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Riassunto Padoa Schioppa, Dispense di Storia Del Diritto Medievale E Moderno

Storia del diritto medievale e moderno

Tipologia: Dispense

2016/2017
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Caricato il 18/01/2017

Anika94
Anika94 🇮🇹

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Scarica Riassunto Padoa Schioppa e più Dispense in PDF di Storia Del Diritto Medievale E Moderno solo su Docsity! Storia del diritto in Europa Dal medioevo all’età contemporanea Antonio Padoa Schioppa PARTE PRIMA: DALL'ETÀ TARDO-ANTICA ALL'ALTO MEDIOEVO (SECOLI V-Xl) Irruzione delle popolazioni germaniche. Innesto di un complesso di istituzioni e di consuetudini nuove, lontane dal diritto romano. Sino alla fine del secolo XI, entro i regni germanici dell’Europa occidentale il sopravvissuto diritto romano coesiste e si intreccia variamente con le consuetudini germaniche, ovunque messe per iscritto dal VI secolo in poi, per lo più in latino. Contribuisce a trasmettere alla società civile molte regole giuridiche di derivazione romanistica che la Chiesa aveva fatte proprie, ma anche e soprattutto il patrimonio inestimabile della cultura antica greca e romana, trascritto su codici di pergamena da chierici e monaci del medioevo. Dal secolo IX il rinato Impero d’Occidente voluto da un grande sovrano franco, Carlo Magno, crea per la prima volta nella storia le premesse di un’unione politica e giuridica dell’Europa occidentale. La consuetudine domina il campo tra le fonti del diritto. 1. Il diritto tardo-antico Le strutture pubbliche I secoli che intercorrono tra l’età di Costantino (313 d.C.) e l’età di Giustiniano (527 d.C.) hanno conosciuto importanti trasformazioni. Il vastissimo territorio dell’Impero era ripartito amministrativamente in 114 provincie, suddivise paritariamente tra le due parti d’Occidente e d’Oriente. Bipartizione politica, giuridica e amministrativa non impedì che in qualche caso il comando venisse ancora accentrato in un solo uomo (Costantino, Giustiniano). L’amministrazione civile era stata separata da quella militare sin da Costantino, con una scelta radicale che si contrapponeva al principio classico romano della indivisibilità dell’imperium. La gerarchia militare faceva perno sui duces e sui magistri militum, quella civile era ripartita in ben cinque livelli. L’imperatore era il legittimo titolare di tutti i poteri. A lui spettavano le nomine dei governatori provinciali, a lui quelle di ogni altra carica dell’amministrazione civile e giudiziaria, militare, fiscale. A lui era inoltre riservato in via esclusiva l’esercizio del potere legislativo. Legislazione postclassica Il tardo Impero concentrò ogni compito di produzione normativa nelle sole mani dell’imperatore. Il Questore del sacro palazzo (responsabile delle questioni legali) e il Maestro degli uffici (capo della Cancelleria dell’Impero) elaboravano le costituzioni (edicta) che poi, con l’approvazione dell’imperatore, divenivano ad ogni effetto leggi vincolanti nella parte d’Oriente o d’Occidente, quando non in entrambe le parti. A ciò si aggiungeva la funzione giudiziaria, esercitata anch’essa dall’imperatore per mezzo dei suoi giudici centrali. La corte imperiale, attraverso un suo ufficio centrale (scrutinium a libellis) risolveva tali casi emettendo a nome dell’imperatore un rescritto o un consulto, cioè un breve testo nel quale la questione controversa era impostata nei suoi profili di diritto sulla base dei dati forniti da chi l’aveva sottoposta a giudizio superiore. Il rescriptum veniva poi utilizzato non solo per il caso specifico che lo aveva provocato, ma anche per casi simili emergenti in altre parti dell’Impero. Gli imperatori intervennero per vietare che i rescritti predisposti dall’ufficio centrale fossero contrari a norme generali. Ma i rescritti vennero acquistando di fatto un ruolo di natura normativa. Le consuetudini e gli usi, i pareri dei giuristi a ciò accreditati, i senatoconsulti e le altre fonte dell’età classica erano ormai relegati nello sfondo, mentre la sola fonte divenuta centrale nell’evoluzione del diritto era costituita dalle decisioni imperiali nella duplice forma dei rescritti e degli editti di portata generale. La legislazione postclassica e giustinianea intervenne in quasi tutti i campi del diritto introducendo mutamenti profondi rispetto all’età classica (ad es., nel diritto di famiglia, influenza del cristianesimo, attenuazione dei rigori della patria potestà, etc.). Da Teodosio II a Giustiniano Gli interventi legislativi dei secoli IV al VI furono innumerevoli. Esigenza di raccogliere in testi organicamente concepiti il corpus delle costituzioni degli imperatori. Codice di Teodosio II (438 d.C.), Giustiniano. Quest’ultimo ha introdotto regole nuove in tutti i campi del diritto, ma soprattutto egli fu promotore della grande raccolta dei testi alla quale è legata la sua fama. Giustiniano intese creare un’opera che sostituisse ogni altra fonte del diritto e che dovesse applicarsi nella sua integralità da parte dei giudici dell’Impero, senza la facoltà di attingere in futuro ad altre fonti; persino commentarla era severamente vietato. In Oriente la compilazione, integrata con le costituzioni degli imperatori, restò la base del diritto bizantino per quasi mille anni. In Occidente il tentativo ebbe esito precario: mentre l’Italia settentrionale subito dopo la sua morte fu occupata dai Longobardi, solo con la rinascita del secolo XII l’opera di Giustiniano inizierà in Italia e in Europa il suo ciclo vitale, come fonte capitale del nuovo diritto comune. La crisi dell’Impero non fu dunque anche la crisi del suo diritto. 2. Cristianesimo, chiesa, diritto La Chiesa primitiva, organizzazione e gerarchia Affermazione del cristianesimo: valori e regole, influenza sulle istituzioni secolari. L’annuncio evangelico comprendeva una serie di enunciazioni di natura strettamente religiosa, molte delle quali tuttavia comportavano conseguenze dirette o indirette nella disciplina delle relazioni tra gli uomini e nei rapporti dei singoli con le istituzioni secolari (indissolubilità del matrimonio, necessaria gratuità del prestito, etc.). il piccolo gruppo di discepoli di Cristo presentò sin dagli inizi le caratteristiche di un’istituzione dotata di regole. La Chiesa era un’istituzione gerarchica, esigenza di creare un organismo saldo e compatto, in grado di resistere alle spinte devianti di altre culture più radicate. Tra tutti i vescovi, quello di Roma fu ben presto riconosciuto come il principale. Il testo sacro Presenza di un testo sacro canonizzato e reso pubblico in forma scritta, noto perciò a tutti e non solo ai sacerdoti. Studio della Scrittura: veniva utilizzata non solo per intendere i precetti rivelati, ma anche per orientare il comportamento dei fedeli nei casi dubbi e per risolvere le controversie tra i cristiani. Problemi di raccordo tra i diversi brani della Scritture: Agostino: “Le parole divine sembrano contrastanti tra loro, se non ci assiste l’intelletto”. Ragionamento: le dissonanze del testo sacro sono tali solo in apparenza. Il diritto visigotico I primi a cimentarsi nel difficile compito di legiferare furono i Visigoti. Le loro codificazioni furono ispirate al diritto romano postclassico. Solo in una seconda fase la legislazione visigotica assunse maggiore originalità. Liber iudiciorum: si mantenne il codice di impronta romanistica, vengono recuperate le consuetudini di derivazione germanica e si impone il testo così stabilito a tutti i sudditi, senza distinzione di stirpe. I matrimoni misti erano stati ammessi sin dal secolo VI. Nella legislazione visigotica fu sensibile anche l’influenza religiosa ed ecclesiastica e nel Regno visigotico fu composta una delle più importanti collezioni di diritto canonico dell’alto medioevo, la Hispana. Anche dopo che, nell’anno 711, il Regno di Toledo venne abbattuto dalla spinta travolgente dell’islam, il Liber iudiciorum sopravvisse come testo normativo per la popolazione non araba della penisola iberica. La Legge Salica Clodoveo, re del popolo germanico dei Franchi. Promosse l’approvazione ufficiale di un testo di leggi che è tra i monumenti del diritto medievale europeo, il Pactus Legis Salicae. Origine consuetudinaria ma poi messe per iscritto. L’intento è di sostituire l’originaria vendetta o faida con la compositio cioè una sanzione ormai computata in danaro. L’economia che la Legge Salica presuppone è ancora prevalentemente incentrata su un modo di vita non stanziale (ben poco vi è sul possesso immobiliare, nulla sull’occupazione illecita delle terre), con particolare cura per le questioni legate agli animali domestici. In caso di omicidio le composizioni pecuniarie sono differenziate a seconda che l’atto sia stato palese o occulto, che la vittima sia maschio o femmina, un militare di guerra o un civile, un franco o un romano. Consuetudini arcaiche intrise di elementi magici, certamente precristiane, governano anche i rapporti familiari, ad esempio nella responsabilità solidale tra la linea materna e la paterna per le sanzioni pecuniarie. Non mancano segni di interventi normativi dovuti alla volontà del re Clodoveo. Il diritto longobardo Si estese nell’Italia settentrionale e centrale sino a Spoleto e Benevento, ripartito in trenta territori facenti capo ad altrettanti duchi. Nel 643 il re Rotari, assunse l’iniziativa di far codificare le consuetudini del suo popolo, che in precedenza non erano mai state redatte per iscritto. E come già presso i Visigoti e presso i Franchi, la lingua usata fu quella latina. Anche l’Editto di Rotari, come già la Legge Salica, è per gran parte dedicato alla specificazione delle ammende inflitte per ciascun possibile atto illecito, con un’enumerazione analitica dell’ammontare di ciascuna in base alla gravità del danno. Le ammende andavano per metà all’offeso o alla sua famiglia, per metà al re: un segno del carattere ormai in parte pubblico del sistema delle sanzioni. In coerenza con il principio di personalità della legge, Rotari volle che l’editto si applicasse alla sola popolazione longobarda del regno, non ai romani. Tra i mezzi di prova, i solo inclusi sono il duello e il giuramento: l’accusato poteva scagionarsi mediante il “giuramento di purificazione” di dodici sacramentali, cinque dei quali scelti dall’accusatore e cinque dall’accusato: occorreva l’unanimità dei dodici per ottenere l’effetto liberatorio. Nel 712, Liutprando: il re si era convertito al cattolicesimo, e con lui l’intero popolo. L’influenza della Chiesa (consentono la manomissione del servo davanti all’altare, migliorano la posizione successoria delle figlie in assenza di maschi, semplificano la procedura per le donazioni alla Chiesa). Altre norme mettono in evidenza l’influenza del diritto romano: venne introdotto il ricorso in appello al re, sanzionando in misura diversa i giudici autori di decisioni contrarie alla legge e quelle che avessero emesso discrezionalmente decisioni ingiuste. A differenza di Rotari, Liutprando intese di regola legiferare per tutti i suoi sudditi: crisi incipiente del sistema della personalità del diritto, in un’età in cui i negozi tra Longobardi e romani stavano divenendo sempre più frequenti. Giustizia tutt’altro che formale nel suo funzionamento. Sin dal secolo VII risulta che i giudici accertassero i fatti della lite mediante strumenti ben lontani dalle procedure ordaliche del duello e del giuramento: sopralluoghi di esperti e testimonianze raccolte da notai di fiducia del re costituiscono la base delle pronunce in giudizio. Gli Anglosassoni Anche l’Inghilterra, che nella parte meridionale dell’Isola era stata romanizzata in età imperiale, venne conquistata da popolazioni germaniche che si suddivisero il territorio dando vita sino a dieci regni diversi, poi nel corso del tempo ridotti a quattro attraverso guerre e alleanze dinastiche. Gli Angli, i Sassoni, e gli Juti dominarono l’isola dal IV secolo in poi. Il cristianesimo fu portato in Inghilterra dal monaco Agostino (secolo VI): diversi testi di leggi che, a differenza di quelle del continente, sono redatte in lingua germanica e non in latino. Particolare importanza rivestono le leggi emanate dal Re Alfredo (890) che irrogò con larghezza pene severe, inclusa la pena di morte, per i reati più gravi. Inoltre, prescrizioni che rivelano la presenza di rapporti di subordinazione ad un signore. L’assemblea dei grandi del regno per le decisioni strategiche importanti, cosi la suddivisione del territorio in shires, poi contee, con partecipazione dei liberi agli affari giudiziari. Il procedimento è di tipo ordalico, che prescrivono le prove dell’acqua fredda e del ferro per accertare la colpevolezza o l’innocenza dell’accusato. Sotto la guida di Guglielmo il Conquistatore i Normanni riuscirono a impadronirsi dell’Isola. Nasceva il regno normanno d’Inghilterra, e con esso, un diritto nuovo, il Common Law. Ma ancora nel corso del primo secolo del dominio normanno alcune importanti raccolte di testi normativi rispecchiano le leggi e soprattutto le consuetudini prenormanne. 4. L’età carolingia e feudale Strutture pubbliche, regno e Impero Da quando nell’anno 751 Pipino il Breve si sostituì ai Merovingi sul trono dei Franchi, kl rapporto diretto con la Chiesa non solo si mantenne, ma si rafforzò. Già prima, nel 732, gli Arabi avevano subìto la storica sconfitta di Poitiers, in un momento nel quale ci si poteva attendere che l’Islam dalla Penisola iberica dilagasse in tutta Europa. Il figlio di Pipino, Carlo, asceso al trono nel 768, nel corso di oltre quarant’anni portò il Regno franco ad una posizione di assoluta preminenza in Europa. Conquistato nel 774 il Regno longobardo, che venne annesso ai domini del Regno dei Franchi, egli si batté con asprezza con i Sassoni attestando il confine all’Elba e scavalcò i Pirenei giungendo a fronteggiare i musulmani sul fiume Ebro. A queste vittoriose campagne militari si accompagnò una profonda riforma delle strutture interne del regno. Ai conti spettava anche di presiedere le udienze per l’amministrazione della giustizia. Neo processi ai notabili del luogo Carlo Magno affiancò dei giudici semi-professionali (gli scabini). Tuttavia vizi di una giustizia gestita sovente in modo scorretto e prepotenze dei conti nei confronti dei sudditi. Per ovviare a questi mali, Carlo Magno affidò a personaggi di sua fiducia, laici ed ecclesiastici, i missi dominici, il compito di controllare l’operato dei conti attraverso missioni e ispezioni nel territorio. Nella notte di Natale dell’anno 800 il papa Leone III pose sul capo del re dei Franchi la corona imperiale. Rinasceva in occidente l’Impero, in una forma nuova che prese il nome di Sacro Romano Impero per il legame anche formale che sin dall’inizio lo congiunse con la Chiesa di Roma. Piano superiore rispetto agli altri re: il potere imperiale aveva carattere universale. Carlo impose ai sudditi maschi il giuramento di fedeltà, per legarli in modo più saldo al sovrano (rapporto con i sudditi elemento contrattuale). I capitolari Queste ed altre forme furono varate dal grande sovrano con interventi di diversa natura. In parte con ordini diretti convertiti poi in consuetudini non scritte, in parte con atti di tipo legislativo che presero il nome di capitolari: si trattava di leggi scritte, con le quali il sovrano dettava la sua volontà dopo averla espressa a voce in presenza dei maggiorenti del regno. L’oggetto della disciplina normativa dei capitolari è molto vario: giustizia (obbligo di esaminare separatamente ciascun testimone), penali, amministrativi. Ma gli interventi legislativi non furono diretti a sostituire le leggi nazionali e di stirpe, che al contrario Carlo e i successori mantennero in vigore, pur se in parte derogate dalle nuove disposizioni dei capitolari. La Legge Salica continuò a valere per i Franchi, gli Editti longobardi furono conservati per il Regno Italico. Al regno già dei Longobardi Carlo Magno e i successori diedero un regime giuridico separato che si coglie anche nella legislazione: solo alcuni capitolari generali furono estesi all’Italia, mentre altri capitolari vennero destinati specificatamente alla Penisola nella forma di aggiunte e di correzioni alle leggi longobarde. Il feudo, vassallaggio e beneficio Un legame personale stretto per garantire al superiore l’aiuto in ogni circostanza, in particolare nelle imprese di guerra, e all’inferiore una protezione e uno stabile mezzo di sostentamento, realizzato per lo più attraverso la concessione di una terra a titolo di beneficio. Grande varietà di forme. Due elementi: elemento personale + natura pattizia. Alla base società primitiva e violenta, nella quale la garanzia di una relativa sicurezza personale stava spesso nella protezione di un potente. Il carattere personale si manifesta nel rilievo giuridico attribuito al valore