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Macroeconomia- Blanchard_ 1-7-, Dispense di Macroeconomia

Macroeconomia - Blanchard capitolo 1-7-

Tipologia: Dispense

2023/2024

Caricato il 11/04/2024

angelosicilia03
angelosicilia03 🇮🇹

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Scarica Macroeconomia- Blanchard_ 1-7- e più Dispense in PDF di Macroeconomia solo su Docsity! MACROECONOMIA CAPITOLO 2- UN VIAGGIO ATTRAVERSO IL LIBRO 1.La produzione aggregata Nel diciannovesimo secolo al tempo della grande depressione non esisteva alcuna misura affidabile della produzione aggregata, per capire che cosa stesse succedendo all'economia, si dovevano mettere insieme una grande quantità di informazioni prese qua e la. Fu solo alla fine della seconda guerra mondiale che molti paesi iniziarono a sviluppare un sistema di contabilità nazionale . 1.1 PIL: produzione e reddito La misura principale della produzione aggregata (=totale) è il Prodotto Interno Lordo (PIL). Per comprendere meglio il PIL facciamo riferimento ad un esempio:  Consideriamo un’economia con due sole imprese ed i seguenti dati: Come definireste la produzione aggregata di questa economia con due sole imprese? Come la somma dei valori di tutta la produzione dell’economia – la somma di 100€ dalla produzione di acciaio e di 200€ dalla produzione di automobili, cioè 300€? Oppure come il valore della produzione di tutti i beni finali – le automobili – cioè 200€? La risposta giusta è 200€ poiché l’acciaio è un bene intermedio ossia un bene usato nella produzione di un altro bene. Una volta considerata la produzione di automobili, non dobbiamo tener conto anche della produzione dell’acciaio utilizzato nella fabbricazione di queste automobili, altrimenti conteremo il valore dell’acciaio due volte. La prima volta nella vendita dall’impresa 1 all’impresa 2 e la seconda volta nella vendita dall’impresa 2 ai consumatori, poiché il valore dell’acciaio è incluso in quello dell’automobile. Esistono tre modi di definire il PIL : 1.Il PIL è il valore dei beni finali (non intermedi) prodotti nell’economia in un dato periodo di tempo. 1 2. Il PIL è la somma del valore aggiunto nell’economia in un dato periodo di tempo Valore aggiunto(VA)= Valore produzione – Valore beni intermedi Va impresa 1= 100€ Va impresa 2= 200-100€ PIL= Va impresa 1+ Va impresa 2=200€ 3. Il PIL è la somma dei redditi dell’economia in un dato periodo di tempo. Redditi economia= Reddito da lavoro + Reddito da capitale(profitto) Esempio Reddito da lavoro impresa 1 =80€ Reddito da capitale impresa 1= 20€ Reddito da lavoro impresa 2=70€. Reddito da capitale impresa 2= 30€ Reddito da lavoro = 150€ Reddito da capitale= 50€ PIL= RL+RK=150+50=200€ Possiamo calcolare il peso del reddito da lavoro sul PIL come: RL/PIL che in questo caso sarà 150/200=75% e il 25% è reddito capitale. Nei paesi avanzati, il reddito da lavoro aggregato è tipicamente tra il 60% e il 75% del PIL. 1.2Pil nominale e Pil reale Il Pil nominale è la somma delle quantità dei beni e servizi finali valutati al loro prezzo corrente (prezzi che si sono verificati in un determinato anno). Il pil nominale sarà quindi dato dalla quantità prodotta moltiplicata al prezzo corrente di quei beni. Questa definizione suggerisce che il Pil nominale cresce nel tempo per due ragioni: primo, perché la produzione di beni e servizi cresce nel tempo; secondo, perché il prezzo di beni e servizi cresce anch’esso nel tempo. Il Pil reale è la somma delle quantità dei beni finali valutate a prezzi costanti. Quando si calcola il Pil reale si elimina la dinamica dei prezzi, si fissa un “anno base” e si calcola il valore della produzione in tutti gli anni considerando i prezzi dell’anno base. Esempio Consideriamo un’economia che produce solamente automobili: 2 seguite negli altri paesi europei. Ciascun individuo viene classificato come occupato se, nella settimana che precede quella in cui viene condotta l’intervista, ha svolto almeno un’ora di lavoro retribuito in una qualsiasi attività. Si noti però che solo chi è in cerca di lavoro è considerato disoccupato, coloro che invece non lavorano, ma non stanno nemmeno cercando un lavoro, sono considerati fuori dalla forza lavoro e non rientrano quindi nella definizione di disoccupazione. Inoltre, quando la disoccupazione è alta, alcune delle persone senza un lavoro smettono di cercarne uno e quindi non sono più considerate disoccupate, queste persone prendono il nome di lavoratori scoraggiati. Quando l’economia rallenta, si tende ad osservare sia un aumento della disoccupazione, sia un aumento del numero di persone che escono dalla forza lavoro. Esempio estremo Se tutti un lavoro senza un’occupazione rinunciassero a cercare un lavoro il tasso di disoccupazione sarebbe pari a 0 . Questo farebbe del tasso un indicatore poco affidabile di ciò che sta succedendo sul mercato del lavoro. Analogamente, un aumento del tasso di disoccupazione di solito è associato a una riduzione del tasso di partecipazione, definito come rapporto della forza di lavoro sul totale della popolazione in età lavorativa. È chiaro quindi che il numero dei disoccupati risponde al mutamento della congiuntura economica. Ricapitolando: - fuori dalle forze di lavoro: persona che non ha un lavoro e NON è in cerca di occupazione - lavoratori scoraggiati: in presenza di elevata disoccupazione, alcuni lavoratori senza occupazione smettono di cercare ed escono dalla forza lavoro; Il tasso di disoccupazione varia considerevolmente nel tempo e nello spazio, sia in risposta a recessioni ed espansioni, sia come conseguenza di mercati del lavoro differenti tra loro. 3. Il tasso di inflazione L’inflazione è un aumento sostenuto del livello generale dei prezzi, o semplicemente del livello dei prezzi. Il tasso di inflazione è il tasso al quale il livello dei prezzi aumenta nel tempo. In modo simmetrico la deflazione è una riduzione del livello dei prezzi e corrisponde a un tasso di inflazione negativo. Il problema pratico è però come calcolare il livello generale dei prezzi affinché sia possibile misurare l’inflazione. I macroeconomisti di solito considerano due indicatori del livello dei prezzi o indici dei prezzi: il deflatore del pil e l’indice dei prezzi al consumo. 5 3.1. Il deflatore del PIL Un aumento del Pil nominale può derivare da un aumento del Pil reale o da un aumento dei prezzi. Similmente, se il Pil nominale aumenta più velocemente del Pil reale, la differenza deve provenire necessariamente da un aumento dei prezzi. Questa considerazione motiva quindi la definizione di deflatore del Pil, definito come il rapporto tra il Pil nominale nell’anno t e il Pil reale nell’anno t: Si noti che nell’anno base il pil reale e nominale sono uguali, quata definizione implica che il deflatore del PIL sia uguale a 1. E’ utile sottolineare che il deflatore del PIL è un numero indice. Il suo livello è scelto arbitrariamente -in questo caso nel 2015 che è l’anno base è = a 1- e non ha alcuna interpretazione economica. Se ad esempio il deflatore del Pil è pari a 2 nel 2016 significa che i prezzi del 2016 sono il doppio di quelli del 2015 e viceversa se è uguale a 0.5 significa che sono la metà e così via.. Al contrario il suo tasso di variazione è: Misura il tasso al quale cresce il livello dei prezzi nel tempo ossia il tasso di inflazione (quindi ha un interpretazione economica). Importante  Riordinando i termini dell’equazione precedente otteniamo: €Yt = Pt * Yt “Il pil nominale è uguale al pil reale moltiplicato per il deflatore del pil”. Oppure in termini di tasso di variazione: “il tasso di crescita del Pil nominale è uguale al tasso di inflazione più il tasso di crescita del Pil reale”. 3.2 L’indice dei prezzi al consumo Il deflatore del Pil contiene informazioni in merito al prezzo medio della produzione, cioè dei beni finali prodotti nell’economia. Tuttavia i consumatori sono interessati al prezzo medio dei beni che consumano. L’indice dei prezzi al consumo misura il livello dei prezzi medi al consumo ed esprime il costo in valuta (euro, ad esempio) di un determinato paniere di consumo di un tipico consumatore urbano. L’IPC è un numero indice ed il suo livello è scelto arbitrariamente. 