizzazione dei criteri e degli strumenti logici del controllo sulla 43, 75 s.; id., Vorrang der Verfassung und Verfassungsgerichtsbarkeit, in Verfassungsgerichtsbarkeit in Westeuropa, cit., vol. I, p. 35 67 In argomento, le considerazioni di G. Lombardi, Le garanzie costituzionali. Appunti delle lezioni, anno acc. 1983-1984, Torino, CUSL, 1984, pp. 102 ss. ove è chiaramente espressa l'impossibilità di ridurre la giustizia costituzionale all'applicazione di un diritto positivo nel senso del positivismo giuridico o, se si vuole, di ridurre il diritto costituzionale a un diritto nel senso del positivismo giuridico. 65 giustizia costituzionale, è una autorizzazione revocabile, se non in generale, almeno caso per caso, quando le parti confliggenti disconoscono radicalmente la legittimità della soluzione giudiziaria della controversia: in altri termini, quando viene revocata la delega per la gestione dei loro interessi presso un'istanza imparziale. Quando la controversia tocca «potenze costituzionali» che vedono messi in pericolo interessi che essi non possono non gestire direttamente, cioè politicamente irrinunciabili, la giustizia costituzionale tende ad assomigliare a un tribunale internazionale la cui giurisdizione dipende dall'espressa accettazione degli stati contendenti, senza di che la controversia è non definibile giuridicamente, non è giustiziabile. I conflitti politici troppo radicali su una controversia costituzionale la privano dunque del carattere giudiziario impedendo alla Corte costituzionale di definirla nel merito. La revoca dell'autorizzazione alla Corte ne renderebbe inefficace la pronuncia, anche perché i giudici costituzionali non dispongono normalmente di apparati per l'esecuzione; la renderebbe una non-decisione in quanto non riuscirebbe a definire, a «chiudere» sostanzialmente il caso e con ciò minerebbe la stessa legittimità della giustizia costituzionale, compromettendone l'effettività nel suo complesso. I rilievi che precedono presuppongono il riconoscimento che, svolgendosi la vita costituzionale tra «potenze» politiche il cui lealismo costituzionale e, quindi, il cui consenso su una sfera neutralizzata di rapporti fondamentali, suscettibile di gestione giudiziaria, non sono mai dati una volta per tutte ma devono continuamente rinnovarsi spontaneamente, in mancanza di coercizione efficace a tale sommo livello. Per questo, è virtù necessaria della giustizia costituzionale e della sua effettività il senso del limite nella trattazione giudiziaria dei casi politici. Poiché non esistono criteri assoluti che valgano a dividere il campo tra politico e vol. 31, t. II, Milano, Giuffrè, 2000, pp. 865 ss. 66 giudiziario, si comprende come siano chiamate in causa valutazioni non meramente di opportunità politica, ma di congruità costituzionale. Può così avvenire, nei casi estremi in cui l'intervento della Corte sarebbe controproducente per la Costituzione stessa, che la giurisdizione costituzionale possa ritirarsi e deci- dere di non decidere. Tutto ciò può apparire inammissibile solo a chi abbia della vita costituzionale e dei rapporti costituzionali una visione rigidamente meccanica. Ma è lo stesso diritto positivo che ci dà conferme sull’essenziale estraneità della giurisdizione costituzionale dalle questioni politiche, da intendersi nel senso di «casi» costituzionali non «giustiziabili». Si tratta di norme e istituti quasi sempre sottovalutati nel loro profondo significato. L'ora abrogato art. 127, ult. comma, cost., attribuendo alla Corte costituzionale il potere di negare la propria giurisdizione, a favore della valutazione politica del parlamento, nei rapporti legislativi tra stato e regioni, non dettava solo una regola procedurale nei rapporti di competenza tra organi costituzionali, ma riconosceva altresì l'esigenza che la Corte potesse difendere nel caso concreto la specificità del proprio compito dalle controversie che sono giuridiche solo all’apparenza. La fase preliminare di delibazione dei ricorsi per conflitto di attribuzione tra i poteri dello stato, condotta senza contraddittorio in un procedimento riservato, può essere intesa nel senso di una valutazione non giudiziale ma pre-giudiziale, in ogni senso, circa la «giustiziabilità» della controversia portata di fronte alla Corte. Nell'esercizio delle altre attribuzioni, in particolare nei giudizi sulle leggi promossi dai giudici, nulla di questo è previsto. Ma la tendenza della Corte a crearsi strumenti di valutazione discrezionale, preliminari all'esame del merito delle questioni e perciò attinenti alla procedura, è stata tante volte giustamente messa in luce e sottolineata dai commentatori. 67 La revoca dell'autorizzazione alla gestione giudiziaria delle controversie si può avere in due casi, che riportano indietro alle condizioni costituzionali generali di altri periodi storici, secondo quanto chiarito nel capitolo precedente: quando si abbia il prepotere sostanzialmente monista di una forza, unitaria o composita, la quale non ha dunque alcun interesse a lasciare ad altri, secondo la logica imparziale della giurisdizione, la gestione di interessi che essa stessa con- durrebbe in modo sicuramente più vantaggioso per sé; oppure quando la situazione politica si tende in modo radicalmente dualista. Questi sono i due pericoli per la giustizia costituzionale che si realizzano quando vengono negati i caratteri pluralisti della vita costituzionale. Essi si aggiungono al rischio già segnalato - diverso ma anch'esso legato al venir meno del medesimo carattere della costituzione - dello scadimento del pluralismo in corporativismo, aperto alla negoziazione di ogni cosa, valore e posizioni costituzionali compresi. Le considerazioni che precedono stanno a dire che il difetto di giustiziabilità come conseguenza del carattere politico del caso costituzionale non è un carattere determinabile secondo regole astratte, dipendendo principalmente dall'atteggiamento di carente lealtà costituzionale delle forze e dei soggetti politici. Gli sviluppi di questo discorso porterebbero molto lontano. Qui basta osservare, conclusivamente, che su tale atteggiamento può influire la stessa giustizia costituzionale. Essa, per mezzo del suo magistero giurisprudenziale, deve operare per promuovere, insieme alla sua propria autorità, una “cultura della costituzione” che renda difficile quella sospensione della delega al giudice costituzionale di cui si sta trattando. Per questo, è profondamente vero, al di là del suo primo aspetto alquanto banale, quel che talora si dice dei tribunali costituzionali: che essi, non disponendo di per sé di una forza politica data, devono cercare la propria legittimità essenzialmente attraverso la loro stessa opera, consegnata alle loro decisioni e