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Verso un antidestino - bioetica, Appunti di Bioetica

Riassunto del libro, D'avack

Tipologia: Appunti

2009/2010

Caricato il 20/11/2010

danielasal
danielasal 🇮🇹

3.8

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Scarica Verso un antidestino - bioetica e più Appunti in PDF di Bioetica solo su Docsity! Verso un antidestino Capitolo I – Diritti dell’uomo e biotecnologie: un conflitto da arbitrare. (pag.1 – 48) 1. Premessa La maggior parte dei paesi civili ritennero indispensabile inserire nelle loro carte costituzionali un concetto giuridico nuovo: la dignità umana come intangibile; la sua protezione come dovere di tutti i poteri dello Stato. Contestualmente però la ricerca scientifica e tecnica è libera e degna di tutela. La coesistenza di questi due principi testimonia il permanere nel pensiero politico e giuridico del dopoguerra del connubio benefico tra scienza e diritti dell’uomo. Le nuove democrazie sembravano aver dimenticato che la lotta per i diritti dell’uomo è una difesa. E non era impossibile immaginare che in un futuro le minacce alla dignità, alla libertà, all’ambiente sarebbero potute provenire dal potere della scienza e dalle sue applicazioni tecnologiche. Non stupisce allora che gli Stati nazionali siano alla ricerca di una normativa la cui difficile genesi si esplica attraverso la presenza di un conflitto di valori e di diritti, tra le esigenze e gli interessi della ricerca, e le esigenze e gli interesse degli uomini. Così nel rapporto uomo-biotecnologie emerge un’ultima generazione di diritti umani, bioeticamente rilevanti, invocati per le più disparate e opposte conclusioni. Si pensi al diritto ad un patrimonio genetico non manipolato, al diritto al figlio all’unicità. Ma questi diritti evidenziano l’esistenza di un conflitto tanto più difficile da regolamentare se si considera che anche verso il potere scientifico si verifica quella forma di sottomissione data dalla paura, dal desiderio di sicurezza, dalla necessità di benessere. Nel momento in cui il bene comune è ovunque reclamato, è identificabile in una libertà personale suscettibile di pregiudizio a fronte di qualsiasi restrizione. I grandi progetti biotecnologici determinano le utopie biotecnologiche che vedono referenti principali gli scienziati, le industrie, lo Stato e i media. E queste forze si servono di strumenti forniti dalla tecnica, guidati dalla scienza moderna. Emanuele Severino afferma che la tecnica è salvezza, e che la capacità della tecnica è la potenza attiva ed effettiva di realizzare scopi e di soddisfare bisogni. E mentre le altre forme di volontà vogliono realizzare scopi escludenti, la tecnica mira a quello scopo trascendentale, che è l’incremento infinito della capacità di realizzare scopi. Nel momento in cui la tecnica interviene nell’universo per riprodurre ciò che era considerato il segreto della natura, si sta perseguendo un ideale che va oltre l’umanesimo. Engelhardt ci prospetta attraverso l’ingegneria genetica la possibilità di una versione laica e post moderna della grazia divina, in cui l’uomo si eleva allo stadio di vero signore e proprietario della natura, così da sancire l’inizio di una bio-ecoreligione, finalizzata alla salute perfetta. Coloro che pongono limiti morali alle nuove tecnologie vengono accusati di partire da una visione sbagliata sia della tecnica che della natura. L’intero dibattito sulla legittimità delle biotecnologie riguarda l’emancipazione della schiavitù della natura. Di qui anche la convinzione che non si tratti più di ideologie, bensì di un’utopia in formazione che nella sua totalità ha due facce: la salute del corpo umano e quella del pianeta. Di qui la nascita di quel nuovo modello di biologo post-moderno che si reputa un’artista creativo di ciò che questa generazione di scienziati considera come una seconda genesi ispirata all’immaginazione umana. Oggi le tecniche di ricombinazione del DNA vengono sempre di più considerate come gli strumenti dell’artista, che intraprende un’avventura creativa con immagini preparate sui dati ottenuti grazie anche alla cristallografia a raggi X. L’ingegneria genetica, riassume dunque, il nuovo modo di pensare post-moderno (uno dei pochi a non avere limiti) che si è impossessato della cultura. All’uomo di oggi si ripropone il problema della salvaguardia dalla propria identità, dignità, libertà e dell’uguaglianza formale di se con gli altri uomini. Il problema dell’opportunità e dei limiti di un intervento del legislatore, occupa un posto primario nel dibattito attuale. Ci si interroga sull’idoneità del diritto vigente a risolvere contrapposizioni e conflitti d’interesse; ci si domanda quali possano essere i modelli di riferimento; quale siano le fonti del diritto a cui fare ricorso: le leggi nella forma di regole generali e astratte, o una legislazione di garanzia al limite. D’altronde è difficile pensare che problemi di tale natura possano essere risolti attraverso un vasto e generale consenso. Diventa allora essenziale che la collettività riesca ad arbitrare le proprie esigenze nel rispetto di imprescindibili valori e diritti, al fine di creare il consenso e non d’imporlo. La gestione dei conflitti in una società organizzata è generalmente al centro della riflessione giuridica. In altri termini, se la scienza, unita alla tecnica è incremento indefinito della capacità di raggiungere scopi, la decisione sui concreti e determinati scopi, a cui quella capacità può dare soddisfazione, non può che spettare al diritto. È in questa sede che si ripropone forte il problema delle risposte date in chiave morale o in quella giuridica. Il postulato proprio dell’illuminismo e poi del liberalismo, spinge verso l’idea che il legislatore non debba utilizzare il diritto come uno strumento di rafforzamento della morale. Diritto e morale devono restare sistemi deontici separati. Paolo Zatti ricorda che sarebbe grave che un giudizio di fattibilità o di non fattibilità giuridica fosse dettato da una personale opinione favorevole o dissenziente sul piano morale, quando il legislatore sa che sarà sterile o addirittura produrrà comportamenti contrari. 2. Le tesi ostative all’intervento legislativo 2.1 premessa Inizialmente la risposte della medicina contemporanea occidentale verso quelle sperimentazioni che suscitavano riflessioni inquietanti, fu rimessa all’etica dello scienziato o del medico. Al Codice di Norimberga fecero seguito poi numerosi documenti di organizzazioni e comitati nazionali e internazionali con il compito di dettare modelli comportamentali agli addetti ai lavori e di ricordare che la dignità umana, nelle sue diverse letture, va salvaguardata. Tali comitati hanno svolto e svolgono un ruolo determinante nel tracciare le grandi linee di quell’etica che ha assunto il neologismo di bioetica o etica biologica. Forse anche questi interventi, insieme a scelte ideologiche ben precise, spingono filosofi, giuristi e uomini di scienza a raccomandare una legislazione contenuta. Le tesi portate avanti verso una nuova normativizzazione possono essere dettate tanto da un atteggiamento positivo verso lo sviluppo della scienza mortificata e limitata da categorie giuridiche, quanto da una preoccupazione maggiore o minore verso il fenomeno biotecnologico e le sue applicazioni che spinge o a tenere ferma la legislazione esistente come tecnica del divieto, o ad interventi settoriali con finalità prevalentemente proibizioniste. 2.2 Autonomia, privacy e responsabilità La tendenza astensionista nei confronti della regola giuridica è quella che pone l’accento sul rispetto delle scelte private dei singoli individui. Questa prospettiva tende a sostituire al principio della sacralità della vita quello della qualità della vita, e pone l’accento sull’autonomia e sulla responsabilità individuale che deve subire nel minor modo possibile l’intervento dello Stato. Peter Singer scrive che l’etica tradizionale dell’occidente è andata in contro ad una crisi, ne consegue che le società si trovano a fare i conti con un diffuso pluralismo etico rendendo improponibile un’etica sola e assoluta. Così in merito ai problemi sollevati dalle biotecnologie le famiglie filosofiche e spirituali si mostrano di diverso avviso: alcune sono contrarie a determinate pratiche biogenetiche e bioriproduttive, altre le ammettono liberamente. Così si sostiene anche il valore delle diverse soggettività, ognuna delle quali concorre ad accedere alle nuove scoperte della biotecnologia nelle sue più svariate utilizzazioni. Quando si rivendica il principio di auto-determinazione delle proprie azioni il modello ideologico di riferimento appare quello indicato come del non cognitivismo etico. Per questo orientamento la morale non si può fondare su fatti né su valori trascendenti o oggettivi, ma su una scelta autonoma e individuale del soggetto. Secondo Scarpelli l’etica è senza verità. Così data la pluralità delle etiche e considerato che non vi è ragione definitiva, bisogna accettare che ogni cittadino abbia in proposito le sue idee e scelte etiche. Unico limite è dato dal’assenza di un danno rilevante per altro soggetti che deve essere individuato con criteri di responsabilità. Tale criterio è incentrato sul processo decisionale della persona che agendo può toccare interessi di altri. Ne consegue che la teoria della responsabilità supera la mera possibilità della scelta, per mirare al modo in cui la scelta viene esercitata. Gli autori favorevoli a questo orientamento sono generalmente consapevoli che i principi di autonomia tracciano un valido sistema entro il quale ogni difficoltà si esprime e viene prudentemente affrontata, la regola che assegna il potere decisionale dovrebbe investire di tale potere uno dei soggetti coinvolti, il più toccato dagli effetti dell’azione. Si ha così una norma capace di determinare la prevalenza degli interessi in gioco. Il principio d’autonomia costituisce dunque una chiave per l’accesso alla bioetica e risulta decisivo su molte questioni. In linea con la tradizione milliana, viene affermato che se c’è un ruolo dello Stato rispetto alla responsabilità morale del cittadini, esso è quello di mettere gli agenti nelle migliori condizioni di sviluppare comportamenti moralmente responsabili. Il diritto dunque non si porrebbe in sintonia con i progressi conto che certe pratiche possono svilupparsi senza un reale controllo dato che esse superano il quadro del diritto giuridico esistente, rendendo le soluzioni del diritto incerte. L’inazione o il silenzio delle autorità competenti rischia allora di condurre alla violazione del diritto alla vita. la Chiesa dunque si schiera a favore di una precisa scelta per l’intervento del legislatore, anche