6 Per misurare il prezzo medio del consumo (=costo della vita) i macroeconomisti utilizzano l’indice dei prezzi al consumo(Ipc) . In Italia l’Istat si occupa della costruzione di tale indice, che riflette le variazioni dei prezzi del paniere di beni tipicamente consumato dalle famiglie italiane. Mentre in Europa viene utilizzato l’indice armonizzato dei prezzi al consumo(Iapc). Anche in questo caso possiamo calcolare il tasso di inflazione andando a prendere la variazione percentuale dell’indice dei prezzi al consumo da un periodo all’altro (replicando la formula di sopra). Questi due prezzi medi possono differire perché i beni prodotti nell’economia non coincidono necessariamente con i beni acquistati dai consumatori per due ragioni: 1. Alcuni dei beni che compongono il PIL non sono venduti ai consumatori ma alle imprese, governo o all’estero 2. alcuni beni acquistati dai consumatori non sono prodotti all’interno dell’economia ma importati dall’estero. 3.3 Perché gli economisti si preoccupano dell’inflazione? Se un’elevata inflazione significasse semplicemente un incremento proporzionale di tutti i prezzi e salari – un fenomeno chiamato inflazione pura – essa non sarebbe altro che un piccolo inconveniente per i consumatori, dal momento che i prezzi relativi non ne sarebbero influenzati. Sotto quest’ottica una maggiore inflazione non avrebbe quindi effetto sui salari reali, ovvero sul salario misurato in termini di beni anziché in euro. L’inflazione non sarebbe del tutto irrilevante, perché le persone dovrebbero comunque tenerne conto nel prendere le loro decisioni di spesa, ma questo non giustificherebbe un controllo serrato del fenomeno da parte delle autorità monetarie. Allora perché gli economisti si preoccupano dell’inflazione? Proprio perché l’inflazione pura non esiste: 7 Similmente, ci sono anni in cui ad una riduzione della disoccupazione è associata una crescita del prodotto italiano negativa o quasi nulla. Come mai la relazione tra produzione e disoccupazione è differente tra USA e Italia? Una prima risposta potrebbe risiedere nel fatto che il funzionamento del mercato del lavoro nei due paesi è diverso. Le imprese italiane, ad esempio, durante i periodi di espansione, potrebbero decidere di far lavorare maggiormente i propri dipendenti invece che assumerne altri e, durante fasi di recessione, far lavorare meno i dipendenti senza però licenziarli. Questo implicherebbe che ad una variazione della produzione non corrisponda una forte variazione della disoccupazione. 4.2 La curva di Philips Tale curva mette in relazione negativa il tasso di inflazione con il tasso di disoccupazione. Tale relazione ci dice che possiamo avere un “trade off” tra disoccupazione e inflazione, ossia possiamo avere alta disoccupazione e bassa inflazione o viceversa ma non è possibile ottenere tutte e due le cose assieme. La figura mette in relazione la variazione del tasso di inflazione (asse verticale) e il tasso di disoccupazione (asse orizzontale) per gli Stati Uniti dal 1960. Guardando tale figura giungiamo a due conclusioni: La retta di regressione è inclinata verso il basso, sebbene non interpreti la nuvola di punti bene come per la legge di Okun. Un’elevata disoccupazione conduce, in media, ad un calo dell’inflazione, mentre una ridotta disoccupazione porta ad un aumento dell’inflazione. Tuttavia, questo è vero solo in media. A volte, un’elevata disoccupazione è associata ad un aumento dell’inflazione.  La retta interseca l’asse orizzontale nel punto in cui il tasso di disoccupazione è circa uguale al 6%, Un tasso di disoccupazione del 6% rende l’inflazione stabile. Un tasso maggiore la fa diminuire e un tasso minore la fa aumentare.. Quando la disoccupazione scende al di sotto del 6%, l‘inflazione è tipicamente aumentata. Questo suggerisce che l’economia si stava surriscaldando operando al di sopra del suo potenziale. Quando la disoccupazione è salita al di sopra del 6%, l’inflazione è tipicamente calata. Questo ci dice 10 che l’economia stava operando al di sotto del suo potenziale. Ancora una volta, però, la relazione non è così forte da permetterci di identificare con chiarezza il tasso di disoccupazione al di sotto del quale l’economia comincia a surriscaldarsi. Questo spiega il disaccordo tra gli economisti, alcuni dei quali ritengono che debba essere mantenuto un tasso di disoccupazione più basso del 6%, pari a circa il 4 o 5% mentre altri credono che un tasso così basso potrebbe portare l’economia a surriscaldarsi e l’inflazione a salire. 5.Breve,medio e lungo periodo Andremo ad analizzare i determinanti della produzione in tre periodi:  Nel breve periodo la determinante principale è la domanda di beni da parte di consumatori, imprese e stato;  Nel medio periodo le determinanti sono i salari che determinano le dinamiche di prezzo;  Nel lungo periodo ci sono altre determinanti legate al ruolo governo; CAPITOLO 3- IL MERCATO DEI BENI 1 La composizione del PIL L’acquisto di un macchinario da parte di un’impresa, la decisione di una famiglia di andare al ristorante e le spese militari del governo sono chiaramente decisioni molto diverse tra loro e dipendono da fattori altrettanto diversi. Per capire cosa determina la domanda di beni è utile scomporre la produzione aggregata dal punto di vista dei vari beni prodotti e dal punto di vista dei diversi gruppi di acquirenti di tali beni. La scomposizione del PIL (indicata con la Y) è riportata in tale tabella: Cerchiamo di analizzare ogni componente del PIL al dettaglio: 1. Consumo (C) Si tratta di beni e servizi acquistati dai consumatori, è di gran lunga la componente più importante del PIL; 11 2. Investimento (I) Talvolta chiamato anche investimento fisso per distinguerlo dalle scorte di magazzino, è la somma dell’investimento non residenziale (cioè l’acquisto di macchinari, impianti) da parte delle imprese e l’investimento residenziale (cioè l’acquisto di nuove case o appartamenti) da parte degli individui; 3. Spesa pubblica (G )  Si tratta di beni e servizi acquistati dallo stato, include sia la spesa per i consumi che gli investimenti pubblici. G non include i trasferimenti ( cioè le pensioni e gli interessi sul debito pubblico); C+I+G rappresenta la spesa in beni e servizi dei residenti (consumatori e settore pubblico). 4. Esportazioni (X) Si tratta dell’acquisto di beni e servizi nazionali da parte del resto del mondo . Escludiamo le importazioni (IM) cioè l’acquisto di beni e servizi dall’estero effettuati dai residenti (hanno segno -). La differenza tra le esportazioni e importazioni (X-IM) è chiamata esportazioni nette (NX) o saldo commerciale. Chiaramente: -Esportazioni>Importazioni avanzo commerciale (NX>0) -Esportazioni<Importazioni disavanzo commerciale (NX<0) 5. Investimento in scorte  La differenza tra beni prodotti e beni venduti in un dato anno – cioè la differenza tra produzione e vendite - prende il nome di investimento in scorte . Alcuni beni prodotti potrebbero non essere venduti nell’anno successivo o anche dopo. E alcuni beni venduti potrebbero essere stati prodotti in anni precedenti. Produzione > Vendite  le scorte aumentano (investimento in scorte positivo) Produzione < Vendite  le scorte diminuiscono (investimento in scorte negativo) Osservazione investimento in scorte = produzione-vendite produzione= investimento in scorte + vendite vendite= produzione-investimento in scorte 2. La domanda di beni Indichiamo la domanda totale di beni con Z e può essere scritta come: Z  C+ I + G+ X – IM Questa equazione è un’identità (scritta con il simbolo  al posto di =),che definisce Z come la somma di consumo, investimento, spesa pubblica ed esportazioni nette. Dobbiamo ora cercare di comprendere quali siano i fattori determinanti di Z. Introduciamo alcune semplificazioni, nella nostra economia: 12 Nei modelli economici troviamo due tipi di variabili:  variabili esogene: Non sono spiegate all’interno del modello ma sono prese come date ;  variabili endogene: dipendono da altre variabili del modello e sono spiegate all’interno del modello stesso. (E’ il caso del consumo); Inizialmente, l’investimento verrà considerato come una variabile esogena. Questa ipotesi semplificatrice verrà eliminata successivamente (quando assumeremo che I risponda variazioni di Y e di i). Quando l’investimento è preso come dato si ha: [3.4] La barretta sopra la variabile indica che essa è esogena al modello. Essa comporta che, quando osserviamo variazioni nella produzione, stiamo assumendo che l’investimento non risponda in alcun modo. 2.3. Spesa Pubblica (G) Insieme all’imposta T, la spesa pubblica G descrive la politica fiscale del governo – cioè le scelte relative alle entrate e le uscite del settore pubblico. Analogamente all’investimento I, consideriamo T e G come esogene che si basano su due considerazioni : ✓ il governo non presenta regolarità di comportamento come i consumatori e le imprese, così che non esiste un’unica funzione per G e T che descriva in modo affidabile l’andamento di queste variabili come per il consumo. ✓ Uno dei compiti dei macroeconomisti è quello di comprendere le conseguenze sull’economia di diversi modelli di spesa pubblica e tassazione al fine di consigliare al governo circa decisioni di spesa e di tasse. 