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Riassunto esame di Economia - Testo consigliato: "Corso di scienza delle finanze" - Bosi, Sintesi del corso di Economia

Riassunto del Corso di scienza delle finanze

Tipologia: Sintesi del corso

2010/2011

Caricato il 06/07/2011

signorinagatto
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4.5

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Scarica Riassunto esame di Economia - Testo consigliato: "Corso di scienza delle finanze" - Bosi e più Sintesi del corso in PDF di Economia solo su Docsity! Corso di laurea Interfacoltà in Scienze Organizzative e Gestionali Università degli Studi della Tuscia - Viterbo Anno accademico 2009-2010 -------------------------------------------------------------------- Corso di scienza delle finanze Paolo BOSI Capitolo I. Le ragioni dell'intervento pubblico (P. Bosi) Lezione 1. Economia del Benessere Le Scienze delle Finanze studia il ruolo dello Stato nelle moderne economie di mercato. Il ruolo Stato si esplica attraverso: l’offerta di beni e servizi pubblici (attività aventi rilevanza finanziaria registrata nel bilancio dello Stato) interventi di regolazione. L’evoluzione del ruolo dello Stato I campi dell’intervento dello Stato sono cresciuti nel tempo in parallelo si sono realizzati gli sviluppi teorici della disciplina teoria dell’imposta motivazioni dell’intervento pubblico teoria dei beni pubblici scelte collettive teoria della politica fiscale evoluzione del pensiero finanziario. Le funzioni musgraviane del bilancio pubblico Iniziamo col classificare le funzioni economiche che lo Stato deve assolvere e realizzare con il bilancio pubblico, che rappresenta contabilmente le entrate e le spese dello Stato (R. Musgrave): la funzione allocativa (effetti sull’efficienza economica), riguarda la produzione di quei beni definiti sociali o pubblici, che si distinguono dai beni privati e che non possono essere prodotti nel mercato: lo Stato deve garantire un’allocazione efficiente delle risorse. In un libero mercato i meccanismi formazione prezzo-quantità prodotta conducono all’equilibrio, poiché i soggetti operanti agiscono in maniera razionale (massimizzazione profitto per i produttori e massimizzazione utilità per i consumatori = equilibrio). Tali comportamenti razionali però vengono meno in alcuni casi, cosiddetti fallimenti del mercato, come ad esempio in presenza di beni pubblici. Difesa, amministrazione della giustizia, sicurezza... sono beni che un’impresa privata non ha interesse a produrre, se lo facesse non potrebbe costringere gli acquirenti a pagare il prezzo del servizio da essi richiesto. L’intervento dello Stato nel regolamentare la produzione di questi misurato sulla base delle preferenze, dipende esclusivamente dalla quantità dei beni da egli stesso consumati). L’Economia del Benessere ha in comune con l’Equilibrio Economico Generale una visione utilitaristica ed individualistica, ma l’Equilibrio Economico Generale non pone attenzione al ruolo dello Stato, mentre l’Economia del Benessere studia il comportamento dello Stato. Secondo l’Economia del Benessere, lo Stato è l’aggregazione delle volontà degli individui che ne fanno parte. L’Economia del Benessere da particolare importanza al principio di efficienza o di Pareto. Il concetto di ottimo paretiano e le tre condizioni di efficienza paretiana Il modo più consueto per gli economisti di definire uno stato sociale ottimale è il criterio di Pareto. Una situazione di ottimo paretiano deve soddisfare tre condizioni di efficienza: nello scambio, il principio di efficienza paretiana afferma che, nel distribuire i beni tra individui della collettività, una riallocazione delle risorse che migliori il benessere di un individuo senza arrecare danno ad altri, rappresenta un miglioramento del benessere della società nella produzione, il principio di efficienza paretiana afferma che, se tutti gli individui sono razionali, a parità d’impiego dei fattori, se nella situazione A posso produrre x beni e nella situazione B posso produrre y= x+1 beni, la situazione B è quella preferibile nella composizione del prodotto. Le situazioni che soddisfano i tre criteri sono infinite. Possiamo quindi dire che: un ottimo paretiano è una situazione della quale non è possibile spostarsi per migliorare il benessere di un individuo, senza che almeno un altro individuo della società risulti danneggiato miglioramento paretiano è il miglioramento che si ottiene quando, nel passaggio da una situazione all’altra, almeno un individuo è avvantaggiato senza che nessun altro ne sia svantaggiato. Primo e secondo teorema dell’Economia del Benessere Applicando i criteri di ottimo e di miglioramento paretiano al modello di Equilibrio Economico Generale, l’Economia del Benessere giunge a due conclusioni fondamentali, note come i teoremi fondamentali dell’Economia del Benessere: il primo e secondo teorema dell’Economia del Benessere. Il primo teorema fondamentale dell’Economia del Benessere Date le definizioni di: efficienza paretiana equilibrio concorrenziale (quantità di un bene o servizio DOMANDATO = quantità OFFERTA dello stesso bene o servizio è non esistono, in ogni tempo, mercati in cui ci sia DOMANDA non soddisfatta - OFFERTA eccedente) completezza dei mercati [le condizioni di concorrenza perfetta, debbono essere verificati non solo per alcuni, ma per tutti i mercati e cioè che non esistano “effetti esterni” (esternalità) nella produzione o consumo dei beni per i quali non esiste un mercato, non esistano beni per i quali non è possibile fissare un prezzo (beni pubblici), non vi sia incertezza/asimmetria informativa]. E’ ora possibile stabilire un nesso tra efficienza ed equilibrio di concorrenza. Tale relazione prende il nome di primo teorema fondamentale dell’Economia del Benessere: in concorrenza perfetta e con mercati completi, un equilibrio concorrenziale, se esiste, è un ottimo paretiano. La principale implicazione del Teorema è che, in certe condizioni, il mercato è da solo in grado di assicurare l’efficienza (in senso paretiano). Tale concetto è strettamente in relazione con la visione “classica” dell’economia, secondo la quale, il libero svolgimento dei processi di mercato permette, tramite una “mano invisibile”, di soddisfare al meglio gli interessi collettivi, tramite il perseguimento degli interessi individuali (A. Smith, 1776). In questa visione, il ruolo degli operatori pubblici (dello Stato) è quasi assente, o puramente residuale, ad esempio: garantire la sicurezza, diritti di proprietà. Critiche al primo teorema dell’Economia del Benessere Perché il teorema sia valido è necessario che vi sia perfetta concorrenza, i mercati siano completi. Tali condizioni sono molto stringenti, è sufficiente infatti, perché il teorema non sia più valido, che, ad esempio: non ci sia informazione completa, perché il compratore non ha le stesse informazioni del venditore (ad esempio, compravendita di un’auto usata, stipula di un contratto di assicurazione sulla vita) alcuni beni abbiano effetti “esterni”, cioè non rilevanti per chi scambia i beni sul mercato, ma rilevanti per la collettività (ad esempio, una fabbrica che inquina, l’effetto positivo di un campo di fiori coltivato per un vicino apicoltore) che ci siano situazioni di mercato non concorrenziali (oligopoli, monopoli, accordi di cartello). Critiche al primo teorema: l’equità Inoltre, una situazione di equilibrio concorrenziale può però essere caratterizzata da una “sgradevole” distribuzione delle risorse, ossia, pur rispondendo al criterio di efficienza, è possibile che un equilibrio concorrenziale non soddisfi il criterio di equità. Infatti, il concetto di ottimo paretiano non è necessariamente desiderabile. Ad esempio: un regime schiavistico può raggiungere un ottimo paretiano, nel senso che si potrebbe raggiungere una situazione in cui non è possibile migliorare la situazione di qualcuno (lo schiavo) senza peggiorare quella di qualcun altro (il padrone). Ciò ovviamente non vuol dire che quella sia una situazione desiderabile dal punto di vista della organizzazione complessiva del sistema socio-economico. In altri termini, al concetto di ottimo paretiano non è necessariamente associato un giudizio di valore sulla desiderabilità della situazione che esso rappresenta. Equità e secondo teorema dell’Economia del Benessere Secondo alcuni, un pianificatore sociale (un policy maker) può però raggiungere posizioni di maggiore equità, sempre utilizzando i meccanismi di mercato. Secondo teorema dell’Economia del Benessere E’ infatti dimostrabile che, in presenza di mercati completi e se sono rispettate alcune condizioni sulle funzioni di utilità individuali e sulle funzioni di produzione: ogni posizione di ottimo paretiano può corrispondere ad un equilibrio concorrenziale… …previa una appropriata iniziale dotazione delle risorse tra gli individui. Principali implicazioni dei due teoremi Sulla base dei due Teoremi fondamentali dell’Economia del Benessere si potrebbe dunque concludere che, tramite i meccanismi di mercato si riesce a raggiungere l’efficienza, in senso paretiano. Lo Stato può intervenire, rispettando i meccanismi di mercato, per garantire anche l’equità distributiva: attraverso una redistribuzione “fisica” delle risorse oppure tramite appropriate forme di tassazione o sussidi in somma fissa (lump sum taxes), che influenzino la “dotazione iniziale” degli individui. Nozione di imposta non distorsiva (lump sum tax) Il trade-off (compromesso) Efficienza-Equità Per ottenere maggiore equità è necessario rinunciare ad una certa dose di efficienza Efficienza: miglioramento di efficienza paretiano Equità: livello del benessere sociale, che é diverso a seconda delle diverse funzioni di benessere sociale. I teoremi dell’Economia del Benessere, nella realtà si scontrano con impossibilità di applicare il secondo teorema dell’Economia del Benessere per la difficoltà ad applicare lump sum taxes. Nel perseguire redistribuzione/stabilizzazione, lo Stato genera una perdita di efficienza (il “secchio bucato” di Okun) nel mercato viene violata la condizione di first best: disoccupazione. La ricerca di efficienza entra in conflitto con l’equità. Limiti dell’Economia del Benessere Se tutto funzionasse davvero come presupposto dai due teoremi dell’economia del benessere … al mercato sarebbe affidato il compito di realizzare un ottimo sociale (in senso paretiano) ed allo Stato soltanto il compito (eventuale) di utilizzare lump sum taxes per massimizzare il benessere sociale. Il mondo reale non funzione come descritto nei due teoremi dell’economia del benessere …. non esistono lump sum taxes …. non esiste il mercato di concorrenza perfetta …. c’è il problema che sul mercato non si scambiano solo beni privati ma anche beni pubblici. Le critiche più importanti all’Economia del Benessere sono: l’individualismo: il bene è sempre riconducibile soltanto alla valutazione dei singoli l’utilitarismo: il benessere è definito solo in termini di soddisfacimento dei bisogni. Il punto di vista individualistico non spiega i beni meritori o merit goods (Musgrave). Beni meritori Beni meritori sono beni o servizi offerti dallo Stato sulla base di criteri che negano il presupposto secondo cui gli individui sono il miglior giudice del proprio benessere: norme sull’uso di droghe, alcolici, cinture di sicurezza….. La diffusione dell’offerta di servizi collettivi che costituiscono beni meritori indica che l’impianto strettamente individualistico dell’Economia del Benessere non può fornire una risposta completa alla spiegazioni dell’intervento pubblico. Il punto di vista utilitaristico genera una utilità consequenziale che si scontra con il principio di equità generato invece dall’equità procedurale. Esempio: un tossicodipendente vi chiede 100 euro, ha un bisogno urgentissimo e magari la sua utilità é in quel momento maggiore di un operaio con 5 figli. A chi dei 2 preferireste dare i soldi? Al tossicodipendente che ha maggiore utilità??! Equità consequenziale e procedurale La visione del benessere dello sviluppo umano (Sen): funzionamenti e capacità Il concetto di equità implicito nell’Economia del Benessere è consequenziale: ciò che rileva è il livello di utilità che alla fine l’individuo è in grado di raggiungere. Esistono però anche altre nozioni di equità che guidano nella scelta delle politiche pubbliche. L’equità procedurale sottolinea l’importanza della definizione di regole eque per tutti (eguaglianza dei punti di partenza) ed è meno preoccupata degli esiti finali che dipendono dallo sforzo individuale. Alla visione dell’ottimo sociale della tradizione neoclassica dell’Economia del Benessere si contrappongono visioni alternative. Tra queste si segnala la teoria del benessere dello sviluppo umano di Sen. Il benessere (well being) non è definito in termini di utilità di consumo di beni e servizi, ma sulla base di funzionamenti e capacità in grado di realizzare la massima espansione della libertà individuale. I funzionamenti definiscono il modo in cui i bisogni individuali, materiali e non, possono essere concretamente soddisfatti (capacità di godere di buona salute, di imparare, di esprimersi, di svolgere un lavoro soddisfacente, ecc.). Le capacità sono i funzionamenti potenzialmente attivabili liberamente dagli individui e definiscono un grado di realizzazione della libertà. Il benessere di una società è valutato sulla base della sua capacità di estendere i funzionamenti degli individui. Lezione 2. Economia con beni pubblici e meccanismi di decisione politica Bene privato, bene pubblico e bene misto Non rivalità e non escludibilità Il sistema economico sinora considerato prevede l’esistenza di un solo tipo di beni: i beni privati (alimentari, abbigliamento, servizi abitativi, ecc.), i beni cioè che vengono solitamente prodotti e scambiati nel mercato. Ma nella società sono presenti altri tipi di beni e servizi che vengono prodotti e fruiti, come ad esempio la difesa, i trasporti pubblici, i servizi di nettezza urbana, che anche se sono forniti da imprese private, sono gestite dall’autorità pubblica, dallo Stato. Un passo avanti nella costruzione di una teoria sui servizi pubblici, viene realizzato nel momento che gli studiosi riescono a caratterizzare i connotati dei beni pubblici rispetto a quelli privati. Inizialmente, era stato individuato il concetto di indivisibilità dei vantaggi dei servizi pubblici: non è possibile individuare in quale misura il beneficio affluisce ad un individuo rispetto ad un altro (ad esempio, il vantaggio che deriva dalla difesa, non è divisibile) e quindi non era possibile stabilire un prezzo di tali servizi, con la conseguenza funzionari pubblici, in realtà dovrebbe operare scelte che riguardano l’intera collettività), tendono ad agire massimizzando il proprio interesse individuale. L’oggetto di studio della scuola di Public Choices è costituito dal processo decisionale alla base delle scelte politiche riguardo ai beni pubblici ed è analizzato con gli stessi strumenti per l’analisi economica, cioè quello che si può definire individualismo metodologico: si ipotizza cioè che il comportamento degli individui nelle scelte politiche, è identico al comportamento che essi assumono nelle scelte economiche, poiché essi perseguono la massimizzazione del proprio benessere. Nella prospettiva normativa, la Public choice ha cercato di chiarire in quale misura, il meccanismo del voto, possa approssimare risultati efficienti