della fedeltà. Una fedeltà totale, etica prima che giuridica (origine germanica), ma che si è rivestita di valori cristiani. La rottura della fedeltà (fellonia) costituiva il reato più grave. Il patto veniva stretto con la cerimonia dell’omaggio. Il vassallo poneva le sue mani giunte tra le mani parimenti giunte del suo signore, e rafforzato con il solenne giuramento di fedeltà. Obblighi del vassallo: impegno di aiutare il signore in guerra e di assisterlo con il consiglio nei suoi compiti pubblici, quali la obbligatoria presenza alle assemblee giudiziarie (aiuto e consiglio). Tendenza a rendere permanente il rapporto: ereditarietà del beneficio feudale. Natura pattizia: comportava il consenso libero del vassallo e non la sua incondizionata subordinazione. Persino il vincolo fondamentale dell’aiuto in guerra e della fedeltà poteva lecitamente ritenersi interrotto se la guerra mossa dal signore fosse stata una guerra ingiusta o se il signore avesse agito in modo illecito. La rete dei rapporti feudali divenne via via più fitta allorché a loro volta i vassalli del re legarono a sé vassalli di rango inferiore. Avvenne spesso che il medesimo soggetto fosse contemporaneamente vassallo di due signori: in tal caso il conflitto poteva essere risolto istituendo con uno dei signori un rapporto prioritario, l’omaggio ligio. Il vincolo del vassallo era con il proprio signore, non con il signore di quest’ultimo: il vassallo del mio vassallo non è mio vassallo. Chi si obbligava verso un signore riceveva da questo un beneficio: non solo i frutti, in natura o in denaro, spettavano al vassallo, ma anche diritti di natura pubblica o semipubblica: spesso il sovrano garantiva al titolar sede del tribunale supremo del Regno italico. La lettura delle sentenze sottoscritte da questi stessi giudici, alcune delle quali ci sono giunte, le mostra rigidamente ancorate al Formulario tradizionale. L’Expositio ad Lubrum Papiensem prende in esame centinaia di capitoli di Rotari, Liutprando, Carlo Magno, Pipino e degli altri re italiaci. Di ciascun capitolo, si sforza non solo di esplicitare la portata giuridica, ma anche e soprattutto di raccordare il contenuto con quello degli altri capitoli che trattano la stessa materia, allo scopo di stabilire quale sia la disciplina da applicare, considerando perciò la raccolta come un unico testo di legge. Inoltre, nell’Expositio si trovano centinaia di rinvii specifici ai testi della compilazione di Giustiniano: al Codice, alle Istituzioni, alle Novelle, forse anche al Digesto. L’autore ricorre alla legge romana là dove una questione non trova soluzione nelle leggi longobardo-franche, cioè in caso di lacuna del Liber Papiensis che le contiene: “Dobbiamo credere piuttosto alla autorità della legge romana che alla retorica”. Qui per la prima volta la fonte romana è invocata come “autorità” e considerata prioritaria rispetto ad argomenti meramente logici e dialettici. È da osservare che le tecniche di interpretazione testuali menzionate sono da applicare solo all’analisi degli editti longobardi e dei capitolari (il Liber Papiensis) e non ai testi romani, pur a loro conosciuti. 6. La riforma della Chiesa Posizione severa della riforma cluniacense dell’ordine benedettino. Contro la simonia e il concubinato del clero, sino alla nomina di papi favorevoli alla tesi riformatrice. Con un decreto del Papa Nicolò II del 1059 la designazione del vescovo di Roma venne riservata ai cardinali e sottratta così ai giochi di potere dell’aristocrazia romana. E contemporaneamente una condanna drastica della simonia fu sancita da due sinodi romani: l’acquisto per danaro di una carica ecclesiastica fu considerato un atto di eresia e sanzionato con l’annullamento della nomina e con la degradazione contestuale dell’ordinante e dell’ordinato. La riforma gregoriana Gregorio VII riuscì ad affermare nei confronti dell’autorità suprema dell’ordine temporale, l’imperatore Enrico IV, la preminenza dell’autorità ecclesiastica anche nell’ordine temporale. Il Dictatus Papae del 1075 scolpì la tesi del pontefice: l’autorità del papa veniva affermata con energia non solo nei confronti dell’intera Chiesa, ma anche nei confronti dell’imperatore, che il papa avrebbe potuto scomunicare e addirittura deporre. Gregorio VII, scomunicato l’imperatore che aveva contestato la Chiesa sull’ordine di precedenza delle investiture ecclesiastiche, il pontefice dichiarò i sudditi svincolati dall’obbligo di obbedienza all’imperatore, e solo il pentimento di Enrico IV, costretto a rimanere in attesa per tre giorni davanti al castello di Canossa, indusse il papa a revocare la scomunica. Concordato di Worms (1122): dopo il contrasto che aveva opposto il grande arcivescovo di Canterbury Anselmo d’Aosta, strenuo difensore dell’autonomia della Chiesa, al re d’Inghilterra, che voleva imporre personalmente l’anello e il pastorale ai vescovi di nuova nomina. A Worms si stabilì che le insegne dell’investitura episcopale avrebbero dovuto essere conferite dall’autorità ecclesiastica e che le nomine sarebbero avvenute secondo la procedura canonica. Con la riforma la Chiesa ha rivendicato a sé, e sottratto ai poteri secolari, una diretta legittimazione nelle cose della religione. Al potere secolare viene data diretta legittimazione divina, ma ormai concepite da parte della dottrina come indipendenti dalla Chiesa. Le Collezioni canoniche Età gregoriana e post-gregoriana. La supremazia della curia papale sulle chiese locali e l’autonomia rispetto al potere secolare sono richiamate senza ambiguità. L’importanza della riforma della Chiesa del secolo XI fu di portata storica e la sua influenza fu duratura in Europa, non solo sul piano religioso ma anche su quello del diritto. La riforma segnò una grandiosa vittoria sulla consuetudine. Lo sviluppo successivo del diritto canonico dei secoli XII e XIII è strettamente legato ad alcune scelte operate nell’età della riforma: centralizzazione e supremazia pontificia, autonomia della Chiesa dai poteri temporali, svincolo dalle servitù del sistema feudale, celibato ecclesiastico. Parte seconda: L’età del diritto comune classico (secoli XII – XV) Discontinuità che segna il passaggio dall’alto al basso medioevo (fine XI - inizio XII secolo). La riforma della Chiesa e degli ordini monastici, lo sviluppo demografico, l’estensione delle terre coltivate e l’introduzione di nuove tecnologie agrarie, la reviviscenza del commercio e dell’artigianato, la rinascita delle città e la genesi dei comuni cittadini e rurali, la trasformazione dei rapporti feudali, la formazione di forti strutture monarchiche nell’Italia meridionale, in Francia e in Inghilterra, la nascita della nuova scienza del diritto attraverso un’istituzione, l’università, dedicata specificatamente alla formazione dei tecnici del diritto. Il ciclo delle consuetudini altomedievali si è esaurito: la nuova società europea esigeva contenuti e metodi diversi per la gestione dei rapporti giuridici pubblici e privati. Metodi e contenuti che solo una formazione superiore adeguata poteva assicurare: giuristi di professione. Sorto nella città di Bologna e poi applicate in numerose università italiane ed europee: da una parte il diritto dei rapporti secolari, dall’altra il diritto della Chiesa formarono così, rispettivamente, i due vastissimi complessi normativi del diritto civile e del diritto canonico, entrambi universali ed entrambi “comuni”: perché costituiti da regole e norme superiori e generali rispetto a quelle dei tanti diritti particolari e speciali, propri dei singoli luoghi e dei singoli ordini e ceti in cui la società si ripartiva. 7. I Glossatori e la nuova scienza del diritto Origini della nuova cultura giuridica A talune precoci trasformazioni della documentazione scritta nei negozi è negli atti giudiziari. Vi sono infatti carte di compravendita, di permuta, di donazione in cui compaiono formule prima ignote, che attestano una cultura superiore del notaio rogatario dell’atto. Aspetto fondamentale della nuova cultura giuridica: la citazione dei testi di legge, l’impiego di argomentazioni dotte non costituiscono mero sfoggio di dottrina. Al contrario, questi strumenti sono direttamente funzionali allo scopo di ottenere negozi meglio garantiti e sentenze favorevoli per chi le utilizza. Nuova tecnica fondata sui testi giustinianei. Condizione preliminare: che i testi della Compilazione giustinianea fossero accettati in giudizio e in ogni altra sede come diritto positivo vigente. La compilazione nelle sue quattro parti divenne incontestabilmente diritto positivo senza che alcuna legge nuova lo avesse imposto. Per quali ragioni questo sia potuto accadere si può intuire. Lo sviluppo demografico impetuoso, la rinascita delle città e del commercio, la formazione dei primi comuni, tutto ciò metteva in crisi il sistema delle consuetudini formate nell’alto medioevo. I giuristi pavesi si erano cimentati con l’esegesi degli editti longobardi e dei capitolari. Ma la base normativa sulla quale essi lavorarono non poteva rispondere ai bisogni di una società che stava attraversando una straordinaria mutazione. L’esigenza di un tessuto normativo più adeguato rispetto alle leggi altomedievali di stampo germanico si faceva avvertire con forza. La sua stessa poliedricità si rivelò determinante. La necessità di un impianto normativo adeguato ai nuovi bisogni ha dunque condotto al recupero e all’adozione del Corpus iuris come testo di legge di valore universale. Si richiedeva il sicuro dominio di un insieme di nozioni e soprattutto di un metodo acquisibili solo in lunghi anni di studio: supporto di giuristi professionali. Nasceva così nei primi anni del secolo XII la più antica università europea: un piccolo gruppo di scolari attorno ad un maestro, Irnerio, il quale studiando cominciò a insegnare (studendo cepit docere): binomio inscindibile di ricerca e docenza. I maestri bolognesi: da Irnerio ad Accursio La scuola nata a Bologna ha origini avvolte nell’oscurità. Ma sappiamo che verso la fine del secolo XI un personaggio di nome Pepo aveva dato inizio ad un insegnamento di diritto. Fondatore della scuola fu un altro giurista, Irnerio (giudice e maestro di arti liberali). Il Digesto, il Codice, le Istituzioni e le Novelle vennero studiati nel testo originale, analizzati con straordinaria capacità critica e da lui corredati, ai margini del testo romano trascritto in codici di pergamena, di migliaia di annotazioni (glosse). Le glosse chiarivano in brevi proposizioni il significato del testo, lo ponevano in relazione con altre parti del testo, talora ne discutevano l’applicabilità a fattispecie simili ma non identiche a quelle previste dal tenore letterale della norma. Allievi di Irnerio furono i quattro dottori Bulgaro, Martino, Iacopo e Ugo, vissuti a Bologna nella prima metà del secolo XII. La nuova scienza giuridica aveva attecchito molto presto nella Francia meridionale: ispirati direttamente al metodo dei Glossatori ma dotate di caratteristiche proprie. Viva attenzione per le esigenze della pratica coeva. Altre testimoniano influenza di concezioni originali e di teorie tratte dal diritto canonico, come là dove si invita il giudice a rifiutarsi di applicare una consuetudine ingiusta. A Bologna affluivano ormai studenti da varie parti d’Europa. Altri centri di studio universitario furono Padova, Napoli, Roma, Vercelli, Milano, etc. In Europa: Reims, Parigi, Normandia, Inghilterra, Irlanda, Germania. Summa Codicis di Azzone: esemplare per completezza e chiarezza, restò insuperata nel suo genere: sintetizzava l’intero Corpus iuris seguendo lo schema del Codice giustinianeo: venivano riportate le regole fondamentali in materia contenute, oltre che nel Codice, anche nel Digesto, nelle Istituzioni, nelle Novelle. Corredare il proprio esemplare manoscritto del testo romano con capillari apparati di glosse, che non di rado coprivano l’intero volume. Il lavoro dei maestri precedenti veniva utilizzato dai maestri successivi, che spesso si appropriavano delle glosse altrui, tuttavia integrandone e spesso modificandone le conclusioni. Con il tempo, i manoscritti si riempirono di strati successivi di glosse e l’esigenza di predisporre apparati più leggibili divenne indifferibile. A questo si dedicò Accursio, che diede origine a un gigantesco apparato di glosse (circa 100'000) all’intera compilazione di Giustiniano. Egli riuscì ad incorporare nella sua opera le interpretazioni di ben quattro generazioni di Glossatori. La completezza, la chiarezza, e l’utilità del testo accursiano la fecero designare quale Glossa ordinaria trascritta in migliaia di manoscritti. graziano, il Liber Extra (del 1234, era una raccolta di diritto pontificio) costituì il Corpus iuris canonici, destinato a regolare il diritto della Chiesa. Principi canonistici Nel diritto canonico classico, a differenza di quanto avveniva nel diritto romano comune, una componente legislativa cospicua di “diritto nuovo”, prevalentemente di origine giurisdizionale, integra il patrimonio delle collezioni canoniche antiche. Pluralità di livelli normativi. Simbiosi di fonti strettamente giuridiche e di fonte autoritative ma di origine pastorale, derivanti in buona parte dagli scritti dei Padri della Chiesa (Agostino), che sottolinea la presenza di un sostrato etico- religioso che anima le regole formali del diritto. Vi è d’altra parte la compresenza di regole rigide e inderogabili (in tema di sacramenti) e di un atteggiamento opposto di flessibilità che permette di superare ostacoli altrimenti insormontabili (in tema di ordinazioni sacerdotali). Questo orientamento di flessibilità trova nel concetto di aequitas canonica la chiave per soluzioni assai meno formali di quelle consentite dai diritti secolari. La Chiesa latina si differenzia profondamente dalla Chiesa orientale per il rilievo che in essa assumono le istituzioni e le regole giuridiche. Diritto naturale Genesi come diritto fondamentale del soggetto, cioè riconoscimento di alcune pretese o facoltà che sono la manifestazione dei diritti inalienabili e fondamentali dell’individuo, non passibili di abrogazione da parte del legislatore. Non è un concetto nuovo (già in Cicerone, in Sofocle, ius gentium). Nel medioevo furono in particolare i canonisti a dedicare viva attenzione al significato di ius naturale, superiore al diritto positivo, anche perché lo si identificava con il diritto divino. 9. Diritto e istituzioni Comuni e Impero La formazione dei comuni cittadini nell’Italia del secolo XII ha portato ad una rottura radicale dell’ordine giuridico dei secoli altomedievali, quando nel penultimo decennio del secolo XI talune città iniziarono a eleggere propri consoli e quando, ad essi vennero affidati compiti tipicamente pubblicistici, quali l’esazione dei tributi e la giustizia civile e penale, sdoppiando o ignorando le competenze civili dei conti, dei vescovi, dei giudici di nomina imperiale. Il diritto svolge un ruolo fondamentale in questo processo. I consoli operano all’inizio in veste di arbitri piuttosto che di veri giudici. Solo mezzo secolo più tardi, al termine di una violenta lotta con il Barbarossa, la pace di Costanza del 1183 riconobbe ai comuni la piena giurisdizione e anche la facoltà di vivere in base alle proprie consuetudini: ancora non si autorizzava però l’esercizio della potestà legislativa. Anche quando i comuni ebbero ottenuto dagli imperatori un corposo fascio di autonomie (giurisdizionali, normative, monetarie, fiscali) non per questo il principio di subordinazione all’Impero venne smentito, perché il primato dell’imperatore nell’ordine temporale aveva radici profonde. Dante Alighieri, De monarchia: esigenza di un potere secolare superiore a quello delle città e dei regni, in grado di redimere le controversie senza che queste entità ricorressero alla guerra. Laicità, universalità, sussidiarietà del potere imperiale. All’interno del comune, divisioni di tale violenza da trasformare le città in un ferreo reticolo di famiglie schierate nell’una o nell’altra fazione, in lotta tra loro. Ciò portò nel primo Duecento all’abbandono del consolato e al ricorso ad un potestà forestiero nel tentativo di assicurare maggiore imparzialità di conduzione della cosa pubblica. Gli odi feroci tra famiglie si placavano con la conclusione di paci private, stipulate davanti al magistrato o al notaio. Carattere fondamentale di appartenenza alla città fu lo status di libero. Anche i servi provenienti dalle campagne divenivano liberi una volta stabilitesi nelle cerchia della mura (l’aria della città rende liberi): incentivo alla urbanizzazione. Altrettanto dinamica e innovativa è la struttura dell’economia cittadina: artigiani, mercanti, professionisti. L’ordinamento comunale entrò in crisi nel corso del Trecento: instaurazione delle signorie: in luogo di cariche temporanee ed elettive, si giunse alla nomina vitalizia di un potente locale. 