3. La determinazione della produzione di equilibrio In economia chiusa( con esportazioni e importazioni nulle), la domanda di beni può essere espressa come somma di consumo, investimento e spesa pubblica: Z≡ C + I + G Sostituendo C ed I con le loro espressioni nelle equazioni [3.3] e [3.4] si ottiene: Z = c0 + c1 (Y – T) + Ī + G [3.5] La domanda di beni Z dipende dal reddito Y, dalle imposte T, dall’investimento I e dalla spesa pubblica G. Analizziamo ora l’equilibrio nel mercato dei beni e la relazione tra produzione e domanda. Innanzitutto, è importante sottolineare che se le imprese detengono delle scorte, la produzione non deve essere necessariamente uguale alla domanda: le imprese possono rispondere a un aumento della domanda attingendo alle loro scorte (cioè scegliendo un 15 investimento negativo in scorte). Allo stesso modo, possono rispondere a un calo della domanda continuando a produrre e accumulando scorte (cioè scegliendo un investimento positivo in scorte). Per il momento ignoriamo però questa complicazione e iniziamo assumendo che le imprese non abbiano scorte nel magazzino. In questo caso, l’investimento in scorte è nullo e l’equilibrio nel mercato dei beni richiede che la produzione sia uguale alla domanda: Y=Z [3.6] Questa equazione è chiamata equazione di equilibrio. Sostituendo la domanda Z nell’equazione [3.6] con la sua espressione nell’equazione [3.5] otteniamo: Y = c0 + c1 (Y – T) + Ī + G [3.7] Ciò vuol dire che in equilibrio la produzione Y (il lato sinistro dell’equazione) è uguale alla domanda (il lato destro). A sua volta, la domanda dipende dal reddito, Y, che è uguale alla produzione. OsservazioneSi noti che usiamo lo stesso simbolo Y sia per la produzione sia per il reddito. Questo non deve creare confusione in quanto sappiamo che reddito e produzione sono uguali perché sono soltanto due modi diversi di guardare al Pil – dal lato della produzione e dal lato del reddito. I macroeconomisti utilizzano solitamente tre strumenti: 1. l’algebra per assicurare la coerenza logica del modello; 2. i grafici per cogliere l’intuizione; 3. le parole per spiegare i risultati. 3.1. Attraverso l’algebra Riscriviamo l’equazione di equilibrio come: Y = c0 + c1Y – c1T + Ī + G Spostando c1Y sul lato sinistro e riordinando i termini del lato destro otteniamo: (1 - c1)Y = c0 + Ī + G – c1T Ora dividiamo entrambi i lati per (1 - c1): [3.8] 16 L’equazione descrive la produzione di equilibrio, ossia il livello di produzione che eguaglia la domanda. Consideriamo ora il significato dei due termini sul lato destro:  Il termine (c0 + Ī + G – c1T) rappresenta la componente della domanda di beni che non dipende dal livello di produzione ed è quindi chiamata spesa autonoma. È molto probabile che la spesa autonoma sia positiva perché sappiamo che i primi due addendi, c0 e Ī, sono positivi mentre, per quanto riguarda G – c1T, supponiamo che il governo abbia un bilancio in pareggio, cioè che le imposte siano uguali alla spesa pubblica. Se quindi T = G e se la propensione al consumo c1 è minore di 1, come avevamo ipotizzato, allora (G – c1T) è positivo e quindi lo è anche la domanda autonoma. Solo se il governo presentasse un grosso avanzo di bilancio – cioè se le imposte fossero di gran lunga superiori alla spesa – la spesa autonoma sarebbe negativa. Possiamo tranquillamente ignorare questo ultimo caso.  Consideriamo ora il primo termine 1/(1 - c1). Poiché c1, ovvero la propensione al consumo, è compresa tra 0 e 1, allora 1/(1 - c1) è un numero maggiore di 1. Questo numero, che moltiplica l’effetto della spesa autonoma, è detto moltiplicatore. Quanto più c1 si avvicina al moltiplicatore, tanto maggiore sarà il moltiplicatore. Inoltre, qualsiasi aumento della spesa autonoma – un aumento del consumo, una variazione dell’investimento, della spesa pubblica oppure delle imposte – influenzerà la produzione in misura superiore all’effetto diretto sulla spesa autonoma. 3.2. Con i grafici  Per prima cosa disegniamo la produzione in funzione del reddito In questa figura misuriamo la produzione sull’asse verticale e il reddito sull’asse orizzontale. Esprimere la produzione in funzione del reddito è immediato poiché le due grandezze coincidono sempre. La relazione tra le due variabili viene rappresentata da tale retta a 45 gradi con pendenza=1.  Il passo successivo consiste nel disegnare la domanda come funzione del reddito. 17 L’aumento di reddito a sua volta fa aumentare la domanda e quindi la produzione, e così via Alla fine il risultato è un aumento della produzione superiore all’incremento iniziale della domanda, di un fattore pari al moltiplicatore. Osservazione la dimensione del moltiplicatore dipende dalla propensione al consumo (c1): quanto è più alta la propensione al consumo (c1) tanto è maggiore il moltiplicatore. EsempioSe ad esempio c1=60% ciò significa che un euro aggiuntivo di vendita porta in media ad un aumento del consumo di 60 centesimi. Ciò significa che il moltiplicatore è: 1/(1-c1) ovvero (1/1-0.6)=2.5. 3.4 Quanto impiega la produzione ad aggiustarsi? Tornando all’esempio precedente, supponiamo che c0 aumenti di 1 miliardo di euro, sappiamo che alla fine del processo la produzione aumenterà di 1/(1 – c1) miliardi di euro. Quanto tempo ci vorrà affinché la produzione raggiunga questo valore? Con le ipotesi fatte sinora la risposta è: immediatamente. Tuttavia, nella realtà questo ragionamento istantaneo non è plausibile: un’impresa che si trovi di fronte a un aumento della domanda potrebbe decidere di attendere prima di aggiustare la sua produzione, attingendo nel frattempo alle scorte per soddisfare la domanda oppure un lavoratore che riceve un aumento di salario potrebbe non adeguare subito il suo consumo. Rappresentare quindi la dinamica dell’aggiustamento e la soluzione di questo modello è veramente complicato ma possiamo provare a descriverla a parole: Supponiamo che le imprese scelgano il loro livello di produzione all’inizio di ciascun trimestre e una volta che le imprese hanno preso questa decisione, la produzione non può essere modificata nel corso di quel trimestre. Supponiamo che i consumatori decidano di spendere di più, cioè di aumentare c0. Nel trimestre in cui ciò accade, la domanda aumenterà ma la produzione – che per ipotesi è decisa all’inizio del trimestre – non cambierà, di conseguenza neppure il reddito cambierà. Nel trimestre successivo le imprese decideranno quindi di aumentare il livello di produzione. Questo aumento di produzione porterà a un aumento di pari valore del reddito e a un ulteriore aumento della domanda. Se gli acquisti supereranno ancora una volta la produzione, nel trimestre successivo le imprese aumenteranno ulteriormente la produzione e così via. In risposta ad un aumento della spesa per consumi, la produzione non raggiunge quindi subito il nuovo equilibrio ma aumenta progressivamente. 20 Possiamo quindi dire che la durata di questo aggiustamento dipende dal modo e dalla frequenza con cui le imprese rivedono i loro piani di produzione. Quanto più frequentemente le imprese aggiustano la produzione in seguito ad aumenti delle vendite, tanto più rapido sarà l’aggiustamento. 