nella fornitura dei beni pubblici e prendendo le mosse dalla Teorema di Arrow ci occuperemo di questo aspetto. Il teorema dell’impossibilità di Arrow Dal punto di vista normativo, ci si è domandati, se attraverso il voto, sia possibile pervenire alla definizione di una funzione che sia in grado di ordinare diverse alternative sociali e cioè la costruzione del benessere sociale che, come abbiamo visto, costituisce il coronamento della teoria normativa dell’ottima allocazione delle risorse. Arrow ha cercato di definire una serie di criteri logici ed eticamente corretti che permettano al processo decisionale di rispettare le preferenze degli individui. Arrow dimostra che è impossibile individuare un metodo decisionale che soddisfi tutti questi criteri: il cosiddetto teorema dell’impossibilità di Arrow. Tale teorema sostiene che, avendo come presupposto ordinamenti di preferenze individuali che siano completi e transitivi, non è possibile stabilire una regola di decisione collettiva (o funzione del benessere) in grado di dare un ordinamento delle alternative completo e transitivo e che rispetti tutti i seguenti criteri (assiomi): dominio non ristretto, il processo decisionale deve permettere di raggiungere una decisione, qualunque sia lo stato delle preferenze completezza, il processo decisionale deve essere in grado di stabilire una graduatoria tra tutti i risultati possibili principio di Pareto debole, l’ordine di preferenza della società deve riflettere l’ordine delle preferenze degli individui transitività, la regola di scelta deve essere logicamente coerente al proprio interno indipendenza dalle alternative irrilevanti, la decisione deve dipendere soltanto dalla preferenze dei votanti e non da altre alternative (ad esempio la scelta tra un sistema pensionistico pubblico o privato, deve dipendere soltanto dalle preferenze dei cittadini rispetto a tali due sistemi e non rispetto all’assistenza sanitaria gratuita) non dittatorialità, le preferenze della società non devono riflettere soltanto le preferenze di un singolo. Pur trattandosi di criteri ragionevoli e condivisibili, Arrow arriva alla conclusione che l’unica possibilità di arrivare ad una regola decisionale è quella di eliminare una delle sei condizioni prima elencate. La conclusione secondo cui non esiste alcuna regola di voto in grado di soddisfare tutte le condizioni suesposte, ha posto in crisi i sostenitori dei sistemi democratici. Il voto come strumento di rivelazione delle preferenze dei beni pubblici Meccanismi di votazione L’unanimità relativa di Wicksell Già l’economista svedese Wicksell (1896) aveva sottolineato come soltanto un meccanismo di voto basato sull’unanimità fosse pareto-efficiente, poiché soltanto questo tipo di voto non comporta nessun danno per i votanti. Naturalmente, era ben consapevole della difficoltà di poter raggiungere tali decisioni e pertanto la sua proposta era quella di assumere come criterio decisionale un metodo di voto che imponga una unanimità relativa e cioè una maggioranza qualificata. La proposta di Wicksell va comunque ricordata, perché fa riflettere che, attraverso la discussione, si possono arrivare a soluzione di compromesso che possano ricevere il massimo grado di consenso. Il meccanismo di votazione ottimale di Buchanan Secondo Buchanan, la scelta del metodo di votazione dovrebbe rispondere a due criteri, che sono riconducibili ad un problema di minimizzazione dei costi. Se si adotta un sistema con una maggioranza bassa (al limite decide il dittatore) si avranno dei costi connessi al fatto che, la volontà di uno solo, probabilmente sarà in conflitto con il volere degli altri. Se si aumenterà il quorum per l’approvazione, tale costo diminuirà e nel caso di unanimità esso sarà nullo. Tale costo sarà indicato come costo esterno, ma il raggiungimento di un quorum più alto comporterà costi di altro tipo (tempo di decisione, ecc.) indicato come costo interno. I costi esterni tendono a diminuire al crescere del numero degli elettori richiesti dalla regola del voto fino ad annullarsi in caso di unanimità, mentre i costi esterni seguiranno un andamento opposto. Una collettività razionale sceglierà allora quella regola di voto che minimizza il costo totale del processo decisionale collettivo (che è dato da costi interni + costi esterni). Quindi il punto più basso delle curve dei due costi e cioè il numero tot degli elettori favorevoli, individua la regola di voto ottimale. Vale sottolineato che, comunque, tale maggioranza ottimale, non necessariamente corrisponde con la regola più utilizzata nelle moderne democrazie che è la maggioranza assoluta. La votazione a maggioranza: vantaggi e limiti e principio di Pareto Se il voto all’unanimità auspicato da Wicksell è difficilmente applicabile, occorre allora affidarsi al voto a maggioranza, il sistema storicamente più utilizzato per adottare decisioni collettive. Restando in sistemi semplici, nei quali è conosciuto il numero dei votanti, è possibile utilizzare la regola della maggioranza semplice: in questo caso la scelta ricadrà sull’alternativa votata dalla metà + 1. Il voto a maggioranza non necessariamente soddisfa gli assiomi di Arrow, né consente di restringere il campo delle decisioni alle alternative Pareto-ottimali. Pur essendo un metodo di votazione ampiamente utilizzato, la teoria delle scelte collettive ha evidenziato alcune problematiche ed in particolare che tale sistema non sempre garantisce un ordinamento delle scelte collettive di tipo transitivo, come sottolineato dal matematico francese Condorcet. 1. Votazioni su coppie di alternative: il Condorcet winner Paradosso della ciclicità del voto a maggioranza Condorcet aveva dimostrato che, con il metodo delle confronto a coppie, ponendo a confronto tutte le possibili alternative a due a due, non sempre è possibile individuare un Condorcet winner, cioè un’opzione che vince contro tutte le alternative. Comparazioni binarie, infatti possono dare a luogo a preferenze sociali intransitive tali da determinare maggioranze cicliche, determinate cioè dall’ordine con cui sono poste a confronto le diverse alternative (tale situazione è nota come paradosso di Condorcet, secondo cui anche se in presenza di preferenze individuali complete e transitive, il voto a maggioranza può raggiungere come risultato un ordinamento di preferenze sociale intransitivo). In uno studio negli anni Cinquanta, Black dimostrò che il paradosso di Condorcet poteva essere evitato se le preferenze dei votanti sono unimodali (ad una sola punta, single-peaked): ciò significa che le opzioni possono essere ordinate in maniera monotona lungo una dimensione e cioè, via via che ci si allontana dall’esito preferito, in ogni direzione, il beneficio derivante dalla scelta cala costantemente. Il teorema dell’elettore mediano Se le preferenze sono unimodali, la votazione a maggioranza ha una proprietà nota come il teorema dell’elettore mediano: dato un sistema politico, con votazione a maggioranza e di unimodalità delle preferenze degli elettori, Ricavo Marginale = Costo Marginale. L’imprenditore monopolista impone il suo prezzo di equilibrio che è superiore al costo marginale e che non conduce ad una situazione pareto-efficiente, dato che vi sarebbe spazio per aumentare il benessere di qualcuno senza diminuire quello degli altri: quindi la massimizzazione del profitto del monopolista implica una produzione inferiore a quella ottenibile in concorrenza perfetta e possiamo affermare in conclusione, che le sue scelte inducono ad una sottoproduzione ed ad un benessere minore. Come detto, il monopolio non è uno stato dell’economia pareto-efficiente; ma esistono dei mercati in cui, per le loro caratteristiche, una situazione di concorrenza perfetta sarebbe dannosa. In particolare, in presenza di economie di scala o di rendimenti crescenti (costi medi decrescenti al crescere della produzione), si determina una situazione di monopolio naturale: le condizioni tecnologiche di mercato sono tali che soltanto una grande impresa è in grado di produrre a costi inferiori rispetto ad un insieme di piccole imprese. Questo accade in particolari tipologie di mercato, ad esempio di beni e servizi pubblici (public utilities) dove i costi fissi sono molto elevati: pensiamo a certe attività come l’industria estrattiva, alcuni servizi (acqua, luce, gas, telefono... si pensi ai costi per l’installazione di condutture idriche..). In altre parole, in presenza di un monopolio naturale, la struttura dei costi è tale per cui i costi sono minimizzati con un solo produttore (è meno costosa la produzione accentrata). Quindi: il monopolista massimizza il profitto, lo Stato, che massimizza il benessere collettivo, vorrebbe che la situazione fosse vicina a quella di concorrenza. Abbiamo già sottolineato che se lo Stato facesse entrare altre imprese peggiorerebbe la situazione, perché i costi medi sono elevati. Gli interventi alternativi sono: fissare il prezzo di concorrenza e coprire la perdita del monopolista fissare il prezzo in cui il monopolista non ha perdite e la situazione si avvicina a quella di concorrenza Implicazioni delle due politiche: il rimborso della perdita del monopolista è addossato a tutta la collettività, infatti lo Stato si finanzia con imposte non vi è necessità di esborsi pubblici, tuttavia rimane una piccola perdita secca. Solo per completezza, accenniamo una pratica molto attuale di “trattare” il monopolio naturale. Pensiamo ad esempio al mercato della telefonia. Un modo semplice per stimolare la concorrenza è quello di liberalizzare il servizio: le telefonate mantenere la struttura pubblica: i ripetitori Le esternalità. Costo marginale esterno Un’esternalità esiste quando alcune variabili che influenzano il costo di un produttore o l’utilità di un consumatore sono direttamente influenzate dalla decisione di produzione o di consumo di un altro soggetto, e tale effetto non è valutato o compensato. Le esternalità sono di diverso tipo a seconda che il soggetto colpito ed il soggetto causa, siano un consumatore od un produttore. Le esternalità possono inoltre essere positive o negative. Esempi ◮ produttore/consumatore negativa: un’impresa inquina l’aria di una zona residenziale ◮ produttore/produttore negativa: un’impresa di vernici inquina l’acqua nei pressi di un’azienda agricola ◮ produttore/produttore positiva: un’impresa sviluppa un metodo produttivo molto efficace di cui si appropriano altre imprese ◮ consumatore/produttore negativa: il traffico autostradale intralcia il trasporto delle merci ◮ consumatore/produttore positiva: un bel giardino di una villa con un allevamento di api vicino ◮ consumatore/consumatore negativa: il tuo vicino di stanza chiassoso ◮ consumatore/consumatore positiva: il tuo vicino ha un bel giardino che puoi vedere dalla tua finestra. Importante: un bene pubblico può essere interpretato come un caso limite di effetto esterno positivo il concetto di esternalità prevede che i costi od i benefici (negativa o positiva) non siano valutati o compensati. Ma Consideriamo il caso dell’impresa di vernici, V , che inquina l’acqua dell’azienda agricola, A. Formalmente, l’esternalità negativa viene definita come un costo per A all’aumentare della quantità prodotta da V: l’esternalità, in questo caso, aumenta il costo marginale effettivo di A che diminuisce la produzione e genera quindi una produzione inferiore a quella paretiana in cui il prezzo uguaglia il costo marginale. Ecco l’inefficienza delle esternalità (negative). Rimedi alle esternalità negative produttore/produttore: regolamentazione, imposte pigouviane, diritti di inquinamento Il teorema di Coase Interventi pubblici produzione pubblica: intervento radicale, lo Stato assume la produzione dell’attività che genera l’esternalità negativa per assicurare la produzione Pareto ottimale fusione delle imprese: le 2 imprese sono una sola e quindi ”internalizzano” i costi dell’esternalità regolamentazione: indurre a inquinare meno, è la politica maggiormente utilizzata imposte pigouviane: imposte alle imprese pari al costo marginale esterno (imposte sulla produzione, che spingono l’inquinatore a scelte sociali ottimali) teorema di Coase: critica le imposte pigouviane. L’approccio di Coase parte dal presupposto che il vero problema dell’esternalità, è la mancanza di una chiara definizione dei diritti di proprietà. E’ necessario stabilire se l’impresa A ha il diritto di inquinare e l’impresa B ha il diritto a non subire gli effetti esterni dell’impresa A. Secondo il teorema di Coase se le parti coinvolte possono raggiungere accordi privati a costo nullo ed a vantaggio di entrambe, l’esito che si otterrà sarà efficiente, indipendentemente da come sono specificati i diritti di proprietà: quindi, fissati i diritti di proprietà, sarà sufficiente lasciare le parti libere di trattare per raggiungere una situazione efficiente, senza la necessità di un intervento pubblico (da notare che non sempre è possibile come nel caso di molti soggetti interessati con capacità contrattuali diverse) diritti di inquinamento trasferibili: prevede l’emissione da parte dello Stato di diritto all’inquinamento attraverso l’uso di vouchers commerciabili, pari nell’ammontare ai costi dell’esternalità. Nel caso di riduzione dell’inquinamento, l’azienda può rivendere i restanti diritti ad altre imprese: si crea così un mercato con allocazione ottima (in teoria) dell’esternalità. Rischio ed incertezza. Funzioni delle assicurazioni L’ottimo paretiano in presenza di rischio Carenze informative: costi di transazione, contratti completi ed incompleti. Diritti residuali di controllo Asimmetrie informative: moral hazard ed adverse selection Asimmetrie Informative Il primo teorema dell’Economia del Benessere suppone perfetta informazione. Nella realtà esistono carenze ed/od asimmetrie informative tra agenti economici che danno origine a costi: costi di transazione cioè costi di negoziazione, monitoraggio ed operatività del contratto. L’esistenza di costi di transazione si traduce nella impossibilità di siglare contratti completi. Un contratto è incompleto quando non è possibile osservare variabili rilevanti per la contrattazione e queste non sono quindi disciplinate. Nell’ambito delle carenze informative, assume particolare interesse il caso in cui le informazioni sono distribuite diversamente fra i partecipanti allo scambio: Asimmetria Informativa. E’ responsabile di particolari fallimenti del mercato: Moral Hazard Capitolo II. La finanza pubblica in Italia, il Bilancio dello Stato e la Legge finanziaria (P. Bosi e P. Silvestri) Amministrazioni Pubbliche Parlando di finanza pubblica, preliminarmente definiamo l’aggregato istituzionale a cui fare riferimento. Nei documenti ufficiali di politica economica la Relazione della situazione economica del Paese il Documento di programmazione economico-finanziaria il Bollettino economico la Relazione della Banca d’Italia, ecc. si utilizzano diverse definizioni di Settore Pubblico. La definizione più rilevante è quella di Amministrazioni Pubbliche (AP). Le Amministrazioni Pubbliche sono Enti che producono beni e servizi non destinabili alla vendita o svolgono funzioni di redistribuzione del reddito. Si distinguono per livelli di Governo in Amministrazioni centrali (che includono il soggetto principale, lo Stato), Amministrazioni locali ed Enti di previdenza. Le Amministrazioni Pubbliche (AP) sono un aggregato di Enti pubblici: il Settore Statale (Stato, Organi Costituzionali