10. Università: studenti e professori Origini e organizzazione: il modello bolognese Già per l’epoca della seconda generazione dei maestri intorno al maestro si raccoglieva a Bologna un gruppo di studenti che formava la sua “Schola”, ascoltandone le lezioni in un’aula situata talora nella sua abitazione. Professore e allievi formavano un gruppo coeso, designato da alcune fonti come “comitiva”. Presto, il numero crescente di studenti che provenivano da regioni anche lontane da Bologna indusse costoro a formare raggruppati per terra d’origine. La struttura giuridica assunta dalle organizzazioni studentesche fu l’associazione di persone, l’”universitas”. A Bologna le nationes nel Duecento si coagularono in due università distinte, ciascuna con il proprio rettore, scelto tra gli studenti stessi e dotato di poteri via via più ampi (giuramento al momento dell’immatricolazione). L’autorità dei rettori si giustifica in quanto occorreva garantire un ordine all’interno della comunità degli studenti. Di qui il difficile rapporto con le autorità comunali, che non potevano ignorare la corposa realtà delle scuole universitarie. La posizione degli studenti all’interno della città fu tutelata dallo stesso imperatore: per Bologna egli emanò un’apposita costituzione che fu alla base di privilegi. Si affermò il principio di autonomia giurisdizionale speciale, gestita dai rettori-studenti per le cause civili e penali nelle quali fosse parte uno studente come convenuto “foro degli scolari”. Problemi di ordine pubblico ma era compensata da ingente quantità di danaro. Crescente domanda di testi giuridici: premessa per una vera e propria industria libraria. Il corso degli studi giuridici I rapporti degli studenti con i professori all’inizio fu di natura privatistica in virtù del quale gli studenti concordavano con il professore tempi e costi delle lezioni. Più tardi furono le sedi universitarie ad assicurare uno stipendio, ma anche quando ciò accadde, gli studenti mantennero con il professore il potere di concordare i modi e temi dell’insegnamento. L’insegnamento iniziava ai primi di ottobre sino alla metà di agosto, con un orario assai pesante. Attività didattica sui testi giustinianei. Preoccupazione di finire l’intero programma. Il corso degli studi non ebbe per molto tempo una durata specifica, ma soleva protrarsi per molti anni. L’educazione giuridica, attraverso i ripetuti ascolti da parte degli studenti, si facevano attivi negli interventi. Solo alla fine del lungo ciclo cominciavano gli esami: lo studente si presentava da un professore a sua scelta per chiedergli l’autorizzazione di sostenere le prove finali. In caso affermativo, lo studente veniva ammesso alla prova a porte chiuse davanti al Collegio dei dottori giuristi “Tremendum et rigorosum examen”. Occorreva poi superare un ulteriore esame pubbliche, che era anche assai oneroso (panni e abiti di pregio in dono ai professori) sino alla proclamazione di Doctor iuris. Il lungo e faticoso addestramento costituiva la via per conseguire non solo il titolo, ma anche le qualificazioni professionali richieste per l’esercizio delle funzioni giuridiche di livello superiore. L’estrazione sociale degli studenti è variegata: accanto ad una maggioranza composta di esponenti di famiglie della borghesia e del patriziato delle città, troviamo rampolli di nobili di tutta Europa; ma anche, non di rado, giovani di famiglie modeste. Canale privilegiato di mobilità sociale. 11. Professioni legali e giustizia Il notariato A partire dal secolo XII non sono più le dichiarazioni dei testimoni a dare all’atto notarile il suo valore probatorio, bensì proprio solo in presenza di certe formalità previste per l’atto (instrumentum), nonché la sottoscrizione autografa del notaio che lo redige. Questa fondamentale innovazione è un prodotto della consuetudine. Al livello legislativo e dottrinale appare in un secondo momento. L’atto del notaio fa piena fede, offre cioè piena prova di ciò che le parti hanno compiuto e dichiarato dinanzi al notaio medesimo, e che solo l’impugnazione dell’atto per falso può rimetterne in discussione il contenuto. Rilevanza probatoria della fede pubblica. Conseguenze fondamentali: certezza dei rapporti giuridici, i negozi privati vengono sottratti ai rischi del tempo e alle incertezze del procedimento probatorio, che gravano sulla prova testimoniale e sulla scrittura privata. Valore direttamente esecutivo di talune categorie di atti rogati dal notaio (le parti se ne possono avvalere durante il procedimento). Il registro nel quale figuravano, in forma abbreviata, tutti gli estremi dell’atto prese il nome di imbreviatura: offriva la possibilità di controllare anche a distanza di molto tempo la corrispondenza di un singolo atto con i testi originali e se ne potevano trarre nuove copie autenticate. Si affermò la prassi che l’imbreviatura avesse valore di prova. Le artes notariae Del tutto verosimile è che il mestiere si apprendesse essenzialmente con la pratica condotta per alcuni anni presso un notaio. Non solo a Bologna, videro la luce formulari notarili (raccolte di formule): mostrano come i notai sapessero sapientemente coordinare regole di diritto romano comune e consuetudini locali, norme del diritto canonico e regole del diritto feudale, senza trascurare gli statuti cittadini. 1219 a Bologna nasce la scuola di notariato. Nuovo genere letterario: il Formulario notarile. Notai, società e poteri Grande il ruolo esercitato dai notai della civiltà comunale. Essi assicuravano la certezza dei rapporti giuridici privati mediante l’instrumentum. Inoltre a loro risale il merito di aver ideato e radicato nella prassi una serie di istituti giuridici nuovi in simbiosi con i protagonisti della vita economica. Onnipresenza del notaio nella società comunale. Minor prestigio del notariato fuori dall’Italia nei paesi con regimi monarchici: riservare la potestà di redigere atti pubblici a pochi corpi privilegiati, o nell’imporre la presenza di un giudice regio munito di sigillo. Ma anche in queste forme, il documento pubblico ebbe ampio riconoscimento. dalla legge, né dalla consuetudine, ma trovi analogie sia nell’una che nell’altra: la legge romana non dichiarava come comportarsi. Revigny ritiene che la preferenza vada data a quella delle due fonti che presenta una somiglianza di disciplina maggiore con il caso in questione. Notevole è anche in Revigny l’indipendenza di giudizio nei confronti della monarchia francese. Da Cino a Bartolo da Sassoferrato L’approccio indipendente e critico degli orleanesi ebbe in Italia un continuatore di spicco, Cino da Pistoia. Introduzione in Italia del metodo che sarà definito la Scuola del Commento. La lettura di Cino era ormai indipendente dalla tradizione accursiana: autonomia di giudizio. Lectio, esegesi testuale (expositio), formulazione di esempi (casus), indicazione dei punti importanti (notabilia), possibili contrasti con punti paralleli (oppositiones), infine la soluzione di questioni. Nessuna di queste operazioni era in sé nuova, ma mutava da un lato la sistematicità dell’approccio al testo, dall’altro il rapporto relativo tra le predette fasi dell’opera dell0interprete (ormai dilatata la sesta fase). Allievo di Cino, Bartolo da Sassoferrato: grande commentatore, doti analitiche, capacità sistemica, senso di giustizia. Egli procede dal certo all’incerto, chiarendo i confini della potestà legislativa in analogia con quelli più facilmente accertabili. Alla luce di queste distinzioni, Bartolo risolve una serie di questioni concrete. Teoria bartoliana sul conflitto tra leggi (alla base di attuali teorie di diritto internazionale): rapporti intercittadini, quali norme statutarie dovevano applicarsi? Bartolo distinse tra contratti, testamenti, delitti; tra statuti permissori e statuti proibitori; tra norme processuali e norme sostanziali; tra diritti rivolti alle persone e ai beni. E per ognuna di tali categorie individuò un’idonea soluzione del conflitto tra statuti di diverse città, nonché tra statuti e diritto comune. A Bartolo risale la teoria che distingue due forme di variazione del valore del danaro, a seconda che sia mutato il peso del metallo (variazione intrinseca >> impone al debitore di pagare secondo il valore del tempo dell’obbligazione) o che ne sia mutato il valore in seguito ad oscillazioni del mercato valutario (variazione estrinseca >> consente di pagare secondo il valore del tempo del pagamento). Le dottrine più influenti e durature non sono più – come lo erano state presso il Glossatori – il risultato di uno sforzo interpretativo delle fonti antiche nelle loro “apparenti” contraddizioni, bensì il frutto di una costruzione concettuale libera e autonoma del giurista, alle prese con questioni nascenti dalla vita quotidiana. Distinguere e suddistinguere, ripartire in sottocategorie la materia: in Bartolo le distinzioni non sono mai il frutto di scelte arbitrarie bensì la meditata risposta del giurista alle esigenze di giustizia e certezza cui deve rispondere la soluzione di ogni problema giuridico, teorico o pratico. Profondità e chiarezza. Lungo un arco di oltre due secoli la Scuola del Commento mantenne in Italia il ruolo dominante della scienza giuridica (Bologna, Padova, Pisa, Perugia, etc.). Gli Studi cercarono di accaparrarsene l’insegnamento perché gli studenti erano attratti dalla fama del docente. Ma l’influenza esercitata nel tempo da alcuni giuristi è soprattutto legata alla redazione di opere scritte, frutto dell’attività didattica ed anche dall’attività di consulente svolta. 13. I diritti particolari L’affermazione del diritto romano nella scuola bolognese non determinò la scomparsa degli altri complessi normativi che da secoli preesistevano in Europa, né impedì la formazione di rapporti giuridici propri di gruppi sociali o di ceti specifici (diritti particolari) o che possedevano una valenza e una vigenza limitati a territori circoscritti (diritti locali). Tra i diritti particolari: - Diritto longobardo - Diritto feudale - Diritto agrario - Diritto commerciale - Diritto del mare Il diritto longobardo Compilazione Lombarda che in Italia continuò ad essere normativa vigente in alcune regioni ove la germanizzazione era stata più intensa e duratura. Anche in talune zone del meridione, come Benevento, dove il diritto longobardo fu considerato un vero e proprio “diritto comune”, integrabile dal diritto romano solo in caso di lacuna. Le differenze tra i due diritti erano raccolte dai giuristi in apposite opere. Per esempio, la maggiore età nel diritto longobardo era ai 18 anni, invece per il diritto romano i 25. Il diritto feudale Genesi nel secolo IX e formazione prevalentemente consuetudinaria, raggiungendo un assetto ben definito solo nel secolo XII. Edictum de beneficiis dell’imperatore Corrado II (1037) che aveva sancito il principio per cui il diritto del vassallo sul feudo a lui concesso doveva configurarsi come un vero e proprio diritto reale stabile e non revocabile da parte del signore se non per colpa, stabilendo inoltre l’ereditarietà dei feudi minori e le procedure per le controversie feudali davanti alla corte dei “pari” del convenuto: è il primo testo che esplicitava in modo preciso e sistematico le principali consuetudini feudali vigenti in Lombardia. Le Consuetudines feudorum vennero poi denominate Libri Feudorum ed entrarono nel quinto volume dei libri legali in appendice alle Novelle. Essi acquistarono il carattere di un vero testo normativo e divennero il testo di riferimento del diritto feudale europeo. Genesi prevalentemente consuetudinaria del diritto feudale. Nei Libri Feudorum, infatti, i riferimenti diretti e indiretti ad alcune costituzioni imperiali, in particolare all’Edictum de Beneficiis sono soverchiati dalle numerose proposizioni che espongono regole nate nella prassi. I diritti rurali Pluralità di discipline giuridiche corrispondenti a ciascuno dei molti status personali nei quali la società di antico regime si ripartiva. La capacità di agire, il regime matrimoniale e patrimoniale, le successioni, il sistema sanzionatorio, tutto era diversamente disciplinato a seconda del ceto di appartenenza. E a ciò si aggiungevano normative specifiche di status riguardanti le donne, il clero secolare e regolare, gli ebrei. Anche dopo la rinascita delle città la grande maggioranza della popolazione europea del medioevo era pur sempre formata da contadini. E il diritto rurale fu per secoli caratterizzato a sua volta da un ampio spettro di status personali: servi, coloni, liberi costituivano solo le categorie principali, con ulteriori situazioni intermedie quanto alla capacità di agire, ai diritti sulle terre, al livello delle autonomie locali. In territori di nuova colonizzazione la concessione di diritti sulla terra avveniva in varie forme da parte del sovrano o del singolo signore. Particolare rilievo presenta la tipologia variegata dei contratti agrari, che disciplinavano diritti ed obblighi dei coloni. Lavoratori di terre di cui non erano proprietari a pieno titolo, i coloni costituivano la categoria di gran lunga prevalente nel mondo rurale. La disciplina giuridica del loro rapporto con il proprietario e con la terra era solo in parte riconducibile ai modelli antichi. Tra le figure più frequenti troviamo il contratto di livello, concluso tra le parti per iscritto (di qui il nome di libellus) con prestazione di un canone annuo in prodotti o in danaro, per una durata in genere di 29 anni accompagnato talora con il diritto per il proprietario di dirimere egli stesso le controversie eventuali con il colono, ad esclusione della giustizia ordinaria. In Toscana e altrove si introdusse alla fine del medioevo il contratto di mezzadria, praticato sino al Novecento, nel quale la metà dei prodotti spettava al proprietario, l’altra metà al fattore, a sua volta incaricato di reperire i contadini lavoranti la terra. Ma le forme e le tipologie contrattuali del mondo rurale erano ben più numerose. Diritti e obblighi sulle terre comuni: i diritti di pascolo degli abitanti del villaggio sui prati e nei boschi circostanti, i diritti di raccolta del legname delle foreste, gli usi civici sulle terre. La misura, i tempi e i modi di esercizio di questi diritti erano determinati consuetudinariamente e potevano variare da luogo a luogo, pur nell’uniformità di fondo dei regimi pastorali. Il diritto commerciale e marittimo Diritto commerciale: nato nelle città medievali italiane e diffuso poi in tutta Europa per rispondere alle esigenze dei commercianti e degli artigiani attivi nella rinata economia urbana. La lettera di cambio consentì di effettuare pagamenti in monete diverse senza necessità di portare con sé, a proprio rischio, ingombranti monete metalliche. La commenda permise ad un uomo di città di affidare ad un mercante merci da trafficare oltremare, suddividendo al suo rientro il guadagno ottenuto. L’assicurazione sulle merci ripartì il rischio di naufragio o rapina. Nati dalla cooperazione attiva del mercante e dell’onnipresente notaio, questi ed altri istituti commerciali si affermarono per consuetudine e furono riconosciuti come validi nelle corti speciali ove si dibattevano le controversie mercantili, cioè all’interno delle corporazioni gestite dagli stessi mercanti. La procedura era in esse semplificata e libera da formalismi. Solo più tardi, a partire dal Trecento, la dottrina giuridica cominciò a farne oggetto di analisi. Non meno importante fu l’elaborazione di regole consuetudinarie sui rapporti giuridici legati alla navigazione marittima e al commercio oltremare. Anche sul fondamento di alcune regole tramandate dal diritto antico dei bizantini e romani, lo sviluppo del commercio per iniziativa delle repubbliche marinare comportò non soltanto l’importazione ed esportazione di merci ma anche l’applicazione di regole sui negozi giuridici che i mercanti concludevano in Oriente e nei mari del Nord. Complesso di regole per la disciplina a bordo delle navi, per i poteri del comandante nei confronti dei marinai, etc. Le norme di diritto commerciale e marittimo furono ripetutamente elaborate in forma scritta. Sia per il diritto commerciale che per quello marittimo il ruolo della consuetudine fu esercitato esportando le norme lungo le vie dei traffici. Ciò consentì di diffondere istituti nuovi (come ad esempio l’assicurazione) anche in terre lontane. ottenerne la messa a frutto. I coloni restavano alla dipendenza del signore adottando le regole stabilite nella carta - Fueros municipali “brevi”: fonte scritta che indicava una concessione di privilegi da parte di un re ad una comunità locale, in genere una città o un borgo. Carte di franchigia con le quali si concedevano agli abitanti alcune libertà di commercio e di organizzazione locale. Non di rado il fuero garantiva i concessionari contro prevaricazioni dei nobili verso i populatores. Queste fonti hanno i caratteri propri delle consuetudini locali. Ma a partire dal secolo XIII si manifestarono tendenze convergenti verso il superamento del particolarismo. Alfonso X di Castiglia è all’origine del testo forse più celebre della storia della legislazione ispanica: il Libro delle Sette Parti (Siete Partidas) composto da alcuni giovano dotti a metà del Duecento. Il suo contenuto normativo è quasi interamente tratto dalle fonti romano-canoniche medievali, dal Corpus iuris alle Decretali e al Libri Feudorum, opera legislativa ambiziosa e non limitata ai confini del regno. Le Partidas non ebbero però applicazione immediata. 