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Scienza politica - appunti, Appunti di Analisi E Critica Televisiva

appunti di scienze politica

Tipologia: Appunti

2009/2010

Caricato il 12/10/2010

blender
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Scarica Scienza politica - appunti e più Appunti in PDF di Analisi E Critica Televisiva solo su Docsity! SCIENZA POLITICA & POLITICA COMPARATA prof. Enrico Melchionda LA SCIENZA POLITICA. «La scienza politica è lo studio ovvero la ricerca sui diversi aspetti della realtà politica al fine di spiegarla il più compiutamente possibile adottando la metodologia propria delle scienza empiriche». Norberto Bobbio, 1991. La scienza politica nasce alla fine dell’Ottocento. Si afferma come scienza empirica dopo la Seconda guerra mondiale con la “rivoluzione comportamentista”.  Distacco dalla sfera morale Avviene con Machiavelli e Hobbes tra il XVI e il XVI secolo. Esclude dal proprio ambito i giudizi morali, presta attenzione solo ai fatti, alla ricerca empirica.  Distacco dalla sfera economica Avviene con Hegel e Marx nella prima metà del XIX secolo. Hegel introduce il concetto di separazione tra società civile e Stato. Marx distingue una base (struttura) economica da una sovrastruttura giuridica-istituzionale. Tuttavia, Hegel parla di società borghese, Marx di Stato borghese. Hegel valorizza l’assolutismo (Stato prussiano), Marx è ideologo della rivoluzione.  Distacco dalla sfera giuridica Avviene con Mosca e Bentley tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo. La ricerca si concentra sui processi reali, piuttosto che su quelli giuridico- istituzionali. Mosca portò nella politica un certo realismo e una metodologia scientifica. Dallo studio dello Stato passò a quello della classe politica. Bentley attaccò il formalismo precedente e passò dallo studio delle istituzioni a quello dei processi di governo, studiando i partiti e i gruppi di pressione. La scienza politica come scienza empirica. Il metodo della scienza politica è rigorosamente empirico. Esso si compone di varie fasi. 1. Selezione di un argomento. Fermo restando l’avalutatività, cioè il non esprimere giudizi di valore sull’argomento trattato. 2. Formulazione precisa del tema. Definire cioè l’unità di analisi, delimitare il campo di ricerca e i concetti rilevanti per la ricerca. 3. Utilizzo delle variabili. Possono essere dipendenti o indipendenti. Una variabile rimane fissa (indipendente), l’altra dunque cambia (variabile). La variabile dipendente può assumere valori. 4. Operazionalizzazione. La ricerca deve tendere a misurare quantitativamente i fenomeni. 5. Verifica delle ipotesi. Difficile l’impiego del metodo sperimentale, nella maggioranza dei casi si usa il metodo statistico, mentre per determinati macrofenomeni rilevabili a livello di Stati nazionali si usa il metodo comparato. Il fine è di arrivare a delle generalizzazioni, delle regole, delle spiegazioni dei principali fenomeni politici. La ricerca ha tuttavia poco a poco rinunciato a teorie globali preferendo teorie a medio raggio che si applichino a periodi storici e aree geografiche determinate. DEFINIZIONE DI POLITICA. «Uso vincolato del potere sociale». E’ una definizione, ma in realtà non c’è accordo per descrivere esaurientemente il 2 Fondamentale l’affermarsi di un’economia monetaria: chi opera in uno Stato viene ricompensato con salari e non più in natura (vs. sistema feudale). Attraverso la tassazione lo Stato può mantenere una sua burocrazia. Fondamentale per lo sviluppo dello Stato anche i conflitti militari. Lo stato assoluto, prima forma di Stato moderno, è una “macchina da guerra” perché nasce dall’esigenza della guerra: nasce il prelievo fiscale per pagare le spese di guerra, cresce l’amministrazione statale per far funzionare la macchina bellica, si accumulano debiti per cui è necessario aumentare l’intervento statale nell’economia, al termine del conflitto vengono assicurati ai cittadini dei diritti che erano stati loro promessi in tempo di guerra per ottenere consenso. Di qui si passa allo Stato democratico poiché il bisogno di legittimazione del potere centrale necessita lo sviluppo di un consenso possibile solo trasformando i sudditi in cittadini. Si passa poi allo Stato del benessere e allo Stato programmatore sempre più teso a garantire il benessere dei cittadini da cui gli deriva il consenso e la legittimazione. Approccio giuridico-formale. E’ l’approccio che studia lo Stato riguardo la divisione dei poteri istituzionali. Si afferma tra il 1870 e il 1950. Revival dopo gli anni ’70, ma in una nuova veste (neo-istituzionale). Critica all’approccio statale deriva dal rigetto del mito dello stato totalitario nel II dopoguerra, nonché dallo studio di Paesi dove non vi erano Stati moderni (es. paesi post-coloniali). L’APPROCCIO SISTEMICO E IL SISTEMA POLITICO. Introdotto da David Easton. Definizione (1965): «Il sistema politico è un sistema di interazione attraverso le quali si realizza l’assegnazione autoritativa di valori scarsi in una data società». Nasce dalla critica all’approccio statalista. E’ approccio sistemico. Il “sistema” si distingue dall’”organizzazione”. Un’organizzazione è «un’associazione di individui dotata di una funzione e di uno scopo», un sistema è “un insieme di elementi legati da una qualche interazione». Dunque non nasce, è preesistente.. La finalità di un sistema politico è quello di distribuire un sistema di valori attraverso un meccanismo autoritativo (cioè le sue decisioni sono vincolanti). Si fonda dunque su due elementi: 1) esistenza di un ambiente, del quale il sistema fa parte e con il quale interagisce; 2) presenza di confini che distinguono il sistema dal suo ambiente. Il Sistema Politico secondo David Easton. 5 Input. Il sistema politico riceve dall’ambiente degli input (immissioni), che sono di due tipi: 1) domande che provengono dalla società e che devono essere soddisfatte dal sistema politico; sono richieste di allocazione autoritativa di valori. Nascono dai bisogni della società. 2) consenso e sostegno al sistema politico; perché il sistema sopravviva, il sostegno viene immesso insieme alle domande. Esso viene definito come «un insieme di comportamenti e atteggiamenti che esprimono intenzioni positive verso il sistema». Si distingue in sostegno specifico, consenso in base alla soddisfazione delle domande immesse; sostegno diffuso, atteggiamento di fondo, legittimazione sul lungo periodo. Gatekeepers. Per evitare il sovraccarico di domande del sistema, i gatekeepers scartano delle domande e sostengono delle altre, dunque sono “regolatori d’accesso” per la scatola nera. Possono essere partiti politici o gruppi di pressione. Scatola nera. All’interno di essa si attua il sistema di elaborazione delle decisioni pubbliche, cioè di elaborazione di risposte agli input. Tali risposte vengono emesse nell’ambiente come output. Output. Le decisioni del sistema politico trasformano l’ambiente, poiché da qui scaturiscono altre domande di input e può aumentare o diminuire il consenso in relazione alle risposte date (processo di feedback). Se un sistema politico funziona bene, gli output portano a una diminuzione degli input di domanda e a un aumento degli input di sostegno. Altrimenti crescono a dismisura le domande e il sistema si sovraccarica. Il Sistema Politico secono Almond e Powell. Almond e Powell (1978) approfondiscono il concetto, introducendo anche delle possibilità di giudicare i processi del sistema politico valutandone gli effetti. Mentre Easton era stato accusato di inputismo, cioè di concentrare la sua attenzione solo agli elementi di input, Almond e Powell approfondiscono particolarmente i meccanismi della “scatola nera” e gli output. Le vari fasi sono: 1. Input. Si dividono in domande e sostegno. 6 2. Articolazione interessi. Bisogni generici si trasformano in domande su temi (issues) specifici, politicamente rilevanti (attori: i gruppi). 3. Aggregazione interessi. Le diverse domande sono combinate insieme e convertite in richieste politiche più complessive (attori: i partiti). 4. Formulazione politiche pubbliche. Problemi, proposte e richieste sono trasformati in programmi di azione statali (attori: organi politici, part. legislativo). 