e Ministeri) altri Enti dell’Amministrazione Centrale (CNR, ENEA, ISTAT, Coni...) gli Enti di Previdenza (INPS, INAIL, INPDAP...) le Amministrazioni Locali (Regioni, Provincie, Comuni, Università, ASL, IACP, Camere di Commercio) le ex Foreste Demaniali. La rilevazione delle entrate e delle spese delle Amministrazioni Pubbliche è fatta dall’ISTAT e l’EUROSTAT (rispettivamente l’ufficio centrale di statistica nazionale e dell’Unione Europea) seguendo criteri omogenei: il rispetto di regole contabili standardizzate a livello europeo (conti SEC), consentono di utilizzare il conto delle Amministrazioni Pubbliche per fare confronti nel tempo e, con qualche cautela, tra paesi. Vi sono differenti significati di Settore Pubblico. Gli Enti che lo compongono posso essere aggregati in vari modi in base ai problemi che si vogliono considerare. I conti che si riferiscono ad un insieme di Enti si chiamano conti consolidati: conti che elidono (sopprimono) tutte le transazioni fra Enti appartenenti allo stesso insieme (ad esempio: un trasferimento dall’Ente A all’Ente B, non compare nel bilancio consolidato dei due Enti né come uscita né entrata). Le aggregazioni degli Enti pubblici rispondono a due criteri: Criterio Istituzionale: vengono considerati parte del Settore Pubblico tutti gli Enti che rientrano nell’ambito della proprietà pubblica Criterio Funzionale: appartengono al Settore Pubblico tutti i soggetti la cui funzione principale consiste nella produzione di beni e servizi non destinabili alla vendita o nell’operare redistribuzioni del reddito e della ricchezza. Secondo il Criterio Istituzionale le aggregazioni sono: Settore Statale: lo Stato (Bilancio e Tesoreria), le Aziende autonome statali e gli Enti assimilati (non vi fanno più parte Ferrovie, Poste Italiane, Ente tabacchi italiani, Anas). Importante il controllo dei flussi di cassa, il Ministero dell’economia svolge le funzioni di cassiere nelle uscite dal Bilancio dello Stato (gestione di bilancio) nei rapporti finanziari fra Stato e gli altri Enti del Settore Pubblico (gestione di tesoreria). Infatti lo Stato mette a disposizione di Regioni, Provincie, Comuni, Università, ASL ecc.. dei fondi a cui questi possono attingere. Dal 1996 a causa delle spese in eccesso sono stati posti dei vincoli al prelievo. Settore Pubblico: è l’accezione (uno dei significati di un vocabolo) più ampia. Ma I conti relativi a questi due aggregati sono elaborati: per il Settore Statale dal Ministero dell’Economia: Relazioni trimestrali sulla stima del fabbisogno di cassa del Settore Pubblico Relazione generale sulla situazione economica del paese (a marzo) Documento di programmazione economico-finanziaria (a giugno) Relazione previsionale e programmatica (a settembre). Settore Pubblico dal Tesoro e dalla Banca d’Italia: Relazione annuale della Banca d’Italia (31 maggio). Secondo il Criterio Funzionale l’aggregato di riferimento è nominato Amministrazioni Pubbliche ed è composto da Amministrazione Centrale: Stato ed Enti come Enea, CNR, ISTAT... Enti di Previdenza: INPS, INAIL, INPDAP ..... Amministrazione Locale: Regioni, Comuni, Provincie, ASL, Camere di commercio, Università, IACP... . I conti delle Amministrazioni Pubbliche sono: conti economici: escludono tutte quelle entrate ed uscite di carattere finanziario che non danno luogo a modificazioni nella situazione patrimoniale degli Enti considerati (ad esempio, accensione di prestiti, acquisizione partecipazioni azionarie, ecc.), in quanto, in caso di uscite, si ha contemporaneamente acquisizioni di crediti, mentre nel caso di entrate, danno luogo alla creazione di debiti conti di competenza: ad essi corrispondono erogazioni la cui maturazione è avvenuta nell’anno di riferimento, indipendentemente dall’effettiva erogazione monetaria in entrata ed in uscita. Significato di “economico” e “consolidato” nel Conto economico consolidato delle AP I bilanci delle Amministrazioni Pubbliche confluiscono nel Conto Economico Consolidato delle Amministrazioni Pubbliche, che racchiude le principali voci di entrata e di spesa, organizzate secondo il criterio della natura economica delle operazioni effettuate (classificazione economica). Si tratta di un conto “consolidato” perché nell’aggregare i bilanci si elidono (sopprimono) i trasferimenti interni, tra i diversi Enti delle Amministrazioni Pubbliche ed è “economico” perché si ispira al concetto di competenza economica. Si distinguono entrate ed uscite correnti: necessarie per il normale funzionamento delle Amministrazioni Pubbliche e dove troviamo Se il Bilancio delle Amministrazioni Pubbliche mostra un disavanzo (e ciò si è sempre verificato nell’arco di tempo preso in considerazione) lo stock del debito pubblico aumenta dato che per finanziare il disavanzo è necessario emettere nuovi titoli pubblici. In particolare col tempo assume importanza la componente interessi (negli anni ’80 i tassi di interesse erano elevatissimi e hanno contribuito ad aggravare l’indebitamento). Bilancio dello Stato Tra i conti pubblici riveste particolare importanza il Bilancio dello Stato (Bds), sia per dimensione sia perché dal Bilancio dello Stato dipende larga parte del finanziamento agli Enti pubblici decentrati. Con il Bilancio dello Stato il Parlamento autorizza il Governo ad erogare le spese ed a incassare le entrate e dunque a mettere in atto l’intervento dello Stato nell’economia. Bilancio dello Stato di previsione, consuntivo; a legislazione vigente e programmatico; annuale e triennale Bilancio di competenza e di cassa Esistono diverse versioni del Bilancio dello Stato: di previsione e consuntivo, a legislazione vigente e programmatico, annuale e triennale, di competenza e di cassa. La Struttura Formale del Bilancio dello Stato Il Bilancio annuale di previsione dello Stato riporta le entrate e le spese che si prevede di realizzare nel corso dell’esercizio e negli esercizi immediatamente futuri. Con il Bilancio di previsione il Parlamento autorizza il Governo ad erogare le spese ed ad incassare le entrate; la funzione di autorizzazione del Bilancio dello Stato è espressamente sancita dalla Costituzione (articolo 81, comma 1) che prevede che venga approvato con una specifica legge (legge di bilancio) e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale. Il Bilancio di previsione è composto da una serie di tabelle o stati di previsione: ella generale per le entrate e belle quanti sono i ministeri con portafoglio per le uscite. Ciascuna tabella o stato di previsione è articolata in unità previsionali di base che descrivono l’oggetto delle singole poste di bilancio: sono l’articolazione minima del Bilancio per la sua approvazione (unità minima di voto) e cioè, si richiede un certo dettaglio. Per rendere maggiormente visibile il legame, risorse stanziate e le finalità a cui sono destinate, dal 2008, il Bilancio dello Stato presenta una nuova articolazione per missioni e programmi, così che ciascuna unità previsionali di base è riferibile ad una specifica missione ed, al suo interno, ad uno specifico programma. Ogni missione, che può anche essere perseguita da più Ministeri, si realizza concretamente attraverso uno o più programmi di spesa, che individuano aggregati omogenei di attività, svolte da ciascun Ministero. Una struttura analoga al bilancio di previsione ha il bilancio (o rendiconto) consuntivo che descrive le operazioni già avvenute e riporta i risultati di una gestione che si è conclusa. Nell’ambito del processo di costruzione del bilancio preventivo si distinguono il bilancio di previsione a legislazione vigente: mostra l’evoluzione delle entrate e delle spese così come risulta dalla proiezione della normativa in vigore il bilancio di previsione programmatico: recepisce gli interventi desiderati per correggere le tendenze in atto e quindi mostra l’evoluzione desiderata delle entrate e delle spese. Quando il Ministero competente prepara il Bilancio di previsione a legislazione vigente, deve iscrivere nella relativa unità previsionale la somma di tutti gli stanziamenti che, per effetto della legislazione precedente, finiscono per ricadere su quell’esercizio. Il Bilancio di previsione è annuale, se riguarda soltanto un esercizio, o pluriennale, se si riferisce a più anni (in genere tre). Bilancio di competenza e di cassa Le fasi delle entrate e delle uscite. I residui attivi e passivi Con riferimento alle modalità con cui sono determinati i valori delle poste di bilancio sono prodotti due tipi di Bilancio di previsione di competenza: si riferisce alle entrate che si prevede di accertare ed alle spese che si prevede di impegnare nel corso dell’esercizio, a prescindere dal momento dell’effettivo pagamento delle spese e dell’effettivo incasso delle entrate di cassa: fa riferimento alle entrate da versare ed alle spese da pagare nel corso dell’esercizio, a prescindere dal momento in cui avvengono l’accertamento e l’impegno. Le principali fasi delle entrate sono tre: l’accertamento: corrisponde al momento in cui l’amministrazione determina sia la ragione del credito dello Stato sia la persona del debitore e quindi iscrive nella sua contabilità l’ammontare del credito che viene a scadere entro l’esercizio. E’ questo il momento che sorge l’obbligazione a riscuotere. la riscossione: è quando il debitore il paga agli agenti incaricati da parte dello Stato. il versamento o l’incasso: è quando l’agente incaricato versa la somma alla Tesoreria dello Stato: è soltanto in questo caso che le somme risultano effettivamente incassate. Le principali fasi delle uscite sono due: l’impegno: si verifica quando, da un atto legale (ad esempio la stipula di un contratto di appalto) dell’autorità competente, risulta l’obbligo di un certo pagamento. Contabilmente, corrisponde alla registrazione dell’operazione sul singolo finanziamento. il pagamento: consiste il passaggio materiale delle somme in questione al creditore attraverso la Tesoreria Centrale od una delle sezioni provinciali. Sia le entrate e le uscite, quindi, prima di essere materialmente pagate od incassate devono seguire le citate diverse fasi, ma, dato che il bilancio si riferisce ad un determinato anno solare, può succedere che queste somme non completino il loro iter amministrativo nel corso dell’esercizio: quindi un stanziamento va in economia, in caso non giunga alla fase dell’impegno o nel caso di un’entrata prevista, ma non accertata, sarà una minore entrata. Inoltre il bilancio di competenza dà origine ai residui di bilancio: sono residui attivi le entrate accertate e non incassate; sono residui passivi le uscite impegnate e non pagate. Il Bilancio di previsione dello Stato è dunque un bilancio duplice (misto) sia di competenza che di cassa e poiché una delle funzioni del Bilancio di previsione è Articolo 81 della Costituzione Legge n. 468/1978 (prima riforma) Legge n. 362/1988 (seconda riforma) Legge n. 94/1997 (terza riforma) Legge n. 208/1999 (quarta riforma) Regolamenti contabili Regolamenti parlamentari La fonte normativa più importante è l’articolo 81 della Costituzione: comma 1: le camere approvano ogni anno i bilanci ed il rendiconto consuntivo presentati dal Governo. comma 2: l’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi. comma 3: con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese. comma 4: ogni altra legge che importi nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte. La Trama del Processo di Bilancio Il processo che porta alla formazione del bilancio di previsione si ispira al modello di programmazione inaugurato con la legge n. 468/1978, che ha introdotto nel nostro ordinamento la Legge Finanziaria: Il modello prevede che dato il bilancio a legislazione vigente (che esprime la dinamica spontanea delle entrate e delle spese) e dati gli obiettivi generali (stabiliti in via anticipata nel DPEF e riguardanti prevalentemente il raggiungimento di saldi obiettivo) si mette in atto una manovra di correzione del bilancio a legislazione vigente di cui la Legge Finanziaria (LF) è lo strumento: la Legge Finanziaria è quindi la “cerniera” fra il bilancio a legislazione vigente e gli obiettivi, ed ha la funzione di modificare gli andamenti inerziali delle spese e delle entrate per renderli conformi agli obiettivi generali il risultato della manovra porta alla definizione delle previsioni iniziali del Bilancio dello Stato e cioè all’approvazione della Legge di bilancio pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. Ma La Legge finanziaria(LF): funzioni e contenuti Lo strumento principale della manovra annuale è la Legge Finanziaria, a cui è affidato il compito di rendere l’andamento spontaneo del bilancio a legislazione vigente coerente con gli obiettivi desiderati (in termini di saldi e composizioni delle entrate e delle spese) espressi con il DPEF. E’ stata introdotta nel nostro ordinamento dalla legge n. 468/1978, essa ha una vita strettamente legata alla legge di bilancio, ha due finalità individuate dal contenuto proprio: ciò che essa deve obbligatoriamente fare per realizzare la manovra contenuto eventuale: ciò che può fare (ma non è obbligatorio) per rendere ancora più efficace la manovra. Nel contenuto proprio la Legge Finanziaria tecnicamente è composta di due parti le tabelle: l’espressione numerica e quantitativa delle varie voci l’articolato: il testo in forma di articoli di legge. L’articolato della Legge Finanziaria può inoltre presentare disposizioni normative vere e proprie che costituiscono il contenuto eventuale della finanziaria, che storicamente ha creato maggiori problemi. Per questo la legge n. 208/1999 nel regolare questa prerogativa, ha introdotto una serie di prescrizioni: il principio che la finanziaria debba contenere esclusivamente norme dirette a realizzare effetti finanziari a decorrere dall’anno a cui si riferisce il bilancio di previsione in discussione; l’esclusione di norme di “delega” o di norme “ordinamentale od organizzatorio” (ad esempio riforma di settori dell’amministrazione), che devono essere rinviati ai Disegni di Legge Collegati di novembre; la finanziaria può contenere norme con effetto positivo sui saldi (riduzione spese od aumento entrate) la finanziaria può contenere norme con effetto negativo sui saldi (aumento spese o diminuzione entrate, soltanto se finalizzate al rilancio dell’economia, ma non di quelle di tipo “localistico o microsettoriale”). Le Aree Critiche della Manovra annuale Il contenuto “tipico” della Legge Finanziaria: si rischia l’utilizzo per la normativa ordinaria (rischio di sovraccarico) La definizione degli obiettivi: molto importante è la distinzione fra obiettivi (stabiliti in estate) e strumenti (stabiliti in autunno). Nella fase di ricerca degli strumenti gli obiettivi possono “saltare” sotto pressione di gruppi di interesse particolare Il potere di auto-copertura della Legge Finanziaria: fino al 1988 la Legge Finanziaria poteva coprire con indebitamento le maggiori spese introdotte con la Legge Finanziaria stessa. Il problema è stato risolto con la riforma dell’88, imponendo come vincolo il non peggioramento del saldo risparmio pubblico: la legge Finanziaria può finanziare spese in disavanzo soltanto se queste sono di parte capitale e soltanto se il saldo obiettivo non eccede quello definito in sede di programmazione, con il DPEF. ?La Legge Finanziaria si avvale di diversi strumenti che hanno lo scopo sia di rivedere scelte effettuate in passato sia di accantonare risorse (copertura) per provvedimenti che