15. Il sistema del diritto comune Diritto romano e diritto canonico; distinti livelli normativi all’interno di ciascuno di questi due grandi complessi universali; diritto comune, diritti particolari, diritti locali; statuti e consuetudini. Criteri di coordinamento e integrazione tra le fonti. Equità e rigore Ruolo dell’equità nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme di legge. Aequitas come la virtù che assegna pari diritti a parità di situazioni. Qualificazione divina: Dio stesso è alla fonte dell’equità: questa, se perseguita dall’uomo con costanza, si traduce nella giustizia. Le difficoltà sorsero allorché si trattò di stabilire quale dovesse essere il ruolo dell’equità nell’amministrazione della giustizia secolare. Come di consueto, lo spunto alla riflessione nacque dal contrasto, a prima vista difficilmente componibile, tra due testi di Costantino accolti nel Codice giustinianeo: una costituzione decretava di preferire sempre l’equità rispetto al rigore dello stretto diritto, un’altra attribuiva al solo imperatore la potestà di derimere eventuali contrasti tra aequitas e ius. Bulgaro e successivamente Rugerio distinsero due accezioni del termine aequitas – l’equità scritta e quella non scritta – assegnando ruolo predominante all’equità nell’ipotesti di equità scritta e vietando invece al giudice ogni scostamento dal diritto scritto in nome dell’equità non scritta, che solo il principe può tradurre in precetti di legge. Martino, al contrario, ritenne ammissibile che il giudice stesso, ove ne ravvisasse la necessità, si facesse paladino dell’equità non scritta anche in contrasto con lo stretto diritto: riservava all’imperatore il compito di dettare l’interpretazione autentica e generale, ma non vietava al giudice, limitatamente ad un caso concreto, di anteporre l’equità anche non scritta al rigore del diritto scritto. Fu la tesi di Bulgaro a prevalere ma non significa che la scuola si sia preclusa ogni via al riconoscimento del ruolo dell’equità nei confronti di norme giuridiche ritenute eccessivamente rigide. Al contrario, l’indirizzo dominante mirò ripetutamente ad ampliare i margini della potestà dei giudici, ma scelse una strada diversa da quella proposta da Martino, facendo leva su due principi: sul criterio interpretativo che consentiva di argomentare in base alla ratio legis (sulle intenzioni della legge o sulla motivazione si riconosceva la possibilità di fare appello all’equità anche contro le parole della legge) e sul criterio di considerare regola lo ius strictum ed eccezione lo ius aequum. Da un lato veniva affermato il primato della legge sull’equità non scritta, precludendo ogni argomentazione che facesse leva sull’equità per violare la legge, là dove la legge era formulata in termini espliciti; dall’altro, veniva ritenuto lecito utilizzare lo strumento ermeneutico per argomentare che la volontà del legislatore era stata espressa in modo improprio consentendo il ricorso al criterio dell’equità da parte del giudice anche solo in via eccezionale. Legge e consuetudine Dibattito sulla solutio contrario rum. Le fonti giustinianee offrivano luna doppia risposta: la tesi classica considerava la volontà popolare quale il fondamento comune sia della legge sia della consuetudine così che il livello di vincolatività della consuetudine doveva considerarsi pari a quello della legge e quest’ultima era abrogata da una consuetudine contraria posteriore. La tesi postclassica, invece, sanciva la priorità della legge sulla consuetudine in caso di contrasto tra le due fonti. Per il Glossatori, il ruolo della consuetudine costituiva un enorme problema di portata pratica, oltre che teorica. Una tesi rigidamente restrittiva optò per la tesi postclassica, con supremazia della legge. Una tesi del tutto diversa fu sostenuta da Bulgaro, che optò su una doppia distinzione: tra consuetudini generali – suscettibili di abrogare anche la legge – da quelle speciali o locali. Tra queste ultime, egli distinse l’ipotesi di un loro contrasto inconsapevole con la legge, indotto da semplice errore, da uno consapevole: la legge non è comunque abrogata, ma nel secondo caso la consuetudine prevarrà sulla legge. Il Piacentino criticò questa tesi. Alberico: alla consuetudine venne attribuita la potestà di prevalere rispetto alle norme di legge derogabili (le medesime alle quali ai privati era consentito di derogare con un patto lecito e azionabile dinanzi al giudice), mentre le norme imperative non potevano venire abrogate né derogate da una consuetudine contraria (parificava la consuetudine al patto). Ad Alberico si oppose Giovanni Bassiano, mostrando come l’analogia tra il patto e la consuetudine era soltanto apparente. Una consuetudine generale, viva ovunque, poteva abrogare una legge; una consuetudine locale o speciale non possedeva efficacia abrogativa della legge ma – purché consapevolmente voluta da chi la praticava e non contrastata dal principe – era valida e applicabile nel luogo in cui si era affermata. Con ciò, lo spazio aperto alle consuetudini diveniva davvero amplissimo. Con l’avvallo autorevole della dottrina si instaurava quel rapporto di precedenza delle norme locali rispetto alle norme romane che resterò il punto fermo del diritto comune. Ius commune e ius proprium In talune regioni d’Europa il diritto comune fu recepito attingendo direttamente dai testi giustinianei (Francia droit écrit); in altre regioni, la ricezione medievale del diritto comune avvenne in forme meno dirette (Partidas nella Castiglia di Alfonso X). La questione del rapporto tra diritto comune e diritti particolari e locali fu costantemente presente nella dottrina e fu ampliamente considerata nelle varie opere di dottrina che nei consilia. Per l’Italia dei comuni la regola fu la compresenza e la doppia vigenza dei diritti locali e del diritto comune: il giudice doveva anzitutto applicare lo statuto, integrandone però le lacune con il ricorso al diritto comune. Fa eccezione Venezia: le lacune del diritto scritto della Serenissima dovevano essere colmate ricorrendo, nell’ordine, all’analogia, alle consuetudini locali, infine all’arbitrio del giudice. Scelta: la normativa locale doveva avere la priorità su quella del diritto comune. Molte disposizioni statutarie, soprattutto in ambito privatistico e penalistico, devono la loro genesi all’intento di derogare il diritto comune. La legislazione statutaria poteva integrare o addirittura derogare persino le prescrizioni derivanti dal diritto naturale e dallo ius gentium. Anche i diritti particolari prevalevano sul diritto comune in quanto relativi a persone e a rapporti speciali (come ad esempio per il diritto feudale). Va osservato però che il diritto comune veniva utilizzato con ampiezza per interpretare e completare la materia, pur del tutto estranea all’esperienza del diritto romano. Potrebbe sembrare con ciò che il peso specifico del diritto comune venisse radicalmente sminuito rispetto allo ius proprium locale e anche rispetto ai diritti particolari: ma sarebbe una conclusione errata in quanto in larga parte dell’ordinamento era assente la normativa statutaria perché la disciplina romanistica, integrata dalla dottrina, veniva accettata senza variazioni quale valida base normativa. In secondo luogo, l’interpretazione di molti termini e di molti istituti pur menzionati nello statuto veniva elaborata facendo ricorso alle categorie e alle disposizioni del diritto comune. In terzo luogo, la tesi dominante difesa dalla dottrina e non contestata dalla prassi fu di considerare la normativa dello ius proprium come normativa di eccezione rispetto a quella dello ius commune e, come tale, non estendibile per analogia (tesi confermata dall’autorità di Bartolo). Aequitas canonica Nel diritto canonico il tema dell’equità e dei suoi rapporti con il rigore della legge ebbe un’importanza tutta particolare perché toccava il rapporto tra diritto, giustizia e carità. Ma nel secolo VII Isidoro di Siviglia scrisse che equità e giustizia erano concetti equivalenti, contrapponendoli al criterio meno rigido della indulgenza e della misericordia. E la contrapposizione tra legge ed equità si ritrova poi in pronunce di papi che introdussero temperamenti alla rigidità di alcune regole processuali del diritto romano in nome dell’aequitas. Tuttavia anche molti tra i canonisti sostennero il principio di escludere che in nome dell’aequitas si potesse negare l’applicazione di una norma scritta legalmente valida: per costoro il ricorso al criterio dell’equità era invece legittimo allorché la norma scritta mancava. Per altri canonisti, invece, l’equità costituiva un criterio operante anche nella concreta applicazione della legge canonica: in nome dell’equità il giudice canonico deve preferire la misericordia al rigore. Per tali vie si affermò nel tempo un concetto peculiare di equità, l’aequitas canonica che nel diritto canonico divenne una chiave con la quale molte porte si potevano aprire nell’interpretazione delle norme e negli interstizi dell’ordinamento legislativo. Essa è accolta anche nel Codice di diritto canonico del 1983. I due diritti universali: utrumque ius Diritto canonico: dal regime giuridico del matrimonio alle regole sui benefici ecclesiastici che interessavano fino ad un terzo della proprietà fondiaria, allo statuto personale del clero. La questione dei confini tra diritto comune e diritto canonico era in linea di principio chiara, in quanto il primo regolava la sfera dei rapporti secolari e temporali, il secondo la sfera spirituale. Pur nel rispetto di questa distinzione quando vi fu contrasto tra le due leggi vi era per gli stessi legisti un limite all’osservanza delle leggi civili: queste, pure sul terreno dei rapporti temporali, dovevano essere derogate qualora la loro osservanza inducesse al peccato mettendo a repentaglio la salvezza dell’anima: in tal caso si dovevano preferire i canoni alla legge secolare. Tutt’altro che semplice e si aprirono aspre discussioni (per esempio, qualora un negozio fosse rafforzato da giuramento, perché l’eventuale spergiuro avrebbe messo a repentaglio la salvezza dell’anima). Presso i civilisti la difesa della giurisdizione temporale fu netta. Mentre secondo Cino da Pistoia – che come Dante era fautore dell’autonomia dell’impero rispetto al papato – solo i reati direttamente legati alla religione (per esempio, il reato di eresia) dovevano rientrare nella giurisdizione del giudice canonico, non invece i reati comuni, quantunque anch’essi fossero naturalmente frutto di un peccato. Sulla base dei writs concessi dalla Cancelleria, i giudici nominati dal re diedero vita ad una complessa rete di decisioni. Le decisioni dei giudici del re iniziarono dal 1194 ad essere trascritte in appositi registri, scritti in lingua latina. In più, redazione di Reports, che si deve probabilmente a giovani aspiranti avvocati, e che contengono la rappresentazione dal vivo del dibattimento che si svolgeva davanti ai giudici del re. Le professioni legali Attorneys, potere di rappresentanza processuale della parte da cui erano stati scelti. Le loro scelte processuali vincolavano il mandante. Counters: a loro spettava di esporre in giudizio il caso controverso, illustrando in particolare la fattispecie che aveva indotto l’attore a rivolgersi al giudice. Rapporto di servizio con il re. Mentre sul continente a partire dal secolo XII la formazione superiore dei giuristi avveniva nelle università, i giuristi del Common Law si formavano presso le corti centrali di giustizia. Giovani giuristi in formazione erano incaricati di simulare processi e argomentazioni per addestrarsi alle tecniche del diritto. La giuria Giuria popolare: affidamento a cittadini non giuristi di un ruolo centrale nella decisione delle cause giudiziarie. Sul terreno delle controversie civili, sin dal XII secolo la giustizia del re concesse al convenuto, in una controversia immobiliare, di opporsi alla pretesa dell’attore non già con la prova del duello giudiziario bensì sottoponendo la questione a dodici knights che avevano il ruolo di testimoni (non di giudici). Nel campo penale la giuria ebbe genesi differente: il procedimento per portare davanti ai giudici l’autore di un crimine era esperibile o con l’accusa avanzata dalla vittima dal reato (o dai suoi familiari), ovvero con la procedura per indictment, cioè attraverso l’interrogazione di un gruppo di uomini del luogo ai quali i giudici itineranti della corte regia chiedevano di informarli sui reati che erano stati commessi nel territorio. Chi fosse stato accusato con l’indictment doveva difendersi mediante il duello giudiziario. Anche a colui che fosse stato accusato da un privato era imposto un duello. Ma divenne frequente che l’accusato chiedesse e ottenesse di potersi difendere dal suo accusatore ricorrendo alla testimonianza di dodici vicini anziché al duello. Alla fine del Duecento la giuria era divenuta il modo corrente di procedere sia nelle cause civili che in quelle penali. Il ruolo dei giurati nel processo era quello di testimoni qualificati, non ancora di giudici del fatto. Infine, ai giurati non si richiedeva l’unanimità. La Magna Carta (1215) Coinvolgimento attivo dei sudditi nel regno inglese. Nel 1215 i baroni ottennero, in un momento di crisi dell’autorità regia, il riconoscimento di una vasta serie di diritti, che trovò espressione nella Magna Carta. Questo celebre testo non si limitava a ribadire le libertà della Chiesa e quelle della città di Londra, ma riconosceva le prerogative dei Lords nei confronti dei loro sottoposti, liberi e coloni, in particolare i loro poteri giudiziari. Le ragioni che spinsero all’approvazione del documento furono contingenti: Enrico III, alla ricerca di danaro per le guerre e le spese del regno, fu costretto ad estendere l’alveo dei contribuenti dai quali poteva ottenere risorse e perciò valorizzarne il ruolo. Rappresentanti delle contee e delle città e dei borghi che vennero a far parte del Parlamento attraverso una procedura elettiva e non più per scelta discrezionale dello sceriffo. Potere di rappresentanza pieno: gli eletti non solo deliberavano congiuntamente nel Parlamento, ma la loro delibera vincolava tutti i loro elettori nelle rispettive contee, città e borgate. Parte terza : L’età moderna (secoli XVI-XVIII) La prima metà dell’età moderna presenta cospicui elementi di discontinuità rispetto all’epoca precedente: formazione di strutture statali complesse, poteri del monarca e centralizzazione della giustizia, il ricorso alla formazione statale. Età dell’assolutismo: da un lato svincolo dei legittimi poteri sovrani e statali da ogni subordinazione superiore (Impero e Chiesa), dall’altro la titolarità piena dei poteri di giurisdizione, legislazione e di governo nelle mani del sovrano. A una tale nozione giuridica non corrispose mai un assolutismo effettivo del potere sovrano: perché i contrappesi istituzionali costituiti dalle grandi magistrature, dal patriziato, dalla Chiesa e dalle residue autonomie di origine medievale nella concreta realtà storica temperarono l’assolutismo monarchico. All’attenuazione delle autonomie e al progressivo diradarsi della consuetudine come fonte del diritto si sostituì , con l’autorità forte del re e dei magistrati, un ordine interno garantito dal potere statale. E si attenuò, fino a scomparire, il flagello delle guerre private. Non scomparvero le guerre, ma queste divennero “ragion di stato”. Il sistema delle fonti del diritto divenne ancora più complesso. Ai diritti locali di origine medievale e alle dottrine dei dottori di diritto comune, che la rivoluzione indotta dall’avvento della stampa aveva diffuso in tutta Europa, si aggiungono le normazioni dei sovrani e le decisioni delle grandi Corti di giustizia. 