5. Implementazione (o esecuzione) politiche pubbliche. Messa in atto dei programmi di azione attraverso emanazione di atti esecutivi (attori: burocrazia o esecutivo). 6. Output. Possono essere azioni estrattive, distributive, regolative, simboliche. 7. Esiti (o policy outcomes). Si misurano in base a 1) benessere; 2) sicurezza; 3) grado di libertà. Naturalmente questo è possibile solo in un sistema liberal-democratico. 8. Feedback. Processo retroattivo, ha effetti sia per il sostegno che per la formazione di nuove domande. Il Sistema politico secondo Luhmann. Luhmann considera quello politico come un “sotto-sistema” dell’intera società. Da questa premessa distingue i suoi sotto-sottosistemi che lo compongono.  Sotto-sottosistema Pubblica amministrazione  Potere legislativo  Potere giudiziario  Potere esecutivo  Sotto-sottosistema Politico (in senso stretto)  Partiti politici  Gruppi di interesse L’APPROCCIO RAZIONALE. Proposto da Anthony Downs sulla base degli studi di Joseph Schumpeter, ha la sua fase principale intorno agli anni ’70. James Buchanan afferma invece la teoria della scelta pubblica. L’approccio razionale si bassa sull’applicazione allo studio della politica di concetti e ipotesi dell’economia, con due assunti di base: 1) individualismo; 2) comportamento utilitarista degli individui. L’ipotesi è che l’individuo agisca in politica in modo razionale e consapevole, sia capace quando sceglie di stabilire una graduatoria di preferenze secondo un calcolo costi-benefici che massimizzi i suoi utili. Essi sono come i consumatori nel mercato, hanno preferenze ed utilità specifiche. Si parla quindi di sovranità dell’elettore come nel mercato si parla di sovranità del consumatore: i partiti e i candidati, come le imprese, non sono interessanti a particolari politiche pubbliche ma semplicemente alla propria elezione, cioè al loro profitto. L’approccio della scelta pubblica di Buchanan afferma che il debito pubblico nasce dal fatto che i candidati, per aumentare i loro voti, dissipano il patrimonio dello Stato distribuendo beni e servizi per gli elettori al fine di legarli alla loro causa. 7 intenzionalità. Solo con la dialettica, col pluralismo, e cioè con l’esistenza di una opposizione, si può controbattere al mascheramento. Tipi di potere Thomas Hobbes propone 3 tipi diversi i potere.  Libertas (potere economico)  Potestas (potere politico)  Religio (potere ideologico) Charles Lindblom riprende la tesi hobbesiana: 3 tipi di controllo sociale.  Autorità (potestas). Esiste ogni qual volta alcuni individui, in modo esplicito o tacito, permettono che qualcun altro prenda decisioni al loro posto.  Scambio (libertas). E’ una relazione tra due o più persone, ciascuna delle quali offre un beneficio allo scopo di indurre una risposta  Persuasione (religio). Si applica in tre forme: 1) istruzione-propaganda ideologica nei sistemi totalitari; 2) pubblicità commerciale (società di mercato); 3) persuasione reciproca come libera competizione di idee (liberaldemocrazie). Le risorse del potere. Non bisogna confondere il potere con le sue basi: per avere potere non basta avere i mezzi da cui esso deriva (il potere può anche non essere esercitato, in questo caso è potenza). Ci sono 4 basi del potere: 1. Violenza fisica 2. Numero e inquadramento 3. Denaro 4. Strumenti di informazione 1) Violenza fisica. Un tempo la violenza era l’elemento principale per risolvere le contese politiche (assassini politici, lotte di palazzo). Lo Stato moderno ha eliminato questi fattori ma non abbandonato l’uso delle armi nella lotta politica. Negli Stati moderni la forza è usata in quattro casi. 1. Guerra civile. Situazione in cui si scontrano fazioni armate poiché lo Stato è troppo debole per monopolizzare a suo vantaggio l’uso della forza. 2. Resistenza. Situazione in cui l’opposizione politica ricorre alla violenza poiché essa non ha la possibilità di esprimersi o tali possibilità si dimostrano inefficaci. 3. Pretorianesimo. Situazione tipica dei colpi di stato in cui i militari cessano di essere al servizio dello Stato e si gettano essi stessi nella lotta politica. 4. Terrorismo. Situazioni in cui gruppi minoritari cercano malgrado ciò di condizionare e destabilizzare l’assetto politico-sociale. 2) Numero e inquadramento collettivo. Risorsa tipica della politica di massa, si basa sull’uso delle masse per legittimare il potere. Ha le sue origini nella Rivoluzione francese, si afferma con i partiti di massa (1800-1940): si attua un’azione politica che permette di raggruppare, educare, mobilitare, incanalare e orientare le masse. Oggi è radicato nell’esperienza dei sindacati. Parte dal principio che “le teste o si contano o si tagliano”, e secondo Duverger senza di esso «nelle democrazie occidentali il numero sarebbe annullato dal denaro». 10 3) Denaro. Non è uno strumento diretto, e se viene usato massicciamente l’inquadramento collettivo il denaro perde forza. Non è legittimato come strumento politico, negli Stati moderni c’è separazione tra sfera politica e sfera economica, e la prima è formalmente superiore alla seconda. Il denaro è però lo strumento più pratico perché procura i mezzi per conquistare e/o conservare il potere, ed è lo strumento più potente perché le scelte di fondo vengono influenzate da esso. Non c’è un utilizzo diretto, ma un’influenza indiretta (cfr. lobby). Lo si può usare per creare un partito, e lo si trasforma in numero. Lo si può usare per creare un esercito, e lo si trasforma in violenza. 4) Mezzi di informazione. Nelle società occidentali moderne influenzano l’opinione pubblica e possono influenzare l’agenda politica. Sono usati sia regimi democratici che in quelli totalitari, tuttavia nelle democrazie c’è pluralità e diversità di opinioni, nei totalitarismi sono usati dal regime come mezzo di diffusione della dottrina. Tuttavia nelle democrazie i media cedono al potere del denaro, e si crea un monopolio o oligopolio dei mezzi di informazione (cfr. Berlusconi, Murdoch). Ciò comporta una serie di conseguenze:  Personalizzazione del potere  Commercializzazione (la pubblicità assume un ruolo dominante)  Difesa dei valori tradizionali dell’uomo medio  Incretinimento del pubblico Tre approcci contemporanei al potere. Oggi è cambiata la percezione di cosa sia il potere. Tre diversi approcci hanno cercato di innovarne il concetto. 1) Disseminazione dei poteri (Michel Focault). In Microfisica del potere, Focault cerca di sfatare la convinzione dell’identità tra Stato e potere, e cioè che tutto il potere si concentri nello Stato e derivi da esso. Il potere è disseminato, ed è insito nelle relazioni sociali. Egli studia le relazioni di potere in diversi ambienti, nella dicotomia uomo-donna, nelle carceri, nei manicomi, ecc. 2) Relativizzazione dei poteri (Luhmann). Nel rapporto di potere c’è reciprocità, un rapporto bilatera,e non rapporto causa-effetto tra chi detiene il potere e chi lo subisce. E’ uno strumento di comunicazione, come il denaro lo è nei rapporti economici. Non c’è un potere forte ma il concetto è relativo. 3) Condensazione dei potere (Poulantzas). In Potere politico e classi sociali critica Focault e Luhmann e ritorna a un approccio classico ma rinnovato. Riscoprendo Gramsci, considera il potere in termini di egemonia, l’idea è che esiste una concentrazione dei poteri nello Stato, che non è però solo forza ma capacità di creare consenso, costruire apparati che formano una direzione oltre che un dominio. LA POLITICA COME CONFLITTO. La politica è più simile alla guerra o alla pace? Focault: bisogna rovesciare l’aforisma di Clausewitz “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”: si può dire che “la politica è la continuazione della guerra con altri mezzi”. Carl Schmitt: la politica è partigianeria, o si sta da una parte o dall’altra. La visione “pacifica” della politica 11 afferma invece che essa è un superamento o una soluzione del conflitto. Di qui si creano due teorie: Teorie conflittualiste (Marx, Sorel, Hobbes, Schmitt). Disarmonia e disequilibrio come normalità (Hobbes). Il conflitto è “uno scontro o urto intenzionale”, tra due o più individui o gruppi. Ha come suo fine il nuocere, e come oggetto un diritto (da mantenere, affermare o stabilire). Tende all’escalation, che può concludersi nel tentativo di annientamento fisico. Il conflitto parte da interessi e valori differenti, ed è dunque dalla disuguaglianza che si scatena il conflitto. Dai conflitti nascono mutamenti e miglioramenti; politica come strumento per mantenere il dominio di una minoranza su una maggioranza (Marx). Teorie integrazioniste (Comte, Spencer, Tocqueville, Durkheim, Parsons). Armonia come normalità. Conflitti sono turbamenti, disfunzioni e malattie sociali; politica come mezzo per realizzare il bene comune e l’integrazione di tutti nella comunità. L’integrazione è “lo stabilirsi di una più stretta interdipendenza tra i membri di una società”. Da un punto di vista politico-sociale essa significa:  Assenza di antagonismi e lotte che dividono la società.  