verranno effettuati nell’esercizio di riferimento. L’ampio potere di manovra che il legislatore ha previsto per la Legge Finanziaria, in particolare per quanto riguarda il contenuto “eventuale” della Legge Finanziaria, ne ha storicamente determinato un sovraccarico, favorito anche dalla organizzazione della sessione autunnale di bilancio che prevede, per la discussione ed approvazione della Legge Finanziaria, una corsia preferenziale rispetto alle leggi ordinarie di spesa. Alla puntuale definizione del disegno e portata della Legge Finanziaria sono state dedicate le principali riforme del Bilancio dello Stato degli anni ottanta e novanta; con queste riforme si è cercato di mettere a punto uno strumento effettivamente funzionale al controllo della finanza pubblica. La fase parlamentare Predisposti i vari progetti, l’iter che porta alla formazione del bilancio di previsione dello Stato prosegue con la presentazione dei Disegni di Legge relativi al bilancio annuale/pluriennale e Legge Finanziaria alla Camera: questo momento segna l’inizio della fase parlamentare del ciclo di bilancio, che si apre ad inizio ottobre e finisce di norma entro il 31 dicembre (nel decennio 1978-1988 si è ricorsi all’esercizio provvisorio). Dal 1983 si ha la sessione di bilancio, che, attraverso la riforma dei regolamenti parlamentari, ha riservato ai mesi autunnali alla discussione del bilancio e della Legge Finanziaria, con una precisa fissazione dei lavori parlamentari e durata complessiva delle sessioni. I regolamenti parlamentari sono importanti, perché hanno il compito di controllare che il Governo abbia rispettato le leggi di contabilità, in merito a la collettività ne trae vantaggio (ad esempio recupero dei tossicodipendenti, sanità pubblica, sicurezza sociale...). I problemi della non escludibilità e delle esternalità sono stati visti nell’Economia del Benessere come cause di fallimento del mercato e come motivi per l’intervento pubblico (in ricerca dell’ottimo paretiano - prima teorema dell’Economia del benessere: il prezzo sia uguale al costo marginale). Altri motivi per l’intervento pubblico sono l’indivisibilità dei vantaggi dell’offerta di bene pubblico bene meritorio. Al crescere dell’interesse pubblico e della indivisibilità del costo del servizio, ci si allontana sempre di più da criteri di fissazione dei prezzi analoghi a quelli che si hanno nell’offerta dei beni e servizi da parte dei privati ed acquistano sempre maggior rilievo quelli con prelievi di natura coattiva. Le Forme di Entrata Pubblica Esistono diverse forme di entrate pubbliche, che si differenziano a seconda del grado di indivisibilità dei vantaggi dei servizi che finanziano e della presenza o meno della domanda da parte dei cittadini. Le forme di entrata pubblica sono: prezzo privato prezzo quasi-privato prezzo pubblico (o tariffa) tassa contributo speciale imposta Prezzo privato Se lo Stato offre beni e servizi con la stessa ottica di un’impresa privata (massimizzazione del profitto), vende ad un prezzo privato e cioè individuato dal punto in cui il costo marginale è uguale al ricavo marginale (area di attività assai ridotta - non giustificata la produzione pubblica). Prezzo quasi-privato Il prezzo massimizza il profitto, ma l’offerta è regolata, offerta che in realtà nasconde una finalità pubblica che il privato non avrebbe realizzato: ad esempio, l’offerta di legname delle aziende forestale, con cui, regolando il flusso d’offerta, lo Stato tutela il patrimonio forestale, che è il primo segnale di interesse pubblico. Prezzo pubblico (o Tariffa) Lo Stato persegue il solo fine di allargare il consumo di un dato bene, non ha fini di profitto. Il bene potrebbe essere offerto ad un prezzo inferiore a quello di mercato. Il costo complessivo deve trovare copertura nella somma complessiva delle entrate, dato che il vantaggio del servizio si riversa su chi lo ha richiesto (ad esempio: trasporto pubblico). Le caratteristiche del prezzo pubblico sono libera domanda da parte del cittadino il costo del servizio è coperto dal complesso delle entrate: Prezzo = Costo Medio. Nota: è stato detto prezzo = costo medio, ma i prezzi possono essere differenti per gruppi di cittadini (anziani, bambini ...). Lo Stato può discriminare i prezzi. Tassa L’interesse pubblico diviene ancora più intenso, nel caso in cui il consumo del servizio prodotto dallo Stato, arrechi vantaggio non solo a chi ne ha fatto domanda, ma anche a tutta la collettività (indivisibilità dei vantaggi). Ad esempio: l’istruzione universitaria. Quindi appare razionale fissare un Prezzo inferiore al Costo Medio: il disavanzo viene coperto da altre entrate coattive (le imposte). La copertura con imposte dovrebbe essere proporzionale all’esternalità del servizio offerto. Il prezzo così fissato prende il nome di tassa. Contributo speciale Quando i vantaggi di un servizio, fornito a un gruppo di cittadini, non sono divisibili, assume importanza l’elemento della coazione (costrizione): lo Stato chiede il pagamento al gruppo di cittadini che ne ha tratto vantaggio. A differenza della tassa e degli altri casi precedenti, non vi è domanda da parte del cittadino: ad esempio, l’illuminazione pubblica di una strada in cui viene chiesto un contributo a coloro che vi abitano. Imposta Quando il vantaggio, indivisibile, dei servizi prodotti corrisponde all’interesse generale, la forma di entrata più appropriata è l’imposta. L’imposta, che è la forma più importante di entrata pubblica e più appropriata per servizi offerti indipendentemente dalla domanda, è un prelievo coattivo, che non ha corrispondenza diretta con la prestazione di un servizio. I Fini Extrafiscali delle Entrate Pubbliche Abbiamo detto che le entrate pubbliche hanno lo scopo di coprire i costi sostenuti dallo Stato per offrire beni e servizi. Ma le imposte assolvono anche altre funzioni, dette extrafiscali, di cui la più importante è regolare la distribuzione del reddito. Quindi le finalità extrafiscali delle imposte sono redistribuzione del reddito: far gravare l’onere delle imposte sui più ricchi stabilizzazione economica incentivazione economica: agevolare certe attività produttive correzione di distorsioni od inefficienze del sistema economico. Anche in ragione alle molteplici finalità delle imposte, ne esistono di diversi tipi. Preliminarmente definiamo le imposte generali, che gravano nella stessa misura su tutti i rami dell’attività economica e su tutti i contribuenti, e quelle speciali, che colpiscono in misura diversa alcuni rami dell’attività economica od alcune categorie di contribuenti. Classificazione delle Imposte Dal punto di vista dell’impatto nell’economia si distinguono imposta sul reddito delle famiglie imposta sul consumo (sulla spesa) imposta al dettaglio sui beni di consumo imposta su tutte le vendite (beni di consumo ed investimento) imposta sul valore aggiunto lordo e netto (al netto degli ammortamenti) contributi sociali a carico dei datori di lavoro imposta sui profitti contributi sociali a carico dei lavoratori imposta sugli utili non distribuiti imposta sui dividendi. progressività per scaglioni: molto diffusa e proprio anche dell’IRPEF, applica aliquote diverse per scaglioni di reddito progressività per deduzione e detrazione: le aliquote sono costanti, ma vengono utilizzate delle detrazioni o deduzioni. La deduzione diminuisce la base imponibile, la detrazione abbatte l’imposta (per questo la cosiddetta aliquota legale differisce dall’aliquota effettiva). La caratteristica principale dei sistemi fiscali in cui la progressività è ottenuta con deduzioni o detrazioni, è quella di realizzare un’imposta che è fortemente progressiva per i redditi più bassi (l’aliquota media effettiva cresce rapidamente nella prima parte della distribuzione) ma che tende poi a divenire proporzionale al crescere del reddito. Pr questo motivo, questo tipo di imposta viene chiamata flat rate tax. La flat rate tax è un’imposta ad aliquota unica con progressività, creata da una deduzione universale. La sua caratteristica è di rendere costante e trasparente la misura dell’aliquota marginale effettiva, da cui dipendono gli effetti di disincentivo dell’imposta. Un concetto importante su cui si basano gli operatori nelle loro scelte è l’aliquota marginale effettiva: la variazione dell’imposta netta al variare del reddito complessivo. La misura della progressività e della redistribuzione dell’imposte Misure locali e globali delle progressività: liability progression, residual progression, average rate progression, indice di Kakwani Misure della redistribuzione: decili, curva di Lorenz, indice di Gini, indice Reynolds- Smolensky Per misurare la progressività delle imposte esistono indici locali: misurano la progressività per un dato livello di reddito, la misura può quindi variare al variare del reddito imponibile indici globali: misurano la progressività dell’intera distribuzione dei redditi imponibili. Indici locali liability progression: misura l’elasticità del gettito rispetto al reddito imponibile residual progression: misura la variazione percentuale del reddito netto rispetto al reddito imponibile average rate progression: misura l’incremento dell’aliquota media al crescere del reddito. Indici globali Partendo dall’indice di Gini che misura la disuguaglianza di una distribuzione (0 se equidistribuzione ed 1 massima disuguaglianza) indice di redistribuzione complessiva: differenza fra indice di Gini prima e dopo l’imposta indice di Reynolds-Smolensky: differenza fra indice di Gini prima ed indice di concentrazione del reddito dopo l’imposta indice di Kakwani: differenza fra concentrazione dell’imposta ed indice di Gini. Tassonomia delle imposte Imposte dirette ed indirette Le imposte vengono tradizionalmente distinte in dirette ed indirette imposte dirette: colpiscono manifestazioni immediate della capacità contributiva (reddito o patrimonio). Il loro onere grava effettivamente sul contribuente individuato dalla legge, che non può trasferirlo su altri soggetti economici. A loro volta le imposte dirette si dividono in reali: danno peso all’oggetto dell’imposta (tassazione di un immobile, patrimonio) indipendentemente dalle caratteristiche del soggetto che lo possiede o percepisce (spesso si attua la discriminazione qualitativa dei redditi). Facili da accertare (diffuse nel passato) e spesso applicate ai redditi da attività finanziarie. Generalmente si applicano aliquote proporzionali. Le aliquote progressive generano iniquità fiscale, penalizzano il contribuente che ricava redditi da una sola fonte. personali: tassano gli stessi oggetti ma tenendo conto del soggetto che li possiede, come il livello complessivo del suo reddito, la condizione familiare, lo stato di salute, ecc. . Concedono deduzioni (diminuisce la base imponibile) e detrazioni (abbatte l’imposta). imposte indirette: colpiscono manifestazioni indirette o mediate della capacità contributiva (consumo o trasferimento di beni). Il loro onere può essere trasferito ad altri soggetti economici (produttore vs consumatore, ad esempio aumentando il prezzo). Sotto il profilo redistributivo le imposte dirette sono più efficaci, mente le imposte indirette tendono ad essere regressive (gravando sui consumatori, incidono di più su coloro che hanno propensioni marginali al consumo più alte e cioè sui redditi più bassi). In queste classificazioni vi sono differenze significative in merito alla progressività delle imposte. Le imposte dirette e personali meglio attuano il principio della progressività tuttavia, anche le imposte dirette reali con discriminazione qualitativa dei redditi, possono raggiungere questo obiettivo, che prevede un diverso trattamento dei redditi a seconda della fonte da cui provengono (lavoro, capitale, rendita), con trattamento più favorevole per quelli da lavoro, in quanto sono più incerti e richiedono uno sforzo da parte di chi li produce (discriminazione a favore del reddito da lavoro). Infine, deduzioni e detrazioni possono essere utilizzate per disegnare un prelievo di tipo progressivo. Prelievo alla fonte In sistema fiscali arretrati ma anche in un’economia aperta, si pone il problema della difficoltà di ricostruzione della posizione reddituale del singolo soggetto, con particolare rilievo ai redditi da attività finanziarie. Per tali motivi, molto spesso questi redditi vengono assoggettati ad un prelievo di natura reale, che consiste in una ritenuta alla fonte, e cioè al momento in cui il reddito viene corrisposto, ad opera di chi lo eroga (generalmente intermediario finanziario). Discriminazione qualitativa dei redditi e Dual income tax La discriminazione qualitativa dei redditi, a seconda della fonte, ha l’obiettivo di favorire i redditi da lavoro, perché i redditi da lavoro comportano più sacrificio la discriminazione favorisce l’equità, visto che i redditi da lavoro costituiscono la prima fonte per le classi più povere. Le modalità di attuazione può essere attuata: affiancando all’imposta personale e progressiva sul reddito, un’imposta reale sui redditi diversi da quelli del lavoro introducendo imposte patrimoniali concedendo deduzioni e detrazioni ai soli redditi da lavoro. Quindi imposte reali + sistemi di deduzioni/detrazioni, attuano la discriminazione qualitativa dei redditi. Il sistema Dual income tax consiste nell’applicazione di un’imposta proporzionale a tutti i redditi di capitale, con un’aliquota uguale a quella dell’imposta sulle società, ed all’aliquota marginale più bassa dell’imposta progressiva cui sarebbero assoggettati i soli redditi da lavoro, pensioni e trasferimenti, con la conseguenza che, questi ultimi redditi, subirebbero l’onere più elevato d’imposta. Nonostante a questo sistema siano stati forniti motivi di equità e di efficienza, esso trova la sua giustificazione nei problemi posti dalla liberalizzazione dei mercati valutari, dove in tale nuovo contesto internazionale, si verifica una tendenza generalizzata ad abbassare il prelievo sui redditi da capitale, al fine di evitare uscite di capitali verso paesi a bassa fiscalità. Tax expenditures Le tax expenditures (spese fiscali) sono erogazioni di spese pubbliche attraverso il sistema tributario e costituiscono erosione della base imponibile. Fanno parte delle tax expenditures: deduzioni del reddito imponibile detrazioni d’imposta agevolazioni fiscali (situazioni personali che meritano tutela) L’onere dell’imposta è la rinuncia ad una parte di utilità del proprio reddito: principio del sacrificio per cui tutti i contribuenti devono sopportare lo stesso sacrificio (in ragione alla capacità contributiva). Esistono tre principi del sacrificio che richiedono l’uguaglianza del sacrificio assoluto uguale: la perdita di utilità deve essere uguale per tutti sacrificio proporzionale uguale: la perdita di utilità è una percentuale, uguale per tutti, dell’utilità complessiva del proprio reddito sacrificio marginale uguale: dopo l’imposta, l’utilità marginale del reddito è uguale per tutti. (N.B.: l’utilità è misurabile cardinalmente) Le implicazioni del principio del Sacrificio Diversi sono gli effetti sotto il profilo dell’equità verticale e, più in particolare, della progressività delle imposte, pur non portando a risultati definitivi. Date le seguenti ipotesi: l’utilità dipende solo dal reddito il reddito, prima dell’imposta, è un dato gli individui hanno preferenze uguali (funzioni di utilità uguali) l’utilità marginale del reddito è decrescente John Stuart MILL dimostra, principio