17. Chiese e Stati assoluti Riforma protestante e diritto Riforma protestante e Controriforma, molteplicità delle correnti. Lo stato moderno si afferma. Contrasti tra la chiesa e tra elemento temporale e l’elemento spirituale. Divisioni religiose che si intersecano in modo strettissimo con le vicende politiche e dinastiche. Il distacco dell’Inghilterra dalla Chiesa di Roma si realizzò attraverso una stretta collaborazione tra monarchia e Parlamento. L’affrancamento dell’Inghilterra dalla giurisdizione ecclesiastica romana fu deliberato in forma di legge dal Parlamento inglese, che negli stessi anni riconobbe il carattere “assoluto” del potere monarchico. Sotto il regno di Elisabetta la Chiesa d’Inghilterra assunse il carattere di Chiesa di stato. La riforma protestante diede vita a diverse posizioni teologiche, politiche e giuridiche nei confronti dell’autorità secolare. Lutero fu un risoluto sostenitore del principio dell’obbedienza dei sudditi al sovrano. Ma più tardi altri esponenti sostennero principi diversi, assai più aperti al riconoscimento dei limiti del potere del sovrano. Legame diretto ed esclusivo tra l’individuo e Dio. Pace di Westfalia (1648): la suddivisione tra paesi riformati e paesi cattolici venne confermata sulla base di un diritto fondamentale riconosciuto al principe, anche in materia religiosa, sul proprio territorio. In pari tempo si concedeva una parziale equiparazione civile ai sudditi dell’altra confessione. La Chiesa e gli stati cattolici La risposta più forte della Chiesa di Roma alla crisi esplosa con la Riforma venne con il Concilio di Trento(1550). Riunitisi a tre riprese, i vescovi cattolici giunsero a definire una vasta serie di questioni sacramentali e liturgiche che sancirono il distacco dalle posizioni dei protestanti: tradizione riconosciuta dalla chiesa come fonte autoritativa accanto alla Scrittura, potestà papale di nomina dei vescovi, etc. Inquisizione spagnola: con la caduta del regno di Granada (1492), ultimo caposaldo islamico, la monarchia spagnola accentuò fortemente la politica di unificazione religiosa del regno. Casi di individui sospetti, denunciati localmente o autodenunciati mediante un atto di fede (auto da fé) che garantiva la sostanziale impunità. La Spagna di Filippo II conobbe fasi di acuto contrasto con Roma e mantenne non solo il diritto di controllare l’ingresso e l’applicazione delle bolle pontificie, ma anche il diritto regio di designare i vescovi e i titolari dei più importanti benefici ecclesiastici in Spagna. Inoltre, il potente e temuto tribunale dell’Inquisizione spagnola dipendeva direttamente non già dalla Chiesa di Roma, ma dal sovrano di Spagna. La spinta riformatrice della Chiesa del Concilio di Trento si scontrò inevitabilmente con la tendenza espansiva dei poteri delle monarchie assolute. Teorie della sovranità Niccolò Machiavelli (Il Principe, 1516): concettualizzazione della politica fondata sulle nozioni di virtù, fortuna e necessità: ove la virtù rappresentava non già una dote morale ma la capacità di utilizzare ai fini del potere di governo le opportunità del momento (fortuna), occasionalmente dischiuse nelle maglie ferree dei condizionamenti oggettivi imposti dalle situazioni reali (necessità). Ragion di stato: concepita come criterio oggettivo – e svincolato da considerazioni morali e giuridiche – per l’individuazione delle linee d’azione necessarie o vantaggiose per il mantenimento o l’accrescimento del potere dello stato nel contesto dei rapporti interni e internazionali. La teoria della sovranità trovò invece enunciazione nella monarchia francese: si definisce come un potere assoluto (nel senso che il sovrano non obbedisce ad alcuna autorità e può liberamente legiferare e abrogare leggi) e indivisibile (in un solo individuo, il principe). Anche le idee più chiaramente ispirate all’idea dell’assolutismo contemplavano peraltro una serie di limiti al potere del sovrano. Si possono distinguere almeno tre serie di limiti: derivanti da precetti etico-religiosi vincolanti per lo stesso re; derivanti dalla moltiplicazione di funzioni e organi all’interno dello stato; derivanti da impostazioni del contratto sociale ispirate a principi democratici. Ad un processo che formalizza e giuridicizza il peccato mediante una minuta precisa casistica, si contrappone un processo in certo senso inverso, che sacralizza il diritto, elevando a comando morale i precetti della legge. I poteri del re La formazione dello stato moderno si è realizzata attraverso un procedimento apparentemente contraddittorio: da un lato rafforzando e dilatando le funzioni del sovrano, dall’altro distaccando gli atti e i diritti sovrani dalla persona del re e dalla sua stessa volontà. Questo secondo aspetto si manifesta in due forme: mediante un processo di specializzazione che condusse alla creazione di consigli, di uffici, di magistrature, ciascuno con proprie sfere di competenza; e anche mediante la sottrazione al potere sovrano di poteri. Il ventaglio delle effettive competenze dei sovrani è elevato. Il re svolge la funzione di legislatore emanando norme generali, spesso senza alcun processo vincolante di consultazione; concede Non meno rilevante fu lo sviluppo della dottrina del diritto commerciale, nato nelle città medievali italiane in forma di consuetudine. Solo a partire dal Cinquecento lo ius mercato rum venne affrontato in forma sistematica. Per primo l’avv. Stracca raccolse in un trattato un vasto insieme di questioni relative ai mercanti, al loro status, alle obbligazioni e alle procedure delle corti mercantili; mentre altri temi (quali ad esempio l’assicurazione, la materia cambiaria) restarono fuori dalla sua trattazione, che non mostrava particolari caratteri di originalità se non per il fatto di aver dato configurazione autonoma a questa nuova branca del diritto. Altri autori pubblicarono invece raccolte di materiali tratti dalla loro vita professionale. Un aspetto significativo di questo filone dottrinale consiste nella stretta integrazione tra le consuetudini del diritto commerciale e le categorie della dottrina del diritto comune. Gli autori facevano costante ricorso alle articolate normative romane e alle analisi dei giuristi del diritto comune sulle società e sulle obbligazioni per analizzare e integrare le regole commercialistiche e per risolvere così le questioni che nella pratica professionale e giudiziaria andavano emergendo, non senza rinunciare alle peculiarità di una disciplina nuova. Nel frattempo, la Francia si era dotata di una salda impalcatura legislativa sulla materia commerciale con le due ordonnances di Luigi XIV sul commercio e sulla marina. La scuola di Salamanca Comune estrazione teologica: si tratta di professori non di diritto ma di teologia morale, che scelsero di porre al centro del loro insegnamento profili centrali della problematica giuridica. Muovendo spesso dal commento a quella parte della Summa di Tommaso d’Aquino che trattava del diritto, i maestri di Salamanca non solo affrontarono i temi della giustizia, della legge, del diritto naturale, ma presero in esame analiticamente anche molti specifici istituti dell’ordinamento normativo: ad esempio, le successioni, i singoli contratti. Essi muovevano da premesse di natura teologica, dalle quali derivavano precise conseguenze sul piano della disciplina giuridica dei singoli istituti analizzati, e a scandagliare la congruenza delle norme del diritto romano con i principi del diritto naturale e divino. Novità: i teologi della prima Scolastica non certo ignoravano il diritto; ma i maestri di Salamanca scesero nei particolari della disciplina normativa in misura assai più sistematica. Francisco Suarez, De legibus: volle costruire una dottrina del diritto e della società che consentisse di giustificare le istituzioni e le norme del diritto naturale anche mediante il ricorso ai criteri della ragione e non solo sulla base della rivelazione. Sostenne che il potere di giurisdizione, con al connessa autorità a punire i criminali, era inerente all’esistenza stessa di una comunità, in virtù della ragione naturale, senza la necessità di presupporre un patto né di conferimento di autorità da parte di Dio ma solo sulla base del consenso della comunità stessa. Scuola di Salamanca: avvicinare e analizzare le questioni giuridiche anche nei particolari relativi ai singoli istituti e contratti, sulla base sì del diritto romano comune, ma con il vaglio costituito dai valori e dai principi della teologia. Per la prima volta, dopo secoli di esegesi e di indagini, le norme dei giuristi romani venivano così valutate con un metro per così dire esterno ad esse, che poteva condurre anche al loro rifiuto per ragioni intrinseche: per l’eventuale discrepanza rispetto ai precetti eterni ed immutabili della rivelazione. 20. Dottrina giuridica e professioni legali Ruolo della dottrina e stampa giuridica Il diritto romano-comune doveva la sua straordinaria forza espansiva non solo alla qualità delle sue regole e alla sua completezza, ma anche alla sua polivalenza, oltre che alla sua autorità. L’autorità dipendeva dal collegamento con la carica imperiale, la polivalenza è tipica del Corpus iuris. Inoltre, l’ormai secolare elaborazione di interpretazioni, teorie, metodi, schemi, spunti teorici e pratici offriva un ampio ventaglio di strumenti incomparabilmente più efficaci e duttili di quelli a disposizione dei giuristi rimasti fermi all’applicazione delle consuetudini tradizionali. Di qui il successo inarrestabile dei giuristi professionali formati sui testi del diritto comune. Dottrina dei giuristi: le opinioni dei dottori possiedono e mantengono ancora, nel corso dell’età moderna, il valore di fonte del diritto. Ma dalla fine del Quattrocento in poi una vera svolta si era verificata nei modi di operare e nella tecnica dei dottori, determinata da una rivoluzione tecnologica fondamentale: l’invenzione della stampa. Per il secondo Quattrocento risultano circa 2000 titoli di opere giuridiche edite, e questo numero si moltiplica nel corso del Cinquecento, dove alcune sedi (Lione, Venezia) si affermarono con assoluta prevalenza quali centri dell’editoria giuridica internazionale: il mercato libraio si era infatti esteso all’intera Europa, poiché la lingua internazionale del diritto era ancora il latino. Nell’età precedente non di rado un giurista non poteva permettersi neppure l’acquisto del Corpus iuris glossato; dopo l’invenzione della stampa, invece, anche un professionista non particolarmente facoltoso poteva permettersi di avere a sua disposizione una vera e propria biblioteca giuridica. L’accresciuta disponibilità di testi giuridici comportò mutamenti significativi nel ruolo della dottrina come fonte del diritto. Un ventaglio di opinioni talmente variegato da consentire una latitudine amplissima di argomentazioni in diritto, consentendo interpretazioni limitative o espansive spesso lontane dalla lettera del testo: interpretazioni che pure era lecito invocare in una causa. Communis opinio doctorum Tutto ciò apriva ai giudici, chiamati a decidere sulle allegazioni di parte, un margine altrettanto ampio di discrezionalità. Ne faceva le spese la certezza del diritto, cioè la prevedibilità delle conseguenze giuridiche di un atto o di un comportamento giuridicamente rilevante. Si può allora spiegare perché si siano affermati, a partire dal Cinquecento, alcuni fondamentali strumenti per ovviare a tali inconvenienti. Da una parte il rilievo attribuito alla communis opinio doctorum, dall’altra il peso crescente esercitato dalla giurisprudenza delle grandi magistrature. Il primo metodo consisteva nell’identificare le questioni di diritto sulle quali, nel tempo, una pluralità di giuristi si era pronunciata in sede scientifica, in un trattato, in un consilium. Quando si riscontrasse l’accordo di tutti o della maggior parte dei giuristi su una determinata soluzione della questione in esame, si affermava che su di essa esisteva una opinione comune (communis opinio). E da questa constatazione si faceva derivare la conseguenza che, ove la questione si presentasse in una causa, i giudici dovessero adeguarvisi. È da osservare che questa vincolatività della communis opinio non venne mai imposta per legge, ma si impose poco a poco nella prassi. Il giudice fedele alla communis opinio era esente da ogni rischio di essere accusato e sanzionabile civilmente per errori nelle sue pronunce. La certezza indotta dall’esistenza di una opinione comune non era necessariamente immutabile nel tempo: in un sistema giuridico plurisecolare, una tesi poteva dapprima essere maggioritaria e poi minoritaria. Una precisa scala tra le diverse fonti del diritto comune è espressa alla fine del Seicento dal De Luca nel suo Dottor volgare. Alle decisioni dei grandi tribunali è attribuita la massima autorevolezza, con riferimento però al punto deciso in giudizio, non alle argomentazioni collaterali. Seguono i voti decisivi, cioè i pareri o consilia scritti pro veritate da dottori autorevoli; e quindi, in scala discendente, le dottrine dei grandi Commentatori e infine i consilia di parte e le comparse degli avvocati. Professioni legali: la formazione e l’accesso L’università continuò ad esercitare nei secoli dell’età moderna il suo compito di formazione superiore per coloro che aspiravano ad ottenere l’accesso alle professioni legali. I modi dell’insegnamento non erano uniformi, perché vi erano facoltà giuridiche e professori tuttora aderenti al metodo scolastico del tardo commento (“mos italicus”) mentre altri che si ispiravano all’interpretazione dotta (“mos gallicus”). Svolta aristocratica: le funzioni e le cariche più prestigiose vennero riservate ai membri del ceto patrizio. Ai fini dell’ammissione ai collegi il requisito della cittadinanza già esisteva, ma ora venne esteso sino a comprendere talora un periodo di ben cento anni di residenza della famiglia. Presso i collegi professionali si attivarono corsi di diritto, semplificati rispetto a quelli tradizionali; il conseguimento del titolo dottorale era per questa via alquanto più semplice, anche se i casi difficili e delicati continuarono a venire affidati a giuristi dotati di alta professionalità. Avvocati, procuratori, causidici Organizzazione delle professioni legali: articolazione su più livelli. In Italia al vertice della scala vi erano i collegi dei giureconsulti del patriziato cui spettavano le funzioni – di natura giudiziaria, di consulenza, di difesa – più importanti e lucrative. Di minor prestigio erano gli avvocati forniti sì di titolo di laurea che li abilitava alla difesa, ma non appartenenti all’élite patrizia. Al di sotto di questi operava una categoria di operatori di minor rango (spesso denominati “causidici”) che svolgevano i compiti di rappresentanza processuale con il titolo antico di procuratori e curavano l’accertamento dei fatti inerenti alla causa. I notai mantennero la struttura risalente al medioevo, con le procedure tradizionali di cooptazione, con la “matricola” periodicamente aggiornata degli appartenenti all’arte notarile, con i propri statuti, con una formazione professionale curata dalle scuole interne alla corporazione e distinta da quella universitaria. Infine, vi era la vasta “turba” dei collaboratori e dei praticanti, ausiliari delle categorie precedenti. 