a fronte del rischio di una legge imperfetta che può comunque essere intesa come il male minore. Il rispetto della dignità della persona, il diritto primario alla vita, la difesa dell’embrione, il divieto dell’eugenismo, l’interesse del minore sono contemplati dal legislatore in forma sostanzialmente analoga alla tradizione culturale cattolica. La differenza è che mentre il patrimonio di nozioni e di valori di cui si avvale la Chiesa è tale da formulare risposte agli interrogativi che suscitano le biotecnologie, gli Stati devono misurarsi con quel bilanciamento di interessi che impone di contemperare anche valori etici non uniformi né unanimemente condivisi, in altra parole per lo Stato gestire tale emergenza etica appare più difficile di quanto lo sia per la Chiesa. Da tutto ciò consegue una forte attenzione di quest’ultima per i profili giuridici che coinvolgono il problema genetico per cui la Chiesa domanda che l’utilizzazione delle tecniche attuali sia inquadrata in una normativa che assicuri la protezione del diritto alla vita. il punto focale sta nell’affermazione che la vita corporea dell’essere umano costituisce momento fondamentale, condizione e dimensione sostanziale di tutta la persona. Nel settore della cosiddetta genetica estrema, si registra una forte convergenza di tali tematiche, sia nell’insegnamento ufficiale del Magistero sia nelle scelte statuali europee che concordano sul divieto assoluto della clonazione riproduttiva, della fecondazione fra gameti umani e animali, della fissione gemellare e dalla partogenesi, l’intervento sul patrimonio cromosomico per fini non terapeutici e la commercializzazione del corpo umano. 4. Necessità della legge 4.1 Le riserve verso l’etica Sebbene siano molte le difficoltà che il legislatore incontra nella regolamentazione delle biotecnologie, è difficile pensare che gli ordinamenti giuridici possano rimanere indifferente in settori in cui sono posti in discussione i concetti della vita e della morte. Le riserve che si intendono avanzare verso l’etica sono principalmente dovute ad una mancanza di sufficienti garanzie individuali e collettive, da una parte, e al suo carattere unilaterale dall’altra. Per questo secondo motivo potrebbe sembrare perfino inadeguato indicarla referente primario per una nuova legislazione. Sembra che a fronte delle tante difficoltà potenziali sollevate dalle biotecnologie, gli eticisti e i giuristi siano sollecitati a fornire delle risposte soddisfacenti. Ci si attende dai primi che svolgano un ampio dibattito in cui tutte le famiglie spirituali possano esprimersi, dai secondi che venga data forma giuridica alle proposizioni dei primi. In tal modo tutte le nuove problematiche sarebbero presentate con analoga valenza sia per l’etica che per il diritto in una sorta di etica giuridica. Ne consegue che il diritto si giustifica col tradurre sul piano giuridico quell’insieme di regole morali in quel momento universalmente valide. Ma quali? Se bastasse una “decisione di maggioranza” la capacità generalizzata del diritto andrebbe perduta al posto di una struttura autoritaria. Il rischio è evidente nella tentazione di ricorre al diritto come sostituto di un’etica che non c’è. 4.2 Le difficoltà del legislatore Non sono da sottovalutare le difficoltà che si pongono al lavoro del legislatore. Manca una sufficiente conoscenza della vicende scientifica che genera equivoci sulla liceità e illiceità del fatto sperimentale e sui metodi attraverso i quali il diritto deve cogliere questa esperienza. Confusione e oscurità di pensiero anche su termini quali: persona, individuo, essere umano, natura, ricerca, sperimentazione, che necessitano di essere precisati quando si ricollegano all’enunciato giuridico. La confusione proviene anche dalla varietà del fenomeno sperimentale, dalla varietà delle finalità, dalla diversità dei soggetti presi come oggetto dell’esperimento. Inoltre non si può sottovalutare come i diritti dell’uomo abbiano dei significati multipli. Così la dignità umana può divenire l’alibi per ogni genere di sperimentazione, o al contrario per opposizioni irragionevoli agli strumenti messi a servizio dalla scienza. Poi alcuni principi tradizionali, come l’indivisibilità e inviolabilità del corpo, non sembrano in grado di fornire da soli risposte univoche. È profonda ad esempio nel campo della procreatica l’incertezza circa il significato sociale della maternità. Per alcuni movimenti è prevalente l’idea che la trasformazione tecnologica della gestazione sia una soluzione socialmente progressista; per altri le tecnologie riproduttive portano a risultati diametralmente opposti relegando le donne ad un ruolo di dipendenti patriarcali; altri ancora espongono il timore che la tecnica medica si traduca nella riduzione del corpo della donna o di parte di esso a cosa e della separazione di questa parte dall’interesse della soggettività. È anche vero però che nella biologia è la necessità scientifica che spinge verso l’eliminazione della nozione di soggetto e della complessità psicosomatica del corpo. Lo stretto legame poi stabilitosi fra il progresso scientifico e l’industria conduce poi a mettere in opera delle tecniche commerciali direttamente influenzate dalle leggi di mercato. La concezione giuridica tradizionale dell’uomo è dunque stata modificata: alcuni dei suoi tratti, come la libertà di disporre di se stessi, accentuati, altri battuti in breccia come l’indisponibilità. Il legislatore deve tener conto di questi nuovi elementi e far si che la regolamentazione emerga sia da un confronto tra principi nuovi e tradizionali, sia da una valutazione degli interessi contrapposti. 4.3 Le finalità della legge A fronte dei molti problemi sollevati dai rapporti ricerca-persona-società, il diritto positivo ha semplicemente bisogno di essere messo alla prova. Ciò è possibile che venga realizzato nella maggior parte dei Paesi civili senza dover rimettere in discussione l’economia del diritto vigente, e senza dover ricorrere a norme pensate per l’eternità. L’opportunità di regolamentare giuridicamente le biotecnologie riguardanti l’uomo è soprattutto condizionata da alcune esigenze: a) che una tale normativa risponda realmente ad un’utilità sociale, e crei un quadro di sicurezza per i diritti dell’uomo; b) che si consenta il confronto fra valori e modelli di regolamentazione sociale anche diversi; c) che il legislatore operi dando vita a concetti attraverso cui il corpo umano diventi oggetto del diritto; d) che l’intervento legislativo su questioni dove la presenza etica è molto marcata si limiti al diritto necessario; e) che la costruzione di un nuovo diritto permetta all’ordine giuridico preesistente di sopravvivere; f) che il legislatore tenga conto del contesto in cui la nostra legislazione nasce che è quello europeo. Fattore che permette a chi ha potere e denaro per farlo di aggirare alcuni ostacoli. 5. I modelli giuridici 5.1 Il modello individualistico-libertario Il modello individualistico-libertario è ispirato dal principio di libertà che trova la sua espressiva sintesi giuridica nel concetto anglosassone di privacy e nel diritto al right of pursuit of happiness. Per quanto concerne la regolamentazione degli effetti e la soluzione dei conflitti degli interessi in gioco, il sistema par tener conto del principio di utilità rimesso nella tradizione di common law ad una valutazione propria del giudice. La tutela della privacy si concretizza nel diritto dell’individuo di avere un libero accesso alle tecnologie che restano prevalentemente nell’area delle legal liberties. La legislazione ispirata alla tutela della privacy il più delle volte si limita alla previsione dei requisiti di informazione, autonomia e volontarietà delle scelte. Tuttavia appare troppo riduttivo ritrovare nel modello giuridico nordamericano un’assoluta coerenza di percorsi e di scelte. Di fatti tra i diversi Stati d’America non è stato raggiunto su molteplici temi un indirizzo unitario di politica del diritto, assegnando ai singoli giudici, il potere di indicare una propria soluzione giuridica. È opportuno sottolineare che la funzione delle corti è di attestare la legge così come essa è, pertanto dov’è presente una legislazione, lì si trova un limite al compito delle corti. Per quanto concerne il campo della procreatica possiamo prendere atto di come nei paesi di common law il valore dell’autonomia del privato sia un dato acquisito. Così accanto al riconoscimento dei “diritti riproduttivi negativi”, si ravvisa un analogo riconoscimento dei “diritti riproduttivi positivi” che si traduce nella possibilità per il cittadino di fare incondizionato ricorso alle tecniche di riproduzione artificiale quali modalità procreative alternative, a prescindere dalle necessità terapeutiche. Unica eccezione per un’ingerenza statuale è data dalla presenza di provati e gravi motivi o di un preminente interesse. Ma la valutazione di quelli che possono definirsi primari interessi in gioco per l’accesso alle tecniche risulta fortemente condizionata dal riferimento essenziale al valore della felicità, più agevolmente sostenibile a carico di chi già vive che non di chi deve ancora nascere e che viene rafforzato dal disconoscimento di un danno, dato che la condizione di chi nascerà è sempre comunque preferibile alla non esistenza. Qualsiasi norma statale che restringa la possibilità di ricorrere alle tecnologie riproduttive superando i limiti generali posti dalla disciplina dei contratti, dovrà essere considerata come violazione di un principio costituzionale protetto. Tuttavia, il percorso del riconoscimento costituzionale del diritto riproduttivo è stato lungo. La Costituzione degli Stati Uniti non menziona la procreazione né la famiglia. È spettato poi alla corte suprema anteporre ai poteri di intervento statale il principio di autonomia dei soggetti nell’ambito della procreazione. Così nella seconda metà degli anni 60 si moltiplicarono i casi giudiziari in merito alla fecondazione eterologa. Nel 1968 un articolo del Uniform Parentage Act sull’inseminazione artificiale prevedeva: a) che il consenso dato dal marito all’inseminazione artificiale tramite donatore, lo poneva di fronte alla legge come padre naturale del nascituro; b) che il donatore non è titolare di una paternità biologica. Le sentenze nordamericane in materia di madre surrogata hanno ribadito uno dei principi fondamentali fatti propri dai nostri ordinamenti: il prevalente interesse del minore nella soluzione dei conflitti. La forza che scaturisce dalla natura di questa dottrina si esprime nel fatto che essa pone tutta la sua attenzione ai maggiori interessi del bambino. Non ha riguardo per coloro che reclamano “diritti” sul minore o sulla sua custodia, e nemmeno per coloro che potrebbero patire ingiustizie reali a causa del fatto che si siano scrupolosamente tutelati i maggiori interessi del bambino. Altro tema centrale è quello dello status dell’embrione e dei suoi diritti. Già in relazione al problema dell’aborto, la Corte Suprema del Missuri aveva sostenuto che non vedeva alcuna ragione per cui l’interesse dello Stato nel proteggere la vita umana potenziale dovesse sorgere solo al momento della nascita. Non mancano poi esortazioni provenienti dal mondo politico e culturale affinché le tesi pro-life trovino un loro accoglimento sul piano istituzionale. 