4. Investimento Un modo alternativo – ma equivalente – di considerare l’equilibrio è quello di pensarlo in termini di risparmio e investimento. Il risparmio è pari alla somma tra risparmio privato e risparmio pubblico:  Per definizione il risparmio privato (S), cioè il risparmio dei consumatori è pari alla differenza fra il loro reddito disponibile e il consumo: S = Yd - C Usando la definizione di reddito disponibile, possiamo riscrivere il risparmio come reddito - imposte-consumo: S = Y – T – C Per definizione il risparmio pubblico è uguale al gettito delle imposte (al netto dei trasferimenti) meno la spesa pubblica (T-G). Se le imposte eccedono la spesa pubblica , il governo ha un avanzo di bilancio , cioè il risparmio pubblico è positivo. Se le imposte sono inferiori alla spesa pubblica, il governo ha un disavanzo di bilancio cioè il risparmio pubblico è negativo. Tornando all’equazione di equilibrio nel mercato dei beni, sappiamo che la produzione deve essere uguale alla domanda, che a sua volta è la somma di consumo, investimento e spesa pubblica, avremo quindi: Y= C + I + G Sottraendo le imposte T da entrambi i lati e spostando il consumo sulla sinistra, otteniamo: Y – T – C = I + G– T Il lato sinistro di questa equazione è semplicemente uguale al risparmio privato (S), per cui possiamo scrivere: S= I + G – T 21 Che è la stessa cosa di: I = S + (T – G) [3.10] Il lato sinistro rappresenta l’investimento, il lato destro rappresenta il risparmio aggregato (risparmio privato + risparmio pubblico). L’equazione ci suggerisce quindi un altro modo per considerare l’equilibrio: affinché il mercato sia in equilibrio l’investimento deve essere uguale al risparmio, per questo motivo la condizione di equilibrio nel mercato dei beni si chiama curva IS che sta per “Investimento = Risparmio (in inglese Saving)” Ciò vuol dire che quanto le imprese vogliono investire deve essere uguale a quanto i consumatori e il governo sono disposti a risparmiare. Riassumendo: esistono due modi equivalenti di esprimere le condizioni di equilibrio nel mercato dei beni: produzione = domanda  investimento = risparmio Descriviamo ora l’equilibrio usando questa seconda condizione in modo tale da arrivare ad un altro modo per pensare all’equilibrio. È importante sottolineare per prima cosa che le decisioni di consumo e di risparmio rappresentano in realt due facce della stessa medaglia: dato un reddito disponibile, una à̀ volta deciso il consumo, il risparmio è determinato per differenza e viceversa. Partendo dall’equazione del consumo possiamo quindi dire che il risparmio privato è dato da: S = Y – T – C = Y – T – c0 – c1 (Y – T) Riordinando i termini otteniamo: S = – c0 + (1 – c1) (Y – T) [3.11] Così come abbiamo chiamato c1 la propensione marginale al consumo, chiamiamo (1-c1) la propensione marginale al risparmio, essa ci dice quanta parte di un incremento di reddito viene risparmiata. L’ipotesi che la propensione al consumo (c1) sia compresa tra 0 e 1, implica che la propensione al risparmio (1-c1) sia anch’essa compresa tra 0 e 1 . Intuitivamente questo significa che i consumatori risparmieranno una parte del reddito disponibile perché non possono risparmiare più del reddito che percepiscono . Il risparmio privato aumenta all’aumentare del reddito disponibile ma meno che proporzionalmente. In equilibrio l’investimento deve essere uguale al risparmio aggregato, dato dalla somma di risparmio privato e pubblico. Sostituendo il risparmio privato nella [3.10], con la sua espressione otteniamo : 22 Il segno meno sotto i in L(i) indica che il tasso di interesse ha un effetto negativo sulla domanda di moneta: un aumento del tasso di interesse riduce la domanda di moneta poiché gli individui preferiranno detenere più ricchezza in titoli, che pagano ora un più elevato tasso di interesse. Possiamo quindi dire che dall’equazione si evince che: La relazione tra domanda di moneta e tasso di interesse, per un dato livello di reddito nominale, €Y, è rappresentata dalla curva Md. Essa è inclinata negativamente: minore è il tasso di interesse (i), maggiore sarà la quantità di moneta (M) che le persone vogliono detenere. Fissato un certo tasso di interesse, un aumento del reddito nominale fa aumentare la domanda di moneta. In altre parole, un aumento del reddito nominale sposta la domanda di moneta verso destra, da Md a Md’. Per esempio, al tasso di interesse i, un aumento del reddito nominale da €Y a €Y fa aumentare la domanda di moneta da′ M a M .′ 2. La determinazione del tasso di interesse Nel mondo reale, ci sono due tipi di «moneta»: i depositi di conto corrente, offerti dalle banche, e la moneta circolante, emessa dalla banca centrale. In questo paragrafo assumeremo che la sola moneta presente nell’economia sia la moneta circolante, cioè la moneta stampata dalla banca centrale, in breve la moneta della banca centrale. Chiaramente questa ipotesi non è realistica, ma ci permetterà di comprendere meglio i meccanismi fondamentali. 2.1 Domanda di moneta, offerta di moneta e tasso di interesse di equilibrio Supponiamo che la banca centrale un ammontare di moneta uguale a M, cosicché: Ms = M L’equilibrio nei mercati finanziari richiede che l’offerta di moneta sia uguale alla domanda di moneta, cioè che Ms = Md. Usando la condizione Ms = M e l’equazione [4.1] per la domanda di moneta, la condizione di equilibrio è: M = €Y * L(i) [4.2] 25 Questa equazione ci dice che il tasso di interesse i deve essere tale da indurre gli individui a tenere una quantità di moneta pari all’offerta di moneta, M, dato il loro reddito nominale €Y. La moneta è misurata sull’asse orizzontale e il tasso di interesse sull’asse verticale. La domanda di moneta, Md, disegnata per un dato livello di reddito nominale, €Y, è inclinata negativamente: un tasso di interesse più elevato è associato ad una minore domanda di moneta. L’offerta di moneta è rappresentata dalla retta verticale Ms: l’offerta di moneta è pari a M e non dipende dal tasso di interesse. L’equilibrio è nel punto A, con un tasso di interesse pari a i. Tale figura mostra gli effetti di un aumento del reddito nominale sul tasso di interesse. Un incremento del reddito nominale da €Y a €Y fa aumentare il livello delle transazioni e ′ quindi la domanda di moneta per ogni livello del tasso di interesse. La curva di domanda si sposta verso destra, da Md a Md′. L’equilibrio si sposta da A ad A e il tasso di ′ interesse di equilibrio aumenta da i a i .′ Un aumento del reddito nominale provoca un incremento del tasso di interesse . 26 Tale figura mostra gli effetti di un aumento dell’offerta di moneta sul tasso di interesse. L’equilibrio iniziale è nel punto A, con un tasso di interesse pari a i. Un aumento dell’offerta di moneta, da Ms = M a Ms ′ = M′ , sposta verso destra la curva di offerta, da Ms a Ms′. L’equilibrio si sposta da A ad A e il tasso di interesse diminuisce da′ i a i .′ Un aumento dell’offerta di moneta provoca una riduzione del tasso di interesse . 2.2 Politica monetaria e operazioni di mercato aperto Il modo con cui la banca centrale normalmente modifica l’offerta di moneta è l’acquisto e la vendita di titoli sul mercato obbligazionario. Se desidera aumentare la quantità di moneta, compra titoli e li paga immettendo nuova moneta nel sistema. Se, invece, vuole diminuire la quantità di moneta, vende titoli e rimuove dalla circolazione la moneta che riceve in pagamento. Queste azioni sono chiamate operazioni di mercato aperto perché avvengono sul «mercato aperto» dei titoli. Il bilancio della banca centrale Le sue attività sono costituite dai titoli che tiene in portafoglio. Le passività sono costituite dallo stock di moneta presente nell’economia. Le operazioni di mercato aperto comportano variazioni di pari importo nell’attivo e nel passivo del bilancio della banca centrale. Se ad esempio la banca centrale comprasse titoli per un milione di euro, l’ammontare di titoli detenuti nel suo bilancio sarebbe più alto per un importo pari a un milione di euro. Questo perché la banca centrale comprerebbe dalle famiglie e dalle imprese titoli, pagandoli con nuova moneta che entrerebbe in circolo nell’economia. Tale operazione si 27 Il tasso di interesse di equilibrio è tale per cui domanda e offerta di moneta della banca centrale sono uguali; La domanda di moneta della banca centrale La domanda di moneta da parte degli individui coincide quindi con la domanda di depositi di conto corrente, che assumeremo come prima pari a : Md = €Y * L (i) (-) [4.3] L’equazione ci dice che le persone vogliono tenere più depositi quanto più elevato è il loro livello di transazioni e quanto più basso è il tasso di interesse sui titoli. Analizziamo ora la domanda di riserve da parte delle banche. Maggiori sono i depositi di conto corrente, maggiore è l’ammontare di riserve che le banche devono mantenere. Quindi, sia θ il coefficiente di riserva, cioè l’ammontare di riserve che le banche detengono per ogni euro di depositi in conto corrente. Utilizzando l’equazione appena vista possiamo descrivere la domanda di riserve da parte delle banche (Hd) come: Hd = θ*Md = θ * €Y * L(i) [4.4] La prima uguaglianza riflette il fatto che la domanda di riserve è proporzionale alla domanda di depositi in conto corrente. La seconda uguaglianza riflette invece il fatto che la domanda di depositi in conto corrente dipende dal reddito nominale e dal tasso di interesse. L’equilibrio sul mercato della moneta della banca centrale L’offerta di moneta della banca centrale, che equivale all’offerta di riserve da parte della banca centrale, è sotto il controllo della banca centrale stessa. Chiamando con H l’offerta di moneta della banca centrale, sappiamo che la banca centrale può modificare H attraverso le operazioni di mercato aperto. La condizione di equilibrio è che l’offerta di moneta da parte della banca centrale sia uguale alla domanda di moneta della banca centrale. Si avrà quindi: H = Hd [4.5] Sostituendo l’equazione vista prima avremo: H = θ *€Y * L(i) [4.6] 30 Sappiamo che un più elevato tasso di interesse implica una minore domanda di moneta della banca centrale poiché la domanda per i depositi in conto corrente dalle persone, e quindi la domanda di riserve da parte delle banche, diminuisce quando i tassi di interesse aumentano. L’offerta di domanda è invece fissa. In particolare, un aumento dell’offerta di moneta della banca centrale porta a una diminuzione del tasso di interesse e, al contrario, una diminuzione dell’offerta di moneta della banca centrale porta a un aumento del tasso di interesse. 