Sviluppo della solidarietà reciproca tra gli individui che compongono la società. Nella società moderna vi sono tre diverse spinte verso la solidarietà: 1. Istinto alla comunione nel gruppo 2. Rassomiglianza e vicinanza dei membri della società 3. Divisione del lavoro Problema hobbesiano. Hobbes si pone la domanda: “com’è possibile l’ordine sociale?”, cioè come possono gli uomini sopravvivere se ognuno agisce solo in base ai propri interessi. Gli uomini sono per natura refrattari alla vita in comune, l’istinto primario è quello dell’autoconservazione. Ciò porta naturalmente al conflitto. Come impedire la distruzione reciproca? Come impedire l’implosione della società? Vengono date due tipi di risposte:  Risposta assolutista (Hobbes): l’individuo si rassegna a far parte della società solo se obbligato, ed è la politica ad obbligarlo. Essa è creata dall’uomo proprio in risposta al problema, è una macchina artificiale dotata di sovranità perché detiene il monopolio della forza. La politica si contrappone al conflitto. Fazioni e partiti sono pericoloso perché causa di dissoluzione dello Stato. MacPherson afferma che alla base dell’idea hobbesiana vi è l’individualismo possessivo (homo oeconomicus): l’uomo persegue fini possessivi, la società capitalistica sta dietro la tesi di Hobbes.  Risposte liberali. Diversa la premessa: la vita sociale è essenzialmente spontanea, e la società non tende all’autodistruzione. Si distinguono due tipi di risposte liberali: risposta utilitarista (Bentham, Stuart Mill), nel perseguimento dell’utile privato c’è una spinta naturale ad armonizzare i diversi interessi (cfr. mano invisibile di Smith), la società si autoregola, lo Stato è garante di ciò e delle libertà individuali; risposta funzionalista (Spencert, Durkheim, Parsons), la vita sociale è consentita dall’ordine 12 propone un’interpretazione scientifica della società e si compone di due nuclei principali: 1) teoria dei modi di produzione; 2) teoria del plusvalore. Confronto tra liberalismo e socialismo. Riguardo la società, il liberalismo la intende come massa di individui regolati da meccanismi concorrenziali, il socialismo come composta da classi perlopiù economiche regolate dal meccanismo della lotta di classe. Riguardo lo Stato, per il liberalismo è un male necessario, un potere da cui tutelarsi, poiché lo Stato deve intervenire in maniera minima e dev’essere neutrale, per il socialismo è espressione del potere della classe dominante. Elitismo. E’ una teoria che vuol’essere realistica, mette in discussione gli approcci ideologico-formali alla politica, questo in comune col pluralismo. Deriva dal concetto di élite, dal lat. “eligere” (scegliere), cioè scelta dei migliori; suoi sinonimi possono quindi essere aristocrazia, classe politica, oligarchia. Si basa sul principio minoritario: il potere è sempre in mano a una minoranza. I suoi principali esponenti sono stati G. Mosca, V. Pareto, E. Leone, F. Burzio, K. Mannheim, R. Michels, Barnham, Aron. Ci sono stati dei precursori: Spengler, Genplowicz, Le Bon, Ortega Y Gasset (questi ultimi due sono stati i teorici della società di massa). Alcuni esponenti erano senza dubbio conservatori, ma non bisogna dare all’elitismo un giudizio di valore. Essi criticano la massificazione, inteso come il governo del volgo, sicuramente influenzarono in parte i fascismi: Michels ebbe con Mussolini molti rapporti e lo esaltò nei suoi scritti. Mosca non aderì al fascismo, benché non fosse neanche anti-fascista, e anzi il fascismo lo portò a inaugurare la corrente dell’elitismo democratico, una visione più moderata dell’elitismo. L’élite si basa sulla forza, su risorse economiche e su una forte organizzazione. Il suo dominio ha il punto di forza nell’atomizzazione della massa, la quale è confusa, dispersa e incapace di organizzarsi: la massa è incapace di diventare una forza capace di contrastare le élite. L’elitismo ha un carattere a-democratico, non anti-democratico: c’è una “critica ontologica” della democrazia, la democrazia concretamente è semplicemente impossibile. L’oligarchia è l’unica forma possibile di governo. Sono in parte anche anti- liberali, poiché criticano la divisione dei poteri. Sono ovviamente anti-socialisti poiché per loro la società non è formata da classi ma da individui disorganizzati, non c’è contrapposizione tra classi ma tra élite e massa. Gaetano Mosca chiama l’élite “classe politica” o “minoranza organizzata”. Una minoranza all’interno della massa giunge ad organizzarsi e a dominare la maggioranza attraverso il cosiddetto criterio delle tre C: consapevolezza, coesione e cospirazione. I membri della classe politica sono infatti consapevoli delle loro comuni posizioni politiche, sociali ed economiche e dello stato della massa, si coalizzano e cospirano contro la massa che dominano. Vilfredo Pareto, economista, sociologo e politologo, usa il termine élite in modo intercambiabile con aristocrazia: egli riteneva che le élite fossero davvero i ceti migliori della società e dovessero comandarla. Ritiene però che ci siano tante élite, una in ogni ambito della società, non solo un’élite politica. Le élite si distinguono in base al tipo di risorse usate: i leoni impongono con la forza il loro dominio, le volpi si basano sul convincimento e alla lunga hanno la meglio. Robert Michels, allievo di Weber, fu socialista e membro della socialdemocrazia tedesca nella 15 corrente inarco-sindacalista. Tuttavia, nel suo “Sociologia del partito politico”, afferma che è l’organizzazione a produrre spontaneamente élite (lui preferisce il termine oligarchia): persino nel partito socialdemocratico ci sono élite che comandano, perché ovunque vi sia organizzazione vi è anche oligarchia: tali oligarchie finiscono per diventare più moderate delle masse che rappresentano, diventano classisti e gelosi del loro potere. I Neo-elitisti operarono negli USA dopo che nel secondo dopoguerra l’elitismo fu condannato come vicino ai fascismi. Barnham pubblicò il volume “I neo-machiavellici”: il nuovo elitismo è anti-statalista Mills usa l’elitismo in chiave critica verso il sistema, lo usa in chiave anti-pluralista criticando la democrazia americana. Le élite sono dominanti in tre settori: economico, politico, militare. Queste élite erano integrate per dominare la società di massa, anche tramite la televisione, e in America vi è una power élite contrapposta a una società fatta di individui passivi e manipolati, privi di corpi intermedi. In seguito l’elitismo si è sviluppato nell’elitismo democratico. Pluralismo. Contrapposto all’elitismo, considera la politica come frutto dell’attività e dell’interazione di gruppi. Il potere è largamente distribuito e i gruppi in tal modo si equilibrano. Contrapposta al liberalismo poiché la società è fatta di gruppi, non di individui. Precursori: Tocqueville, Montesqieu, il presidente USA James Madison. Esponenti principali: Arthur Bentley, Walter Lippman, Harold Lasky, David B. Truman, Robert Dahl. Bisogna distinguere il significato filosofico da quello politico nato col pragmatismo americano di Bentley. Il pragmatismo si sviluppò a fine Ottocento in seguito alla Guerra Civile Americana, e partì dal rifiuto di atteggiamenti assoluti o dualisti che erano stati il retroterra filosofico della guerra. Tre orientamenti diversi del pluralismo (Bobbio):  Pluralismo liberale; Tocqueville, Maclver, Dahl, Rawls.  Pluralismo socialista; Proudhon, Gurvitch, Cole, Olivetti.  