21. La Giurisprudenza Corti sovrane e Rote Quanto alle repubbliche, fondamentale riforma legislativa di Genova che nel 1576 stabilì un assetto politico-costituzionale destinato a perpetuarsi per due secoli, sino alla fine dell’autonomia ligure. In Francia il fenomeno dei diritti locali presenta caratteri specifici, legati alla presenza di una forte monarchia. La distinzione tra le regioni meridionali (Pays de droit écrit) e quelle settentrionali (Pays de droit coutumier) risale al medioevo e si mantiene sino alla Rivoluzione. Nel Sud della Francia diverse terre e città avevano messo per iscritto le consuetudini locali in forma di statuto, ma il diritto romano giustinianeo, a differenza dei comuni italiani, mantenne in queste regioni tutto il suo peso quale fonte sussidiaria e integrativa dei diritti locali. Invece i paesi di diritto consuetudinario svilupparono le loro consuetudini ispirate in origine al diritto dei Franchi, ma trasformate nel corso dei secoli per vicende in ogni luogo diverse. Nel 1499 spinta a redazione scritta delle consuetudini, che veniva effettuata dai giudici locali assistiti da pratici: il testo veniva esaminato e revisionato, anche introducendo regole diverse sovente ispirate al diritto romano, da commissari regi. Questa seconda redazione era quindi sottoposta all’assemblea locale che la discuteva e votava il testo. Infine la costume veniva pubblicata e da quel momento era considerata ufficialmente vigente. Tra tutte, la coutume di Parigi acquistò netta priorità. Fu redatta per la prima volta del 1510. Alle soglie della Rivoluzione si potevano contare in Francia circa 400 consuetudini locali. Questa linea fu promossa dalla monarchia. Si arrestò definitivamente, con la redazione scritta, il processo creativo della consuetudine nei settori in cui la normativa si era ormai cristallizzata in un testo. La coesistenza tra diritti locali e diritto romano-comune si mantenne, pur se in modi e gradi differenti, ma cessò l’evoluzione per così dire spontanea dei sistemi consuetudinari che per molti secoli avevano modellato il diritto civile e penale. Fioritura di commenti a singole consuetudini da parte di giuristi di spicco. Un impulso decisivo fu dato da un editto di Luigi XIV con il quale istituiva, tra gli insegnamenti di diritto, anche una cattedra di “droit français”. Legislazioni regie Nell’età dell’assolutismo si afferma un’attività propriamente legislativa dello Stato – cioè il potere di emanare disposizioni vincolanti per l’intero regno che spetta bensì al sovrano in linea di principio, ma viene esercitata mediante il ricorso a procedure differenziate nei diversi Stati. Nell’iter di approvazione delle leggi, i ruoli e le distinte volontà del re, di talune assemblee rappresentative e di talune Corti sovrane talora si sommano, talora si elidono. Varietà dei modi e gli strumenti della funzione legislativa: il ruolo della legislazione regia rimase in questi secoli relativamente marginale, poiché intere branche del diritto, a cominciare da quella del diritto privato, furono lasciate alla disciplina delle fonti tradizionali, ai diritti locali (consuetudinari e statutari), e al diritto comune sul continente, alla giustizia regia in Inghilterra. È dunque corretto sottolineare, accanto agli elementi di discontinuità, la continuità del modello dello “Stato giurisdizionale” del tardo medioevo anche in questi secoli dell’assolutismo. Lo stato moderno conobbe inoltre molte altre disposizioni normative di origine diversa: una folla di gride, di ordini, di capitoli emanati dai governatori provinciali o alle magistrature di nomina regia, oltre che dalle assemblee legislative rappresentative negli stati in cui esse avevano un ruolo. Erano numerosi i soggetti cui spettavano legittimi poteri normativi, all’interno di sistemi costituzionali che ancora non teorizzavano né praticavano la moderna tripartizione dei poteri e delle funzioni. Francia: ciò che vuole il re, lo vuole la legge. Si denominano ordonnances le leggi che disciplinano in via generale uno o più istituti. Le città avevano ormai perduto il potere statutario. La forma giuridica che pone in essere le ordonnances è quella delle “lettere patenti” sottoscritte dal re e munite del sigillo regio. Esse però non entrano in vigore se non dopo essere state registrate dalla Corte sovrana – prima tra tutte il Parlamento di Parigi – competente sul territorio entro il quale esse debbono applicarsi. La verifica delle Corti non è solo formale: se vi sono motivi di opposizione, questi vengono esplicitati e l’ordinanza viene modificata se non addirittura ritirata. L’opposizione delle Corti e la mancata registrazione si verificò in più occasioni, determinando, sul fondamento della piena potestà legislativa del re, incontestata in linea di principio, il ricorso ad altre forme e procedure meno vincolanti, ove la volontà del sovrano potesse esercitarsi senza ostacoli. Alcuni tentativi di sistemazione del ricco complesso di ordinanze regie si ebbero tra la fine del ‘500 e l’inizio del ‘600. Una matura tipologia normativa di tipo codificatorio si affermò invece in Francia nel secondo Seicento, con alcune grandi ordinanze di Luigi XIV; l’impulso per la loro realizzazione si deve al ministro Colbert, il quale era convinto che solo un’opera sistematica di riforma legislativa potesse attribuire alla monarchia quel controllo normativo che le Corti di giustizia di fatto si arrogavano interpretando discrezionalmente le leggi del regno. Ordonnance civile (ridisegnò l’intera disciplina del processo civile), Ordonnance du Commerce. Si è discusso se queste leggi organiche presentino i caratteri propri di un codice nel senso moderno del termine. La sistematicità del loro impianto, l’ampiezza del settore disciplinato, la chiarezza del dettato nella lingua corrente del paese, la cura nell’evitare contraddizioni inducono a una risposta affermativa. Ma manca ancora un carattere fondamentale dei codici moderni, cioè l’esclusione di ogni altra fonte applicabile alle materie disciplinate: le ordinanze colbertine abrogavano ogni altra norma in contrasto con la disciplina, ,a non escludono il ricorso alle consuetudini, al diritto comune, e alla dottrina là dove si riscontrino lacune o quando occorra interpretare i termini presenti nella legge. Persiste con esse, quindi, la struttura a più livelli dell’ordinamento normativo. Stato Sabaudo: la disciplina è tipica del periodo dell’assolutismo, con il tentativo, solo in parte riuscito, di circoscrivere il pero delle Corti nell’iter legislativo e di limitarne l’arbitrio giudiziale, e con la riaffermazione di un sistema penale severo e poco curante dei diritti della difesa. Ma non mancano profili innovativi: le Costituzioni piemontesi introdussero alcune limitazioni alla perpetuazione senza limiti di tempo ai fedecommessi; e stabilirono una scala di livelli normativi che poneva al primo posto, per i giudici, le costituzioni stesse, al secondo gli statuti (purché però approvati dal re e tuttora applicati), al terzo la giurisprudenza delle Corti regie, al quarto il testo della legge comune. Esclusione della dottrina quale fonte normativa: segnale evidente della crisi in cui versava il sistema tradizionale di diritto comune. 23. Giusnaturalismo Giusnaturalismo moderno Non si può parlare di una vera e propria scuola accademica in quanto, anche se accanto ad alcuni profili comuni, ciascuno degli esponenti di questo indirizzo di pensiero si è formato per proprio conto ed esprime idee e posizioni specifiche, tuttavia comune è in questi autori il ruolo centrale attribuito alla elaborazione di una dottrina e di un sistema. Identificare principi e valori del diritto radicati nella ragione, considerata come il fondamento della natura umana. Teologi di Salamanca: i moderni autori della corrente giusnaturalistica ad essi direttamente o indirettamente si richiamarono. Tuttavia, pur con queste radici multiple e profonde, la dottrina del diritto naturale giunse nel Seicento ad un punto di svolta fondamentale. Fu a partire da questo momento che le dottrine giusnaturalistiche entrarono nell’orizzonte visibile della cultura giuridica, influenzandone in profondità lo svolgimento sia nelle trattazioni teoriche dei giuristi sia nei ragionamenti di chi, tra di essi, proponeva per il futuro regole di diritto nuove. Contenuti del diritto naturale: non sono identici nei diversi autori, ma va rilevata una triplice serie di fonti di riferimento presenti nei loro scritti: al diritto romano si affiancano da un lato i richiami ai precetti fondamentali della Scrittura e del cristianesimo considerati nella loro valenza etica, dall’altro il ricorso continuo ai testi letterari, poetici, storici e filosofici dei greci e dei romani. L’impronta umanistica, la familiarità con la cultura antica: ciò non implicava affatto uniformità di idee. Problemi nuovi entro una realtà nuova: il venir meno di una concezione unitaria e coerente della comunità internazionale sotto la duplice suprema autorità dell’Impero e della chiesa in concomitanza con la formazione degli stati dell’Europa moderna; la presenza di stati sovrani in conflitto tra loro per il dominio dei mari; ma anche i contrasti scaturiti dalla scissione religiosa conseguente alla riforma protestante (e guerre di religione). Regole di un ordinamento superiore rispetto agli ordinamenti positivi perché fondato su norme universali e razionali. Comune a molti esponenti dell’indirizzo giusnaturalistico è la teoria di un “contratto sociale” originario, stretto tra gli uomini per raggiungere una condizione di pace e di sicurezza affidandone la tutela ad un sovrano. Un altro profilo comune è di identificare un complesso di principi e di regole di diritto naturale oggettivamente valido perché conforme alla ragione e alla natura umana, atemporale, astorico. Ma non tutti accolgono l’idea che esista un diritto naturale. Pascal: in lui è manifesta la convinzione che il diritto sia da una parte consuetudine, dall’altra comando. Grozio: De iure belli ac pacis (1625) Il fine dell’opera era di identificare una serie di principi generali e di regole fondate sulla ragione, in grado di essere condivise da tutti gli uomini. Da questa esigenza nasce l’enunciazione del principio PACTA SUNT SERVANDA; l’autore ne fa derivare ogni altra regola, a cominciare da quelle che impongono di risarcire i danni arrecati ad altri, di restituire ciò che si è fraudolentemente sottratto. Nel De iure belli ac pacis veniva espressa l’idea che il fondamento del diritto naturale risiede nella natura razionale dell’uomo e non nel comando diretto di Dio. Grozio si contrapponeva all’indirizzo volontaristico, ripreso da alcune correnti del pensiero protestante, che vedeva la radice del diritto naturale nel comando di Dio anziché nella ragione considerata quale vera natura dell’uomo. Il pensiero di Grozio esercitò il suo principale influsso soprattutto nella dottrina del diritto internazionale pubblico: Grozio si propose di individuare una legge comune tra le nazioni, tale da porre argine a questa violenza senza freni. I temi classici del diritto di guerra e del concetto di guerra giusta ricevevano una sistemazione nuova: cosi i capitoli sui prigionieri di guerra, sul bottino, sul valore della parola data tra nemici (fides), si accompagna con l’enunciazione dei possibili temperamenti che le rendano meno arbitrarie e aspre. La maggior parte delle proposizioni di Grozio, inclusa quella sulla validità intrinseca del diritto naturale, derivano dal pensiero della Scolastica spagnola. Può allora sembrare fuorviante ritenere Grozio fondatore del moderno giusnaturalismo; tuttavia, l’impianto complessivo delle sue opere è originale e su molti punti le formulazioni del pensatore olandese introducono elementi nuovi. Inoltre, Grozio ha saputo riproporre temi già presenti nel pensiero scolastico con il corredo di una cultura diversa da quella medievale, perché largamente ispirata alle fonti classiche valorizzate dall’umanesimo. Hobbes: De cive; il Leviatano Da un originario “stato di natura” in cui ogni uomo si trova a lottare con gli altri uomini per soddisfare i propri bisogni vitali, l’individuo e la collettività possono uscire soltanto rinunciando unilateralmente ad ogni diritto autonomo e affidando la somma di tutti i poteri – non solo il potere di governo e la giustizia, ma anche il potere di fare le leggi – ad un unico soggetto, il sovrano, che è dunque per ciò stesso “assoluto”: una teoria che contrasta con quella del “contratto sociale” in quanto il sovrano non si assume alcun obbligo e i sudditi non mantengono per sé alcun diritto. E ciascuna tesi l’autore discute approfonditamente le tesi degli interpreti precedenti, per procedere in autonomia di pensiero suggerendo interpretazioni originali e attentamente calibrate. In questo lavoro di scavo, condotto direttamente sui testi della legge, risiedeva per l’Averani l’essenza del compito del professore universitario nella formazione del futuro giurista. Francia: Pothier Magistrato di Orléans: fu autore di un celebrato commentario alla Coutume di Orléans, poi riveduto e integrato nel 1760, che ne evidenziava con chiarezza le affinità con le altre consuetudini nell’intento di delineare il “diritto comune consuetudinario francese”. La fama di Pothier è però legata ai numerosi trattati di diritto privato – sulla proprietà, sui diritti reali, sulle successioni, sulle obbligazioni – nei quali seppe coniugare in modo magistrale la disciplina del diritto comune di radice romanistica con gli elementi più validi della tradizione consuetudinaria francese. Là dove le consuetudini disponevano una disciplina loro propria, Pothier le prende a fondamento della sua trattazione. Ma integra tale disciplina, in casi dubbi non risolti dal testo delle coutumes con il richiamo alle regole tratte dal diritto romano. Doti di chiarezza, impiego sapiente della lingua francese, intento semplificatore e unificatore. 25. Il sistema delle fonti Diritti locali e diritto comune Legislazione degli stati, consuetudini locali, statuti cittadini e corporativi, diritto feudale, diritto romano comune, diritto canonico, giurisprudenza dei grandi tribunali: dal ‘400 al ‘700 sino alle codificazioni moderne, queste e altre fonti del diritto coesistettero sul continente in un intreccio estremamente complesso, in parte anche differenziato nei diversi Paesi. Dualismo tra diritti locali e particolari da un lato, e diritto comune dall’altro. Si può includere nel primo bacino tutto ciò che è locale (statuti, consuetudini) o particolare (diritti di ceto, norme feudali), mentre nel secondo gruppo entrano non solo le leggi romane e, per i paesi cattolici, le leggi della Chiesa, ma anche le dottrine dei dottori che direttamente o indirettamente richiamano il diritto romano. Questo dualismo assume tuttavia un carattere molto diverso in alcuni stati del continente ormai dotati di strutture monarchiche stabili e consolidate. L’elemento di novità è l’ingresso di un terzo elemento, la normazione dello stato. I sovrani legiferano ormai con autorità piena in molti campi del diritto. Questa priorità non è nuova: basti rammentare che già nel medioevo le ordinanze del re di Francia, gli statuti inglesi dei Normanni, avevano ricevuto espressamente la priorità sui diritti locali e sul diritto romano comune. Ma nell’età moderna il ricorso alla legislazione regia diviene assai più frequente. Il binomio si tramuta in un trinomio: leggi regie e norme dello stato, diritti locali e particolari, diritto comune. Questa è anche la gerarchia più spesso accettata negli ordinamenti. La legislazione regia era ad un tempo diritto comune rispetto ai diritti locali e diritto particolare rispetto al diritto romano comune: problemi non facili quanto alle regole di interpretazione della legge. La legge emanata dal re veniva interpretata come diritto speciale, attingendo in caso di lacuna al diritto comune. Se questo è il principio generale, la prassi giurisprudenziale si orientò spesso in modo diverso. L’esercizio della giurisdizione attribuì alle supreme magistrature un ruolo importantissimo nel sistema delle fondi e delle regole giuridiche. All’interno dell’ordinamento in cui la Corte aveva la funzione di giudice d’ultima istanza, le sue pronunce pesavano in misura determinante anche sull’indirizzo giurisprudenziale dei giudici inferiori: la Corte superiore finiva per prevalere sui livelli inferiori, che non gradivano veder sovvertita in ultima istanza la loro decisione. Quanto al rapporto tra decisioni delle Corti e normativa, un filone della dottrina ritenne che la Corte sovrana, in quanto titolare del potere del re in materia di giustizia, potesse anche decidere in deroga. Il sistema delle fonti Italia Negli Stati italiani l’applicabilità del diritto comune – quale normativa sussidiaria per colmare lacune e ambiguità dei diritti locali – era indiscussa e generale. Il diritto comune costituiva la normativa di riferimento nell’interpretazione degli statuti ad esso conformi (“secundum legem”) e di quelli ad esso estranei (“praeter legem”), ma non per gli statuti contrari al diritto comune stesso (“contra legem”). Eccezione di Venezia, che non aveva incluso il diritto comune tra le fonti ufficiali, lasciando i giudici liberi di giudicare discrezionalmente nei casi in cui gli statuti e le altre disposizioni normative della Serenissima non contenessero le norme atte a risolvere una questione specifica. L’onnipresenza del diritto comune civile e canonico, la capillare persistente realtà dei diritti locali scritti e la crescente importanza del diritto regio non hanno fatto venir meno in Italia, nel corso dell’età moderna, la rilevanza delle consuetudini. In ogni campo del diritto civile, commerciale, penale la consuetudine ha mantenuto il suo ruolo. Requisito della razionalità che si esigeva per la validità di una consuetudine: requisito strettamente connesso con valutazioni di ordine etico e religioso. Essenziale era in concreto, per l’effettiva incidenza e applicazione della norma consuetudinaria, il potere di valutazione del giudice, il suo arbitrium. Quanto agli statuti, era pacifico che il diritto principesco o regio avesse la priorità su di essi, e che il diritto comune venisse in gioco in terzo e ultimo luogo in caso di lacuna della normativa locale, non altrettanto pacifico fu il peso da attribuire allo statuto della città dominante rispetto agli statuti delle altre città. Francia La Francia aveva ammesso sin dal ‘300 la legittimità dell’uso del diritto romano nei Pays de droit écrit della parte meridionale del regno, sia pure solo a titolo di consuetudine generale per non offrire un riconoscimento neppure indiretto nei riguardi dell’autorità imperiale germanica, che considerava il diritto giustinianeo come il proprio diritto. Al diritto comune venne dato sempre maggior peso, anche perché le consuetudini locali non romanizzanti nel Sud della Francia spesso non erano sfociate in redazioni scritte che