3.3 Fed e Bce Negli Stati Uniti esiste un mercato per le riserve nel quale il tasso di interesse è determinato dall’interazione tra la domanda e l’offerta di riserve. Esso è chiamato “Federal funds market” e il tasso di interesse determinato al suo interno è chiamato “Federal funds rate”. La Fed fa variare questo tasso di interesse attraverso aggiustamenti nell’offerta di riserve. Nell’Eurozona la Bce attua la politica monetaria in una maniera un po’ più complicata rispetto alla Fed. Esistono diversi tassi di interesse controllati direttamente dalla Bce ma quello più importante è il “tasso di rifinanziamento principale”. Esso è il costo dei prestiti che le banche ottengono dalla Bce ed è strettamente legato all’offerta di moneta della banca centrale: maggiore è questo tasso, minore sarà la quantità di riserve che il sistema bancario prende a prestito dalla Bce e minore sarà quindi l’offerta di moneta. Questo tasso determina quindi sia l’offerta di riserve che il tasso di interesse a cui le banche si scambiano tra loro le riserve nel mercato interbancario. Aumentando o diminuendo il tasso di rifinanziamento la Bce può quindi esercitare un’influenza indiretta su tutti i tassi dell’economia: prima di tutto su quelli che le banche richiedono sulle transazioni interbancarie e poi, a cascata, sui tassi di interesse sui prestiti alle imprese, sui mutui immobiliari e così via. La trappola della liquidità 31 La conclusione principale che abbiamo tratto è che la banca centrale, scegliendo opportunamente l’offerta di moneta, è sempre in grado di scegliere il tasso di interesse desiderato (quando vuole aumentare il tasso di interesse, riduce la moneta della banca centrale in circolazione; quando vuole ridurre il tasso di interesse aumenta invece tale ammontare). Abbiamo imparato che questa conclusione è valida ma con un’importante eccezione: il tasso di interesse non può scendere sotto lo zero, un limite conosciuto con il nome di “zero lower bound”. Quando il tasso di interesse è sceso a zero, la politica monetaria non è in grado di ridurlo ulteriormente. La politica monetaria non funziona più e si dice che l’economia si trova in una trappola della liquidità. Solo dieci anni fa, la maggior parte degli economisti pensava che questo limite non sarebbe mai diventato effettivamente vincolante in quanto mai il tasso di interesse avrebbe raggiunto quel livello. La crisi finanziaria recente ha però completamente cambiato queste convinzioni. Numerose banche centrali, tra cui la Bce, hanno portato il tasso di interesse a zero e avrebbero voluto spingersi oltre, ma lo zero lower bound ha impedito loro di ridurre ulteriormente il tasso di interesse e ciò si è rivelato una grande limitazione alla condotta della politica monetaria. In realtà alcune banche centrali, tra cui la Bce, si sono spinte in territorio negativo, motivo per il quale il limite alla riduzione dei tassi di interesse non pare quindi essere lo zero ma un valore un po’ più basso, ad esempio – 0,5%. Ma cosa succede quando il tasso di interesse raggiunge lo zero? Quando le persone hanno abbastanza moneta per effettuare le transazioni, sono indifferenti tra tenere il resto della loro ricchezza finanziaria in titoli o in moneta perché sia i titoli che la moneta pagano lo stesso tasso di interesse, cioè zero. Al diminuire del tasso di interesse, gli individui vogliono tenere più moneta (e meno titoli), di conseguenza la domanda di moneta aumenta. Quando il tasso di interesse è pari a zero, le persone vogliono tenere una quantità di moneta sufficiente per riuscire a coprire i propri scopi transattivi (pari alla distanza OB). 32 Abbiamo disegnato la curva ZZ in modo che fosse più piatta della retta a 45°. In altre parole, abbiamo assunto che un aumento di un’unità della produzione conduca a un incremento meno che proporzionale della domanda. Finora abbiamo considerato l’equilibrio nel mercato dei beni fissato il tasso di interesse. La curva IS ci dice come varia la produzione di equilibrio al variare del tasso di interesse. . L’equilibrio nel mercato dei beni viene raggiunto nel punto in cui la domanda è uguale alla produzione, cioè nel punto A, in corrispondenza dell’intersezione della ZZ con la retta a 45°. 1.3 La curva IS Nella figura precedente abbiamo disegnato la curva di domanda, ZZ, per un dato valore del tasso di interesse. Vediamo ora cosa succede quando questo tasso di interesse cambia: Supponiamo che nella figura a la curva di domanda sia ZZ e l’equilibrio iniziale sia nel punto A. Supponiamo ora che il tasso di interesse aumenti da i ad i’, possiamo osservare come per ogni livello di produzione l’aumento del tasso di interesse riduca l’investimento e la domanda quindi la curva ZZ si sposta verso il basso e diventa ZZ’ (con un nuovo equilibrio A’). Utilizzando la figura a, possiamo trovare il valore di equilibrio della produzione per ogni valore del tasso di interesse. La relazione tra produzione e equilibrio è derivata nella figura b. La figura b mostra sull’asse orizzontale la produzione di equilibrio e su quello verticale il tasso di interesse. Un maggior tasso di interesse è associato a un livello inferiore di produzione. Questa relazione tra tasso di interesse e produzione è rappresentata dalla curva inclinata negativamente in b detta curva IS. 35 1.4 Spostamenti della curva IS Prima abbiamo derivato la curva IS per dati valori delle imposte, T, e della spesa pubblica, G. Variazioni di T o G comportano lo spostamento della curva IS nel piano. La curva IS descrive il livello di equilibrio della produzione in funzione del tasso di interesse, essa è disegnata per un dato valore di imposte T. Un aumento delle imposte da T a T’ sposta la curva IS verso sinistra, poiché per un dato tasso di interesse i provoca una riduzione del livello di produzione. Più in generale: fissato il tasso di interesse, ogni fattore che fa diminuire il livello di equilibrio della produzione fa spostare la curva IS verso sinistra (qui abbiamo analizzato l’aumento delle imposte, ma lo stesso vale per una riduzione della spesa o del grado di fiduzia dei consumatori. 36 Simmetricamente, fissato il tasso di interesse, ogni fattore che fa aumentare il livello di equilibrio della produzione (una riduzione delle imposte, un aumento della spesa pubblica o della fiducia dei consumatori) fa spostare la curva IS verso destra. 2. I mercati finanziari e la curva LM Abbiamo visto (nel cap.4) che il tasso di interesse è determinato dall’uguaglianza tra domanda e offerta di moneta: M = €Y * L(i) Dove la variabile M è lo stock nominale di moneta il lato destro rappresenta la domanda di moneta, che è funzione del reddito nominale €Y e del tasso di interesse nominale i. 2.1 Moneta reale , reddito reale e tasso di interesse L’equazione M= €Y* L(i) stabilisce una relazione tra moneta, reddito nominale e tasso di interesse. Qui è però più conveniente riscriverla come una relazione tra moneta reale (moneta in termini dei beni che possono essere acquistati), reddito reale (reddito in termini dei beni che possono essere acquistati) e tasso di interesse. Osservazione: Dal capitolo 2 il Pil nominale = Pil reale moltiplicato per il deflatore del Pil €Y = Y × P, Equivalentemente: Pil reale = Pil nominale diviso per il deflatore del Pil Y = €Y/P. Ricordiamo che il reddito nominale diviso per il livello dei prezzi è uguale al reddito reale, Y. Quindi, dividendo entrambi i lati dell’equazione per il livello dei prezzi P, si ottiene: In questo modo, possiamo ridefinire la nostra condizione di equilibrio come uguaglianza tra offerta reale di moneta – cioè lo stock di moneta in termini di beni, e non di euro – e domanda reale di moneta, che a sua volta dipende dal reddito reale Y e dal tasso di interesse i. Questa equazione descrive l'equilibrio del mercato della moneta, ed è utilizzata per derivare la curva LM quando la banca centrale stabilisce una certa offerta di moneta. 