5.2 Il modello dei diritti fondamentali Il modello dei diritti fondamentali è stato fatto proprio dalle legislazioni continentali che hanno mosso prevalentemente da una cultura solidaristica di valori primari della vita sociale, secondo la quale libertà e dignità dell’individuo sono funzionali alla realizzazione di beni costituzionalmente tutelati. Nella grande maggioranza delle discipline costituzionali dei paesi europei la dignità e l’integrità dell’individuo sono principi ricompresi nel tradizionale concetto di libertà personale. La nostra Cost. da un lato proclama la libertà della scienza, dall’altro considera i diritti inviolabili dell’uomo ed il valore della dignità umana in numerosi articoli. Tale modello è seguito dalla Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina, secondo cui la ricerca in questi ultimi campi è esercitata liberamente con riserva delle disposizioni della presente Convenzione e delle altre disposizioni giuridiche. La dignità umana è poi richiamata con forza nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea come base dei diritti soggettivi fondamentali. La cultura giuridica occidentale ruota dunque intorno al rispetto della persona umana da tutelare nei confronti delle applicazioni della biologia e della medicina sia attraverso la capacità di riflettere su di sé che attraverso il rapporto con il mondo esterno. Il bilanciamento come regola di azione del legislatore è tanto più necessario se si vuole escludere l’eventualità del possibile configurarsi di regolamentazioni radicali che privilegiano l’unico interesse che vedono a scapito di molti altri che non considerano. Per quanto riguarda la ricerca biomedica la legislazione dei Paesi continentali più marcatamente cattolici hanno tentato di conciliare una componente razionalista maggioritaria con il rispetto degli ideali trascendenti della propria religione. Il risultato è spesso legato alla maggiore o minore laicità dello Stato, da ciò consegue una legge il cui rispetto si dimostrava successivamente impossibile. In via schematica possiamo ricordare che i modelli giuridici basati sui principi di dignità dell’uomo e solidarietà convergono generalmente su diverse regole: - rispetto e inviolabilità del corpo umano; - sottrazione del corpo e dei suoi elementi a diritti patrimoniali; - tutela della persona che si presta ad una ricerca; - centralità della tutela della salute nell’ambito delle tecniche di fecondazione assistita; - nullità delle convenzioni aventi ad oggetto la procreazione per conto altrui; - tutela dell’embrione; - divieto di infliggere menomazioni all’integrità della specie umana. Queste regole possono trovare giustificazione richiamando i valori dell’inviolabilità e indisponibilità del corpo umano e del suo patrimonio genetico. Altri valori possono essere ricavati dal diritto dell’ambiente o dal diritto alla salute. fra gli esseri umani. Le risposte alla tutela dell’embrione si traducono in limitazioni severe. Si chiede che gli embrioni siano formati in vitro soltanto a scopo di procreazione e che non vengano fecondati più ovociti di quanto sia effettivamente necessario, evitando la crioconservazione e la determinazione di embrioni soprannumerari. La ragion d’essere dell’embrione aiuta a comprendere perché si possa prevedere l’eccezione della fecondazione post mortem in corso di FIVET come soluzione all’esigenza preminente di salvare l’embrione dalla distruzione. Una volta poi riconosciuto il principio che l’ovulo fecondato è già vita, ne consegue che la sperimentazione sull’embrione è considerata identica alla sperimentazione sull’essere nato. Dal momento che l’embrione non può consentire alla ricerca, questa viene vietata in ogni sua forma. A queste stesse conclusioni si giunge anche se ci si limita a riconoscere il dovere morale e giuridico di trattare l’embrione come una persona. In quest’ottica la tutela dell’embrione inizia a fondarsi sull’idea che l’embrione sin dalla fecondazione sia un organismo di natura umana; il dubbio che possa in una certa fase precoce essere persona; il criterio di somiglianza; la regola aurea della morale di non fare agli altri quanto non vorresti fosse fatto a te; il principio infine di responsabilità verso il progetto riproduttivo delle persone. Tutte queste ragioni prescindono dalla soluzione della questione circa lo status dell’embrione e puntano sull’idea che una pratica di questo genere potrebbe contribuire ad erodere il rispetto dovuto alla via umana. La linea di pensiero diametralmente opposta a questa è quella che considera l’embrione come materiale biologico che non ha diritto a misure protettive una volta utilizzato per un progetto di filiazione. L’originalità genetica non ha niente di specificatamente umano: essa costituisce l’attributo di qualsiasi specie che si riproduce in modo sessuale. Nell’ottica di una tale definizione l’embrione non ha diritto ad uno statuto morale e giuridico e diviene soggetto o oggetto di diritto solo se rappresenta un progetto verso la procreazione per coloro che l’hanno generato o prodotto. Altrimenti rimane un oggetto biologico. È dunque lecito produrre embrioni soprannumerari e la loro crioconservazione diventa un corollario obbligatorio. La loro produzione permette di effettuare dei progressi in tre direzioni diverse: la cura della sterilità attraverso donatori di gameti; l’estensione della conoscenza scientifica e dei progressi della medicina attraverso la sperimentazione sugli embrioni e infine l’impiego di materiale embrionale in processi industriali e commerciali. La terza scuola di pensiero attenua le tesi delle precedenti con un compromesso. Sottolineando il principio che attraverso lo sviluppo di un embrione la vita umana si realizza in un altro individuo, si sostiene la necessità di tutelare l’embrione come un essere alla cui vita è riconosciuto un valore primario. Riconoscere tale valore significa garantire all’embrione le condizioni più favorevoli allo sviluppo e alla nascita. Nell’ambito di questo modo di pensare si pongono soprattutto coloro che sostengono la tesi della teoria gradualista che non riconosce all’embrione un reale statuto se non a partire da un certo momento che si situa tra il concepimento e la nascita dell’essere vivente e che viene definito come inizio della vita personale. In questo senso la fecondazione è una tappa importante, ma non quella decisiva a considerare l’embrione “persona”. Si è cercato di individuare nell’ambito dell’evoluzione dall’ovulo fecondato al feto vivente e poi alla nascita dell’essere umano, degli elementi qualificanti per assegnare una tutela differenziata. In presenza di opzioni così diametralmente opposte è utopistico ipotizzare un consenso sociale sui valori che si intendono proteggere, spetterà pertanto al legislatore mediare attraverso un atto di autorità che possa essere sufficientemente compreso e porre dei limiti incondizionati. Nella pratica della FIVET e nella conservazione degli embrioni in vitro la pressione di diversi interessi in gioco potrebbe tradursi nell’esclusione della FIVET stessa o al contrario nell’obliterazione totale dell’embrione a fronte del diritto assoluto alla conoscenza scientifica. La ragione e la mediazione dovrebbero allora spingere verso una tutela attenta ma limitata i cui all’embrione viene riconosciuta la più alta dignità senza che ciò implichi una tutela identica a quella della persona già nata o l’essere considerato soggetto di diritto fon dal concepimento. Da questa concezione dell’embrione derivano alcune regole giuridiche circa il suo status: a) l’obbligo di garantire le condizioni più sfavorevoli allo sviluppo e di salvaguardarlo da sacrifici non giustificati; b) la presenza di doveri nei confronti dell’embrione che non devono considerarsi sempre assoluti; c) la possibilità che la ricerca e la sperimentazione sugli embrioni non sia aprioristicamente vietata e considerata illegittima a fronte di protocolli di ricerca e di condizioni che di contro possono giustificarla. La scelta indicata può essere giustificata attraverso le seguenti ragioni: - L’invocata coerenza normativa ci impone di tenere conto del fatto che la capacità giuridica è subordinata alla nascita. Ne consegue che al concepito sono attribuiti diritti nell’ambito di limitate e speciali situazioni subordinate all’evento nascita. Pertanto le legislazioni continentali privilegiano il principio della subordinazione alla condizione sospensiva dell’evento della nascita. Ancora si potrebbe evidenziare come nessuna legislazione consideri l’utilizzo dell’embrione e la sua eventuale dispersione come assimilabili ad un omicidio. Il fatto che l’embrione possa essere separato dal corpo femminile e mantenuto in vita spinge verso la percezione della sua dualità soggetto-oggetto, rafforzata da idee ampiamente condivise nella società come l’utilità sociale della sterilità e l’interruzione volontaria della gravidanza. Con riferimento alla nostra legislazione si può osservare che sebbene la L. 194/1978 esclude che la scelta abortiva sia scelta soggettiva e discrezionale della donna, è pur vero che il formarsi di una prassi applicativa orientata in tal senso, spinge ad una subordinazione della tutela della vita del nascituro all’interesse esclusivo della donna. La soluzione legislativa fu avallata sul presupposto che prima del raggiungimento di una particolare maturità fisica l’embrione non fosse identificabile come persona, e nell’aver ammesso che non vi è equivalenza fra il diritto alla vita e alla salute di chi è già persona, e la salvaguardia del concepito che deve ancora divenire persona. Tale concetto di salute ha poi trovato una sua ampia connotazione ricollegandosi ad una nozione più complessa caratterizzata dagli aspetti interiori più che da quelli esteriori. In tal modo la Corte Costituzionale muoveva dall’idea che la tutela del concepito non poteva prescindere la contesto razionale entro il quale esso si colloca e identifica, affermando che i doveri giuridici nei suoi confronti non possono essere considerati assoluti. - Assimilare l’embrione fin dal concepimento ad una persona umana e