sacrificio assoluto uguale è tassazione proporzionale (fortemente penalizzante per i più poveri) principio sacrificio proporzionale uguale è tassazione lievemente progressiva principio sacrificio marginale uguale è tassazione progressiva è Ogni unità marginale d’imposta è prelevata dal più ricco (ipotesi utilità marginale del reddito decrescente). Dopo l’imposta tutti i redditi sono uguali. Relazione fra Principi del Sacrificio e Funzione di Benessere Sociale Utilizzando il principio sacrificio marginale, interpretato come regola che permette di minimizzare il sacrificio collettivo di utilità, esso può essere visto come un criterio che assicura, per un dato gettito di imposta, quella distribuzione dei redditi tra i contribuenti che massimizza il benessere sociale. Il principio del sacrificio marginale uguale trova allora nuovo fondamento etico nei criteri di giustizia che sottostanno all’obiettivo della massimizzazione del benessere sociale, inteso come somma delle utilità dei singoli. Problemi di Disegno dell’Imposta Personale sul Reddito L’imposta centrale del sistema tributario su cui si fondano i principi di razionalità (di un’imposta) è valutazione dei modelli di imposizione secondo i concetti di equità ed efficienza equità è ricerca di un indicatore per definire la capacità contributiva efficienza è pone il problema di valutare il modello più adatto a raggiungere un ottimo paretiano e quindi si propone di analizzare il tipo di distorsioni che un’imposta può generare per consumatori e produttori è l’imposta personale sui redditi. E’ il tributo che apporta maggior reddito allo Stato e che si ispira al principio di progressività. Il disegno dell’imposta sul reddito affronta i problemi di scelta della base imponibile il trattamento del risparmio nel ciclo di vita la scelta dell’unità impositiva (reddito individuale). La scelta della base imponibile Il reddito è universalmente accettato come indicatore della capacità contributiva, ma il reddito ammette una notevole varietà di definizioni e criteri di misurazione, perciò può essere utile fare riferimento, come nella contabilità nazionale, alla distinzione tra fonti ed usi del reddito. Due definizioni che prendono a riferimento le fonti, sono: reddito prodotto e reddito entrata mentre una definizione che prende a riferimento gli usi, è: reddito spesa. reddito prodotto La base imponibile coincide con il concetto di valore aggiunto, che è data dalla somma delle remunerazioni dei fattori produttivi (lavoro, terra, capitale, ecc.) in un dato periodo di tempo, senza tenere conto di plusvalenze, donazioni, ecc. . La base imponibile corrisponde al valore di nuovi beni e servizi prodotti, in un dato periodo di tempo, da: lavoro dipendente (salari, stipendi) od autonomo (proventi professionali); capitale fisso (profitti); capitale finanziario (rendite finanziarie); fattori non riproducibili (rendite fondiarie, agrarie od urbane). Modello di fine ‘800 - metà ‘900. Ha dei limiti sotto il profilo dell’equità e può essere fonte di comportamenti elusivi e quindi di inefficienze (incentiva a trasformare redditi imponibili in plusvalenze, al fine di evitare l’imposta) reddito entrata Proposto da Shanz alla fine del XIX secolo, ripreso da Haig e Simons negli anni ’20 e ’30. Importante per il Rapporto della Carter Commission del 1996 che ha ispirato la riforma fiscale Canadese. La base imponibile è data dall’ammontare complessivo dei flussi di reddito e dallo stock del patrimonio: è l’ammontare massimo di risorse che può essere potenzialmente consumato nel periodo considerato, garantendo, alla fine dello stesso, la medesima situazione patrimoniale esistente. Tiene conto di tutte le possibili tipologie di reddito, comprese plusvalenze, minusvalenze, donazioni, ecc. . L’adozione del reddito entrata consente quindi di sottoporre a tassazione tutte le fonti del reddito, con la conseguenza che, sotto il profilo degli usi, nell’imponibile è incluso non soltanto il consumo effettivo, ma anche il consumo potenziale, destinato invece al risparmio, come ad esempio i prelievi previdenziali a cui corrisponde la maturazione di diritti pensionistici. Si hanno limiti nell’accertamento e nell’applicazione, quindi, spesso, i legislatori fiscali tassano le plusvalenze al momento in cui si siano realizzate e non, come la teoria suggerisce, per il semplice fatto che siano maturate: tuttavia il criterio di tassarle al momento del realizzo può provocare effetti di immobilizzo (lock-in effect), imputabili alla volontà differire il pagamento dell’imposta. reddito spesa Il sistema Italiano si avvicina al modello dell’imposta sulla spesa per quello che riguarda l’esenzione dell’imposizione del reddito risparmiato: ad esempio, i contributi sociali per la previdenza sociale sono esentati da tassazione Irpef pur facendo parte dell’aggregato “redditi da lavoro (lordi)”; analogamente viene trattato il Tfr. Come tassare i flussi di risorse presenti nel versamento dei contributi sociali per la pensione? Analisi di tipo intertemporale valida sia per sistemi a ripartizione (in cui i contributi sociali prelevati oggi, vengono utilizzati per pagare le pensioni dello stesso periodo), sia per i sistemi a capitalizzazione (in cui le pensioni sono il risultato della capitalizzazione dei contributi versati in passato); Anche in questo caso si tiene conto del concetto di equità in un’ottica pluriperiodale. Si considerano 3 periodi: accantonamento (fase in cui si versano i contributi); accumulazione (fase in cui i versamenti fruttano un rendimento che accresce la ricchezza del contribuente sebbene non entrino nella immediata disponibilità dello stesso); percezione della rendita o pensione. Utilizzando il modello reddito prodotto avrei un sistema impositivo TTE (tassato, tassato, esente), in quanto la pensione al netto degli interessi maturati non rappresenta un valore aggiunto; utilizzando un modello reddito spesa avrei un sistema EET (esente, esente, tassato); inoltre il sistema di tassazione reddito spesa = sistema di tassazione di redditi da lavoro, da cui sono esenti i redditi di capitali (come mostrato precedentemente). Tassando solo i redditi da lavoro si avrebbe infatti uno schema TTE (tassato, tassato, esente), ma vengono esclusi i redditi da capitale, per cui in questo caso avremmo che il valore attuale della base imponibile: 100 + 100/(1+0,05) = 195,2. Nel caso della tassazione EET (reddito spesa) si avrà: 215,25/(1+0,05)2 = 195,2. Attenzione: nei sistemi adottati dai vari paesi, le imposte personali concrete sono sempre modelli ibridi! La scelta dell’unità impositiva (reddito individuale) Un altro importante aspetto è la definizione dell’unità impositiva: l’individuo, l’ipotesi più frequentemente adottata, o la famiglia. Va sottoposto a tassazione l'individuo o la famiglia (tutti i redditi familiari sono cumulati e, quindi, assoggettati all'imposta)? Alla fine anni ’80 la maggior parte dei sistemi tributari si è orientata verso una scelta di tipo individuale (dal 1976 anche l’Italia). La tassazione individuale non ha effetti distorsivi sulla scelta di formare o meno un vincolo familiare o di convivenza in un sistema progressivo (principio di giustizia). Dal punto di vista dell’efficienza, la tassazione individuale evita distorsioni nella scelta (da parte dei componenti della famiglia) di partecipare o meno al mondo del lavoro. Dal punto di vista dell’equità è, però, ragionevole pensare che tutti i redditi di un nucleo familiare costituiscano la potenzialità di benessere e quindi incidano sulla capacità contributiva dei cittadini. I due concetti non sono conciliabili: se si assume come punto di riferimento la famiglia sorge il problema di fare giustizia tra unità che presentano differenze tra numerosità e composizione e struttura economica; se si assume come unità impositiva l’individuo, ciò non significa che il riferimento familiare venga del tutto abbandonato. Soluzioni Utilizzato negli Stati Uniti ed in Germania, lo splitting prende i redditi dei coniugi della famiglia e li divide in modo che vengano tassati ugualmente è a parità di reddito, con un individuo monoreddito, l’aliquota media si abbassa è il metodo non tiene conto adeguatamente delle esigenze degli altri componenti della famiglia. Verso il metodo del Quoziente Familiare Meglio utilizzare un’aliquota sul reddito medio della famiglia (ottenuto dividendo il reddito per i componenti); Problemi: non si tiene conto della composizione della famiglia; non si tiene conto delle economie di scala di cui le famiglie possono godere all’aumentare del reddito tenendo fissi i costi (ad esempio, costi dell’abitazione, elettrodomestici, generi di vestiario, ecc.). Il metodo del Quoziente Familiare Introdotto in Francia, è un metodo secondo cui si adotta, come aliquota di tassazione per il reddito familiare, l’aliquota media d’imposta che si applicherebbe al reddito pro capite del nucleo stesso, corretto però per le economie di scala. Come funziona? Per tenere conto delle economie di scala, si attribuiscono pesi diversi ai componenti della famiglia (ad esempio, 1 ad un coniuge, 0.65 all’altro coniuge, 0.6 al primo figlio, 0.5 al secondo figlio ecc.) Il reddito complessivo della famiglia viene diviso per la somma dei pesi èquoziente familiare. L’aliquota si applica quindi al quoziente ottenuto. L’imposta lorda (al netto delle deduzioni) si ottiene moltiplicando l’imposta ottenuta attraverso il quoziente familiare per il peso dei componenti della famiglia. Introduce la cosiddetta “scala di equivalenza”. Il metodo del quoziente familiare avvantaggia i redditi più alti o le famiglie monoreddito, ponendo problemi di equità; La riduzione d’imposta dovuta al quoziente risulta, inoltre, tanto maggiore quanto più rilevante è la differenza tra il reddito alto (generalmente del marito) ed il reddito basso o nullo (generalmente della moglie) che, sommato al primo e diviso per il numero dei familiari, fa scendere di scaglione il reddito elevato e quindi l’aliquota: è quanto accade per esempio al dirigente od al professionista con moglie casalinga èdisincentiva la partecipazione al mondo del lavoro delle donne; Il peso di una famiglia numerosa incide soltanto nel caso di redditi molto elevati. In merito al secondo punto... Esistono strumenti che, pur adottando un sistema di tassazione di tipo individuale, permettono di tenere conto della numerosità e della struttura economica familiare: ad esempio, detrazioni per familiari o figli a carico; ad esempio, trattamento di favore per la famiglia monoreddito, rispetto a quella in cui vi sono più redditi (deduzioni per coniuge a carico). L’imposta sui redditi delle società di capitali Allora, per evitare distorsioni lo Stato dovrebbe tassare solo i beni a domanda rigida? Attenzione: generalmente i beni a domanda rigida sono i beni di prima necessità. L’eccesso di pressione aumenta più che proporzionalmente all’aumentare dell’aliquota marginale d’imposta. E cioè: per ridurre distorsioni, è preferibile, a parità di gettito, tassare poco più beni piuttosto che uno solo sotto il profilo dell’efficienza, le imposte proporzionali sono preferibili a quelle progressive. N.B.: quali sono le implicazioni sotto il profilo dell’equità? Si ripropone il Trade-off equità-efficienza. La maggior parte delle imposte ha effetti distorsivi sulle seguenti decisioni degli agenti economici: produzione del reddito destinazione del reddito prodotto al consumo o al risparmio allocazione del consumo fra più beni. Offerta di Lavoro (produzione del reddito) Le imposte sulla produzione del reddito, influenzano l’offerta dei fattori produttivi: esse modificano le scelte del lavoratore, incidendo sull’offerta di lavoro. L’imposta modifica il prezzo relativo di una unità di tempo dedicata al lavoro, rispetto ad una unità di tempo dedicata al tempo libero. Dopo l’imposta sul salario si ha: un effetto reddito (l’offerta di lavoro aumenta per recuperare la perdita di reddito dovuta all’imposta) un effetto sostituzione (il lavoratore preferisce il tempo libero). Quale effetto prevale? Le evidenze empiriche: per bassi redditi prevale l’effetto reddito per alti redditi prevale l’effetto sostituzione l’effetto prevalente dipende dalle caratteristiche del lavoratore. Consumo e risparmio La scelta allocativa tra consumo e risparmio, si pone in termini di: rinuncia al consumo presente per un incremento del consumo futuro il prezzo della rinuncia al consumo presente (il prezzo del risparmio) è il tasso d’interesse. Nella misura in cui la tassazione incide sul tasso d’interesse, determina una distorsione sulle le scelte allocative (tra consumo e risparmio): se la base imponibile è il reddito entrata, l’imposta genera effetti distorsivi sul risparmio se la base imponibile è il reddito spesa (che esenta il risparmio), gli effetti non si manifestano. L’allocazione dei consumi tra più beni Le imposte generano effetti distorsivi quando modificano le scelte di consumo: i consumatori sostituiscono il consumo dei beni tassati con consumi alternativi. Gli effetti distorsivi differiscono a seconda della tipologia d’imposta: nel confronto tra imposte dirette ed imposte indirette à Il Teorema di Barone A parità di gettito per lo Stato, l’imposta indiretta è più distorsiva (arreca una maggiore perdita di benessere) di un’imposta diretta. Infatti, l’imposta indiretta modifica i prezzi relativi: cambia l’inclinazione del vincolo di bilancio. Questo risultato ha implicazioni sulle scelte dei sistemi impositivi a favore dell’imposta diretta. Imposte sui profitti e scelte di finanziamento ed investimento delle imprese Anche le imposte che gravano sull’impresa o sulle remunerazioni dei fattori, generalmente producono distorsioni nelle condizioni di impiego dei fattori e nelle scelte di finanziamento. Le imposte sui profitti favoriscono l’indebitamento ai danni del finanziamento con capitale proprio. La tassazione ottimale A partire dagli anni ’70, nell’ambito della teoria dell’Economia del Benessere, è stata sviluppata la teoria dell’imposizione ottimale che, partendo dal riconoscimento delle inevitabili distorsioni della tassazione (e quindi muovendosi in un ambito di second best), spesso in contesti di asimmetria informativa, ricerca quali siano le strutture fiscali che massimizzano il benessere collettivo. Da questa ricerca molto complessa emergono alcuni suggerimenti: per l’imposta personale sul reddito, attenzione ad evitare aliquote marginali troppo elevate; per la tassazione indiretta, una struttura di tassazione tendenzialmente inversamente correlata all’elasticità della domanda (regola di Ramsey) o comunque attenta alla complementarietà dei beni tassati con il tempo libero (regole di Corlett Hague). La Tassazione ottimale dipende dal trade-off tra equità ed efficienza: un’imposta è equa, se garantisce una distribuzione del carico fiscale socialmente desiderabile un’imposta è efficiente, se non genera eccesso di pressione: soltanto le imposte neutrali, in teoria, non generano eccesso di pressione e la loro concreta applicazione implica la perfetta informazione da parte dello Stato. La Tassazione ottimale dovrebbe combinare i due termini del trade-off: garantire l’equità e contenere al minimo l’eccesso di pressione, ma ci sono difficoltà di tradurre le conclusioni teoriche in indicazioni di politica tributaria. I sistemi tributari nella realtà ne dei sistemi tributari è il risultato dell’interagire di più fattori esogeni: le trasformazioni del sistema economico-sociale (sviluppo industriale, del terziarioènuove basi imponibili) l’evoluzione dei sistemi politici (nelle forme istituzionali, nei principi redistributivi) l’introduzione di nuove tecniche di accertamento, riscossione, controllo. Le tendenze evolutive generali dalle imposte indirette alle imposte dirette dalle imposte reali alle imposte personali dalle imposte sul patrimonio alle imposte sul reddito dalle imposte indirette specifiche alle imposte indirette generali sugli scambi. Incidenza dell’imposte in Equilibrio Parziale Incidenza delle Imposte La teoria dell’imposta affronta due grandi problemi ▶ la ripartizione del carico tributario sui contribuenti L’analisi dell’incidenza in equilibrio generale è molto complessa e non consente di dedurre molti risultati determinati. Più abbordabile è l’analisi in equilibrio parziale (marshalliano) in cui si considera un solo mercato. Le imposte possono essere introdotte a carico del produttore (offerta) e del consumatore (domanda). A parità di gettito, l’effetto di incidenza finale è identico. E’ indifferente, nell’equilibrio finale, quale lato del mercato tassare. La traslazione dipende dalla forma di mercato (concorrenza o monopolio) e dalle caratteristiche del bene, in particolare dall’elasticità della domanda e dell’offerta. Sia in concorrenza sia in monopolio, le imposte indirette (accise od ad valorem) generano solitamente una traslazione parziale: il prezzo finale aumenta, ma in misura inferiore all’imposta, che in parte resta a carico del produttore. La traslazione è tanto maggiore quanto più rigida è la domanda. In caso di traslazione parziale, il gettito può essere scomposto in una parte a carico dei consumatori ed una parte a carico dei produttori. Il gettito è comunque inferiore alla perdita di surplus dei consumatori e dei produttori, a causa dell’eccesso di pressione (il triangolo di Harberger). In monopolio le imposte sui profitti (fisse e proporzionali) non si trasferiscono, se l’impresa ha come obiettivo la massimizzazione del profitto. Possono invece trasferirsi se il management ha obiettivi diversi (ad es. la massimizzazione delle vendite). Capitolo IV. Il decentramento fiscale (P. Bosi) La struttura territoriale del settore pubblico La teoria dei governi locali Il settore pubblico è articolato in una pluralità di Enti secondo un duplice criterio organizzativo: criterio territoriale: all’Ente vengono attribuite una pluralità di funzioni sull’intero o porzioni di territorio (Regioni, Province, Comuni) criterio funzionale: all’Ente viene attribuita una sola funzione, che esercita sull’intero territorio nazionale (ad esempio, sanità, scuola, previdenza, ecc.). I modelli organizzativi Modello della torta a strati - Separazione delle funzioni tra diversi livelli - Interrelazione tra le funzioni. Il modello a strati è forse più efficace per delineare chiare responsabilità. Di fatto è assai difficile perseguirlo e quasi sempre esistono interrelazioni tra i diversi livelli, che sono spesso fonte di rivendicazioni sulle risorse, molto dannose per l’efficienza dei processi decisionali (esempio molto rilevante è la sanità). Modello Centralista gli Enti decentrati svolgono un numero ridotto di funzioni il Governo centrale esercita un stretto controllo sulle modalità di offerta dei servizi assenza di autonomia finanziaria Modello Regionalista gli Enti decentrati svolgono una pluralità di funzioni parziale autonomia finanziaria Modello Federale gli Enti decentrati come Stati autonomi la federazione per il perseguimento di obiettivi comuni piena autonomia finanziaria. I vantaggi della soluzione accentrata eguaglianza nell’offerta di beni e servizi pubblici migliore realizzazione dell’equità distributiva (attenuazione degli squilibri territoriali) maggiore efficacia degli interventi di stabilizzazione migliore efficienza nella struttura del sistema tributario I vantaggi del decentramento Responsabilizzazione delle amministrazioni locali Rispetto delle diversità nelle preferenze dei cittadini. RAGIONI IDEOLOGICHE Il Principio di sussidiarietà: la Comunità interviene ..soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi..non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque, a motivo della dimensioni o degli effetti dell’azione.., essere realizzati meglio a livello comunitario Il Principio di sussidiarietà è spesso indicata come FUNZIONE ALLOCATIVA E’ la funzione privilegiata per i livelli decentrati. Distinzioni tra beni pubblici puri (difesa, giustizia, politica estera, sicurezza, grandi infrastrutture) è a livello di Governo centrale beni pubblici puri locali: beni in cui le cui caratteristiche di non rivalità e non escludibilità sono limitate territorialmente (ad esempio, benefici di una diga, trasmettitore televisivo, servizio di illuminazione stradale, servizi antincendio), anche se sono pochi quelli che rispondono a questo requisito, più spesso si tratta di beni misti (trasporti locali), passibili cioè di forme di congestione (i benefici si riducono all’aumentare degli usufruitori - il problema non sussiste soltanto per i beni pubblici puri) è soltanto a livello di Governo territoriale ? [secondo Musgrave, tale funzione dovrebbe essere lasciata a livelli diversi dal Governo centrale e che l’ampiezza della giurisdizione può variare in relazione a molte variabili, quali ad esempio la differenza nei gusti e nei livelli di reddito e cioè, l’offerta di bei pubblici dovrebbe adeguarsi alle reali preferenze dei residenti nelle aeree che maggiormente traggono benefizio da tali beni) ]; GESTIONE DEL DEBITO PUBBLICO E’ anche questo un aspetto da considerare. In linea di principio e nelle realtà concrete non vi è nulla che impedisca l’utilizzazione del debito da parte di qualsiasi livello di Governo (BOT, BOR, BOC), ma essendo la gestione del debito molto delicata, è di solito preferibile una gestione al livello di Governo centrale che può offrire maggiori garanzie di solvibilità. Conclusione: è molto difficile vedere realizzato il modello della torta a strati, anche se sarebbe il più chiaro ed efficiente. 2. giustificazione di diversi livelli di Governo nel contesto della funzione di allocazione ed individuazione dei meccanismi allocativi a livello locale Dal punto di vista allocativo, come visto, la principale motivazione dell’intervento pubblico, riguarda la presenza di beni pubblici. Un bene pubblico locale è un bene non rivale e non escludibile, limitato territorialmente. Oltre alla presenza di bene pubblico locali, la teoria economica ha messo a fuoco altri due schemi concettuali, rilevanti per spiegare l’articolazione territoriale dell’offerta dei servizi pubblici, noti come teorema del decentramento di Oates ed il modello del “voto con i piedi” di Tiebout. Per questa ragione può essere illuminante inquadrarli all’interno della griglia concettuale elaborata da Hirschmann, nell’opera Exit, Voice, Loyalty del 1970. Ci sono molti modi con cui si sta in una comunità. Exit: dissenso profondo, abbandona la comunità perché non si realizzano i propri obiettivi Voice: dissente, ma discute per fare valere le proprie idee all’interno della comunità Loyalty: si sta al gioco perché si pensa che vi siano interessi di lungo periodo che vale la pena conservare, anche se c’è disaccordo. Tali reazioni non sono ordinabili in termini di valore. In una democrazia è bene che tutti i tre modi siano presenti ed utilizzabili e spiegare che soltanto alla fine si capiranno le relazioni con altri pezzi di teoria del federalismo. Oates è nello spirito della Voice. Tiebout è nello spirito di Exit. Il teorema del decentramento di Oates Fiscal federalism (1972) Il teorema dimostra che, in presenza di preferenze territorialmente differenziate, è sempre preferibile il decentramento dell’offerta, rispetto ad un Governo centralizzato. Le ipotesi del teorema: lo stato non è in grado di differenziare l’offerta di beni pubblici a livello territoriale le preferenze all’interno di ciascuna comunità sono omogenee, ma differiscono da una comunità all’altra non sono presenti effetti di traboccamento tra giurisdizioni (principio di corrispondenza) la produzione dei beni locali avviene a costi costanti, assenza di economie di scala. Esempio… Un richiamo del concetto di elettore mediano. Si immagini l’offerta di un solo servizio. Si deve decidere la quantità da produrre del servizio. Si analizzano tre comunità con la stessa popolazione. Ogni comunità esprime il prezzo che è disposta a pagare per il servizio locale, ma con diverse preferenze: la C preferisce avere più servizi della B e della A. Soluzione centralizzata: lo Stato offre una quantità uniforme a tutti. Viene offerta la quantità B (posizione mediana delle preferenze). Le comunità A e C subiscono una perdita di benessere Soluzione decentrata: ogni comunità soddisfa la propria preferenza è massimizzazione del benessere. I limiti del teorema: se lo Stato è in grado di differenziare può ottenere lo stesso risultato del decentramento. Qui però valgono considerazioni relative all’asimmetria informativa. E’ ragionevole pensare che lo Stato abbia meno informazioni dei governi locali non è detto che la produzione avvenga a costi marginali costanti. Costi decrescenti ed economie di scala, rendono più efficienti le decisioni a livello centrale, anche se si danneggiano le preferenze locali il teorema assume implicitamente che trovi applicazione il principio di corrispondenza, vale a dire un rapporto biunivoco tra offerta di un dato servizio pubblico e livello amministrativo. Ma realisticamente, l’area entro cui si estendono i benefici, possono non coincidere con l’aerea amministrativa e possono quindi formarsi effetti di traboccamento (spillover) che sono causa di inefficienze e che richiedono interventi correttivi, anche dal centro le preferenze identiche all’interno di un’aerea è poco realistica. Differenziazioni nelle preferenze rendono indeterminata la soluzione. La scelta più efficiente, richiede un complicato calcolo di vantaggi/svantaggi. Il meccanismo allocativo di Tiebout E’ stato scritto non come contributo alla teoria del federalismo, ma come contributo alla nascente teoria dei beni pubblici elaborata in quegli anni da Samuelson. Il problema del free rider aveva infatti stimolato a cercare meccanismi che consentissero di indurre i cittadini a rivelare le loro preferenze per i beni pubblici in modo corretto. Tiebout ebbe invece l’idea che la mobilità potesse essere il criterio in base al quale realizzare la rivelazione delle preferenze: “Votare con i piedi”. In presenza di eterogeneità delle preferenze, gli individui effettuano la loro scelta allocativa sulla base della migliore combinazione tra oneri fiscali e servizi offerti. Quindi, una pluralità di Enti locali può realizzare, in presenza di beni pubblici e quindi di free riding, un’allocazione efficiente delle risorse alternative ai meccanismi del voto, consentendo ai cittadini di spostarsi nelle comunità locali ove viene offerta la gamma di servizi pubblici e di prelievo più gradita (principio di Tiebout: “Votare con i piedi”). Le ipotesi del modello Tiebout: mpio di autorità locali con un uno specifico mix di servizi ono fenomeni di esternalità, i benefici ricadono all’interno della giurisdizione tta mobilità della popolazione, i trasferimenti sono a costo zero nformazione circa i servizi e le imposte in ciascuna collettività tario dei beni e servizi pubblici costante costi e benefici sono suddivisi in modo uguale fra i soci. L’obiettivo è la massimizzazione dell’utilità dei soci. Le decisioni da prendere sono due: la dimensione del club (il numero dei due soci) ogni membro aggiuntivo porta un vantaggio (quota di partecipazione ai costi) ogni membro aggiuntivo porta uno svantaggio (aumenta la congestione) ò La dimensione ottima dei soci è tale per cui: BENEFICIO MARGINALE = COSTO MARGINALE ò ò Riduzione costo pro capite Perdita marginale di benessere per l’ingresso di un nuovo socio per la congestione il livello di attività (il livello di produzione dei servizi del club) BENEFICIO MARGINALE = COSTO MARGINALE ò ò di un’unità di servizio decrescente costo di un’unità di servizio costante Quindi vantaggi e svantaggi dipendono sia dal numero dei soci che dal livello di attività. I due problemi (numero di soci e livello di attività) si devono risolvere congiuntamente. In conclusione: il modello del club è finalizzato ad analizzare le dimensioni e le funzioni degli Enti locali le dimensioni dell’Ente locale e la quantità dei beni pubblici offerti dipendono: dalle preferenze per i beni pubblici dai costi di produzione dei beni offerti dai costi di congestione ò L’obiettivo del club (Ente locale) è quello di massimizzare il beneficio pro capite netto. Beneficio pro capite netto = beneficio pro capite – costo beneficio pro capite. definizioni delle fonti di finanziamento dei governi locali Gli Enti decentrati si finanziano con tasse: utilizzate per finanziare servizi che comportano esternalità di rilievo (ad esempio, scuola, servizio antincendio, polizia locale) tariffe: utilizzate per finanziare servizi con caratteristiche di divisibilità (trasporti urbani, raccolta dei rifiuti, fornitura acqua, gas ed elettricità). Nell’ottica del principio del beneficio (o della controprestazione), rappresentano il prezzo pagato dall’utente del servizio. In Italia le tariffe costituiscono una componente di rilievo delle entrate dei Comuni. Per molti servizi è stata definita a livello centrale la percentuale del costo complessivo che deve essere coperta attraverso una tariffa imposte: utilizzate per finanziare servizi che comportano esternalità di rilievo (ad esempio, scuola, servizio antincendio, polizia locale) per i beni pubblici locali indivisibili tributi propri l’Ente locale può accertare ed amministrare il tributo e, entro limiti fissati dall’Ente di livello superiore, può determinare alcuni importanti parametri (aliquota, minimi imponibili, struttura delle detrazioni, ecc.) sovraimposte l’Ente locale aggiunge un’aliquota propria alla base imponibile prelevata dal Governo centrale addizionale l’aliquota locale commisurata al gettito di un’imposta nazionale. Il riferimento al gettito dell’imposta ha l’inconveniente che le entrate dell’Ente decentrato sono influenzate dalle modificazioni delle aliquote di propria competenza, eventualmente decise dal livello superiore di Governo compartecipazione una quota del gettito di un tributo di un Ente di livello superiore viene ripartita fra gli Enti decentrati sulla base di un qualche criterio (ad esempio, popolazione, base imponibile locale), deciso dall’Ente sovraordinato. Sono utilizzabili per attuare la perequazione fiscale che si desidera, mediante opportuna modulazione dei coefficienti di riparto trasferimenti da livelli superiori di Governo. QUALI IMPOSTE? Criteri I tributi propri più adatti agli Enti decentrati sono quelle coerenti con il principio del beneficio, con base imponibili poco mobili e poco esportabili: imposte coerenti con la logica della controprestazione imposte non utilizzabili a fini di concorrenza fiscale imposte non esportabili imposte con base imponibile distribuita uniformemente sul territorio nazionale ed in grado di garantire un livello minimo di entrata. Di fatto, i candidati più idonei con tutti e quattro i criteri enunciati, sono le imposte sugli immobili e le imposte sulle attività produttive, che maggiormente traggono vantaggio dai servizi offerti dagli Enti locali. Altre imposte cui si fa spesso