2.2 La curva LM Quando abbiamo derivato la curva IS, abbiamo considerato due variabili di politica economica: la spesa pubblica G e la tassazione T. Analogamente, nella derivazione della 37 Prima dell’aumento delle imposte l’equilibrio era dato dal punto A, in corrispondenza dell’intersezione tra la curva IS e la LM. Dopo l’incremento delle imposte, la curva IS si sposta verso sinistra da IS a IS′: il nuovo equilibrio si trova in corrispondenza dell’intersezione della nuova curva IS con la ′ curva LM invariata, nel punto A .′ La produzione diminuisce da Y a Y . Di conseguenza, ′ quando la IS si sposta, l’economia si muove lungo la LM, da A ad A . ′ Nota bene Un aumento delle imposte sposta la curva IS e lascia la curva LM invariata. L’economia si muove lungo la curva LM. L’incremento delle imposte porta ad una riduzione del reddito disponibile, che a sua volta induce gli individui a ridurre il consumo. Il risultato, attraverso l’effetto del moltiplicatore, è una diminuzione della produzione e del reddito. La riduzione della produzione porta ad un calo dell’investimento. 3.2 Politica Monetaria Supponiamo che la banca centrale riduca il tasso di interesse. Per farlo è necessario un aumento dell’offerta di moneta, e tale operazione è chiamata espansione monetaria. Al contrario, un aumento del tasso di interesse, per cui è necessaria una riduzione dell’offerta monetaria, è chiamato stretta o contrazione monetaria Aumento di M → espansione monetaria Riduzione di M → contrazione monetaria Il cambiamento del tasso di interesse non altera la relazione tra produzione e tasso di interesse. La curva IS non si sposta. Ricordate che cambiamenti del tasso di interesse comportano movimenti lungo la IS, non spostamenti della IS. 40 l cambiamento del tasso di interesse conduce, invece, ad uno spostamento della curva LM: essa si sposta verso il basso, dalla retta orizzontale in corrispondenza di ī=ī alla retta orizzontale in corrispondenza di ī=ī' . La curva IS non si sposta. La curva LM si sposta verso il basso. L’economia si muove lungo la curva IS e l’equilibrio passa dal punto A al punto A . La produzione aumenta da′ Y a Y e ′ il tasso di interesse diminuisce da i a i . La riduzione del tasso di interesse stimola ′ l’investimento e, quindi, fa aumentare la domanda e la produzione. Consideriamo la composizione della produzione: l’aumento della produzione e la riduzione del tasso di interesse contribuiscono entrambi ad un aumento dell’investimento. L’aumento del reddito conduce ad un aumento del reddito disponibile e, in questo modo, del consumo. Quindi, sia il consumo che l’investimento aumentano. 4. Un mix di politica economica La combinazione di politica monetaria e politica fiscale prende il nome di mix di politica economica. ✓A volte, il giusto mix richiede cha la politica fiscale e la politica monetaria vadano nella stessa direzione. ✓Altre volte, il giusto mix richiede che vadano in direzione opposte. Immaginate, per esempio, che l’economia sia in recessione e la produzione troppo bassa. In questa circostanza, sia la politica fiscale che quella monetaria possono essere usate per aumentare la produzione. Effetti di politica monetaria e fiscale espansiva (Usata nelle recessioni) L’equilibrio iniziale è dato dall’intersezione tra la curva IS e la curva LM nel punto A, in corrispondenza del livello di produzione Y. Una politica fiscale espansiva, ad esempio attraverso una riduzione delle imposte, sposta la curva IS verso destra, da IS a IS . Una ′ politica monetaria espansiva sposta la curva LM da LM a LM . Il nuovo equilibrio è dato ′ dal punto A , in corrispondenza del livello di produzione′ Y . In questo modo, entrambe le ′ politiche economiche contribuiscono all’aumento della produzione. Un maggior reddito e minori imposte fanno aumentare il consumo. Una maggior produzione e un minor tasso di interesse implicano che anche l’investimento sia maggiore. Sono svariate le ragioni per cui i policy-maker potrebbero voler utilizzare mix di politica economica: 41 Un’espansione fiscale significa un aumento della spesa pubblica o una riduzione delle imposte, o entrambi. In entrambi i casi questo porta ad un aumento del disavanzo di bilancio avere un grande disavanzo di bilancio, che porta necessariamente ad un aumento del debito pubblico, può essere rischioso. Per questo motivo è meglio non affidarsi esclusivamente alla politica fiscale, ma ricorrere almeno in parte anche alla politica monetaria. Un’espansione monetaria significa una riduzione del tasso di interesse. Se il tasso di interesse è già troppo basso, ci sarà poco spazio di manovra per utilizzare la politica monetaria. In questo caso, la politica fiscale deve farsi carico della maggior parte del problema. Se il tasso di interesse è già prossimo allo zero, cioè l’economia si trova nel caso dello zero lower bound che abbiamo visto nel capitolo precedente, allora la politica fiscale deve farsi carico di tutto il problema. A volte il corretto mix di politica economica consiste nell’utilizzare la politica monetaria e quella fiscale in direzioni opposte come nel caso della combinazione consolidamento fiscale con un’espansione monetaria. Supponiamo, ad esempio, che il governo si ritrovi con un grande disavanzo di bilancio e vorrebbe ridurlo, senza però dare il via ad una recessione. L’equilibrio iniziale è dato dall’intersezione tra le curve IS e LM nel punto A, in corrispondenza del livello di produzione Y. La produzione è considerata ad un livello giusto, ma il disavanzo di bilancio (T – G) è troppo elevato. Se il governo riduce il disavanzo di bilancio, o aumentando T o riducendo G (o facendo entrambe le cose), la curva IS si sposterà a sinistra, da IS a IS . L’equilibrio sarà in ′ corrispondenza del punto A , in corrispondenza di un livello della produzione′ Y . Dato il ′ tasso di interesse, maggiori imposte o minor spesa pubblica ridurranno la domanda e, attraverso il moltiplicatore, la produzione. Così, la riduzione del disavanzo di bilancio condurrà ad una recessione. Tuttavia, la recessione può essere evitata se viene utilizzata anche la politica monetaria. Se la banca centrale riduce il tasso di interesse a i , l’equilibrio è dato ora dal punto A″, in corrispondenza di un livello della produzione Y ″ = Y . La combinazione di entrambe le politiche economiche permette così una riduzione del disavanzo di bilancio, senza causare però una recessione. 42 Possiamo semplificare l’equazione indicando l’inflazione attesa tra t e t+1 con πet+1. Poiché vi è un solo bene, il tasso atteso di inflazione equivale alla variazione attesa del prezzo del bene tra quest’anno e il prossimo, diviso per il prezzo del bene Da questa equazione, possiamo riscrivere Pt / P t+1 nella prima equazione trovata come, utilizzando la formula inversa, 1 / (1 + πet+1). Sostituendolo poi nella prima equazione trovate si otterrà: [6.3] Da cui si evince che uno più il tasso di interesse reale è uguale al rapporto tra uno più il tasso di interesse nominale diviso per uno più il tasso atteso di inflazione. L’equazione ci fornisce quindi l’esatta relazione tra il tasso di interesse reale, il tasso di interesse nominale e l’inflazione attesa. Tuttavia, quando il tasso di interesse nominale e l’inflazione attesa non sono molto elevati, meno del 10% all’anno, una buona approssimazione a questa equazione è data dalla più semplice relazione: [6.4] Il tasso di interesse reale è (in modo approssimato) uguale al tasso di interesse nominale meno il tasso di inflazione attesa. Notate alcune delle conseguenze dell’equazione [6.4]: quando l’inflazione attesa è uguale a zero, il tasso di interesse nominale e reale sono uguali; poiché l’inflazione attesa di solito è positiva, il tasso di interesse reale è tipicamente inferiore rispetto a quello nominale; per un dato tasso di interesse nominale, maggiore è l’inflazione attesa e minore sarà il tasso di interesse reale. 