preservassero la temibile concorrenza del diritto romano, come era invece avvenuto nell’Italia comunale. Inoltre si affermò la prassi di chiedere al re, in taluni casi, delle “lettere di rescissione” che avevano l’effetto di annullare specifiche clausole contrattuali con cui le parti avevano rinunciato ad avvalersi di norme del diritto romano. In tali casi, il diritto romano, già escluso, tornava ad applicarsi. Il diritto romano venne applicato quale diritto sussidiario in caso di lacune della consuetudine Nelle regioni del Centro e del Nord del Paese le consuetudini ebbero invece piena vigenza. Alle lacune delle coutumes locali si poneva rimedio ricorrendo alle consuetudini delle provincie vicine e in ultima istanza a quella di Parigi, alla quale si rapportava la giurisprudenza autorevolissima del Parlamento parigino. La relazione tra le consuetudini particolari e locali (ad esempio in tema di diritto feudale) e la consuetudine generale della regione era in relazione di sussidiarietà, nel senso che a quest’ultima si ricorreva per supplire alle lacune delle prime. Tuttavia, per talune materie (ad esempio, in tema di successione nel feudo), considerate di pertinenza del diritto pubblico, si ritenne che la consuetudine generale non potesse venir derogata dalla consuetudine locale. L’autorità delle consuetudini fu tale che anche dopo la loro approvazione da parte della monarchia, le consuetudini mantenevano la loro matrice e la loro qualificazione di consuetudini pur avendo ricevuto il sigillo dell’approvazione regia. E una parte non esigua della dottrina ritenne che neppure la legislazione del re – nella forma richiesta dalle ordonnances, con la registrazione del Parlamento di Parigi – potesse di norma contravvenire alle consuetudini se non per cause di massima importanza e comunque esplicitando che l’ordinanza doveva valere anche in presenza di consuetudini contrarie. Un ulteriore limite al potere legislativo del re fu costituito da un nucleo ristretto di principi, qualificati dalla dottrina come “leggi fondamentali del regno” che si ritennero inderogabili in quanto fondati su una tradizione ininterrotta (successione al trono dei soli maschi primogeniti): anche all’età dell’assolutismo, al potere normativo del re venivano dalla dottrina coeva posti alcuni limiti, fondati principalmente sulla tradizione. Anche nei paesi di diritto consuetudinario il diritto romano ebbe peso rilevante, quale normativa residuale alla quale si poteva sempre far ricorso in caso di bisogno perché considerata di alta qualità e conforme alla ragione, alla giustizia e al diritto naturale. Germania Anche in Germania, università dotate di facoltà giuridiche: oggetto esclusivo dello studio universitario erano il Corpus iuris civilis e il diritto canonico. È dunque naturale che questi giuristi tendessero a privilegiare schemi regole e metodi appresi sulle fonti del diritto comune. Progressiva affermazione di questo complesso normativo, contestualmente all’indebolirsi della forza vincolante delle consuetudini, non sempre chiare e spesso lacunose. Vi furono, specie all’inizio, forti resistenze nei confronti del diritto romano. Anche sul terreno religioso, con l’accusa rivolta ai giuristi di essere dei “cattivi cristiani”; i ceti rurali, composti da coloni che vivevano sulle terre di un signore, preferivano attenersi alle consuetudini, a loro più favorevoli, rispetto alla disciplina romanistica che esaltava i diritti del proprietario. E così pure in un primo momento si oppose il ceto feudale, che con il sovrano intratteneva un rapporto contrattuale ben diverso dal rapporto di subordinazione dei sudditi dell’Impero bizantino. Ma la recezione del diritto romano avvenne ben presto. La posizione di preminenza del Tribunale camerale rispetto ai tribunali locali potenziò enormemente il ruolo del diritto comune come diritto effettivamente vigente applicato nei territori germanici. Ciò non significa affatto che ogni altra fonte normativa sia stata accantonata: il diritto delle città prevaleva sul diritto del principato territoriale in cui la città era inserita e quest’ultimo prevaleva sul diritto comune. A loro volta, le norme dell’Impero prevalevano su tutte le altre. Le consuetudini locali germaniche non erano respinte, anzi avevano ancora priorità rispetto al diritto comune, ma di fatto in molte circostanze non erano facilmente documentabili e, in caso di lacuna, era il diritto comune a prevalere. Crisi del diritto comune e diritto patrio Straordinaria molteplicità delle fonti e difficile incastro su vari piani normativi: crescente crisi del diritto comune. Emersione di ciò che si è venuto chiamando “diritto patrio”: all’interno di ciascun ordinamento permangono in vita i diritti locali e particolare di origine medievale, statuti, consuetudini, regole feudali e altri diritti specifici. In ciascun ordinamento vigono norme di legge di origine regia. In ciascun ordinamento le sentenze dei grandi tribunali hanno autorità come fonte semivincolante per i giudici inferiori. In ciascun ordinamento, si fa ricorso al diritto romano comune per integrare, interpretare, considerando però ormai questo diritto per lo più come un diritto di ragione più che un Il contratto: “Assumpsit” Sul terreno del diritto privato, nel secolo XV, venne applicato a talune figure contrattuali lo strumento dell’Assumpsit (cioè, l’inizio dell’esecuzione dell’obbligazione), un writ che estendeva all’inadempimento di un’obbligazione previamente assunta la tutela che era assicurata alla vittima di un atto illecito attraverso il writ of trepass. Decisione storica nel 1602: ogni contratto che impone prestazioni importa in se stesso un Assumpsit, perché chi si accorda di pagare una somma o di consegnare una cosa, per ciò stesso si assume l’impegno a pagare o a consegnare una cosa. Sicché se era provata l’esistenza di un accordo, l’Assumpsit si doveva presumere, senza necessità di provarlo. I Reports La trascrizione dei dibattimenti processuali proseguì nel Cinquecento. Con l’avvento della stampa cominciarono le edizioni cumulative di Year Books dedicate dapprima ai due secoli di giurisprudenza precedenti. Frattanto dall’inizio del ‘500 si andò modificando lo stile dei Reports, in quanto assunsero via via più importanza i profili di diritto discussi nel corso del processo. Si era contemporaneamente imposta la necessità di disporre di opere sistemate per materia; dalla fine del ‘400 furono composti degli indici, pubblicati a stampa, nei quali si inviava ai Reports dei singoli casi inquadrandoli in ordine alfabetico per materie. Stare decisis: il precedente giudiziario Uno dei cardini del diritto inglese è il principio della vincolatività del precedente giudiziario. Dapprincipio, il richiamo di precedenti da parte degli avvocati in giudizio o dei giudici nelle loro sentenze aveva un peso non vincolante, basato non sul precedente in sé ma piuttosto sulla consuetudine: il richiamo di più giudicati conformi serviva a dimostrare che tale era la consuetudine, alla quale era bene adeguarsi nel nuovo processo. Non vi era invece la regola per la quale una sola decisione costituisse un precedente vincolante. Solo una linea giudiziale consolidata era considerata davvero vincolante. Tra Cinque e Seicento si fece però strada il criterio di ritenere vincolanti per il futuro quelle decisioni che fossero state assunte da una Corte suprema. La vincolatività di queste decisioni alla fine del Seicento era ormai considerata pacifica. Anche il valore vincolante delle pronunce di Equity si venne affermando nella stessa epoca. La libertà del giudice era ancora considerevole, però, nel valutare il peso da attribuire ai precedenti. Solo più tardi si affermerà la regola che anche un solo precedente ha valore vincolante e inderogabile per un giudice di grado inferiore. Il diritto della Scozia Una storia a sé merita la parte settentrionale dell’isola britannica, nella quale vennero elaborate proprie norme consuetudinarie. Grande peso ebbe la Chiesa anche sul terreno del diritto, attraverso la giurisdizione esercitata secondo la procedura romano canonica del continente. Per il tramite del diritto canonico anche il diritto romano penetrò a completamento delle consuetudini locali e acquistò notevolissimo spazio, pur senza mai venir recepito in modo diretto e formale. Nel 1707 con il Trattato di Unione la Scozia venne inclusa nel regno di Inghilterra; i rappresentanti scozzesi entrarono nel Parlamento inglese, sicché l’autonomia costituzionale della Scozia venne meno, non potendosi assimilare ad una struttura di tipo federale. Ma il diritto scozzese mantenne la propria fisionomia distinta dal Common Law: il Trattato riconobbe che nessuna decisione giudiziaria assunta dalle Corti locali poteva essere riesaminata dai giudici di Common Law. Ciò non impedì che nella prassi si affermasse, sia pure in casi eccezionali, la giurisdizione d’appello della Camera dei Lords inglese anche per i giudicati della Corte suprema di Scozia. Nel corso del ‘700, l’università di Glasgow conobbe fioritura. Parte quarta : L’età delle riforme (1750-1814) Il sistema del diritto comune si mantenne in vita, ma mostra segni sempre più palesi di crisi: una crisi di certezza, determinata dal groviglio delle fonti e delle dottrine accumulate nei secoli, ed una crisi di contenuti, derivante da nuove tendenze di pensiero e da nuove esigenze del potere della società maturate nel corso dell’età moderna. Ma dalla metà del secolo un nuovo indirizzo culturale si afferma: la critica al sistema delle istituzioni, già implicita in molte posizioni del giusnaturalismo, ora è aperta e spesso radicale. Proposte di riforme. Età dei lumi. La legge dello stato divenne da allora in Europa ciò che non era mai stata nei lunghi secoli del diritto comune, la fonte prima e dominante del diritto, lo strumento privilegiato se non addirittura esclusivo delle sua evoluzione. I sovrani del continente, a differenza di quanto accaduto nel ‘600 in Inghilterra, mantennero però tutti i poteri conquistati in età moderna, anzi aumentarono: età dell’assolutismo illuminato. I poteri dello stato si rafforzarono anche là dove l’antico regime venne traumaticamente rimosso (Francia della Rivoluzione): lo stato cessò di costituire il “braccio secolare” della Chiesa. La spinta possente alle riforme segna il tr4amonto del patriziato come ceto dominante. È iniziata l’ascesa della borghesia. Codificazione del diritto privato, del diritto penale, delle procedure. I codici sostituiscono in toto le fonti anteriori, cioè non sono più, a differenza delle ordinanze dei sovrani medievali, etero-integrabili con le altre fonti del diritto: gli avvocati e i giudici debbono necessariamente ricavare dai codici e solo da essi le regole per la difesa e la decisione dei casi. Età delle codificazioni. 27. Illuminismo giuridico Montesquieu Quale momento iniziale della nuova cultura illuministica si suole designare l’anno della prima edizione dell’Esprit des lois (1748). Nella sua opera maggiore, Montesquieu si propose un obiettivo ambizioso: tacciare un compiuto disegno delle relazioni necessarie che intercorrono tra il regime politico-costituzionale di un Paese e il suo diritto pubblico e privato. Tripartizione aristotelica dei regimi politici, considerando tre forme di governo: repubblicano (a sua volta diviso in democrazia o aristocrazia), monarchico, il cui sovrano governa attraverso le leggi, e dispotico, nel quale il despota può operare a suo arbitrio in ogni campo. Tra le monarchie l’autore descrive i modelli della Francia e dell’Inghilterra, soffermandosi sulle differenze tra i due ordinamenti. Il principio cardine del governo repubblicano è la virtù e con essa la ricerca dell’eguaglianza (per esempio, nella ripartizione dei carichi fiscali); il principio su cui si basa l’ordinamento monarchico è invece l’onore. Ma vi sono monarchie strutturate per il perseguimento della gloria (Francia) e quelle per il perseguimento della libertà (UK)- proprio le pagine della costituzione britannica sono tra le più importanti dell’opera, in quanto per la prima volta la costituzione inglese, una costituzione non scritta, veniva descritta all’opinione colta del continente. Ammirazione. Montesquieu teorizzava la dottrina dei tre poteri che diverrà un caposaldo del moderno costituzionalismo; difendeva i pregi di un regime rappresentativo che affidasse il potere legislativo congiuntamente ad una Camera elettiva e ad una rappresentante l’élite della nazione. La libertà cresce quando il potere è limitato; ciò che consente di limitare i poteri è la loro separazione, in quanto potere blocca potere. Libertà atte a garantire il bene dell’individuo e quello della società. Consapevolezza della storicità del diritto, che risulta foggiato in forme diversissime nel tempo e nello spazio. Persino il diritto delle genti secondo l’autore non è ovunque il medesimo. Gli Enciclopedisti e Rousseau Enticlopedia: diretta da due intellettuali, Diderot e D’Alembert, pubblicata nell’arco di un quindicennio dal 1750. E se sul terreno del diritto non hanno particolare qualità teorica, esse tuttavia riflettono numerose posizioni dei giusnaturalismi e di Montesquieu. All’Enciclopedia aveva collaborato anche Rousseau (Contratto sociale): L’uomo è nato libero ed è ovunque in catene. La vita in società, il contratto sociale, non è per Rousseau una scelta libera compiuta in un momento del passato, ma una necessità oggettiva. La sovranità appartiene a chi al contratto ha dato vita, al popolo nella sua totalità, non al sovrano. Ed è una sovranità unica, inalienabile e indivisibile. Inoltre, il patto sociale stabilisce tra i cittadini una tale uguaglianza che essi si obbligano tutti sotto le medesime condizioni e devono godere tutti degli stessi diritti. Le deliberazioni collettive si manifestano attraverso la legge, che ha carattere generale ed astratto e deve promanare da tutto il popolo (a favore della democrazia diretta); d’altra parte, il potere legislativo deve essere distinto da quello esecutivo. Concezione del potere politico basato sul principio della democrazia diretta e sul suffragio universale, dunque sulla sovranità popolare intesa nel suo significato pieno e rigoroso. Voltaire Pose al centro della sua attività di scrittore la denuncia delle ingiustizie. La pretesa di imporre ai sudditi un’unica fede religiosa e fu combattuta da Voltaire. Le terribili sanzioni penali prescritte nei confronti degli eretici, il divieto di divorzio, etc., furono l’oggetto di innumerevoli scritti di implacabile denuncia. Altrettanto netta fu la condanna delle violazioni della libertà di pensiero e di espressione, che l’istituto della censura dei libri codificava limitando la libertà di stampa. Il sistema penale e i vasti poteri discrezionali delle Corti sovrane vennero stigmatizzati attraverso la presentazione di errori giudiziari esemplari. Più in generale, Voltaire criticava la pluralità delle consuetudini e l’arbitrarietà delle troppe regole in vigore, diverse per località, e criticava la pluralità dei regimi giuridici per le diverse classi sociali. Per Voltaire, il rimedio contro le norme obsolete era semplice: abrogarle e sostituirle con altre, migliori. Battaglie ideologiche. Beccaria, Verri e “Il Caffè” I fratelli Verri discutevano, sulle pagine di un foglio periodico da loro creato (1765), il Caffè, temi di economia e di costume pubblico e privato, affrontati in un libero dibattito ispirato alla nuova cultura dei “lumi”. Pietro Verri aveva maturato un’aspra avversione per quel sistema, per la intramontabile fortuna della codificazione giustinianea e per la latitudine eccessiva del potere discrezionale dei giuristi, una casta potente. Forte reazione antigiurisprudenziale. Cesare Beccaria: incoraggiato da Verri, si diede a riflettere sul sistema penale del tempo. In pochi mesi ne uscì un libro, Dei delitti e delle pene, che ottenne un successo immediato e clamoroso. Appena due anni più tardi, Voltaire non solo lo fece tradurre e pubblicare in francese, ma ne scrisse un commento. Beccaria muove da una concezione utilitaristica del diritto penale: la pena deve Codice penale giuseppino: principio di legalità della pena accompagnato dall’espresso divieto del ricorso all’analogia; pena imprescrittibile. Meno fortunata fu la codificazione civilistica, forse anche per la novità dell’impresa. Pietro Leopoldo Non sorprende che alla morte di Giuseppe vi sia stata una forte reazione, sia a Vienna che a Milano. Pietro Leopoldo riuscì a varare nel 1786 una legge di importanza storica. Non siamo di fronte ad un codice nel significato che assumerà in seguito, perché la materia penale e la disciplina del processo non sono disciplinate in forma compiuta e sistematica. Ma il sistema penale viene ridisegnato in modo nuovo, con una disciplina del processo che superava molte delle regole e delle secolari consuetudini del diritto comune e dei diritti locali. Abolizione della tortura giudiziaria, depenalizzazione dei reati di opinione e di religione, sfrondamento delle ipotesi di lesa maestà, rimodulazione del sistema delle pene ma soprattutto abolizione della pena di morte. La “Leopoldina” fu la prima legge in Europa ad avere accolto su questo punto cruciale le idee del Beccaria. Anche la codificazione civile compì negli anni di Leopoldo un progresso sensibile. Progetto Martini (1794) che si qualifica con le caratteristiche di un codice moderno: abroga infatti le fonti sussidiarie e il diritto comune consentendo solo le consuetudini “secundum legem”, si limita al diritto privato, contiene anche alcune disposizioni generali che dichiarano la connessione del diritto privato civile con il diritto naturale. L’indipendenza americana Gli articoli della Confederazione approvata nel 1778 erano fondati su un chiaro principio: i tredici stati rimanevano “sovrani” mentre un’assemblea centrale (Congresso) veniva investita del compito di decidere sulle questioni di comune interesse nell’economia, nella difesa, nei rapporti internazionali. Le decisioni del Congresso venivano assunte attribuendo un voto a ciascuna delle delegazioni dei tredici stati, anche se composte da un numero diverso di delegati. Ma le decisioni del Congresso non avevano per destinatari diretti i cittadini, bensì gli stati medesimi, ai quali spettava di metterle in atto. Pochi anni furono sufficienti per dimostrare che questa struttura era troppo debole. Nuova convenzione. La questione di gran lunga più dibattuta fu quella della composizione delle camere legislative. Molto presto si decise che i parlamentari della Camera dei Rappresentanti fossero da eleggere in numero proporzionale rispetto alla popolazione dei singoli Stati e con elezione diretta. Invece per il Senato i delegati degli stati più piccoli erano determinati a mantenere il criterio di un voto ciascuno. La soluzione finale fu che il Senato avrebbe avuto un egual numero di senatori per ogni stato, scelti dalla Camera legislativa dei singoli stati. Il bicameralismo consentì di far coesistere la logica della rappresentanza popolare e quella della rappresentanza per stati, con l’importante specificazione che le leggi destinate alla raccolta dei tributi avrebbero dovuto essere proposte dalla Camera dei Rappresentanti. 