Pluralismo cristiano-sociale; Sturzo, Murri, La Pira. Il sistema politico dev’essere fondato sul ruolo delle strutture intermedie (“corpi intermedi”) tra il governo e i cittadini, che proteggono la società. Il processo di governo è distribuito e frammentato, un processo a cui partecipano vari soggetti in base al principio della competizione. Il conflitto è quindi molto distribuito ma soprattutto produttivo; c’è una visione multipolare, non dualistica come quella marmista. Arthur Bentley, ne “Il processo di governo”, scatta una fotografia del sistema politico americano, affermando che “il grande compito nello studio di ogni forma sociale è l’analisi di questi gruppi, che è molto più di una classificazione”, ed inoltre che “non c’è gruppo senza interessi” (economici, culturali, ecc.). Harold Lasky, socialista inglese e leader del Partito laburista, teorizzò il guild-socialism, socialismo delle gilde; il socialismo era da lui considerato in termini anti-statalisti. David B. Truman, nel secondo dopoguerra, riscoprì Bentley, e applicò l’approccio di Bentley allo studio di gruppi di interesse e il loro ruolo nelle istituzioni di governo; giudica i gruppi postivi perché promotori dell’overlapping membership; gli individui tendono a far parte di più gruppi e questo impedisce il conflitto in quanto se si frequentano più gruppi si è portati al dialogo. Robert Dahl riprende il pluralismo in un periodo in cui si stava sviluppando nuovamente l’elitismo, e afferma che c’è una sorta di mercato 16 politico in cui vi è una continua competizione tra gruppi e ciò che essi riescono ad ottenere dipende dalle risorse di cui dispongono; egli crea il termine polyarchy, sinonimo di democrazia ma diverso da quest’ultimo che è troppo connotato storicamente. Confronto tra elitismo e pluralismo. Si basa sul dibattito riguardo il potere locale che si sviluppo tra gli anni ’50 e ’60. Nel 1953 Floyd Hunter svolge ad Atlanta un’indagine dove verifica l’esistenza di élite sul piano locale attraverso un’analisi reputazionale (chiedendo cioè ai cittadini: “chi comanda in città?”), giungendo alla conclusione che esiste un potere concentrato e dominante ad Atlanta: l’élite economica. Viceversa Robert Dahl sviluppò nel 1961 una ricerca a New Haven basata sull’analisi decisionale e giungendo alla conclusione che non c’è un solo potere, ma una pluralità di gruppi che agiscono ognuno su un singolo tema (issue) e che quindi gruppi diversi possono essere avversari o alleati in base all’issue. REGIMI POLITICI. Il concetto di regime politico va distinto rispetto alla forma di governo e al tipo di governo. La forma di governo è il sistema istituzionale in cui contano i rapporti tra gli organi; il tipo di stato considera il rapporto con il sistema socio-economico, l’organizzazione territoriale del potere e i suoi rapporti con la società. Un regime politico è invece il tipo di organizzazione sia formale che informale del potere e di regolazione dei rapporti di potere tra Stato e società. La classificazione aristotelica dei regimi politici si basa sul criterio del numero dei detentori e del numero dei beneficiari del potere. Detentori del potere uno solo pochi molti MONARCHIA ARISTOCRAZIA DEMOCRAZIA TIRANNIDE OLIGARCHIA DEMAGOGIA Si sono avute diverse classificazioni moderne di regimi politici. Machiavelli usava il criterio dei detentori del potere, distinguendo tra:  Repubbliche, che possono essere aristocratiche o democratiche;  Principati, che possono essere dispotici e non. Montesquieu si basava sul rapporto che si crea tra detentore del potere e popolo portando a far emergere tre categorie:  Repubbliche, basate sulla virtù dei cittadini e dei governanti;  Monarchie, basate sul principio dell’onore;  Dispotismi, basati sulla paura, regimi tipici dei popoli dell’oriente. 17 Beneficiari del potere tutti solo i detentori poiché proponeva non solo l’eguaglianza politica ma anche quella sociale. Molti movimenti fecero proprio l’ideale democratico: i “levellers” (livellatori) inglesi durante la Rivoluzione nel XVII sec.; i giacobini durante la Rivoluzione francese nel XVIII sec.; il nazionalismo e liberalismo romantico nel XIX sec.; il socialismo nel XX sec. Dalla democrazia alla liberaldemocrazia. Nel corso della Rivoluzione francese si creò una spaccatura tra democratici, che davano priorità al principio dell’eguaglianza, e i liberali, che davano priorità al concetto di libertà. Nel XX sec. sarà il secondo principio a vincere, ma la lotta si riproporrà nello scontro tra USA (liberale) e URSS (democratica in senso stretto). In “Sociologia del partito”, Michels che la democrazia è irrealizzabile perché il buon governo ha bisogno dell’organizzazione e l’organizzazione porta all’oligarchia. Stuart Mill comincia ad affermare la necessità di una terza via tra l’ideale oligarchico-elitista e quello democratico: il governo rappresentativo. Oggi la trasfigurazione della democrazia si è conclusa e noi usiamo il termine democrazia per indicare l’idea di Stuart Mill, e non più come prima indicando quella antica che propugnava l’eguaglianza. Si realizza l’incontro tra democrazia e liberalismo: la liberaldemocrazia. Nel tentativo di opporsi alla liberaldemocrazia, si afferma con la Rivoluzione russa l’idea di democrazia sostanziale. Essa riprende il modello classico di democrazia, realizzabile attraverso il potere ai soviet, il potere al popolo (proletariato). L’idea sembrò realizzabile fin quando essa non fallì rivelandosi un’utopia e scadendo nella dittatura staliniana. Hans Kelsen. Giurista e teorico del diritto, ceco, insegnò a Vienna e a Colonia e poi con l’avvento del nazismo prima a Ginevra e poi dal 1940 negli USA. In “Essenza e valore della democrazia” (1929) egli teorizza la sua concezione di democrazia. Kelsen si pone il problema dell’inadeguatezza della democrazia classica, avendo osservato come il regime sovietico avesse ragione nel farsi portatore della vera democrazia ma avesse fallito nel realizzarla. Egli ritiene che la democrazia sia un mezzo politico e il suo fondamento sia la libertà. Ma la libertà individuale è discordante con l’esigenza di un ordine statale, e lo Stato democratico deve garantire la riduzione al minimo della discordanza tra libertà e Stato. Egli sviluppa quindi l’idea della liberaldemocrazia. E’ questo «un governo esercitato mediante decisioni prese a maggioranza da un’assemblea popolare o da uno o più gruppi di individui o anche da uno solo scelto dal popolo». Joseph Schumpeter. Economista, teorico dello sviluppo e del ciclo economico, austriaco, espone le sue idee in “Socialismo, capitalismo e democrazia”. E’ un elitista, e prende in considerazione la realtà della democrazia e non la sua rappresentazione storica. La democrazia classica è un ideale, un’utopia, la democrazia reale è un meccanismo di selezioni e controllo dei capi (leader). Si basa su una divisione del lavoro tra elettori e politici, tra governanti e governati. Nel capitolo quarto del suo libro, intitolato “Socialismo e democrazia”, egli ritiene che la democrazia classica (e la sua riproposizione fallita nel modello sovietico) non sia possibile perché il popolo non è capace di autogovernarsi essendovi nella società moderna una molteplicità di valori e comportamenti diversi, spesso irrazionali. Egli afferma che «il metodo democratico è lo 20 strumento istituzionale per giungere a decisioni politiche in base al quale i singoli individui ottengono il potere di decidere attraverso una competizione che ha per oggetto il voto popolare». Il popolo diviene oggetto, l’élite diviene il soggetto e il popolo serve solo a eleggere e per il resto deve lasciar fare ai leaders. Percorsi di democratizzazione. Secondo Dahl, i regimi politici sono catalogabili in base a due variabili: 1) diritto di opposizione, cioè il grado in cui una serie di garanzie costituzionali sono disponibili, utilizzabili e garantite a coloro che vogliono controllare e contrastare la condotta del governo; 2) grado di inclusione, cioè la proporzione dei cittadini ai quali sono garantiti i diritti di opposizione alla condotta del governo. Su questi valori si costruisce la “scatola di Dahl” Diritto di opposizione Alto Basso POLIARCHIE EGEMONIE INCLUSIVE OLIGARCHIE COMPETITIVE EGEMONIE CHIUSE In base a queste variabili, il processo segue la direzione:  Egemonie chiuse: nessun diritto di opposizione per nessuno.  Oligarchie competitive: diritti di opposizione per gruppi ristretti.  Egemonie inclusive: bassi diritti di partecipazione per tutti.  