1.1 Tasso di interesse nominale e reale in Italia dal 1982 45 Il tasso nominale (quello sopra) è molto più basso nel 2008 che nel 1982 mentre il tasso reale era solo leggermente più basso nel 2008 che nel 1982. Nonostante l’ampio declino del tesso nominale prendere a prestito nel 2008 era solo leggermente più conveniente rispetto al 1982 poiché l’inflazione era molto più bassa nel 2008 rispetto al 1982. 1.2 Tasso di interesse nominale e reale: zero lower bound Solitamente si distingue tra tasso di interesse reale ex-ante ed ex-post. Il tasso ex-ante è valutato usando πe t+1 mentre il tasso ex-post usando πt+1 Come dovrebbe essere πe t+1 per garantire una migliore valutazione degli investimenti in termini reali? Quale tasso vogliamo usare nella IS? Nel breve periodo non ha importanza visto che i prezzi sono costanti. Nel medio periodo conta perché i prezzi variano. Useremo il tasso reale. Quali implicazioni? La BC per decidere rt fissa i t tenendo conto dell’inflazione attesa. Se la banca centrale desidera che il tasso di interesse reale sia pari al 4%, data un’inflazione attesa pari al 2%, fisserà un tasso di interesse nominale i pari al 6%. Il tasso di interesse nominale non può essere inferiore a 0 (zero lower bound) e di conseguenza il tasso reale non può essere inferiore al negativo dell’inflazione. Se i t = 0 allora rt = -π t+1 e Ciò significa che se π t+1 e = 2% allora rt non può essere minore al -2%. Se l’inflazione è positiva è possibile raggiungere tassi reali negativi. Se l’inflazione è negativa (deflazione) il tasso reale minimo è maggiore di 0. 2. Rischio e premio per il rischio Finora abbiamo considerato una tipologia di titoli ma nella realtà esistono molti tipi di titoli che differiscono per: scadenza, cioè dell’arco temporale su cui garantiscono pagamenti. In secondo luogo, 46  rischiosità: alcuni titoli sono privi di altri invece sono rischiosi. Inoltre, chiunque sia nella posizione di poterci prestare del denaro sa che esiste la possibilità che non saremo in grado di rimborsare quanto preso a prestito. Per questo motivo, per assumersi tale rischio, coloro che comprano titoli (cioè coloro che prestano denaro) richiedono un premio per il rischio (o al rischio) che dipende da diversi fattori: la probabilità di fallimento del debitore: Maggiore è questa probabilità, maggiore sarà il tasso di interesse che richiederanno gli investitori. Se chiamiamo i il tasso di interesse su un titolo privo di rischio e i + x il tasso di interesse su un titolo rischioso, con probabilità p di fallimento, e chiamiamo x il premio per il rischio, il rendimento atteso di un titolo rischioso sarà: (1 + i) = (1 – p)(1 + i + x) + (p)(0) Il lato sinistro corrisponde al rendimento atteso del titolo privo di rischio mentre il lato destro corrisponde al rendimento atteso del titolo rischioso. Con probabilità (1 – p) non ci sarà fallimento del debitore e il titolo pagherà (1 + i + x), con probabilità p ci sarà fallimento del debitore e il titolo non pagherà nulla. Riorganizzando si ottiene : x= (1+i ) p (1−p) Per valori piccoli di i e p una buona approssimazione di questa formula è data semplicemente da x = p.  Grado di avversione al rischio degli obbligazionisti (creditori): Se il rendimento atteso sul titolo rischioso fosse uguale a quello sul titolo privo di rischio, il rischio stesso renderebbe gli obbligazionisti riluttanti a tenere il titolo rischioso. Per convincerli a tenere il titolo sarà quindi necessario un premio per il rischio, proprio per compensare tale rischio. Quanto debba essere grande questo premio per il rischio dipenderà dal loro grado di avversione al rischio: più avversi al rischio sono gli obbligazionisti, più il premio salirà anche se la probabilità di insolvenza sarà rimasta la stessa. 47 rischio che il valore delle attività diventi minore di quello delle passività che, a sua volta, implica un maggior rischio di insolvenza da parte della banca. La banca deve quindi scegliere una leva finanziaria che bilanci questi due fattori in quanto una leva finanziaria troppo bassa implica troppo poco profitto mentre una troppo alta si traduce in un rischio troppo elevato di bancarotta. Liquidità ✓Supponiamo che gli investitori comincino a dubitare (più o meno ragionevolmente) della solvibilità di una banca. ✓Essi tenteranno di prelevare i propri fondi dalla banca e quest’ultima sarà costretta a vendere le proprie attività per rimborsare gli investitori. Questo è possibile perché le passività di una banca solo liquide. Essa può decidere di: 1. Cercare nuovi investitori. 2. Ridurre le attività. La banca per pagare i propri creditori deve trovare fondi: 1. prestiti già concessi sono difficilmente esigibili nel breve periodo. 2. vendere prestiti ad altre banche è altrettanto difficile (difficoltà a valutare l’attivo). 3. prezzi di svendita. La riduzione delle passività si traduce in una minor concessione di prestiti a imprese e privati che può avere notevoli ripercussioni sull’economia. Questa situazione scatena un circolo vizioso per cui gli azionisti che vedono la banca svendere le proprie attività avranno incentivi a ritirare maggiori quote di capitale. Il problema si fa ancora più serio quando gli investitori possono prelevare risorse senza preavviso (depositi in cc o depositi a vista)Rischio di corse agli sportelli. Possiamo riassumere quanto appena descritto con il termine: «liquidità» dell’attivo e del passivo del bilancio di una banca. Effetti macroeconomici✓ Supponiamo ci sia un evento avverso nel sistema finanziario, che riduce il valore dell’attivo nei bilanci delle banche ✓ Alcune banche falliscono, e ovviamente non concedono più prestiti ✓ Alcune banche rimangono solventi riducendo i prestiti concessi a imprese e individui ✓ In ogni caso, vi è una contrazione dei prestiti concessi al tessuto economico ✓ Tale contrazione avrà rilevanti conseguenze macroeconomiche. 4. Il modello IS-LM esteso Estendiamo ora il modello IS-LM tenendo conto della differenza tra tassi di interesse nominali e tassi di interesse reali, e del premio per il rischio: Relazione IS: Y=C(Y–T) + I(Y,i-πe +x)+G Relazione LM: i = ī Da cui si deduce che la relazione LM rimane invariata, la banca centrale continua infatti a stabilire il tasso di interesse nominale, mentre abbiamo apportato due modifiche alla 50 relazione IS: la presenza dell’inflazione attesa, πe, e di un nuovo termine, il premio per il rischio, x. L’inflazione attesa riflette il fatto che le decisioni di spesa, a parità di ogni altro fattore, dipendono dal tasso di interesse reale, r = i - πe, piuttosto che da quello nominale. Il premio per il rischio, x, assume valori elevati quando i creditori percepiscono un elevato rischio che i debitori non saranno in grado di ripagare quanto preso a prestito, quando i creditori sono maggiormente avversi al rischio o quando gli intermediari finanziari riducono il livello dei prestiti concessi, a causa di timori sulla loro solvibilità o liquidità. Le due equazioni rendono chiaro che il tasso di interesse che entra nella relazione LM, i, non è più lo stesso che entra nella relazione IS, r + x. Chiamiamo il tasso che entra nella relazione LM “tasso di policy”, perché stabilito da un policy-maker, la banca centrale, mentre quello che entra nella relazione IS “tasso sui prestiti”, poiché è il tasso a cui le imprese e gli individui possono prendere a prestito. Adotteremo però una semplificazione: possiamo pensare che la banca centrale scelga direttamente il tasso di interesse reale, la banca centrale formalmente sceglie il tasso di interesse nominale ma lo sceglie in modo tale da ottenere il tasso di interesse reale desiderato. Possiamo quindi riscrivere le due equazioni come: Relazione IS: Y = C(Y – T) + I(Y, r + x) + G Relazione LM: r = ṝ Shock finanziari e politica economica Supponiamo che per qualche ragione x aumenti. Potrebbe succedere ad esempio perché gli investitori sono diventati più avversi al rischio o perché una banca è fallita e gli investitori 51 La banca centrale sceglie il tasso di policy reale r. Ma il tasso di interesse reale che determina le decisioni di spesa è il tasso reale sui prestiti, r + x, che dipende non solo dal tasso di policy ma anche dal premio per il rischio. La figura ci rappresenta queste due equazioni. Il tasso di policy è misurato sull’asse verticale e la produzione su quello orizzontale. La curva IS è disegnata per un dato valore di G, T e x. Un aumento del tasso di policy reale riduce la spesa e, a sua volta, la produzione: la curva IS ha pendenza negativa. La