riconoscergli una piena capacità giuridica, sottomettere quindi al suo diritto alla vita tutti gli altri diritti, con effetti legali sconcertanti, ne dovrebbe seguire un divieto assoluto al’interruzione della gravidanza. Lo stile di vita di una donna gravida può essere oggetto di giudizio, controllo e stigmatizzazione da parte di terzi con la conseguenza che sarebbe minacciato il principio stesso della libertà procreativa. A meno che non si voglia riesumare la distinzione fra diritti/doveri di prima facie e diritti/doveri assoluti. Tanto vale dire allora che l’embrione non è ancora uno di noi; che la tutela ad esso spettante non può essere identica a quella riconosciuta all’uomo già nato; che l’embrione non può essere considerato fin dal concepimento soggetto di diritto. L’opposto determinerebbe una situazione poco realistica. Se è vero che per nascere l’embrione ha bisogno della decisione della madre, allora tale decisione ne cambia la natura facendo di esso una futura persona. La sua qualità viene insomma decisa dalla madre, ovvero dal soggetto che è in grado di farlo nascere. Così, fin tanto che sarà dimostrato che la coltura in vitro è risposta terapeutica ottimale al desiderio di gravidanza della donna, ancora si potrà concludere a favore della legittimità della tecnica. Questa visione indica che la creazione dell’embrione non implica un obbligo di impiantazione in quanto l’embrione non possiede un diritto assoluto a nascere. - In un’incondizionata tutela dell’embrione si possono riscontare altre situazioni di conflitto come l’impossibilità di avanzamento della conoscenza scientifica e quindi della cura di patologie gravi dell’uomo e del neonato attraverso lo studio di embrioni comunque destinati ad essere perduti. Risulterebbe interrotta qualsiasi ricerca sulle c.d. linee cellulari embrionali. Ancora più illegittima sarebbe la clonazione terapeutica che ha come obbiettivo quello di utilizzare il clone a fini sperimentali con obbiettivi terapeutici di lungo periodo, o per lo sviluppo di tessuti a fini di trapianto in un grande ventaglio di patologie. L’utilizzo o la manipolazione dell’embrione implica la sua distruzione, in evidente contrasto con l’idea che possa essere considerato un essere umano fin dalla fase di sviluppo. Così è ovvia la condanna da parte della Chiesa cattolica, “manipolare un essere umano nei suoi primi stadi vitali perla sperimentazione di nuove terapie, contraddice palesemente il valore di salvare la vita di altri esseri umani”. La Chiesa inoltre, evidenzia come questa prassi stravolga il valore umano della generazione, programmata per finalità medico-sperimentali e perciò anche commerciali. La ricerca e la sperimentazione devono allora astenersi da interventi sugli embrioni vivi, a meno che non ci sia la certezza di non arrecare danno alla vita del nascituro e della madre, e a condizione che i genitori abbiano accordato il loro consenso libero e informato. Ne consegue l’illiceità di ogni ricerca qualora implichi un rischio per l’integrità fisica o la vita dell’embrione. Infine, precisa la Chiesa, i cadaveri di embrioni o feti umani abortiti o non, devono essere rispettati come le spoglie degli altri esseri umani. Nei confronti delle cellule e tessuti prelevati da feti abortiti la condanna della sperimentazione sotto il profilo morale è giustificata dalla ragione che è sempre immorale trarre benefici da un atto immorale. Nel linguaggio teologico si parla di cooperazione materiale al male. Questo principio conduce alla conclusione che tutti i benefici ricavati da atti eticamente condannabili dovrebbero essere rifiutati. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nel condannare la clonazione di essere umani, ha precisato come questa condanna non si riferisca a tutte le forme di clonazione e di ricerca sugli embrioni. Il Parlamento Europeo ha chiesto al Consiglio dell’Unione europea di consentire l’accesso ai finanziamenti per la ricerca sulle cellule staminali derivanti da embrioni formati durante il corso di procedure di fecondazione in vitro e non più utilizzate per il trasferimento in utero. In Italia la recente legislazione sulla PMA vieta qualsiasi forma di ricerca sugli embrioni e di conseguenza sulle cellule staminali da essi derivanti. La Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina prevedere, in merito alla sperimentazione sugli embrioni, che laddove la legge consenta la ricerca venga assicurata un’adeguata tutela dell’embrione, proibendo comunque la produzione di embrioni umani a scopo di ricerca. Il principio che gli Stati europei possono darsi leggi che autorizzano la sperimentazione sugli embrioni, il fatto che si consenta Stati che hanno già leggi di questo genere (come l’Olanda) di derogare dall’indirizzo dato dalla Convenzione, hanno fatto ritenere che da parte del Consiglio d’Europa non vi sia un atteggiamento di chiusura nei confronti della ricerca su cellule staminali ed embrionali. Tanto più che la stessa Convenzione affronta implicitamente la questione della ricerca ed afferma che ciò è possibile solo per scopi medici. La Commissione di studio sull’utilizzo di cellule staminali per finalità terapeutiche, ha mosso dalla constatazione che in Italia esiste un elevato numero di embrioni soprannumerari, formati nel contesto di un progetto procreativo, ma che non sono più destinati all’impianto. “Destinare una parte di questi embrioni alla ricerca, traendo benefici per l’umanità, non comporta una concezione strumentale dell’embrione né costituisce un atto di mancanza di rispetto della vita umana se si considera che l’alternativa è lasciar perire questi embrioni”. È possibile parlare di conflitto, fra i doveri verso gli embrionie quelli verso gli altri esseri umani, ma i primi nella fattispecie sopra descritta assumono un valore relativo, perché si attenuerebbe il danno dell’inevitabile distruzione, dando ad essa un senso socialmente utile. Tale opzione trova sostegno nel principio di beneficienza, comune alle principali dottrine morali. Anche la Chiesa considera la possibilità che la vita venga tolta per atto dell’uomo, ma allora questa possibilità non potrebbe essere concessa a quel migliaio di embrioni utili ora per curare e salvare altre vite umane. Inoltre, il dovere di solidarietà conduce alla donazione degli organi ex mortu che la stessa dottrina cattolica considera come un gesto di vero amore umano. Tuttavia, per rendere lecito questo atto, essa ha dovuto affrontare il problema dell’accertamento della morte. La cessazione totale e irreversibile di ogni attività encefalica, non viene ritenuta in contrasto con gli elementi essenziali di una corretta concezione antropologica; la contraddizione affiora per chi avalla come lecita questa posizione, ma sostiene al contempo che la vita umana nasce prima della fase embrionale in cui si forma il sistema nervoso, ma afferma che esso sia comunque ultimo. Questa assenza di simmetria potrebbe trovare una sua giustificazione nel fatto che il de-cerebrato è fortemente simile al non ancora cerebrato, ma non identico perché il secondo è destinato a dotarsene. Ma il pre-embrione crioconservato, non destinato all’impianto, diviene identico alla persona de- cerebrata perché non sarà mai cerebrato. Allora perché una cosa è lecita e l’altra no? Se le ragioni fin qui poste spingono verso posizioni di compromesso che non qualificano l’embrione come persona, ciò non significa disconoscere la sua natura di potenziale essere umano. L’embrione resta un progetto di vita umana al quale l’ordinamento giuridico è tenuto a garantire le condizioni più favorevoli allo sviluppo e alla nascita. In verità la sperimentazione sull’embrione costituisce un esempio tipico in cui si intrecciano i concetti di trattamento strettamente terapeutico e di ricerca non terapeutica. In un contesto terapeutico i medici non possono che esaminare gli embrioni per preservarli in vitro in revisione di un trasferimento ulteriore, e per migliorare il metodo di trasferimento. In un contesto non terapeutico un ricercatore può effettuare ricerche a titolo sperimentale anch’esse per migliorare la salute in generale. Da un lato si desidera arricchire le conoscenze scientifiche per una salute il più possibile perfetta; dall’alto la ricerca ha posto prospettiva che superano la riproduzione naturale. La minaccia più grave proviene dalla manipolazione genetica che può valutazione comune dei benefici e dei rischi per l’uomo il più possibile oggettiva. L’autorità pubblica potrebbe conservare anche un potere di controllo a posteriori, che può tradursi nel potere di autorizzare o meno l’immissione sul mercato di prodotti a rischio connessi alla ricerca biotecnologica. Il rifiuto alla commercializzazione si tradurrebbe in una sanzione amministrativa verso una ricerca finalizzata alle industrie in violazione di regole imperative a garanzia di un ordine pubblico. Infine, il collegamento della ricerca alla società implica di trattare giuridicamente le conseguenze dei legami tra sperimentazione, industria ed economia di mercato. In quest’ambito si presenta il problema circa la concessione o meno di diritti esclusivi di sfruttamento sul vivente scientificamente trattato. La brevettabilità ha assunto un rilievo notevole con l’avvento della tecnologia del DNA ricombinato. Si tratta dei componenti ultimi degli esseri viventi, per i quali la Corte Suprema statunitense ha sentenziato che è possibile chiedere un brevetto su nuove forme di vita create grazie a queste tecnologie. Circa 20 anni più tardi fu approvata la direttiva europea sulla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche con la quale è stata delimitata la materia dei brevetti. È stato affermato che la brevettabilità non può riguardare il corpo umano nei vari stadi della sua costituzione e del suo sviluppo. Il sistema è applicabile alle invenzioni che associano un elemento naturale ad un processo tecnico. Si è trattato di una soluzione non priva di critiche. L’investimento di risorse economiche e umane nella ricerca e l’utilizzo della tecnica delle procedure per l’utilizzo di materiale genetico, giustifica la richiesta di una protezione intellettuale delle invenzioni biotecnologiche. È stato evidenziato come sia fondamentale la brevettazione dei prodotti ottenuti con tali procedimenti, diversamente gli stessi imprenditori non avrebbero interesse ad un produzione. Coloro che si mostrano contrari ad una politica di protezione rigida evidenziano il timore che la brevettazione si traduca in una appropriazione privata degli elementi costituitivi della vita. forse è anche questa preoccupazione ad aver spinto l’UNESCO a dichiarare il genoma umano patrimonio comune dell’umanità. 