Poliarchie: alti diritti di partecipazione per tutti. Si riconoscono due processi: processo di liberalizzazione, cioè processo di concessione dei diritti di opposizione; processo di inclusione, cioè processo di estensione dei diritti di opposizione a tutti. Il percorso verso la democratizzazione segue dunque tre diverse strade: 1) la liberalizzazione precede l’inclusione, si passa da egemonia chiusa a oligarchia competitiva concedendo diritti di opposizioni a classi ristrette e di qui a poliarchia aumentando l’inclusività; 2) l’inclusione precede la liberalizzazione, si passa da egemonia chiusa a inclusiva aumentando la partecipazione ai processi del governo, e di qui alla poliarchia aumentando Partecipazione POLIARCHIE Liberalizzazione EGEMONIE INCLUSIVE 1 2 3 21 Grado di inclusione Alto Basso l’opportunità di contestazione pubblica; 3) scorciatoia da egemonia chiusa a poliarchia, garantendo improvvisamente il suffragio universale e i diritti di contestazione pubblica. In generale il primo percorso è il più stabile e graduale, il secondo più rischioso, il terzo raramente crea democrazie stabili. Barrington Moore ha individuato invece tre vie alla società moderna in base ad analisi storiche: 1) unisce insieme capitalismo e democrazia parlamentare e approda alla democrazia attraverso alcune rivoluzioni (puritana, francese, americana); 2) si basa sul capitalismo ma senza input rivoluzionario approda al fascismo; 3) il comunismo. Precondizioni per l’affermarsi della democrazia nell’Europa occidentale. La monarchia assoluta svolse la funzione di limitare lo strapotere della nobiltà, e tuttavia la nobiltà fu sempre abbastanza forte da contrastare il potere assoluto della corona. Questo dualismo fu una precondizione fondamentale per l’affermarsi della democrazia, poiché creò un delicato equilibro tra la monarchia e la nobiltà che facilitò l’instaurazione del parlamentarismo (in primo luogo in Inghilterra). La borghesia urbana, col suo naturale interesse per la garanzia dei diritti civili e politici – innanzitutto la proprietà privata – e l’evoluzione mercantile dell’aristocrazia terriera, favorì la democrazia portando ad un’alleanza tra aristocrazia possidente e borghesia e una tenue liberazione dei contadini dai vincoli feudali. L’assenza di una coalizione aristocratico- borghese contro contadini e operai fu una precondizione necessaria, tuttavia, per evitare lo stritolamento della democratizzazione negli strati più bassi della popolazione. Infine, le rivoluzioni – inglese, americana, francese – portarono alla definitiva affermazione della democrazia estirpando l’elite agraria, distruggendo i vincoli feudali e portando operai e contadini nei processi di governo. La democrazia contemporanea. Si sviluppa come sorta di continuità della proto-democrazia dei regimi liberali. Quella contemporanea (o liberaldemocrazia) è contraddistinta da vari elementi:  Differenze sociali molto marcate;  Cittadinanza universale;  Eguaglianza politica. E’ stata smentita l’ipotesi ottocentesca di incompatibilità tra democrazia di massa e libertà borghese, ed è avvenuta una contaminazione tra capitalismo e democrazia. Ciò avviene perché da una parte è il mercato a entrare nella democrazia attraverso il concetto di concorrenza elettorale; dall’altra parte è la politica che entra nella democrazia attraverso il concetto di stato sociale. Beck parla di “alleanza tra capitalismo, stato del benessere e democrazia”. Dahl si chiede se il capitalismo favorisce o nuoce alla democrazia. La favorisce perché osserva che le democrazie si sono affermate solo in Paesi con economia capitalistica; dunque il capitalismo porta alla crescita economica e questa porta alla democrazia perché avviene una riduzione degli squilibri sociali e si crea una vasto ceto medio che impedisce la polarizzazione tra ricchi e poveri. Inoltre Sartori ritiene che l’economia di mercato, poiché porta a un decentramento delle decisioni economiche, impedisca una degenerazione autoritari del potere statale. Ma il capitalismo al contempo nuoce alla democrazia poiché tra i due 22 cittadini. Si tratta di una democrazia più ristretta riguardo il grado di partecipazione, ma più democratica riguardo l’estensione della cittadinanza. Per Bobbio è un regime dove convivono il principio democratico e il principio liberale. Quello democratico è il potere del popolo illimitato concretizzato nel suffragio universale ed eguale e nella regola di maggioranza. Quello liberale è il principio della limitazione del potere. Il principio democratico tende sempre a prevalere, ma è limitato da due condizioni di base: 1) diritti civili; 2) garanzia dei diritti delle minoranze. In generale, le liberaldemocrazie si basano su due presupposti che derivano dalla concezione classica della democrazia: 1. Presupposto popolare, sancito dalla frase di Lincoln “potere del popolo, dal popolo, per il popolo”, si basa sul concetto che i governanti devono garantire il pubblico interesse, non interessi particolaristici. 2. Presupposto egalitario, sancito dalla frase “una testa, un voto”, si basa sul concetto che ogni singolo cittadino ha diritto di partecipare alla vita politica a prescindere dalle condizioni sociali, sessuali, razziali. I Paesi liberaldemocratici. Si contano oggi 62 democrazie di cui 36 consolidate (cioè con almeno due decenni di ininterrotta esperienza democratica). Sono molto omogenei da un punto di vista economico, sociale, culturale, geografico. Sulla base di ciò si ritiene che esistano tre fattori determinanti per lo sviluppo della democrazia in questi Paesi: 1. Condizioni socio-economiche; 2. Condizioni geo-politiche; 3. Condizioni socio-culturali. 1. Secondo Pareto, «più una nazione è ricca, più aumenta la possibilità che sostenga un regime democratico». Lipset in “Political man” afferma che: «Tutti i vari aspetti dello sviluppo economico – industrializzazione, urbanizzazione, ricchezza, istruzione – sono così strettamente connessi da formare un grande unico fattore che ha il suo correlato politico nella democrazia». Huntigton giunge alla conclusione che i Paesi democratici sono quelli che negli anni ’70 erano compresi nella fascia dai 1.000 ai 3.000 $ di PIL pro capite. Due obiezioni a queste teorie: 1) contano non tanto le caratteristiche aggregate dei sistemi socio-economici, quanto l’assenza di disuguaglianza e squilibri molto acuti tra i vari gruppi sociali; 2) conta non tanto il grado di sviluppo socio-economico, quanto le modalità con cui è stato perseguito e conseguito: uno sviluppo accelerato tende a far leva su metodi autoritari. Secondo Przeworski e Limongi, le democrazie nascono in realtà casualmente rispetto ai loro livelli di sviluppo economico (eccetto che per la prima democratizzazione), il problema è che esse sopravvivono solo nei Paesi ricchi e non in quelli poveri poiché le democrazie sono regimi estremamente vulnerabili alle crisi economiche che possono distruggere i Paesi poveri. Barrington Moore in “Le origini sociali della dittatura e della democrazia” studia la prima democratizzazione secondo la trasformazione dei Paesi da regimi liberali oligarchici a democrazie di massa; scopre che la trasformazione è avvenuta grazie all’entrata in politica delle classi inferiori, promossa dalle élite per tre motivi: 1) perché le pressioni delle masse erano talmente forti da rischiare una rivoluzione; 2) perché si era sviluppata una borghesia industriale e mercantile in contrasto con la precedente aristocrazia 25 terriera; 3)perché vennero istituiti meccanismi in grado di attutire le differenze di classe mediante l’attuazione di una redistribuzione del reddito. 2. La democratizzazione successiva alla prima è collegata a fattori esterni internazionali. L’egemonia internazionale di un Paese guida porta la democrazia nei Paesi sotto il suo controllo. Nel XIX sec. è l’egemonia britannica, che riguarda le colonie del suo Impero (India). Nel XX sec. è l’egemonia americana, dopo la Seconda guerra mondiale, che riguarda i Paesi sotto la sua sfera di influenza (Giappone, Europa). 3. Si sviluppa una cultura politica particolare, un insieme di valori convertibili in procedure democratiche. Una cultura politica è un «insieme di atteggiamenti, credenze e orientamenti nei confronti della politica caratteristici di un sistema politico in un dato periodo» (Almond e Powell). Essa ha tre componenti: 1. componente cognitiva: grado di conoscenza del funzionamento del sistema politico, dei leader principali, dei problemi politici correnti. 