curva LM è semplicemente una retta orizzontale in corrispondenza del tasso di policy, cioè il tasso di interesse reale stabilito dalla banca centrale. hanno cominciato a dubitare della solvibilità delle altre banche dando così il via ad una corsa agli sportelli. Per un dato tasso di policy r, se aumenta x, aumenterà anche il tasso sui prestiti r + x provocando una contrazione della domanda e una riduzione della produzione. È in questo modo che difficoltà nate dal sistema finanziario possono condurre ad una recessione, una crisi finanziaria diventa quindi una crisi macroeconomica. Che cosa può fare la politica economica? Si preferisce seguire una politica monetaria in quanto la causa della bassa produzione è un tasso troppo alto sui prestiti e di conseguenza, in risposta ad un aumento di x, la banca centrale deve solo ridurre r, che potrebbe arrivare ad essere anche negativo, in modo tale da lasciare invariato r + x, ovvero il tasso rilevante per le decisioni di spesa. Tuttavia, lo zero lower bound limita il valore che può assumere il tasso di interesse nominale. Dato lo zero lower bound sul tasso di interesse nominale, il minor tasso di interesse reale che la banca può raggiungere è dato da r = i - πe = o - πe = - πe. Se l’inflazione attesa è sufficientemente elevata, si può trovare un tasso di interesse reale sufficiente per controbilanciare l’aumento di x. Ma se l’inflazione attesa è bassa o persino negativa, allora il tasso di interesse reale più basso che la banca centrale può raggiungere potrebbe non essere sufficiente a controbilanciare l’aumento di x e quindi potrebbe non essere sufficiente a riportare l’economia alla sua produzione di equilibrio inziale. Quindi: Come abbiamo visto nella figura precedente, un aumento di x, in seguito ad uno shock finanziario avverso, conduce a uno spostamento della curva IS verso sinistra e a una diminuzione della produzione di equilibrio. 5.1 Prezzi immobiliari e mutui ipotecari <<subprime>> 52 Il tasso di interesse reale più basso che la banca centrale può raggiungere è quindi pari all’opposto dell’inflazione attesa. Se sufficientemente grande, una riduzione del tasso di policy può in principio controbilanciare un aumento del premio per il rischio. Tuttavia, lo zero lower bound potrebbe nella realtà porre una limitazione alla riduzione del tasso di policy reale. Furono proprio queste le caratteristiche che portarono alla crisi del 2008-2009 lOMoARcPSD|10183622 Capitolo 7 Un viaggio nel mercato del lavoro Le principali variabili che descrivono il mercato del lavoro: Popolazione attiva individui che sono in età lavorativa (15-64)  Forze di lavoro: lavoratori occupati + lavoratori in cerca di occupazione  Fuori dalle forze di lavoro (inattivi): individui in età lavorativa non in cerca di un’occupazione  Tasso di partecipazione: rapporto tra le forze di lavoro e la popolazione in età lavorativa Tasso di disoccupazione: rapporto tra il numero di disoccupati e le forze di lavoro 1.1 I flussi del mercato del lavoro Il mercato del lavoro è un mercato caratterizzato da flussi di lavoratori in entrata e in uscita da occupazione, disoccupazione e forze di lavoro. ✓ Interruzioni dei rapporti di lavoro: individui che abbandonano un’occupazione ✓ Assunzioni: individui che trovano un’occupazione ✓ Dimissioni: individui che abbandonano volontariamente un’occupazione ✓ Licenziamenti: individui che abbandonano un’occupazione a causa della decisione dell’impresa ✓ Durata della disoccupazione: tempo medio prima che un disoccupato trovi un’occupazione Per analizzare il mercato del lavoro e la sua «salute», è importante capire la dinamica dei suoi flussi. Un certo tasso di disoccupazione può indicare situazioni diverse: • un mercato del lavoro vivace, con molte interruzioni dei rapporti di lavoro, ma molte assunzioni. • un mercato del lavoro asfittico, con una disoccupazione di lungo periodo. Per scoprire quale realtà si nasconda dietro ad un dato tasso di disoccupazione è necessario disporre di informazioni circa i flussi di lavoratori. Questi dati in Europa sono raccolti tramite l’Indagine sulle Forze di Lavoro trimestrale. 55 2. Movimenti all’interno della disoccupazione Quando l’economia è in recessione, le imprese reagiscono alla riduzione della domanda in due modi:  riducendo le assunzioni di nuovi lavoratori ;  licenziando i lavoratori attualmente occupati; Dato che le imprese agiscono in entrambi i modi, quando la disoccupazione è elevata è più probabile che i lavoratori occupati perdano il loro lavoro ed è meno probabile che i lavoratori disoccupati trovino un lavoro (la durata della disoccupazione aumenta) 3. La determinazione dei salari I salari possono essere stabiliti in molti modi. Spesso sono stabiliti in contrattazioni collettive, cioè contrattazioni tra imprese e sindacati. Le negoziazioni possono avvenire a livello aziendale, settoriale o nazionale e gli accordi possono essere applicati soltanto alle aziende che vi hanno aderito o a volte si estendono automaticamente a tutte le imprese e a tutti i lavoratori del settore o dell’economia. I lavoratori di solito percepiscono un salario superiore al loro salario di riserva, cioè il salario che li rende indifferenti tra lavorare ed essere disoccupati. La maggior parte dei lavoratori preferisce infatti di gran lunga essere occupata piuttosto che disoccupata. I salari di solito dipendono dalle condizioni prevalenti nel mercato del lavoro. Quanto più basso è il tasso di disoccupazione, tanto maggiori sono i salari. Per analizzare questi elementi, gli economisti hanno concentrato l’attenzione su due grandi linee interpretative: 1.La prima sottolinea il fatto che, anche in assenza di contrattazione collettiva, i lavoratori hanno una certa forza contrattuale. 2.La seconda sottolinea il fatto che le imprese stesse, per varie ragioni, possono voler pagare salari superiori al salario di riserva. 3.1 contrattazione del salario La forza contrattuale di un lavoratore dipende da due fattori: il costo che, in caso di dimissioni, l’impresa dovrebbe pagare per sostituirlo e la difficoltà che egli incontrerebbe nel trovare un altro lavoro. Quanto più costoso è per l’impresa rimpiazzare il lavoratore e quanto più è facile per quest’ultimo trovare un altro lavoro, tanto maggiore sarà la sua forza contrattuale. Due sono le conseguenze: 56 La forza contrattuale di un lavoratore dipende chiaramente dalla natura del lavoro. Sostituire un lavoratore da McDonald’s è sicuramente più facile di sostituire un lavoratore altamente qualificato e specializzato in un determinato ambito. Le condizioni prevalenti nel mercato del lavoro influenzano anch’esse la forza contrattuale dei lavoratori. Quando il tasso di disoccupazione è basso, l’impresa avrà difficoltà a trovare validi sostituiti e allo stesso tempo per i lavoratori è più facile cambiare lavoro, ciò a sua volta aumenta la loro forza contrattuale. Al contrario, in un mercato con un alto livello di disoccupazione, trovare validi sostituiti, è molto più facile. Di conseguenza i lavoratori occupati hanno meno forza contrattuale e potrebbero essere costretti ad accettare salari più bassi. 3.2 Salari di efficienza Prescindendo dalla forza contrattuale dei lavoratori, le imprese potrebbero voler pagare un salario superiore a quello di riserva: ✓per avere lavoratori più produttivi, incentivati da una migliore remunerazione e dalla prospettiva di maggiori costi legati alla perdita del lavoro; ✓per diminuire il tasso di avvicendamento dei lavoratori (turnover): la riduzione del turnover tende ad aumentare la produttività – diminuiscono i costi per di apprendimento della professione.: Come le teorie basate sulla contrattazione, le teorie dei salari di efficienza suggeriscono che i salari dipendono dalle condizioni del mercato del lavoro. Quando il tasso di disoccupazione è basso è più facile per i lavoratori trovare una nuova occupazione. Le imprese che vogliono evitare un aumento delle dimissioni pagheranno un salario più alto man mano che la disoccupazione aumenta. 3.3 Salari, prezzi e disoccupazione La nostra discussione sulla determinazione dei salari suggerisce un’equazione dei salari della forma: W=Pe F(u,z) [7.1] Il salario nominale aggregato, W, dipende da tre fattori: Il livello atteso dei prezzi, Pe; Il tasso di disoccupazione, u; Una generica variabile, z, che rappresenta tutte le altre variabili che influenzano la determinazione dei salari. 3.4 Il livello atteso dei prezzi 57
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