8. I diritti sul corpo umano: una nuova categoria giuridica Una questione discussa è quella circa il fondamento da dare alla disposizione e all’appropriazione dei prodotti del corpo umano attraverso l’intermediario medico o scientifico. L’espressione diritto di disporre di se stesso può avere come referente: a) il potere di disporre della propria vita; b) il potere di disporre del proprio corpo sia dopo la morte che in vita. con riferimento alla seconda accezione si può osservare come il potere di disporre liberamente del cadavere non ponga delle difficoltà interpretative. Nei confronti del cadavere il diritto reagisce principalmente come se si trattasse di una cosa, che conserva una sua sacralità e impone rispetto in virtù di ciò che rappresentava in passato. Ben diversa è l’analisi giuridica del potere di disporre del vivente (cellule, gameti, tessuti e organi diversi), attribuire a questo potere la qualifica di jus in re comporta identificarlo in un diritto di proprietà e darne una visione priva di quell’immaginazione giuridica tanto auspicata. Altrettanto superato è lo schema che assimila gli atti di disposizione del proprio corpo a donazioni inter vivos o mortis causa. Il collegamento con l’istituto della donazione non sembra tecnicamente corretto. I donatori più che esercitare un diritto a donare il loro sangue, esercitano la loro libertà a vantaggio di un loro simile o della società. Anche la terminologia più attuale non è quella di donatore ma di datore o cedente. Se si vuole conservare un modello contrattuale, bisognerebbe ammettere che, se contratto c’è, non assomiglia ad alcun altro e deve essere riconosciuto come una realtà giuridica sui generis. Tanto più che l’esigenza nell’ambito della sperimentazione non fa scaturire quel principio proprio del mondo contrattuale che implicherebbe l’adempimento delle prestazioni concordate e promesse. Ciò potrebbe spingere a considerare i diritti di disposizione del proprio corpo come appartenenti ad una categoria intermedia tra le libertà fisiche ed i diritti soggettivi propriamente detti. Al preteso diritto di disposizione non corrisponde alcuna obbligazione reciproca. È un diritto senza un vero creditore e se vogliamo privo anche dell’oggetto del diritto perché il copro non è un bene. Sarebbe necessario inventare categorie giuridiche nuove che permettano di qualificare il vivente umano distaccato dalla persona. Capitolo III – I figli del terzo millennio. (pag.107 – 176) 1. Premessa L’utilizzo delle tecniche di procreazione medicalmente assistita è stato fino alla metà del nostro secolo un fenomeno limitato motivo per il quale gli Stati non hanno sentito la necessità di disciplinare tale materia. Il ricorso alla PMA è divenuto poi frequente sia grazie a tecniche sofisticate che hanno portato da una manipolazione conservativa ad una trasformativa, sia grazie allo svilupparsi di una visione più laica della filiazione. Il legislatore italiano non è stato in grado di trovare una soluzione ragionevole fra etiche contrapposte e interessi in conflitto. Solo con la recente L. 40/2004 l’Italia ha regolamentato la PMA optando per un modello fortemente influenzato dalla morale cattolica. In questo campo un intervento giuridico dello Stato è auspicabile per la salvaguardia di principi non certo autodifendibili, è infatti difficile credere, che tutte le parti coinvolte siano spontaneamente protette e siano evitati abusi nei confronti degli altri. I tribunali hanno regolamentato le conflittualità rifacendosi a principi costituzionali, a norme penali, a norme del diritto delle persone e della famiglia, alla disciplina dei contratti, a legislazioni speciali e convenzioni internazionali. Su queste basi il giudice può offrire risposte soddisfacenti solo nel caso di fecondazione omologa. La differenza fra fecondazione omologa è naturale sta nel concepimento: a) lo stato di legittimità presuppone la nascita del figlio dal marito e dalla moglie senza precisare l’obbligo di una congiunzione carnale; b) non sussisterebbero i presupposti di disconoscimento, in quanto non si può parlare di adulterio, né è possibile appellarsi all’impotentia generandi; c) non potrebbe inoltre essere utilizzata l’azione di contestazione di legittimità, non potendosi mettere in discussione il rapporto di paternità o maternità. Sempre con riferimento al nostro ordinamento vale la pena ricordare il disconoscimento del figlio da parte del marito che ha acconsentito all’inseminazione eterologa; il diritto del figlio alla dichiarazione giudiziale di paternità nei confronti del donatore ; obblighi e doveri in capo a quest’ultimo in caso di riconoscimento del suo status; il rischio di accusa di adulterio a carico della moglie; la fecondazione post mortem; l’impianto di ovuli fecondati di coniugi separati; il contratto di maternità surrogata. Su questi argomenti i giudici da un lato si sono assunti la responsabilità di regolamentare il “nuovo”, dall’altra non hanno fornito orientamenti sicuri sulla procreatica per colmare il vuoto legislativo coerentemente. Scartare l’ipotesi di un intervento legislativo significa quindi dare risposte soddisfacenti circa la fecondazione omologa a scapito di quella eterologa. La PMA viene ad assumere dunque un ruolo alternativo alla procreazione naturale collocandosi accanto all’adozione con la quale condivide la realizzazione delle finalità, sarà poi compito del legislatore stabilire se la paternità può essere data solo da una compatibilità cromosomica, se sia opportuno rifiutare l’inseminazione al singolo genitore, vietare la fecondazione post mortem e così via. 2. Dimensioni e finalità dell’intervento legislativo A differenza della scienza il diritto implica una relativa continuità, pertanto il legislatore, deve emanare delle specifiche norme dirette a rielaborare il sistema della filiazione. Nel rispondere ai quesiti di fondo circa la PMA, il legislatore deve tener presente che la nuova normativa diviene una guida per le diverse ideologie presenti nella nostra società. Questa esigenza porta anche ad evitare di prendere posizioni dogmatiche a priori. Si potrebbe infatti essere indotti a sostenere che in tutte le persone esiste un diritto al figlio. Tale diritto porta a considerare la procreazione estremamente rilevante per la dignità, la personalità e la vita stessa dell’individuo. Ma la positive procreative liberty implica che ciascuna persona sia autorizzata a procreare anche senza padre o senza madre. Il diritto incondizionato per il figlio di conoscere le proprie origini presuppone di non tener conto della posizione dei donatori e dei genitori affettivi. Il riconoscimento di un embrione quale essere umano implica che gli embrioni non possano essere artificialmente formati se non con l’obbligo di essere portati a nascita. Queste opzioni sacrificano tanti interessi in favore del’unico che vedono. Sarebbe pertanto auspicabile una valutazione interindividuale dei diritti dei singoli. Invece di arrestarsi su posizioni categoriche, il legislatore deve ricercare delle soluzioni che da una parte tengano conto di una serie di fattori e dall’altra cerchino un punto di equilibrio fra esigenze e interessi in gioco spesso contrapposti. Infine una valida regolamentazione tiene conto anche delle questioni sollevate dai giuristi; per superare le difficoltà occorre elaborare un diritto interno il più possibile in armonia con quello internazionale comune. 3. Il modello giuridico continentale Possiamo individuare due principali indirizzi di politica legislativa: quello del diritto individuale e quello personalista dei diritti fondamentali. Il primo modello pone l’accento sul diritto alla privacy e su un atteggiamento neutrale dello stato; il secondo modello, muove dalla tutela primaria della dignità della persona e dai valori costituzionali già presenti in molte Carte europee. Tali modelli si ritrovano anche nell’ambito della PMA, con soluzioni a volte contrapposte. Il primo indirizzo si traduce in una scelta fortemente individuale, in un diritto di generare (da annoverare fra quelli fondamentali dell’uomo). Ne consegue che la famiglia giuridica si evolve dallo status e che qualsiasi normativa statale che limiti le possibilità di ricorrere a tecnologie riproduttive, sarà intesa come violazione di un principio fondamentale protetto. Il secondo modello considera la PMA un mezzo per favorire la soluzione alla sterilità, all’infertilità o al pericolo di trasmissione di malattie gravi al nascituro. Ciò permette di configurare il fenomeno come intervento medico finalizzato alla realizzazione del diritto individuale alla salute. Alcune scuole di pensiero criticano la visione della fecondazione artificiale come trattamento terapeutico in quanto non vi è una guarigione del soggetto, di qui ci si divide in due direzioni opposte: la prima riporta al modello individualista libertario, la seconda pone rigorosissimi limiti alla PMA considerando l’intervento medico un mero sostegno alla coppia. Tale critica appare poco condivisibile, non a caso la perdita della capacità di procreare, corrisponde ad una lesione gravissima, e l’impotenza può essere motivo di annullamento del vincolo matrimoniale. L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce la salute come:” Uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale non solamente l’assenza di malattia o di infermità”. Si può dunque parlare a) di salute riproduttiva intesa come la possibilità di avere una vita sessuale soddisfacente e sicura con capacità di concepire; b) di cure e terapie riproduttive con riferimento a quel complesso di metodi che contribuiscono al benessere complessivo della persona. L’orientamento prevalente in Europa considera la PMA un intervento terapeutico di cui ci si può avvalere solo in particolari situazioni, a fronte di una patologia della donna o della coppia data da sterilità o infertilità. Tuttavia, le diverse culture giuridiche, hanno portato i Paesi europei a soluzioni diverse circa la misura dell’intervento legislativo e circa gli aspetti più problematici della PMA. Ne sono scaturite politiche legislative diverse fondate sul criterio penalistico, che consente di determinare l’area della liceità; terapeutico, caratterizzato da una serie di limiti ala accesso alle tecniche; liberale, che privilegia il diritto della donna ad accedere alla tecniche procreative; autorizzativo, dove tutto è sottoposto al vaglio e alla responsabilità delle strutture sanitarie. Dalla necessità di trovare soluzioni di equilibrio fra gli interessi coinvolti, le legislazioni si sono mosse per offrire soluzioni, alcune delle quali ampiamente condivise: a) l’ammissibilità dell’inseminazione eterologa al fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o da malattie genetiche trasmissibili al nascituro; b) la presenza di requisiti soggettivi come la maggiore età o l’essere in età potenzialmente fertile; c) il divieto di disconoscimento di paternità da parte del convivente o del marito; d) l’anonimato del donatore o della donatrice salvo casi legati alla necessità di salute del figlio; e) il divieto dei contratti di maternità; f) il divieto della pratica a fini eugenetici; g) il divieto della clonazione procreativa. Alcune legislazioni richiedono che la coppia sia poi unita in matrimonio, negando così il diritto ai singoli o alle coppie omosessuali. 