2. componente affettiva: tipo di sentimenti provati verso il sistema, positivi o negativi, spesso derivanti dalla famiglia. 3. componente valutativa: tipo di valutazione morale del sistema. Dal tipo di valori della cultura politica si determina il tipo di sistema politico: valori come ordine, gerarchia, autorità sono componenti di una cultura autoritaria, mentre una cultura civica è tipica di una democrazia, che si basa sulla formale possibilità di tutti di partecipare al processo politico. Essa può essere:  cultura consensuale: dove la maggioranza dei cittadini concorda sul modo di affrontare i problemi.  cultura polarizzata: dove vi è un profondo disaccordo e si crea una scissione tra due grandi gruppi.  cultura consociativa: nata da una polarizzazione etnico- linguistica che tuttavia ha creato una democrazia stabile traminte un accordo consociativo tra le élite e cioè un impegno a un compromesso nelle leadership (Canada, Olanda, Svizzera). La classificazione di Lijparth. Lijparth cerca di classificare i regimi democratici attraverso varie tipologie che poi modifica in versioni successive. Prima tipologia (1968). L. analizza il tipo di cultura politica e il comportamento delle élite in un Paese. Divide la cultura politica in omogenea e frammentata, e il comportamento delle élite in conflittuale o accomodante. Egli studiando il suo Paese, l’Olanda, giunge a teorizzare la democrazia consociativa. Essa è il tipo di democrazia che sorge in una società frammentata in cui vi sono profonde divisioni linguistiche, etniche, religiose o sociali (es. in Olanda, Canada ecc.), ma in cui dominano élite consapevoli ed altamente democratiche che riescono a giungere ad accordi-compromessi reciprocamente soddisfacenti, assicurando la stabilità. L. giunge a una prima classificazione: Elites conflittuali accomodanti DEMOCRAZIA CENTRIFUGA (Italia, Francia II) DEMOCRAZIA CONSOCIATIVA (Svizzera, Olanda, Belgio) 26 Cultura politica frammentata omogenea DEMOCRAZIA CENTRIPETA (Gran Bretagna, Scandinavia) DEMOCRAZIA DEPOLITICIZZATA (Stati Uniti d’America) Quella centripeta è la vera democrazia, essendo competizione tra orientamenti moderati in cui non vi è un forte scontro politico ed è poco ideologizzata. L’Italia è passata da una democrazia centrifuga ad una consociativa nel momento in cui la DC e i comunisti trovarono un accordo (il “compromesso storico”). La democrazia depoliticizzata è forse un’anticipazione delle future democrazie, è quella americana che si è tentato di introdurre anche in Italia: il progetto del 1993 di passare da sistema proporzionale (democrazia centrifuga) a sistema maggioritario (democrazia centripeta) ha portato forse verso un regime depoliticizzato; non vi sono più grandi fatture politiche e c’è una condivisione di fondo di alcuni valori. Negli USA c’è un alto grado di apatia e non partecipazione, non esistono eccessive differenze tra democratici e repubblicani, non c’è mai stato un partito di sinistra e i due partiti sono poco ideologici e poco centralizzati ed organizzati. Correzioni e seconda tipologia (1984). Diverse obiezioni alla prima classificazione di L. Le variabili sono troppo poche rispetto alla molteplicità di casi, portando a far ricadere nelle quattro categorie regimi molto diversi. Inoltre le due variabili non hanno tenuto conto dell’impatto dei rapporti istituzionali (forme di governo, sistemi elettorali ecc.). Nella seconda classificazione (presentata nel volume “Democracies”) L. si basa su due idealtipi polari: democrazia maggioritaria e democrazia consensuale (quelle che prima erano rispettivamente “centripeta” e “consociativa”). Le variabili sono più di una, basate su una logica di funzionamento: 1. Caratteristiche del governo; 2. Rapporti esecutivo-legali; 3. Natura del legislativo; 4. Numero dei partiti; 5. Divisioni politiche rilevanti; 6. Sistema elettorale; 7. Grado di centralizzazione dell’amministrazione; 8. Caratteri della Costituzione; 9. Meccanismi di democrazia diretta (referendum). Tipologia definitiva (1999). Il secondo modello gode di una maggiore varietà di dimensioni e di ricchezza descrittiva, ma ha lo svantaggio di ridurre i regimi democratici a soli 2 tipi e di non comprendere tutte le variabili possibili aggiungendone alcune ininfluenti. In “Patterns of Democracy”, L. presenta il modello definitivo della sua classificazione analizzando 36 Paesi democratici, quindici in più della prima analisi, includendovene 11 in via di sviluppo. Aggiunge due variabili in più a quelle precedenti: il ruolo dei gruppi di interesse e delle banche centrali; ne elimina invece due: le dimensioni del conflitto politico e il ruolo del referendum. Di qui si può partire per un’analisi del rendimento dei vari tipi di democrazia. 27 secolo a.C., non indicava un regime politico bensì un istituto, un organo straordinario regolato costituzionalmente: indicava un potere concentrato nelle mani di un solo uomo, che entrava in funzione solo in situazioni d’emergenza (conflitti, guerre civili). Il dittatore era nominato dai consoli su proposta del Senato, aveva durata di 6 mesi; i consoli non potevano nominarsi dittatori e i dittatori non potevano prolungare lo stato d’emergenza, che era dichiarato dal Senato. Prima con Silla, poi con Cesare, l’istituto entra in crisi e spiana la strada all’Impero. La dittatura moderna ha in comune con l’antica la concentrazione e l’assolutezza dei poteri, nonché l’essere spesso proclamata per risolvere situazioni d’emergenza (la cui durata è però discrezione dei dittatori); tuttavia non è vincolata dalla legge ma si pone al di sopra della legge. La dittatura è a volte collegiale (es. militare), ma anche in questo caso tende ad affermarsi una figura particolare. La dittatura moderna nasce con la Rivoluzione francese: l’instaurazione del Terrore porta il concetto ad assumere connotati negativi. Marx ritiene che tutti i regimi siano delle dittature, e giustifica la dittatura del proletariato come passo necessario per la scomparsa delle classi sociali; su questa base il Comintern affermò che non c’era differenza tra fascismi e democrazie. Le dittature moderne tendono a far uso della legittimazione popolare, tramite plebisciti, mobilitazioni ecc. Si possono avere numerose classificazioni delle dittature: 1. In base all’orientamento socio-politico:  Dittatura rivoluzionaria;  Dittatura conservatrice;  Dittatura reazionaria. 2. In base alla provenienza del personale di vertice:  Dittatura militare;  Dittatura politica. 3. In base al numero dei capi:  Dittatura personale;  Dittatura oligarchica. 4. In base alla natura del potere:  Autoritaria;  Cesaristica;  Totalitaria. Per la classificazione delle dittature, si devono però usare 2 variabili chiave: l’intensità e l’ideologia. L’intensità prende in considerazione la raffinatezza e l’efficacia del potere, il rapporto tra forza e consenso, il grado di pluralismo, il ricorso alla mobilitazione di massa. L’ideologia prende in considerazione l’atteggiamento sociale e i valori di fondo della dittatura, l’atteggiamento verso l’ordine politico-sociale esistente, il tipo di rappresentanza di classe. IDEOLOGIA 30 INTENSITA’ autoritarismo cesarismo totalitarismo reazionaria apolitica rivoluzionaria FRANCHISMO PRETORIANA TERZOMONDISTA SULTANISMO PERONISMO BONAPARTISTA FASCISMO INTEGRALISMO STALINISMO I regimi autoritari (o dittature semplici). L’intensità del potere è scarsa, fanno uso del solo potere coercitivo poiché instaurandosi in società tradizionali non necessitano del coinvolgimento delle masse. Lasciano una certa libertà e autonomia, non sentono l’esigenza di controllare tutti gli aspetti della società. Rappresentano un tentativo di alcune élite conservatrici di bloccare il processo di modernizzazione, ma ci sono stati alcuni regimi che hanno tentato di favorire la modernizzazione traghettando la società verso un nuovo ordine. Secondo Juan Linz, in questi regimi il leader esercita il potere entro limiti mal definiti sul piano formale, ma in effetti piuttosto prevedibili.  