ricorso: imposte reali sulle attività produttive e professionali imposte sui consumi. teoria dei trasferimenti intergovernativi Le motivazioni dell’esistenza di trasferimenti dal centro alla periferia evitare fenomeni di “concorrenza fiscale” tra governi locali politiche di concorrenza fiscale aggressiva (basse aliquote per attirare base imponibile da altre comunità) possono generare disavanzi di bilancio, da ripianare con interventi dal centro impedire la bassa produttività dei governi decentrati, che provochi una dinamica eccessiva dei costi (effetto Baumol è la produzione di servizi pubblici locali, possiede una maggiore intensità di lavoro rispetto ad altri servizi pubblici o dei beni privati, che riescono meglio ad incorporare gli aumenti di produttività legati al processo tecnologico: ciò comporta un elevato costo dei servizi locali) assicurare per ogni comunità locale, un livello minimo di servizi in settori ritenuti meritevoli (ad esempio, servizi sanitari, istruzione, ecc.) promuovere gli investimenti pubblici dei governi decentrati i governi locali sono sottoposti a vincoli sulla capacità d’indebitamento, che devono trovare compensazione in forme di trasferimento Non è un “modello”, ma la rappresentazione di una prassi molto comune e poco raccomandabile. Un Ente locale diminuisce l’aliquota. Totale irresponsabilità fiscale. Calo l’aliquota e mi aumentano i trasferimenti. Performance (fabbisogno standard) L’idea è di commisurare i trasferimenti, al fabbisogno degli Enti e non alla spesa effettiva. Implica la definizione di un fabbisogno standard. In questo modello si cerca di eliminare la forma più vistosa di irresponsabilità: quella legata alla decisione di spesa. Si determina un valore normale di spesa pubblica pro capite. Ceteris paribus questo valore può essere assunto uguale per tutti gli Enti. Spesso viene individuato calcolando la media della spesa pro capite a livello nazionale. Il trasferimento è pari alla differenza tra la spesa standard ed il gettito locale. In questo modo si garantisce agli Enti un ammontare di risorse identico. Se l’Ente aumenta la sua spesa, i trasferimenti restano immutati. Viene così eliminata questa fonte di irresponsabilità fiscale. Il fondo centrale è in equilibrio. Il fabbisogno standard non è necessariamente uguale per tutti gli Enti locali. Possono esservi ragioni che spiegano differenze di fabbisogno standard. Si identificano “pesi” o coefficienti in grado di tenere conto di queste differenza di fabbisogno standard. Esso può quindi essere articolato in funzione di determinanti della spesa. Ad esempio, spese di manutenzione stradale in paesi comuni di montagna o di pianura. Capacità (aliquota standard) Affronta la causa di irresponsabilità lasciata aperta dal modello della performance. Il gettito standard è dato dal prodotto tra aliquota standard e base imponibile effettiva. L’aliquota standard è determinata dal Governo centrale. Spesso è vicina al valore dell’aliquota media. Il trasferimento è pari alla differenza tra spesa standard e gettito standard. In questo modello se un Ente fissa le aliquote a livelli superiori a quelli standard ha un incremento delle risorse a suo favore. Se l’Ente riduce l’aliquota rispetto a quella standard, non ha maggiori trasferimenti. Ha meno risorse complessive perché ha ridotto l’aliquota. Se l’Ente aumenta l’aliquota rispetto a quella standard, gode di maggiori risorse per l’incremento di gettito rispetto allo standard. Il modello della capacità versione canadese In questo modello la perequazione viene operata non sul versante della spesa, ma su quello delle entrate. Il concetto rilevante è la capacità fiscale. L’esempio è lo stesso della capacità già visto. Per implementarlo qui bisogna conoscere le aliquote e le basi imponibili. Questo modello non consente però di effettuare differenziazioni nel fabbisogno. I risultati non sono diversi dal modello già esaminato. Sono diverse le informazioni necessarie al Governo centrale per implementarlo..In questo modo si reintegrano gli Enti che hanno basi imponibili inferiori a quella standard=media. Potenziale (sforzo fiscale) Si pone l’obiettivo di premiare ed incentivare lo sforzo fiscale. Il trasferimento è direttamente proporzionale all’aliquota effettiva. Nel modello della capacità, il trasferimento aumentava soltanto se l’aliquota era superiore a quella standard. Risultano premiati gli Enti con base inferiore alla base standard ed in misura proporzionale all’aliquota effettiva che decidono di adottare. Non dà alcun trasferimento a chi ha base uguale a quella standard e trasferimenti negativi a chi ha base superiore alla media. Risulta quindi essere un modello molto “aggressivo” in termini distributivi e con premi alti a chi fissa aliquote alte. Conclusioni L’orientamento prevalente in Italia è di realizzare modelli della capacità fiscale. C’è una certa oscillazione tra la scelta del modello “spesa” rispetto al modello “canadese”. La scelta è fortemente condizionata dal fabbisogno informativo necessario per implementare ciascun modello. Sono forti le resistenze dei politici ad abbandonare modelli legati alla spesa storica. Il finanziamento degli Enti decentrati in Italia Due modelli istituzionali: modello centralistico e modello federale Il modello centralistico Lo Stato ha un ruolo importante. Le autonomie locali (regioni e comuni) hanno funzioni svolte in parziale autonomia. L’offerta di servizi pubblici è concentrata nei comuni: i finanziamenti dipendono soprattutto dal centro, che eroga il fondo perequativo ed anche il fondo ordinario che copre la maggior parte delle spese sostenute dai comuni. I comuni hanno rapporti, anche per i finanziamenti, sia con le regioni che con lo Stato. Il modello federale Le funzioni dello Stato sono distinte da quelle degli Enti locali e le cui relazioni sono meno intrecciate (“torta a strati”). Lo Stato interviene verso gli Enti locali soltanto con il fondo perequativo, in cui la perequazione è rivolta alle regioni (con trasferimenti verticali od orizzontali). Le autonomie hanno forme di entrata propria o di compartecipazione, che consentono il finanziamento delle funzioni decentrate. Sono molto importanti i rapporti tra le autonomie (tra regioni e comuni). Il legame e la dipendenza dei comuni dalle regioni diventa molto più importante. Alcuni dati sulla distribuzione territoriale delle entrate e delle spese pubbliche, del reddito e del consumo pro capite Si è assistito al passaggio da un modello centralista ad un modello regionale, con tendenza al federalismo a partire dalla seconda metà degli anni novanta. L’aggregato delle amministrazioni locali (regioni, provincie, comuni, comunità montane ed altri enti locali) nel 2008 ha erogato una spesa pubblica di 245 miliardi di euro, che corrispondono al 31,1% della spesa complessiva delle Amministrazioni Pubbliche. Il 38% di questa spesa non è stata finanziata con entrate proprie a livello locale, ma con trasferimenti da altri livelli di Governo, in particolare dallo Stato. Quindi l’autonomia finanziaria degli Enti locali non risulta particolarmente elevata. La spesa pubblica pro capite è distribuita in modo abbastanza uniforme sul territorio nazionale, anche se le regioni a statuto speciale ricevono una quota maggiore della spesa statale. Le entrate sembrano distribuite in proporzione al reddito nazionale, per cui si assiste ad una redistribuzione di risorse a partire da 4 regioni (Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna) verso le regioni povere del Sud, le regioni piccole e quelle a statuto speciale. La variabilità della distribuzione del consumo e del reddito pro capite tra le regioni è elevata. In particolare (2006), la variabilità del reddito pro capite (da 1,28 della Lombardia a 0,66 della Calabria) è più elevata della variabilità regionale dei consumi pro capite (da 1,06 della Lombardia a 0,85 della Calabria). Ciò significa che le popolazioni delle regioni più povere sono sostenute da sussidi a favore dei loro redditi e fa comprendere la difficoltà politica di cambiare modello, perché il federalismo fiscale mira a rendere gli enti responsabili e finanziariamente indipendenti dal Governo centrale. I rapporti tra Stato, regioni ed Enti Locali nella Riforma del Titolo V della Costituzione PRINCIPALI FONTI NORMATIVE Nella fase più recente di evoluzione del regionalismo a tendenza federalista (a partire dagli anni 90) sono: L. 142/1990 definisce il quadro delle autonomie locali ed è il testo base che ha ridefinito le funzioni dei comuni. Le evoluzioni successive alla normativa riguardante gli Enti locali, è contenuta nel Testo Unico sull’ordinamento degli Enti locali (d.lgs 267/2000) L. 59/97 (Bassanini 1) e L. 127/97 (Bassanini 2), hanno posto le basi per le relazioni tra Stato e regioni e tra regioni ed Enti locali L. 133/99 art. 10 a cui è collegata la legge delega per il federalismo fiscale d.lgs 56/2000è d.lgs 56/2000è disciplina i rapporti finanziari tra regioni e Stato ed in particolare istituisce il “Fondo di perequazione a favore delle regioni” Il Titolo V della Costituzione è stato oggetto di una importante riforma attraverso la Legge costituzionale n. 3/2001, “Modifiche del titolo V della Parte seconda della Costituzione” confermata da referendum il 7/10/2001 ed in vigore dall’8 novembre 2001. Questa riforma ha introdotto modifiche di portata molto grande, perché ha cambiato l’impianto costituzionale precedente caratterizzato dal ruolo preminente dello Stato centrale e ha attribuito un ruolo di pari dignità allo Stato ed alle regioni. Viene molto valorizzato il ruolo dei comuni sotto il profilo amministrativo (art. 118, comma 1), perché le funzioni amministrative sono affidate esclusivamente a loro, salvo deroghe. Il fondo perequativo introdotto ex d.lgs 56/2000 di finanziamento delle regioni La sua applicazione è stata sospesa. Tuttavia è un esempio interessante di modello di trasferimento perequativo in cui si applicano i modelli della Capacità fiscale, Performance. Le funzioni ed il finanziamento delle regioni ordinarie e dei comuni La riforma del titolo V ha valorizzato il ruolo delle regioni e ridefinito le competenze dei diversi livelli di Governo, definendo le materie a cui corrisponde una potestà legislativa esclusiva e concorrente delle regioni e dello Stato. Agli Enti locali (comuni e province) sono attribuite le funzioni amministrative. Spetta tuttavia allo Stato la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni sociali. A meno di caso speciali, l’unica forma di trasferimento tra centro e governi decentrati è di tipo perequativo, fondato sul principio della capacità fiscale. ► Nell’Italia pre-repubblicana c’erano soltanto provincie e comuni. La più importante legge che disciplinava la finanza locale era il T.U. del 1934, che prevedeva una serie di tributi locali (sovraimposta locale sui redditi dei fabbricati e dei terreni, imposte di consumo, sovraimposta sui redditi di ricchezza mobile sui profitti di impresa e sui redditi di lavoro autonomo, imposta di famiglia). Era quindi previsto che il finanziamento della spesa locale obbligatoria (corrente e di capitale) si basasse su queste fonti, mentre il finanziamento della spesa locale facoltativa era possibile grazie all’autonomia nel variare le aliquote. Non erano previsti interventi compensativi o correttivi da parte dello Stato. ► La seconda guerra mondiale distrusse l’impianto del T.U. del 1934, soprattutto perché il Governo nazionale non volle adeguare le rendite catastali. Già nel 47-48 alcuni Enti locali furono autorizzati a contrarre mutui per ripianare la parte corrente di bilancio. ► Successivamente lo Stato è intervenuto prima accollandosi una parte degli investimenti, poi ha iniziato con i trasferimenti su base pro capite, a cui sono stati aggiunti i trasferimenti in proporzione a particolari categorie di soggetti (ad esempio, il numero di studenti, ecc.). Nel frattempo si andava estendendo la pratica dei mutui per ripianare i bilanci, che molti comuni intendevano come dei trasferimenti erariali formalmente da rimborsare per contrarre nuovi debiti (e non come dei prestiti da rimborsare). ► Nel 1970, vennero istituite le regioni ordinarie. Con la legge di riforma del sistema tributario, nel 1972 vennero aboliti tutti i tributi locali ed anche l’ILOR di competenza regionale ed i gettiti persi furono sostituiti da trasferimenti erariali (prelevati da imposte riscosse a livello centrale). Lievitò il ricorso all’indebitamento anche per finanziare la spesa corrente e lo Stato fu obbligato a ripianare “a piè di lista” i debiti dei comuni. Nel 1977 fu abolita ogni fonte di finanziamento autonomo di regioni e di Enti locali. Allora, quasi il 95% della spesa regionale e locale, era finanziata con trasferimenti dallo Stato. ► Nel corso dei 30 anni successivi, si avviò un lento processo volto a restituire poteri di finanziamento autonomo a regioni ed ad Enti locali. Il punto più alto della crisi finanziaria degli Enti locali (comuni), si verificò alla fine degli anni settanta. All’inizio degli anni ottanta si assiste ai primi tentativi di superare la situazione, con importanti leggi fino alla L. 142/1990, che rappresenta un punto di svolta, anche nello stabilire i criteri per l’autonomia finanziaria. Il potere di finanziamento autonomo è stato restituito ai comuni soprattutto con l’istituzione di: ICI (Imposta comunale sugli immobili istituita nel 1992), che è una imposta sul patrimonio immobiliare presente in moltissimi altri paesi (abolita a partire dal 2008) TARSU (tassa sui rifiuti solidi urbani, poi trasformata in tariffa. Fin dal 1931 ai comuni era data la possibilità di una imposizione fiscale per la raccolta dei rifiuti) Al 2006, le fonti di finanziamento dei comuni erano: ► a) tributi propri (ICI), b) facoltà di istituire una compartecipazione all’IRPEF, c) TARSU che diventa Tariffa per l’Igiene ambientale, d) tariffe riscosse per i servizi divisibili ► trasferimenti dallo Stato, attraverso 3 Fondi: - Fondo Ordinario (è il più importante) - Fondo Perequativo per gli squilibri di fiscalità locali - Fondo Consolidato (vari contributi erariali da passate leggi speciali) Ad essi si sommano due Fondi per finanziare la spesa in conto capitale. La dimensione dei Fondi viene stabilita di anno in anno dalla Legge Finanziaria è I criteri del fondo ordinario e del fondo perequativo erano stati definiti dal d.lgs 244/ 97, secondo un modello che teneva conto del fabbisogno di spesa e delle risorse disponibili. Ma non sono mai stati applicati ed al 2006, risultavano “bloccati”. In loro vece sono stati applicati i criteri stabiliti dal d.lgs 504/1992. b) La finanza delle regioni (al 2006 ) Fino al 1995 gran parte del finanziamento era derivato ed arrivava da Fondi statali per specifiche finalità (il più importante era il Fondo sanitario nazionale). Di scarsa rilevanza erano i trasferimenti dalle regioni verso i comuni. Nel corso degli anni ’90 il sistema dei finanziamenti regionali si è profondamente modificato. Le principali novità: • introduzione dell’ IRAP (1998), che è un’imposta regionale sulle attività produttive che è andata a coprire la spesa sanitaria regionale, con aliquota fissata centralmente al 4,25% per tutte le regioni (ma dal 2000 le regioni possono decidere di variare l’aliquota entro alcuni limiti) • addizionale IRPEF (1998) • compartecipazione all’IVA • compartecipazione sulle accise sulle benzine • trasferimenti dello Stato ► Con il d.lgs 56/2000, è stata decisa