4.1 il valore della volontà individuale Il primo criterio direttivo dominante ai fini di una regolamentazione della materia deve essere quello di riservare molte attenzioni al valore delle volontà creatrici. Questa accentuazione della volontà presuppone che l’accordo dei partecipanti avvenga su basi di libertà, consapevolezza e informazione. In un sistema giuridico come il nostro, che consente una filiazione a favore di un padre o di una madre non biologici, ci troviamo di fronte ad un altro criterio: quello della volontà come fondamento di una filiazione irrevocabile e incontestabile. Il passaggio dal desiderio alla volontà deve operare efficacemente attraverso degli atti giuridici che attestino il consenso della coppia e il riconoscimento del figlio che nascerà. Questi atti costituiscono la prova della filiazione e l’impegno giuridico dei loro autori verso il nascituro. Se si tratta della paternità è chiaro che una volta acconsentito all’inseminazione, non dovrà avere in seguito la possibilità di ottenere il disconoscimento della filiazione. In modo analogo non dovrà essere consentita la della volontà dei diretti interessati e dei risultati connessi alla salute. Limiti e controlli giuridici sono tuttavia indispensabili, un modo abbastanza elementare per risolvere il problema può essere: se la procreazione artificiale viene considerata come un atto medico sostitutivo della mancanza di una procreazione naturale, non vi è ragione alcuna di dover interferire in modo negativo o positivo sul nascituro. Si può però pretendere che i genitori e i medici, siano tenuti ad assicurare nei limiti del possibile la nascita di esseri umani sani. Ma bisogna fare attenzione a non rimanere coinvolti in quella ambizione che avalla effetti perversi e condannabili tra chi nascerà naturalmente nel rischio dell’imperfetto, e chi usufruirà della perfezione data dal progresso scientifico. Pertanto spetterà alla legge confermare che la prevalente finalità della pratica deve essere quella di garantire un progetto genitoriale ad una coppia. Proprio al fine di assicurare il ricorso a tecniche di procreazione artificiale in quanto atto terapeutico e di verificare che esso sia perseguito nell’ambito di condizioni soddisfacenti. Sarebbe inoltre auspicabile che si realizzi in centri o strutture mediche pubbliche. 4.5. La clonazione. Il divieto della clonazione umana può essere in via generale motivato per le stesse ragioni per cui si condanno il progetto dell’eugenismo positivo. Ma le sue finalità, la specificità di attuazione e i risultati richiedono maggiore attenzione verso argomentazioni sostenute con esagerata enfasi per giustificare il divieto. Bisogna tenere ben presente qual è la sicurezza tecnica e scientifica, quali sono i criteri di precauzione da adottare e quali saranno le richieste di utilizzazione da parte della società. Innanzitutto la clonazione di embrioni umani può avere due scopi: uno riproduttivo e l’altro terapeutico. Nel primo caso si tratta di portare a nascita un essere umano geneticamente identico ad un altro. Il secondo caso ha come obbiettivo quelli di utilizzare embrioni a fini sperimentali con obbiettivi terapeutici di lungo periodo, o per lo sviluppo di tessuti a fini di trapianto in un grande ventaglio di patologie. “La clonazione – dichiara la Chiesa – rischia di essere la tragica parodia dell’onnipotenza di Dio. L’uomo non trova limiti alla sua azione, questi limiti deve saperseli fare da soli nel discernimento fra bene e male”. Tuttavia, non va dimenticato, che almeno l’aspirazione ad essere immortali è già insita nell’idea di riproduzione e la clonazione non rappresenta in questo senso qualcosa di nuovo. Ancora ragioni politiche, sociali o personali potrebbero motivare l’uomo verso la clonazione. La fantapolitica ci rappresenta in stati totalitari e dittatoriali non solo il desiderio di clonarsi non solo di colui che detiene il potere, ma anche quello di programmare l’identità biologica in nome di criteri puramente strumentali. Ciò ha evocato il Terzo Reich. Abbiamo altresì letto di ragioni a favore di questa tecnica procreativa avanzata da posizioni9 femministe che vedono il diritto di sopravvivenza della specie e la possibilità di vedere la donna padrona del sistema riproduttivo. Così come possono menzionarsi motivazioni dettate dal desiderio di ritrovare il doppio di chi si ama. Scenari ricollegabili alla salute, forme di sterilità, malattie legate al DNA, sono gli unici che potrebbero realisticamente in campo umano giustificare le applicazioni tipiche della clonazione. Si ipotizza il caso della coppia che non possa avere figli geneticamente ad essa correlati se non ricorrendo alla clonazione vera e propria. Il divieto allo di ricorrervi potrebbe stemperarsi. La clonazione potrebbe inoltre potrebbe apparire assai più desiderabile di altre forme di procreazione assistita eterologa, dato che l’intervento di un soggetto esterno alla coppia sarebbe assente. D’altronde oggi non suonano più strane o scandalose notizie di procreazione di figli con seme congelato del coniuge defunto, nascite obbligate allo scopo di rendere possibile un trapianto di midollo immunocompatibile a favore di altro figlio avuto in precedenza affetto ora da malattia altrimenti intrattabili. Allora la richiesta di clonazione umana potrebbe rappresentare un rimedio nell’ambito della procreazione sia a malattie trasmissibili dalla coppia sia a sterilità. Potrebbe essere pensata come uno strumento utile alla salvaguardia della specie in via di estinzione o di deterioramento. Sappiamo che da una prospettiva strettamente giuridica, la clonazione riproduttiva di un essere umano, è stata in modo univoco oggetto di valutazione negativa e quindi ritenuta illecita dagli ordinamenti legislativi. Una convergenza negativa motivata dal fatto che la riproduzione umana per clonazione si presenta come una minaccia alla sancita sacralizzazione del corpo umano. In particolare il rispetto della dignità umana violata dal determinismo e dalla negazione di autonomia, il diritto alla naturale identità-diversità fisica, il diritto alle modalità delle proprie origini, infine la violazione dell’ordine naturale. Tutti interessi, soggettivi e oggettivi, che si scontrano con gli interessi del soggetto che pretende di ricorrere al procedimento di clonazione, ma che rispetto ai secondi hanno storicamente, culturalmente, eticamente e giuridicamente una maggiore forza ed un ampia tutela. Innanzitutto è bene tenere presente che il clone e la sua fonte non sono biologicamente identici ed è quindi più corretto parlare di somiglianza piuttosto che di identità. Oltre a ciò lo sviluppo psicologico, il modo di sentire, è qualcosa che non dipende dal corpo, ma cresce e si sviluppa in un contesto sociale. Il determinismo genetico è scientificamente falso. Sostenere allora che non bisogna clonare perché il valore di un essere umano sta nella sua differenza rispetto agli altri uomini è affermazione che potrebbe essere ritenuta insufficiente. È come se si sostenesse che dei gemelli omozigoti non sono diversi l’uno dall’altro. Da altre posizioni etiche si è sottolineato che se non è corretto parlare di determinismo genetico, resta pur vero che progettare con la clonazione l’identità genetica di un nascituro, significa sottrargli quell’unicità nella quale trova radice e fondamento il senso che ciascun essere umano ha del proprio io. Ancora dubbi suscita l’idea della clonazione come violazione di un ordine morale della natura. Certamente siamo di fronte ad esperimenti di alta ingegneria genetica che si dispongono al di fuori della legge di natura. Ma la legge di natura, sebbene assuma una posizione molto forte nella cultura occidentale, è certo che non può apparire come argomento sufficientemente forte per affermare che la clonazione riproduttiva umana è intrinsecamente sbagliata. A meno che non si voglia sostenere che sia eticamente sbagliato tutto ciò che modifica il corso naturale della vita. di contro non vanno trascurati i rischi di grave squilibrio psicologico del bambino nel conoscere le modalità del suo concepimento, circostanza che potrebbe fortemente diversificarlo dalle altre nascite. Una forte preoccupazione è data anche dal rischio di una strumentalizzazione del corpo della donna, perché senza dubbio ne verrebbe fatto largo uso nell’ambito della clonazione terapeutica che richiede un’ampia quantità di ovuli umani. Ancor più fondata è l’obbiezione che allo stato attuale della tecnica, l’uomo clonato disporrebbe di un corredo genetico ormai vecchio, tale da pregiudicare le capacità del suo organismo a fronteggiare situazioni biologiche mutevoli nel tempo. Ma p anche possibile ipotizzare che le tecniche potrebbero assicurare in altro modo la verità genetica. Fin tanto che ciò non sarà scientificamente realizzato la clonazione a fini riproduttivi non può che essere vietata. Tanto più che bisogna evitare di cadere nelle tentazioni del business che porterebbero al sperimentazione verso la produzione di replicanti. Piante transgeniche, animali-chimera, maiali con geni umani. Un organismo umano difettoso o incompleto, ma interamente compatibile all’individuo che lo ha generato, può divenire una macabra ma utile ruota di scorta. 