Il Franchismo. S’instaura in Spagna dal 1939 al 1975 con Francisco Franco, che prese il potere in seguito a una guerra civile che anticipò gli schieramenti della II Guerra Mondiale, avendo messo in campo la frattura tra regimi fascisti e democratico-comunisti. Regime reazionario, in cui si mescola fascismo, cattolicesimo reazionario, valori “Dio, patria, famiglia”; scarsa capacità di mobilitazione, ampia libertà alla Chiesa, all’esercito e agli industriali.  Le dittature terzomondiste. Nascono alla fine del colonialismo e con la divisione del mondo in due blocchi. Ciò ha portato alcuni movimenti a prendere il potere basandosi su un’ideologia socialista, altri con un’ideologia anti-imperialista. Tutti questi regimi hanno comunque tentato di sostenere delle forme molto spinte di modernizzazione. Esempi sono Nasser in Egitto, che ha fatto propria l’ideologia anti- imperialista, Gheddafi in Libia che ha proposto il Libro Verde sulla falsariga del Libro Rosso di Mao. Castro a Cuba mescola queste due diverse direzioni.  Il Pretorianesimo. Le élite sono militari, prive di ideologie e politicamente neutrali, si presentano spesso come dittature tecniche ma difendono comunque certi interessi (es. gli interessi di alcuni ceti sociali). Il termine deriva dai pretoriani nell’Impero Romano, che insorgevano nominando imperatore un proprio comandante. Esempi sono il regime dei colonnelli in Grecia (1967-1973, tendenzialmente fascista), il regime di Stroessner in Paraguay (1954-1989), Amin Dada in Uganda (1971-1979), Zia Ul-Haq in Pakistan (1977-1988). I regimi cesaristici. In questa categoria Max Weber e Gramsci facevano ricadere le dittature del loro tempo. Questi regimi non si basano solo su strumenti di repressione, ma anche sul consenso. Sono incentrati sulla figura di un capo carismatico e su un forte apparato statale. All’ideologia si sostituisce il 31 carisma di un capo. Specifica di questa dittatura è la mediazione tra interessi contrastanti. Il termine deriva dalla dittatura di Cesare nell’antica Roma.  Il Bonapartismo. S’instaura con le dittature di Napoleone I Bonaparte e Napoleone III. Questo tipo di regime è stato studiato da Marx ne “Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte”. Napoleone I prese il potere sotto un regime rivoluzionario, che trasformò senza rinnegarlo, consolidandone le novità. Napoleone III s’impose in un contesto democratico dopo una vittoria elettorale. Il bonapartismo si pone come garante dell’ordine pubblico, si basa sui ceti più poveri e su un leader plebiscitario (Weber) capace di ottenere vasti consensi. Marx ne vede l’ambiguità considerando che le elezioni che portarono alla vittoria di Napoleone III furono vinte quasi come un’acclamazione. Trotski ne “La rivoluzione tradita” chiama bonapartismo il regime di Stalin.  Il Sultanismo. I regimi del genere sono estremamente reazionari. Secondo Weber: «Con il sorgere di un apparato amministrativo (e militare) puramente personale del detentore del potere, ogni potere tradizionale inclina al patrimonialismo e, con l’estremo ampliarsi del potere, al sultanismo. C’è una figura forte e un potere brutale che il dittatore, non vincolato da nessuna ideologia, usa sui sudditi e sui seguaci come se fosse il padrone, il quale fa un uso particolaristico del potere, distribuisce cariche e potere ai fedeli e ai familiari; è la versione moderna del dispotismo e della tirannia. Esempi sono Batista a Cuba, Somoza in Nicaragua, Duvalier ad Haiti, Reza Pahlavi in Iran.  Il Peronismo. S’instaurò con Juan Domingo Peron in Argentina dal 1946 al 1955. Si basò su un’ideologia populista nazionalista, con orientamento giustizialista in politica interna e neutralista in politica estera. Il leader carismatico costruisce un partito di massa. Per alcuni fu una variante del fascismo perché basata sul culto del leader, su un orientamento sindacalista-corporativo, un’ideologia nazionalista, un forte dirigismo economico e un’ideologia anti-liberale e demagogica. Per altri fu un movimento democratico volto a instaurare una giustizia sociale e un riscatto delle masse. In effetti fu più che altro una via nazionalista al socialismo. I regimi totalitari. Il termine totalitarismo è il tipo più moderno di regime dittatoriale. Il termine fu usato già nel fascismo italiano negli anni ’20 con significato apprezzativo, es. Gentile definì il fascismo come una “concezione totale della vita”. Si voleva affermare l’idea di una completa compenetrazione tra Stato e società civile. Il nazismo preferiva il termine “autoritarismo”, eccetto Schmitt che invece parlava di totalitarismo. Neumann lo ha considerato un idealtipo (es. 1984 di Orwell). Il concetto è sviluppato nelle “Origini del Totalitarismo” di Hannah Arendt e negli studi di Friedrich e Brzezinski. Il concetto nacque con l’intento di fare un’operazione ideologica, quella di presentare l’URSS alla stregua del nazismo tedesco per giustificare il conflitto dell’Occidente contro il suo vecchi alleato. Necessita di tre fattori per potersi sviluppare: 1) una società industriale di massa; 2) la persistenza di un’arena mondiale divisa; 3) lo sviluppo della tecnologia moderna. Secondo la Arendt gli elementi distintivi del totalitarismo sono l’ideologia e l’uso del terrore. La sua 32 6. Avere contatti con un funzionario o con un dirigente politico; 7. Versare offerte in denaro ad un partito o a un candidato; 8. Assistere ad un comizio o ad un’assemblea politica; 9. Dedicare tempo ad una campagna politica; 10. Diventare membro attivo di un partito politico; 11. Partecipare a riunioni in cui si prendono decisioni politiche; 12. Sollecitare contributi in denaro per cause politiche; 13. Candidarsi ad una carica elettiva; 14. Occupare cariche politiche o di partito. In questo elenco si parte dal gradino più basso (“esporsi a sollecitazioni”) fino ad arrivare a quello più alto (“occupare cariche politiche”). Oggi i tassi di partecipazione politica sono molto bassi. Milbrath ha condotto uno studio negli USA, che ha portato a suddividere i cittadini in varie categorie: gli apatici, completamente disinteressati alla politica, circa il 30%; gli spettatori, impegnati in un livello minimo (principalmente votare), 60%; i gladiatori, molto attivi in politica, solo il 7%. Nel 1972 uno studio di Verba e Nie ha così suddiviso la popolazione americana: gli apatici, passivi, intorno al 22%; coloro che si limitano a votare, il 21%; i localisti, circa 20%, interessati solo alla politica locale; i parrocchiali, 4%, interessati solo a ciò che li tocca direttamente; i contendenti, 15%, che si mobilitano per specifiche campagne; gli attivisti globali, il 18%, fortemente partecipi in politica in tutti i suoi ambiti. Milbrath e Goel nel 1977 hanno nei loro studi riscontrato una forte ineguaglianza nella partecipazione politica. I più alti gradi di partecipazione politica coinvolgono infatti: 1. Coloro che hanno livelli più elevati di istruzione; 2. Chi proviene dai ceti medi rispetto a chi fa parte della classe operaia; 3. Uomini più delle donne; 4. Persone in coorti intermedie di età; 5. Sposati piuttosto che scapoli; 6. I residenti in città piuttosto che chi vive in aree rurali; 7. Chi vive da lungo tempo in un luogo rispetto a chi vi si è appena trasferito; 8. Coloro che appartengono a maggioranze etniche; 9. Coloro che sono impegnati socialmente. In definitiva più alto è lo status sociale di un individuo, tanto più egli tende a partecipare. Infatti le disuguaglianze sociali ed economiche si riflettono in disuguaglianze economiche. Uno studio del 1966 di Alessandro Pizzorno ha tuttavia dimostrato che la partecipazione politica crea sistemi di solidarietà: chi è attivo politicamente difende infatti interessi che condivide con suoi simili, creando collettività solidali al cui interno gli individui si considerano reciprocamente come eguali. La partecipazione politica rafforza il senso di appartenenza permettendo quindi a categorie con basso status sociale come la classe operaia di mobilitarsi e incidere sulla politica. Una nuova fase di partecipazione politica, concretizzatasi in nuove forme a partire dagli anni Sessanta, porta nel 1988 Dalton a stilare un nuovo elenco di forme non- convenzionali di partecipazione: 1. Scrivere ad un giornale; 2. Aderire a un boicottaggio; 35 3. Autoridurre tasse o affitto; 4. Occupare edifici; 5. Bloccare il traffico; 6. Firmare una petizione; 7. Fare un sit-in; 8. Partecipare ad uno sciopero selvaggio; 9. Prendere parte a cortei