l’abolizione dei trasferimenti alle regioni (compresi quelli per la sanità). E’ stato istituito un fondo perequativo nazionale, che in fase di avvio, ha ricevuto l’attribuzione di risorse pari a quelle storiche. A causa delle resistenze dei Ministeri, contrari a sottoporre i trasferimenti settoriali a principi generali su base regionale, attraverso il fondo sono state gestite prevalentemente le risorse per la sanità. Nel 2001 l’applicazione del fondo perequativo prevista dal d.lgs 56/2000 è stata “sospesa” (suscitò resistenze nei Ministeri e nelle strutture amministrative, non fu gradito al nuovo Governo, fu impugnato da Campania e Calabria davanti alla Corte Costituzionale) e negli anni successivi l’attribuzione delle risorse del fondo è avvenuta sulla base di accordi annuali tra Governo e regioni. Da quando è entrata in vigore (novembre 2001) la riforma del Titolo V della Costituzione (legge costituzionale n. 3/2001, confermata dal referendum del 7 ottobre 2001), non è stato ancora attuato il nuovo art. 117 comma 7 della Costituzione, che avrebbe potuto dare nuovo impulso al fondo perequativo. Per questo motivo l’attribuzione del fondo perequativo nazionale ha continuato ad avvenire “aggiornando” di anno in anno l’accordo del 2001. Il fondo perequativo è alimentato dalla compartecipazione all’IVA. La % di compartecipazione garantisce alle regioni circa lo stesso ammontare di cui godevano precedentemente con i trasferimenti dello Stato. Si tratta di un fondo “orizzontale”, in cui attraverso complessi calcoli, le regioni più ricche trasferiscono fondi a quelle in situazione opposta. Negli anni successivi al 2006 Funzioni e finanziamento delle regioni a statuto ordinario Per comprendere l’articolazione dei rapporti finanziari tra Stato e regioni è utile partire dalla classificazione della spesa regionale che la Legge Delega ha ritenuto rilevante proporre. Le spese delle regioni sono a tal fine ripartite in tre categorie: spese relative ai Lep; altre spese autonome; spese di cui all’art. 119 comma 5, finanziate con contributi speciali, con finanziamenti dell’Unione europea e con cofinanziamenti nazionali. Qui limiteremo l’attenzione alle prime due componenti, sottolineando che in realtà la prima è, per quantità e qualità, di gran lunga la più importante. Tra le spese relative ai Lep sono infatti incluse la spesa sanitaria, la spesa per assistenza e le spese per istruzione, limitatamente a quelle le cui funzioni amministrative sono attribuite dalle leggi vigenti alle regione. Si può stimare che essa rappresenti circa l’80% della spesa corrente regionale. Spese relative ai Lep. La Legge Delega prevede che la definizione dei Lep venga fissata con una legge statale in piena collaborazione con le regioni e gli Enti locali. Essa non fornisce però alcuna ulteriore indicazione sui principi in base ai quali i Lep debbano essere individuati e misurati. La nozione di Lep non è nata con la riforma del Titolo V. Per quanto riguarda il settore della sanità sono già da tempo stati individuati i Lea, i Livelli essenziali dell’assistenza sanitaria nel campo della spesa assistenziale la nozione di Livello essenziale è rintracciabile nei decreti della riforma Bassanini ed in modo ancora più esplicito nella legge di riforma dell’assistenza, la L. 328 del 2000. La dottrina ha tuttavia elaborato alcune caratteristiche che dovrebbero connotare i Lep, si tratta in particolare di: individuare le condizioni che attribuiscono al cittadino il diritto ad una data prestazione (ad esempio accesso ad un nido od ad una casa protetta). Si parla in questo caso di Lep come diritti esigibili prescrivere agli Enti che hanno compiti amministrativi, di garantire un livello di offerta di servizi adeguato, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, alla definizione dei Lep (ad esempio disponibilità di posti nei nidi pari ad almeno una certa percentuale della popolazione di età compresa tra 0-3 anni e con dati standard qualitativi). I Lep sono qui visti garantiti dall’adeguatezza di indicatori di offerta definire un processo effettivo di valutazione dell’offerta e di monitoraggio delle politiche seguite dagli Enti locali e prevedere sanzioni nel caso di inadeguatezza del servizio offerto. Di indicazioni di questo tipo si trovano solo tracce nella Legge Delega che lascia quindi ai decreti ed alla legislazione futura, un compito di definizione molto delicato e complesso. Un secondo aspetto molto importante della normativa riguarda la misurazione del fabbisogno finanziario relativo ai Lep. Un punto innovativo accolto nella legge delega, che si riconnette a concetti già illustrati nell’ambito dei modelli dei trasferimenti perequativi, è il riferimento alla nozione di fabbisogno standard, che è determinato tenendo conto del costo standard che deve essere sostenuto per garantire i Lep in modo uniforme in tutto il territorio nazionale. Si pone quindi l’obiettivo, da realizzare in modo graduale, del superamento del criterio della spesa storica, che, come sappiamo, è causa di inefficienze nella produzione dei servizi e disincentiva la responsabilità degli Enti decentrati nella ricerca dei mezzi di finanziamento in sede locale. La determinazione del fabbisogno standard sulla base dei costi standard, rappresenta un altro compito particolarmente impegnativo che i decreti legislativi dovranno affrontare. La legge delega individua le fonti di finanziamento dei Lep: tributi propri derivati addizionale all’IRPEF compartecipazione regionale all’IVA IRAP, in via transitoria quota specifica del fondo perequativo dei Lep. I parametri delle addizionali e delle compartecipazioni dovranno essere determinati al livello minimo sufficiente per garantire il finanziamento completo dei Lep in una sola regione. E’ pensabile ci si riferisca alla regione più avvantaggiata (presumibilmente la Lombardia), che di conseguenza non dovrà attingere al fondo perequativo per i Lep. Per tutte le altre regioni invece la quota del fondo a cui avranno diritto sarà pari alla differenza tra il fabbisogno standard ed il gettito delle fonti di entrate a-d) della regione stessa. In questo modo viene garantita la copertura integrale su tutto il territorio nazionale del fabbisogno standard. La sostenibilità della riforma richiede però che tale condizione sia garantita anche nel tempo. Ad esempio, la dinamica delle basi imponibili nella regione più avvantaggiata potrebbe generare gettiti insufficienti od eccedenti rispetto a quelli necessari al finanziamento del fabbisogno standard. La legge prevede allora che in caso di gettito insufficiente, lo Stato si impegni a compensare la differenza, mentre acquisisca al proprio bilancio le eventuali eccedenze. La Legge Delega non si diffonde molto nel disegnare le strategie di monitoraggio dell’effettiva prestazione dei Lep da parte delle regioni e degli Enti locali. L’unico segnale in questo senso è la necessità di prevedere premi e sanzioni per gli Enti inadempienti, fino al limite dell’utilizzo dei poteri sostitutivi previsto dall’art. 120 della costituzione. I decreti attuativi si dovranno quindi fare carico anche di questi importanti aspetti, essenziali per garantire i diritti del cittadino. Altre spese autonome. Per quanto riguarda le altre spese autonome che le regioni dovranno affrontare, il meccanismo di finanziamento previsto dalla Legge Delega prevede: tributi propri derivati addizionali su basi imponibili di tributi erariali tributi propri istituiti dalle singole regioni su presupposti diversi da quelli delle imposte erariali quota del fondo perequativo. Per quanto riguarda le entrate tributarie si tratta di indicazioni ancora generali. E’ interessante notare che qui compare il ruolo della nuova potestà tributaria delle regioni, che potranno istituire nuovi tributi, anche se limitatamente a presupposti non già prenotati dal sistema tributario centrale. Per le spese autonome la Legge Delega prevede che gli attuali trasferimenti alle regioni per finalità incluse in questa categoria, saranno aboliti ed assicura però che l’ammontare degli stessi al momento della riforma sarà garantito da un’addizionale Per le funzioni non fondamentali, che come si è detto è provvisoriamente determinato nel 20% delle spese correnti, gli Enti locali dovranno fare fronte con le risorse proprie definite dalla legge stessa a cui si aggiungerà anche il contributo di un altro fondo perequativo. Il quadro di finanziamento ora descritto prevede luci e molte ombre. Sembrano accolti molti dei principi che sono stati illustrati nell’analisi dei modelli dei trasferimenti, ma restano ancora aspetti oscuri a causa della sovrapposizione dei ruoli della regione e degli Enti locali nello svolgimento delle funzioni che appartengono all’area dei Lep e che la Legge Delega, nel rispetto delle autonomia tra regioni ed Enti locali, ha voluto disciplinare utilizzando canali separati, che lasciano spazio a difficoltà applicative e possibili conflitti tra i diversi attori. Il processo di attuazione del federalismo prevede che, se un Ente territoriale non risulterà adeguatamente solerte nel rispetto degli standard, potranno essere attuati Piani per il conseguimento degli obiettivi di convergenza, affiancando l’Ente inadempiente anche sotto il profilo tecnico. La realizzazione di un percorso così complesso richiede la creazione di istituzioni politiche e tecniche che siano in grado di monitorarne l’andamento. A tale scopo la Legge Delega prevede la costituzione di due commissioni: Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale composta da 15 senatori e 15 deputati, nominati dai presidenti della assemblee legislative rispecchiando la proporzione dei gruppi parlamentari, con la funzione di esprimere pareri sugli schemi dei decreti legislativi da emanare; verificarne lo stato di attuazione, fornire osservazioni e valutazioni al Governo utili alla predisposizione dei decreti stessi. Commissione paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale, istituita presso il Ministero dell’Economia e delle finanze, composta da rappresentanti tecnici dello Stato e degli Enti rappresentativi delle autonomia locali, che ha lo scopo di condividere le basi informative necessarie, rimuovere rilevazioni ed attività necessarie per soddisfare gli ingenti fabbisogni informativi che la riforma richiede. Molto importante sarà poi il ruolo della Conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica, istituita nell’ambito della Conferenza unificata Stato regioni ed Enti locali di cui fanno parte rappresentanti dei diversi livelli di Governo con molteplici compiti di coordinamento tra cui concorrere alla definizione degli obiettivi di finanza pubblica per comparto; sorvegliare le procedure del Patto di convergenza, fare proposte per la determinazioni di indicatori di virtuosità e dei relativi incentivi, vigilare sull’applicazione di meccanismi premiali e del rispetto delle sanzioni; proporre criteri per il corretto utilizzo dei fondi perequativi; verificare la congruità del funzionamenti dei nuovi meccanismi di finanziamento e delle basi di dati forniti dagli Enti territoriali; con l’aiuto della commissione tecnica di cui sopra, tenere aggiornata una banca dati necessari per il calcolo dei fabbisogni e costi standard (indicatori di costo, di copertura, di qualità, ecc.). Capitolo V. La politica fiscale nell’Unione economica e monetaria (P. Bosi) Cenni sulle istituzioni dell’Unione Europea e sul bilancio europeo IL FEDERALISMO ALL’INSU’ L’Unione europea nasce per realizzare obiettivi politici: pace e coordinamento della politica estera dei paesi europei obiettivi economici: la creazione di un mercato comune, e più tardi di una moneta comune. La nascita dell’Unione Europea 1957: fondazione da parte di Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Olanda 1973: ingresso di Danimarca, Irlanda, Regno Unito 1981: ingresso della Grecia 1986: ingresso di Spagna, Portogallo 1993: ingresso di Austria, Finlandia, Svezia 2004: allargamento a Cipro, Estonia, Polonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Malta, Repubblica Ceca, Slovacchia e Slovenia I passi fondamentali dell’Unione Europea 1957: Trattato di Roma 1986: L’Atto Unico Europeo, da cui hanno presso i lavori che hanno portato al trattato fondante dell’UE (Maastricht) 1993: Trattato di Maastricht (TEU), con cui viene posto l’obiettivo della Moneta comune 1997: Trattato di Amsterdam, prima impostante revisione del Trattato di Maastricht 1999: inizio dell’Unione Monetaria con 11 paesi 2001: aderisce anche la Grecia 2007: aderisce anche la Slovenia 2008: aderiscono anche Cipro e Malta 2009: aderisce anche la Slovacchia. L’allargamento del 2004 Il 1 maggio 2004 è iniziata una nuova fase dell’Unione europea, con l’allargamento ad altri 10 paesi. Dal 2007 ne fanno parte anche Romania e Bulgaria, che risulta così composta da 27 paesi. L’allargamento ha determinato un aumento del 20% della popolazione dell’Unione, una riduzione del 13% del reddito pro capite, profondo allargamento delle disparità nell’Unione, mutamento radicale della geografia delle regioni destinatarie degli interventi. L’accesso dei nuovi membri ha comportato il rinnovo degli organi della Unione e la ridefinizione di tutte le principali regole economiche su cui l’Unione si fonda. Per ora i nuovi venuti non partecipano all’Unione monetaria, ma, se soddisferanno i requisiti, potranno aderire, gradualmente, a partire dal 2007. A partire dal 2001 l’Unione ha anche percorso una fase costituente. E’ stata istituita un’apposita Convenzione che elaborato una proposta di Carta costituzionale dell’Unione Europea, approvata dal Consiglio europeo nel giugno del 2004. L’esigenza di una Carta costituzionale sembrava molto sentita per definire meccanismi di decisione politica che non facciano troppo ricorso all’unanimità od esigano maggioranze qualificate, ma per entrare in vigore la Carta avrebbe dovuto essere approvata da tutti i paesi membri. Il mancato successo del referendum di approvazione in Francia ed in Olanda ha determinato una battuta di arresto del processo di unificazione. Nel giugno 2008 si è comunque arrivati a definire un nuovo Trattato di riforma, che recepisce gran parte delle innovazioni contenute nella Costituzione. Il nuovo Trattato di Lisbona è stato approvato dal consiglio Europeo nel dicembre 2007 e ratificato da tutti gli Stati firmatari, prevalentemente per via parlamentare, nel corso del 2008 e 2009. I Fini dell’Unione nel trattato di Maastricht Il Trattato di Maastricht, integrato da quello di Amsterdam, è il punto di riferimento costituzionale dell’Unione, i cui obiettivi sono: costruzione di un mercato unico basato sulla libertà di movimento dei beni, servizi, persone, capitali gestione della moneta unica e della politica monetaria da parte della BCE e del Sistema Europeo delle Banche Centrali (SEBC), con rinuncia al governo della moneta da parte degli Stati nazionali rinuncia al ricorso dello strumento della monetizzazione per finanziare i disavanzi pubblici rinuncia alla politica di gestione del tasso di cambio a fini competitivi vincoli alla gestione delle politiche fiscali nazionali (Patto di Stabilità e Crescita) è rinuncia alla creazioni di disavanzi di bilancio che eccedano i limiti fissati dal Patto attuazione di politiche di armonizzazioni nei campi: tributario (armonizzazione della tassazione sugli scambi e sui redditi) del mercato del lavoro dei sistemi di welfare.
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