4.6. Gli accordi di procreazione o di gestazione nell’interesse altrui. a) Eventuali limiti da porre alla volontà individuale concernono quei casi in cui un’altra donna, rispetto a quella che pretenderà di qualificarsi madre del figlio, si impegni a svolgere il ruolo completo di genitrice o solo quello di gestatrice. Nella fattispecie della madre incubatrice la madre committente può essere qualificata geneticamente come la vera madre perché ha fornito l’ovocita e perché ha concepito; nella fattispecie di madre vicaria invece, è la donna che ha accettato l’inseminazione ad essere madre del bambino perché essa ha contemporaneamente fornito il proprio gamete, portato avanti la gravidanza e partorito il bambino. L’unico elemento comune è che il marito della coppia è sempre il padre naturale del bambino. In entrambi i casi le motivazioni di un tale impegno o accordo sono generalmente due: meramente altruistiche o di lucro. Per una qualificazione giuridica o terminologica si sono utilizzate diverse definizioni: locazione d’utero, contratto di maternità, affitto di ventre. Delle molte e diverse terminologie usate, alcune hanno una valenza immediatamente negativa (locazione d’utero) anche in casi in cui non siano presenti finalità di lucro. Per tanto ritengo più opportuno rappresentare il fenomeno come maternità per conto altrui o maternità surrogata, terminologie che meglio rappresentano la realtà e la solidarietà che a volte lo caratterizza. Gli accordi di maternità surrogata investono valori essenziali quali la libertà e la salute di tutte le persone interessate alla pratica, l’immagine della madre, il ruolo del padre, gli interessi del bambino. Nelle loro legislazioni in materia di PMA Francia, Austria, Germania, Norvegia, Svezia e Svizzera in modo pressoché analogo, hanno dichiarato nullo il contratto con o senza compenso. In Italia, le raccomandazioni dei nostri comitati etici, come la recente legge 40/2004, vietano il ricorso a tale tecnica, riconfermando il principio che la donna che porta a compimento la gravidanza, è a tutti gli effetti ed in ogni caso la madre del neonato. In Europa, il legislatore inglese, ha emanato il Surrogacy Arrangements Act che se da una parte vieta e punisce penalmente lo sfruttamento a fini di lucro della pratica da parte di terzi, dall’altra tollera come non illegale l’attività posta in essere dagli stessi diritti interessati in vista di un accordo di surrogazione. In linea di massima le associazioni mediche hanno raccomandato molta prudenza. b) Coloro che sollecitano l’intervento del legislatore al fine di interdire qualsiasi genere di accordo di maternità, avanzano una serie di motivazioni critiche, in parte anche comuni ad altre situazioni di fecondazione assistita. Essi si possono fino ad ora brevemente indicare: nella depersonalizzazione della sessualità e della maternità; nel principio dell’indisponibilità del corpo umano e dello stato delle persone; del dritto del bambino ad una vita intrauterina e agli aspetti biopsicologici che questa comporta; nell’esigenza di continuità tra questa e le altre fasi della vita; nel timore che il bambino venga considerato come un semplice mezzo di soddisfazione di un desiderio da una parte e dell’altra; nell’interesse del minore messo a repentaglio da una serie di rischi di ordine psicologico e sociale; nel considerare infine la donna come un oggetto gestazionale e commerciale con forti analogie con la prostituzione. A queste critiche i sostenitori di questa tecnica avanzano argomentazioni altrettanto rispettabili. La tecnica risponde ad una domanda ad opera soprattutto di coppie sterili, o di donne inidonee ad avere un bambino, che l’adozione non è in grado di soddisfare. Ci si preoccupa di sottolineare che in nessun caso la madre biologica viene costretta ad abbandonare il figlio da lei nato: dalla sua spontanea volontà viene l’adesione all’accordo il cui oggetto è un dono e non l’abbandono. Altre argomentazioni sono di carattere etico, come quella che il fine ultimo della tecnica è quello di favorire la nascita di una vita umana; altre psicologiche e sociali, come quella che il bambino così nato è un bambino veramente voluto e quindi amato con forte potenzialità verso uno sviluppo positivo. Infine si osserva che non si può rifiutare il fenomeno soltanto perché appare nettamente contrario da una parte al diritto vigente e dall’altra alle concezioni classiche della famiglia tradizionale. Il legislatore potrebbe di contro intervenire positivamente, prevedendo certe condizioni per la liceità dell’operazione. Potrebbero rappresentare modelli di riferimento per i sostenitori della pratica, quelle scelte costituzionali riscontrabili in alcuni Stati USA che pongono soprattutto l’accento sul diritto alla privacy come diritto fondamentale. Oppure quelle opzioni culturali che ritengono che non sia la nozione astratta di right a risolvere i conflitti che questa tecnica determina fra i diversi protagonisti, bensì quella di responsabilità che vede come referente primario la donna che deve ormai distaccarsi dall’ideologia che concepisce i rapporti affettivi e familiari come subordinati al regno pubblico dell’uomo. c) A fronte di etiche e di opinioni contrapposte è possibile domandarsi se in Italia questa tecnica avrebbe potuto trovare una diversa regolamentazione rimanendo coerente alla normativa e ai principi generali che caratterizzano il nostro sistema giuridico. Il nostro diritto porta verso una pronuncia di illiceità dei contratti di maternità, ponendo limiti di ordine costituzionale, civilistico e penalistico. La Carta costituzionale ha affermato: l’infungibilità dei doveri personali ed economici connessi alla potestà dei genitori c.d. di sangue; il diritto del minore di crescere nella famiglia formata da questi e di avere una famiglia sostitutiva solo in caso di oggettiva incapacità dei medesimi; il diritto del figlio all’identificazione dei propri genitori biologici. Sotto l’aspetto civilistico vige il principio che debba ritenersi madre del bambino la donna che porta a termine la gravidanza e dal cui ventre si è distaccato il nato. Pertanto nella fattispecie della madre incubatrice, la convenzione potrebbe essere considerata come un atto di rinuncia anticipata a certi diritti, ma nella fattispecie la rinuncia incontra ostacoli e appare illegale in rapporto al suo oggetto. Inoltre il diritto della madre è indisponibile, il che esclude la possibilità che essi diventino oggetto di libere negoziazioni della volontà umana. Infine la rinuncia della madre ha effetti non solo su di se, ma anche sul bambino. Ancora una volta è soprattutto l’interesse del minore che torna in discussione. Certamente il miglior interesse del bambino raccomanda lo sviluppo di una linea affettiva con la sua vera madre. Al conflitto tra il genitore genetico e quello committente nell’eventualità che il primo non intenda consegnare il bambino, si somma quello del rifiuto da parte della coppia committente e della madre portatrice di accettare il bambino qualora questo presenti malformazioni o carenze fisiche. In entrambi i casi il minore è perdente. L’accordo concluso tra la donna o la coppia committente e la madre vicaria o incubatrice, si presenta sotto un duplice punto di vista, in quanto ha effetti ben precisi sia sul corpo della madre che su quello del nascituro. Per quanto disegno di legge questo divieto può essere giustificato in considerazione dei rischi di natura psicologica che corre il minore. Queste non paiono certo motivazioni sufficienti per penalizzare i genitori che aspirano ad un progetto parentale, considerato che i minori corrono analoghi rischi a fronte di crisi nei rapporti familiari. Inoltre l’idea della preminenza del dato biologico è concezione che può dirsi in via di superamento e che giuridicamente si pone in contraddizione con al legge sull’adozione legittimante. La piena parificazione fra figli legittimi e figli adottati all’interno della coppia è una prova incontestabile della non necessaria corrispondenza fra dato biologico e dato giuridico. Da tempo si parla di diritto del fanciullo, tuttavia, dall’affermazione del preminente interesse del minore si fanno derivare conseguenze inaccettabili. Si pensi al diverso utilizzo di questo concetto da parte della stessa giurisdizione minorile che, identificandolo con il diritto soggettivo del minore, lo rende un principio giuridico ad alto rischio e di ambiguità interpretativa. Ciò spiega il richiamo della dottrina a non confondere i concetti diritto del minore e interesse del minore. 5.6. Il divieto delle indagini genetiche pre-impianto e illogiche conseguenze. L’impossibilità di ricorrere alla fecondazione da parte di quelle coppie non affette da sterilità, si ricollega al divieto delle indagini genetiche pre-impianto. Si tratta di una norma pensata con la volontà di assicurare all’embrione un’assoluta tutela, la stessa riconosciuta alla persona già nata. Ma a fronte di altre normative esistenti tutto ciò appare illogico e contrario alla stessa tutela che si vuole riservare all’embrione. La presenza nel nostro ordinamento giuridico della legge sull’interruzione della gravidanza (L. 194/1978) determina una contraddizione insanabile con al legge sulla PMA. Nasce allora spontaneo domandarsi se il legislatore, data la presenza nel nostro ordinamento della L. 194/1978, distingua dal punto di vista morale, l’interruzione della gravidanza dopo aver diagnosticato nel feto una grave malattia, e la possibilità originaria di non trasferire un embrione effetto dalla stessa malattia, ritenendo quest’ultima ipotesi maggiormente deprecabile. 5.7. Divieto alla madre di non essere nominata. Il D.P.R. 396/2000 art. 30, consente alla madre del nato la facoltà di non essere nominata nell’atto di nascita. L’art. 9 dispone che la madre a seguito dell’applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita, non può dichiarare la volontà di non essere nominata. La ratio di tale disposizioni è che sarebbe contraddittorio che la madre, dopo essersi sottoposta alle pratiche in questione, si dichiari non più disponibile a riconoscere come propria la creatura a cui ha dato la vita. il divieto non può trovare giustificazione a fronte della giusta previsione normativa che vieta l’azione di disconoscimento al coniuge o al convivente che ha dato il suo consenso all’eterologa. Anche in questo caso non si è pensato di porre l’accento solo sul principio del consenso e della buona fede, ma soprattutto sul principio della tutela preminente del minore e del suo interesse ad avere una famiglia bigenitoriale. 