29. Rivoluzione francese e diritto La convenzione giacobina e il terrore del 1793-94: dopo la caduta di Robespierre i quattro anni del Direttorio segnarono una presa di distanza da una serie di misure estreme degli anni precedenti e sboccarono nel colpo di stato del 18 brumaio anno VIII (1.11.1799) che istituì il consolato e inaugurò il quindicennio del dominio napoleonico in Francia e in Europa. Gran parte delle riforme introdotte dalla Costituente trova la sua radice nelle idee e nelle proposte degli illuministi, ma la storiografia ha chiarito che sia erroneo ritenere la rivoluzione lo sbocco naturale del programma dei philosophes. Al contrario, nessuno di loro l’aveva prevista, e molti di loro l’avevano criticata. Inoltre, si trattò di una serie di rivoluzioni, una di seguito all’altra, anche di segno diverso. I “Cahiers de deléances” Grave crisi della finanza pubblica: tentata adozione di alcune misure audaci e innovative, ispirate ai fisiocratici in sostegno della produzione agricola, quali la divisione dei pascoli comune, il tentativo di introdurre la libera circolazione dei cereali, etc.: tentativi parzialmente falliti per l’opposizione congiunta dei parlamenti, del patriziato, degli intellettuali regi. Il permanere e l’accentuarsi di una condizione di crisi non superata condusse alla proposta di convocazione degli Stati generali, riesumati dopo quasi due secoli di inattività, per iniziativa soprattutto dei Parlamenti, determinati ad impedire misure normativa che riducessero i loro privilegi: nessuno aveva previsto che questa iniziativa avrebbe segnato la loro fine. La sessione fu preceduta da una gigantesca inchiesta sullo stato del paese e sulle aspirazioni di riforma: i Cahiers de doléances rivelano la presenza di una quantità di precise istanze di riforma del sistema giuridico. Critiche aspre sono rivolte al forte potere discrezionale delle Corti sovrane di giustizia, alle giustizie signorili, all’eccessiva severità delle pene, alla molteplicità delle consuetudini locali e all’oscurità delle leggi. Mai prima di allora si era compiuta una ricognizione altrettanto approfondita delle attese della società civile compiuta capillarmente in centinaia di assemblee locali e sintetizzata in precisi documenti. 04.08.1789: abolizione del sistema feudale e signorile. La Costituente: la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo” Con essa la legge, è espressione del titolare della sovranità, la “nazione”, e diviene lo strumento per l’affermazione dei diritti fondamentali. Il testo esordisce con l’affermazione che “tutti gli uomini nascono e rimangono liberi ed eguali in diritti”: elenca poi, quali diritti naturali e imprescrittibili, la libertà, la proprietà, la sicurezza, dichiarando che lo scopo di ogni associazione politica è di garantire questi diritti. La sovranità risiede nella Nazione. Accoglie il principio della proporzionalità delle imposte, che in Francia non si era ancora adottato. Diritto alla libera manifestazione di pensiero. Nel diritto penale, principio di legalità e di irretroattività della pena, presunzione di innocenza sino alla condanna e, più in generale, condanna dei poteri di polizia di antico regime. La riforma amministrativa Completa riforma dell’ordinamento amministrativo: abolite le autonomie delle regioni storiche, la Francia viene suddivisa in 83 dipartimenti, divisi in distretti. La venalità delle cariche viene abolita, e con questa la trasmissibilità degli uffici per via ereditaria. Ne derivava una struttura dello stato più uniforme e centralistica, perché le antiche regioni sparivano e con esse le loro secolari autonomie. Le riforme della giustizia Abolite le Corti sovrane, la giustizia viene articolata in modo uniforme su più livelli, sulla base di un principio fondamentale, l’elettività dei giudici. Le sentenze del tribunale nelle cause civili si potevano impugnare, ma fu deciso che l’appello fosse demandato non ad una corte superiore, bensì ad uno dei tribunali contigui a scelta delle parti, perché si volle evitare di riprodurre una gerarchia di giurisdizioni. Ai due gradi si aggiungeva un terzo grado, la Corte di Cassazione, ma soltanto facendo valere un errore di diritto, cioè asserendo che i giudici di merito avevano disapplicato la legge o l’avevano interpretata in modo erroneo. Funzione nomofilattica, assicurare cioè l’uniformità dell’interpretazione della legge entro l’intero stato. Il processo penale venne a sua volta completamente ridisegnato. Istituzione di una giuria popolare. I giurati venivano scelti su liste votate dai cittadini elettori. Il giudizio di colpevolezza richiedeva il voto di almeno dieci giurati su dodici e veniva pronunciato (abbandonando il sistema delle prove legali tipico del diritto comune) sulla base del “libero convincimento”. Questo doveva formarsi esclusivamente nel corso del dibattimento, con l’adozione del criterio fondamentale dell’oralità. La sentenza era inappellabile (“vox poluli, vox Dei”). Il Codice penale Tripartizione dei fatti illeciti tra contravvenzioni (sanzionate con ammende), delitti (di competenza dei tribunali correzionali) e crimini (intervento della giuria). Venivano cancellati i reati contro l’ortodossia religiosa e si stabiliva il criterio fondamentale della fissità della pena, senza lasciare ai giudici alcun margine di discrezionalità (neppure ad esempio in presenza di circostanze aggravanti). Il diritto civile: proprietà, lavoro, famiglia La Costituente si propose l’obiettivo di un codice di leggi civili per l’intero stato, ma non pervenne alla sua redazione. Tuttavia gli anni della rivoluzione portarono a interventi settoriali di grande importanza: in particolare, in materio di diritto di proprietà, del lavoro, delle persone e della famiglia. L’abolizione delle istituzioni feudali portò ad una svolta nella disciplina della proprietà. Superamento della distinzione tra il dominio diretto, del signore o della Chiesa, e il dominio utile di chi coltivava la terra versando al nudo proprietario un censo, in danaro o in natura. Abolizione delle corporazioni e delle associazioni professionali (anche ordine dei procuratori, etc.). Si abolì la servitù. Maggiore età a 21 anni. Principio del matrimonio civile: la laicizzazione del matrimonio consentì più tardi l’introduzione del divorzio. Per la donna, non fu abolito lo stato di soggezione al marito (potestà maritale), né l’incapacità di agire che richiedeva la presenza del coniuge o di altro familiare per compiere qualsiasi negozio giuridico (eccettuato il solo caso di abilitazione al commercio). Chiesa e Stato Tra i costituenti, la grande maggioranza era formata da cattolici. Ma il nodo dei rapporti con la Chiesa cattolica venne molto presto al pettine. L’abbandono dei privilegi votato nel 4.08.1789 includeva l’abolizione dei benefici ecclesiastici. La confisca delle immense proprietà immobiliari della Chiesa seguì a breve distanza. Le diocesi vennero ridisegnate. La nomina dei vescovi veniva affidata all’assemblea degli elettori del dipartimento. Al clero si imponeva di giurare di essere fedeli alla nazione, alla costituzione, alla legge, al re. Scisma che divise per alcuni anni il clero francese in due. Durante il terrore, anche la matrice anticattolica e antireligiosa si accentuò fortemente, sino a condurre a sistematiche distruzioni di chiese e monasteri. 30. L’età napoleonica Il regime napoleonico Colpo di stato del 18 brumaio dell’anno VIII (09.11.1799): triumvirato, a Napoleone spettavano le funzioni di primo console. Al primo console – che era abilitato a decidere anche da solo – venivano conferiti poteri enormi: gli spettavano tutte le funzioni di comando e di governo (bilancio, nomina e padre e del marito è pienamente restaurata, anche se viene reso generale il criterio dei paesi di diritto consuetudinario, per il quale la patria potestà viene meno al raggiungimento della maggiore età. Le cause di divorzio sono più limitate, i beni sono amministrati dal solo marito; la donna maritata è priva della capacità di agire equiparata al minore e all’incapace. Preciso intento: presupposto e garanzia dell’”ordine”; un ordine che non si limita alla famiglia ma include la società e lo stato: “è dall’autorità paterna che dipende principalmente la pubblica tranquillità”. Il Codice civile deve la propria fortuna principalmente a tre profili: - Contenuti: il Codice ha raggiunto un doppio felice equilibrio: l’unificazione dei due rami della tradizione francese, e l’innesto di una serie di innovazioni del periodo della rivoluzione - Metodo: per la prima volta ha intessuto una coerente disciplina dell’intero diritto civile, sostituendola ad ogni altra fonte del diritto in netta discontinuità con una tradizione storica di ben 7 secoli - Forma: livello di eccellenza con l’adozione di un linguaggio chiaro e asciutto Qualità formale e sostanziale. Gli altri Codici francesi Il Codice di procedura civile segna il ritorno a un procedimento più formale rispetto al tentativo radicalmente antiformalistico della riforma del 1793. Oralità del procedimento avanti ai giudici di pace, mentre davanti al tribunale il processo era incentrato sulle prove scritte e sullo scambio delle memorie difensive, lasciando spazio alla parola solo per le arringhe conclusionali. Codice di commercio: tratta in quattro libri, rispettivamente, del commercio per via di terra, del commercio marittimo, del fallimento e della giurisdizione commerciale. Quest’ultima era affidata ai tribunali di commercio, composti di mercanti, e poteva tra l’altro decidere l’arresto per debiti che invece il diritto civile aveva bandito per le obbligazioni non commerciali. Importante è l’enumerazione tassativa degli atti di commercio: per questa via il diritto commerciale si trasformava in un diritto oggettivo, il diritto degli atti di commercio, indipendentemente dallo status personale di chi tali atti compiva (prima, invece, era il “diritto dei commercianti”). Il processo penale venne profondamente ristrutturato nel Code d’instruction criminelle: Napoleone era avverso alla giuria penale. Cambacérès propose l’eliminazione della giuria di accusa, e la conservazione della giuria di giudizio, esclusa solo per alcuni casi particolari, e così fu deciso. Nella disciplina della fase istruttoria si riaffermò risolutamente il principio della segretezza. Le notizie di reato e le testimonianze dovevano venir vagliate e raccolte dal giudice istruttore su impulso del procuratore del re, senza che l’imputato potesse difendersi e senza neppure l’obbligo di informarlo sui fatti posti alla base dell’accusa. Invece, per la fase del dibattimento, vale il criterio della pubblicità, alla presenza del difensore e con la possibilità del controinterrogatorio dell’imputato alla presenza dei giurati. Le disposizioni testimoniali raccolte per iscritto durante l’istruttoria venivano lette e poste alla base dell’interrogatorio dell’imputato. Un processo nel quale torna ad avvertirsi “il fruscio della carta più che della voce delle parole e delle cose”. Rimaneva comunque il criterio fondamentale del libero convincimento e l’inappellabilità del verdetto dei giurati. Codice penale: tripartizione tra crimini, delitti e contravvenzioni. Le pene per i crimini includono la pena capitale, i lavori forzati, il bando, la reclusione; tra i reati, un peso preponderante viene dato a quelli contro la sicurezza dello Stato. Si reintroduce la sanzione della confisca dei beni del condannato. Il tentativo viene punito con la stessa pena irrogata al delitto perfetto. La recidiva è severamente colpita. Il concorso è sanzionato con la medesima pena prevista per l’autore del reato. Si stabilisce un minimo e un massimo per le singole pene stabilite dal Codice, consentendo ai giudici un congruo margine di discrezionalità. I Codici austriaci: il Codice penale Comprende sia il diritto penale sostanziale che procedurale. Sul primo fronte è rimasta la fondamentale distinzione Giuseppina tra delitti e gravi trasgressioni politiche. Nettissima è l’affermazione del principio di legalità del reato e della pena, nonché la precisazione che solo il dolo intenzionale autorizza alla repressione penale. Il sistema delle pene per i delitti è severo, fino all’inflizione della pena di morte. Anche i reati religiosi sono perseguiti. Quanto alla procedura, è mantenuto intatto il sistema delle prove legali: occorrono almeno due testimoni, ovvero la confessione del reo. Solo la piena prova consente la condanna. Al fine di ottenere la confessione è prevista l’inflizione di mezzi brutali. Inoltre, non è prevista la presenza del difensore e il giudice assolve al triplice compito di sostenere l’accusa, provvedere alla difesa dell’imputato e pronunciare la sentenza. Il Codice civile (ABGB) Il diritto naturale viene richiamato: in caso di lacuna normativa prescrive innanzitutto al giudice il ricorso all’analogia ma, in subordine, ove neppure l’analogia soccorra, impone di decidere secondo i principi del diritto naturale. Il codice lasciava un certo spazio, nei sui interstizi, a normative e consuetudini specifiche dei territori dell’Impero, tanto diversi per lingua, tradizioni, costumi. E qui sta un’altra ragione del suo successo. Codice per principi (mentre quello francese era codice per comandi). Sul terreno dei diritti reali la tradizione del diritto comune prevale: la proprietà è ancora espressamente disciplinata nella forma del dominio diviso di origine medievale. Quanto alle obbligazioni, il Codice recepisce la regola romana che richiede la consegna della cosa per il trasferimento della proprietà e degli altri diritti reali. Per gli immobili l’atto di acquisto deve essere iscritto nei libri pubblici, e solo così diviene opponibile ai terzi (sistema tavolare). Il diritto delle persone e della famiglia è la sezione dell’ABGB che più direttamente ha ricevuto l’impronta del pensiero illuministico. Qui la distanza dal Codice Napoleone è davvero grande. La donna può liberamente amministrare il proprio patrimonio, senza la necessità dell’autorizzazione maritale. L’educazione dei figli e la potestà genitoriale sono affidati a entrambi i genitori. Il figlio naturale deve essere curato e alimentato in proporzione alle sostanze della famiglia, ma gli illegittimi sono esclusi dalla successione. Il matrimonio civile è mantenuto, ma esso è indissolubile per i cattolici, mentre è ammesso per protestanti ed ebrei. La fortuna dell’ABGB è dimostrata dal fatto che è ancora in vigore in Austria.
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