5.8. Le insanabili contraddizioni. Oltre alle contraddizioni sulla tutela dell’embrione ve ne sono altre: se l’embrione ha lo status di persona, ne consegue che debba essere sempre e comunque portato a nascita. Tale conseguenza sembra garantita sia attraverso il divieto di crioconservazione e di produzione di embrioni soprannumerari, sia attraverso il loro impianto in modo più o meno spontaneo, nel corpo della donna. La stessa legislazione, tuttavia, sembra non darsi troppa preoccupazione per la realizzazione della nascita anche riguardo quell’enorme numero di embrioni prodotti a seguito dell’utilizzo di tecniche di PMA ritenuto fino a poco tempo fa lecito. Ne consegue che la previsione di una dichiarazione di abbandono e la possibilità di una loro dazione a coppie o a single che li richiedano avrebbe dovuto essere prevista ed anzi incoraggiata. La questione della tutela dell’embrioni si ripropone in considerazione del divieto previsto dall’art. 5 della legge sulla fecondazione post mortem. Ma l’art. 5 nel prevedere che possano accedere alla PMA i coniugi o le coppie, i cui membri siano entrambi viventi, ingenera più di un dubbio sul momento in cui detto requisito debba sussistere. Se si considera che all’interno dell’iter procreativo sono diverse le fasi, è possibile che uno dei componenti venga a mancare quando l’embrione si è formato, senza ancora essere stato impiantato. Ne consegue se si dovesse privilegiare tale principio, si determinerebbe l’obbligo per l’embrione di seguire le sorti del genitore morto. Certamente in contrasto con il principio secondo cui la vita dell’embrione deve essere salvaguardata. Strettamente collegato al problema degli embrioni soprannumerari è l’art. 13 comma 1, che vieta qualsiasi sperimentazione su embrione umano, fatta eccezione per quando si perseguano finalità terapeutiche volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell’embrione stesso. Questa formulazione esclude la possibilità di utilizzare a fini di ricerca medica gli embrioni. Tale divieto non pare compatibile con la libertà di ricerca scientifica sancita dagli artt. 9 e 33 Cost., dubbio non condivisibile se si muove dal presupposto di una personalità giuridica dell’embrione dal momento del concepimento. Da tale scelta consegue che la sperimentazione sull’embrione è considerata identica alla sperimentazione su di un essere umano. 5.9. L’efficacia della legge. L’Europa è ormai lo spazio dei nuovi diritti e in questioni che sfuggono alla sola dimensione nazionale, fra le diverse legislazioni europee è particolarmente sentita e invocata. Contrariamente, limiti disposti in un Paese e non stabiliti altrove determinano un’impari opportunità per i cittadini, perché possono essere aggirati da chi ha denaro per farlo. Per questo motivo da più parti si è denunciato il rischio del c.d. turismo procreativo. Ma la politica perseguita dal nostro legislatore delle mani nette, ha come ulteriore conseguenza quella di non realizzare un diritto utile, nona vendo elevata possibilità di obbedienza spontanea e di applicazione coattiva. Se si escludono le sanzioni previste per coloro che violano il divieto della clonazione, a questo complesso di divieti non ha fatto riscontro un impianto sanzionatorio veramente dissuasivo. Prevalgono pene amministrative, pecuniarie indirizzate a carico più degli operatori e delle strutture mediche che non delle persone. I divieti risultano dunque di scarsa efficacia e le norme si traducono in mere raccomandazioni. Fra i possibili esempi si pensi alla donna che revochi il consenso all’impianto dell’ovulo, il medico non potrebbe sottoporla a trattamento sanitario obbligatorio. 5.10. Conclusione. Il settore della procreatica è dunque fra quelli che maggiormente richiedono per una regolamentazione giuridica un’altra mediazione. Diritto e morale dovrebbero restare sistemi deontici separati. Tuttavia l’esame di qualsiasi legislazione nel campo delle biotecnologie ed in specie nella PMA evidenzia con grande frequenza la confusione fra scelta morale e scelta giuridica. Capitolo IV – Scelte di fine vita. (pag. 177 – 204) 1. Premessa: l’eutanasia fra comportamento attivo e comportamento omissivo. Riguardo al dibattito intorno alle scelte di fina vita, sono soprattutto in gioco il valore della persona con i suoi diritti fondamentali, il valore della vita e della sua integrità, il valore dell’autonomia del medico, i valori fatti propri e sentiti dalla società. Il dibattito sull’eutanasia si traduce in un confronto multidisciplinare su problematiche morali, mediche, giuridiche, sociologiche ed economiche. La morte per ora è rimessa al morente che diventa protagonista del suo congedo dal mondo. Questo è forse uno dei primi contesti in cui va collocata l’eutanasia. Termine con il quale generalmente si intende: un comportamento attivo od omissivo da parte di un terzo finalizzato ad una morte indolore di un paziente affetto da grave malattia irreversibile, senza speranza di vita e con insopportabili sofferenze o incapace ci condurre una vita dignitosa. Possiamo dunque incontrare un consenso espresso, contestuale e consapevole, così come un consenso anticipato e presunto del paziente. Nel secondo caso ha un peso la presenza di dichiarazioni anticipate di trattamento con la figura del fiduciario. Certamente la definizione sottolinea una differenza tra comportamento attivo e comportamento omissivo. L’affermazione secondo cui non vi è differenza morale significativa fra il somministrare la dose letale e il non avviare o interrompere le misure di sostegno vitale, incontra poche opposizioni fra gli studiosi di bioetica. D’altronde se si guarda al risultato finale non vi è proprio alcuna differenza. Anche se si guarda al comportamento è difficile cogliere una qualche differenza essenziale: è certamente attivo od omissivo mediante azione il comportamento di chi stacca il respiratore, proprio come il comportamento di chi somministra la dose letale. Sarebbe dunque inevitabile concludere che nell’uno e nell’altro caso si tratterebbe di un’attiva causazione della morte. Tuttavia la differenza permane. L’omissione, l’interruzione, la somministrazione, appaiono al senso comune comportamenti diversi; proprio questa voluta differenza spiega perché diversi Paesi abbiano ritenuto opportuno legittimare la sola eutanasia passiva o indiretta, e limitarsi a depenalizzare il suicidio assistito. La difficoltà di un’analisi etica e giuridica dell’eutanasia è legata al fatto che essa ha a che fare con la morte voluta dallo stesso soggetto malato, rispetto alla quale l’autore, è coinvolto con un atteggiamento di solidarietà. L’eutanasia sembra intaccare i principi fondamentali della sacralità della vita e del divieto di uccidere. Differenziare allora l’eutanasia attiva da quella passiva, può indurre a ritenere il problema di più facile approccio e con conseguenze meno traumatiche. Eppure, se l’eutanasia attiva appare facilmente riconoscibile, quella passiva presenta non poche incertezze. Tanto più che norme giuridiche e deontologiche sanciscono il divieto dell’accanimento terapeutico. Di contro, consentono l’ampio utilizzo delle cure palliative, della terapia del dolore. Tutto ciò attribuisce ora al paziente, ora al medico poteri decisionali che possono implicare l’anticipazione di quell’evento naturale che è la morte. 2. Il dibattito culturale nell’area religiosa e in quella laica. Oggi non è corretto limitare in astratto l’indagine all’eutanasia attiva e passiva, perché occorre parlare di dignità e qualità della vita, di autodeterminazione, consenso informato, cure palliative, accanimento terapeutico, costi economici, rifiuto sociale della morte. a) La Chiesa cattolica e le religioni monoteistiche, partendo dal concetto che la vita è un dono di Dio, e che l’uomo è solo usufruttuario del suo corpo, ne chiedono il rispetto incondizionato. La Chiesa cattolica traduce l’eutanasia in una violazione della legge divina, in un’offesa alla dignità della persona umana, in un crimine contro la vita, in un attentato all’umanità. I documenti del Magistero offrono un itinerario di assistenza al malato grave e al morente che sia ispirato alla dignità della persona, al rispetto della vita e dei valori della fraternità e solidarietà, sollecitando la società a rispondere con testimonianze concrete alle sfide attuali della cultura di morte. Il principio di autonomia, invocato dalle campagne pro-eutanasia, è ritenuto strumento per esasperare il concetto di libertà individuale, per la Chiesa infatti, l’autonomia personale ha come primo presupposto l’essere vivi. Sebbene il pensiero della Chiesa cattolica si traduca in un principio ostativo di natura religiosa, resta che esso ha non poca influenza nel mondo sociale e politico verso un rifiuto alla legittimazione dell’eutanasia. Nell’ambito del pensiero cristiano e cattolico si possono tuttavia, sottolineare evoluzioni concettuali e linee di pensiero che tendono ad attenuare un approccio tanto rigoroso. In sintesi si sostiene che il Dio misericordioso ha anche lasciato all’uomo che è in procinto di morire, la responsabilità e la libertà di coscienza di decidere il modo e il tempo della sua morte, per una disposizione verso la morte che sia diversa, più serena e degna dell’uomo. La Chiesa valdese ha confutato il concetto della sacralità e intangibilità della vita come rapporto tra Dio e l’uomo, in cui l’uomo non potrebbe intervenire perché significherebbe prendere il posto di Dio. L’etica cristiana deve fornire delle risposte credibili di fronte alla sofferenza e al dolore, senza proiettarli irresponsabilmente in una dimensione di auto-redensione. b) Il secondo concetto di vita, quello personalizzato dell’individuo, che spinge alla depenalizzazione dell’eutanasia è fatto proprio dalle posizioni prevalentemente laiche. Chi muove da una concezione personalistica ritiene che la vita non sia semplice animazione della materia e che questa si identifichi con il rispetto dell’individuo. Pertanto, il problema del’eutanasia non mette in gioco il valore della vita, ma il valore dell’individuo, che in certe condizioni può non ritenersi degno di sé. Scuole di pensiero motivate spingono affinché lo Stato non obblighi i suoi cittadini alla mistica della sofferenza e del sacrificio. Tanto più che quello dell’eutanasia è un problema che si richiama a due concetti laici: il diritto all’autodeterminazione responsabile e la tolleranza verso le diverse scelte delle persone quando non offendono diritti altrui. In merito ai problemi concernenti la vita e la morte, le famiglie filosofiche si mostrano di diverso avviso: alcune sono contrarie alla manipolazione della natura, altre la ammettono. A fronte di questa diversità si promuove il diritto delle singole comunità morali ad operare scelte sulla base dei paradigmi interni che le guidano. Ne consegue che l’autonomia rimpiazza la libertà nel connotare l’atto di scelta responsabile di una persona. Nel caso dell’eutanasia si evidenzia come questa scelta non possa tradursi in un danno a terzi. Si aggiunge che è problematico sostenere che l’eutanasia si porrebbe con certezza in contraddizione con l’inviolabilità del diritto alla vita. Chi sostiene la liceità dell’eutanasia pone la questione se il diritto all’inviolabilità della vita, riguardi al vita altrui o anche la propria e se, in questo caso, comporti anche il dovere di vivere a tutti i costi. Nel modello legislativo dell’Olanda non si rintraccia una valutazione degli interessi in gioco da parte dello Stato; si stabiliscono criteri di accuratezza i quali garantiscono in maniera neutra la tutela dell’interesse a porre fine alla propria vita, affidando la soluzione di tale conflitto direttamente ai soggetti coinvolti. Lo Stato
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