pacifici; 10. Danneggiare beni materiali; 11. Utilizzare violenza contro le persone. Di qui si è giunti a una nuova classificazione di coloro che partecipano politicamente, incrociando partecipazione ad attività convenzionali con partecipazione ad attività non convenzionali: 1. Inattivi, coloro che al massimo leggono di politica o firmano una petizione; 2. Conformisti, moderatamente impegnati in attività convenzionali; 3. Riformisti, fortemente impegnati in attività convenzionali, unite a forme legali di protesta, dimostrazioni e boicottaggi; 4. Attivisti, che partecipano anche a forme non legali di protesta; 5. Protestatari, che partecipano a tutte le forme non-convenzionali di protesta ma rifiutano le forme convenzionali. Le nuove forme di partecipazione politica hanno portato a un notevole aumento della partecipazione politica nelle democrazie contemporanee, secondo uno studio di Topf nel 1995. Uno studio di Inglehart ha dimostrato che l’ondata di protesta degli anni Sessanta è collegata all’emergere di valori post- materialisti, che ha modificato la gerarchia dei bisogni creando di conseguenza nuove forme di partecipazione. I valori post-materialisti, a differenza di quelli “materialisti”, non riflettono preoccupazioni relative al benessere economico ma sono orientati verso bisogni di natura espressiva: l’autorealizzazione della persona, la libertà di pensiero e d’opinione, l’espansione della democrazia partecipativa. Questo spiega anche perché oggi sono i ceti medi, e non più la classe operaia, i soggetti di richieste di mutamento sociale, e spiega anche l’aumento di partecipazione dovuto all’incremento dell’istruzione e del benessere. Partecipazione e democrazia. In “The Political Man”, Lipset ha sostenuto che la democrazia ha bisogno di un certo livello di apatia: la non-partecipazione può essere intesa come un segno positivo di consenso verso il sistema politico. Infatti un’eccessiva partecipazione politica può aumentare il numero di domande al sistema creando un sovraccarico. Ad esempio, l’eccessiva partecipazione politica negli anni Settanta avrebbe portato a una crisi della democrazia causata dalla disintegrazione dell’ordine civile e sociale. Dagli anni Novanta si è cominciato a parlare del rischio opposto, quello dell’allontanamento dei cittadini. In realtà, ad ogni modo, il declino della fiducia nelle istituzioni politiche non ha intaccato la fiducia nella democrazia come concetto, che è invece cresciuta. Alcuni studiosi hanno proposto il concetto di capitale sociale, cioè caratteristiche dell’organizzazione sociale – reticoli di relazioni, norme di reciprocità, fiducia negli altri – che facilitano la cooperazione per il raggiungimento di comuni benefici. Il capitale sociale, così come il capitale 36 fisico (il denaro) e il capitale umano (forza lavoro), aumenta la produttività e dunque incrementa il buon governo. Hirschman, parafrasando le reazioni dei cittadini a quelle dei consumatori, ha distinto due diverse strategie per esprimere scontento verso il sistema politico: exit e voice.  L’exit, o uscita, è l’abbandono di un prodotto per un altro, paragonabile a quello che porta il cliente insoddisfatto ad abbandonare un’azienda e passare ad un’altra.  La voice, o voce, è un qualsiasi tentativo di cambiare, invece che di eludere, uno stato di cose riprovevole; è la partecipazione politica tipica. L’opinione pubblica. L’opinione pubblica, o sfera pubblica, è un’ulteriore forma di partecipazione politica che può non comportare azioni ma in cui si esprimono giudizi sul sistema politico, si fanno richieste e si propongono soluzioni. Il concetto di sfera pubblica nasce dopo il Medioevo con l’affermarsi della borghesia, interessata alla decisioni del potere pubblico; essa si pone tra l’ambito statale e l’ambito privato, poiché è un ambito non statale, ma pubblicamente rilevante, dove si hanno discussioni pubbliche visibili dall’esterno su questioni di rilevanza pubblica. Già alla fine dell’Ottocento, ma soprattutto nel Novecento, si è osservato che l’autonomia della sfera pubblica è stata compromessa dai partiti politici e dai mezzi di comunicazione di massa. Si è venuto così a creare secondo alcuni un conformismo della massa e un dispotismo della maggioranza accresciuti dalla manipolazione dei partiti e soprattutto de mass media, che - pur favorendo la diffusione del dibattito pubblico – lo commercializzano. Secondo alcuni, anzi, i mass media hanno preso il posto dei partiti imponendo una videocrazia, cioè un forte incremento della capacità dei media di controllare la politica e di influenzarla attraverso vari atteggiamenti:  Spettacolarizzazione della politica; ad esempio i giornali tendono ad interessarsi più agli scandali politici che ai discorsi portando gli stessi attori politici ad assumere atteggiamenti da sceneggiata per ottenere più spazio sui media e maggiore apprezzamento del pubblico: la comunicazione politica è frammenta in sound bites, brevissime battute tese a semplificare e drammatizzare il messaggio politico.  Personalizzazione della politica; i media incoraggiano gli elettori a votare sulla base dell’immagine, e portano i politici a curare il proprio look e a far prevalere l’appeal sui contenuti.  Definizione dell’agenda politica; i media hanno il potere di influenzare la scelta delle tematiche considerate importanti dall’opinione pubblica, incrementando l’attenzione verso un particolare tema e portando alla ridefinizione dell’agenda politica. GRUPPI DI INTERESSE POLITICI. Definizioni: Arthur Bentley: un gruppo coincide con ogni sezione della società che agisce o tenti di agire sulla base di un certo interesse («non c’è gruppo senza interesse»); David Truman: s’intende «qualsiasi gruppo che, sulla base di uno o più atteggiamenti condivisi, presenta delle domande ad altri gruppi della società». Per Almond e Powell s’intende «un gruppo di individui che sono legati da comuni preoccupazioni o interessi e che sono consapevoli di questo legame». 37 l’una con l’altra, gerarchiche, riconosciute e sovvenzionate dallo Stato. E’ caratterizzato da associazioni forti, integrate e ricche di risorse, relativamente indipendenti dai membri e capaci di sviluppare progetti di lungo termine. Si basa sulla concertazione. Cause e conseguenze. Generalmente si considera i paesi scandinavi come quelli a più alto livello di neocorporativismo e quelli anglosassoni come caratterizzati invece da un alto livello di pluralismo. Il neocorporativismo è stimolato da: 1. Piccole dimensioni di un paese; 2. Integrazione nei mercati internazionali. 3. Forti partiti socialisti; 4. Associazioni degli interessi ben strutturate. Diverse le ragioni, invece, dell’affermarsi del pluralismo: 1. Distinzioni ideologiche (es. Italia e Francia); 2. Distinzioni etnico-linguistiche (Spagna) 3. Distinzioni di categoria occupazionale (Gran Bretanga). Ciascuno dei due modelli presenta vantaggi e svantaggi. La struttura pluralistica porta un eccesso di domande frammentate e contraddittorie (iperpluralismo), il neocorporativismo porta alla discriminazione dei più deboli e non comporta alcun effetto positivo né sulla crescita economica né sulle disuguaglianza sociali. Giudizi sui gruppi di interesse. Secondo James Madison, i gruppi politici sono un male necessario che va controllato piuttosto che eliminato; infatti i gruppi hanno due opposte tendenze:  Rappresentano la libertà da parte dei cittadini di unirsi per presentare domande ai leader politici;  Rappresentano la minaccia di rafforzamento delle disuguaglianze nel potere politico, poiché coloro che già possiedono risorse importanti possono mobilitarsi più efficacemente di altri. I giudizi verso i gruppi politici sono stati sempre opposti: da una parte si è visto nell’interazione dei gruppi (famiglia, scuola, categoria professionale) la realizzazione piena dell’individuo e del bene comune, dall’altra un ostacolo al bene comune a causa degli interessi particolaristici che i gruppi perseguono. Lo studio dei gruppi politici è diventato centrale nella scienza politica, tuttavia, in contrapposizione al legalismo costituzionale che studiava gli aspetti formali e non quelli reali della politica. I MOVIMENTI SOCIALI. Definizione: i movimenti sociali sono reti di relazioni informali basate su credenze condivise e solidarietà, che si mobilitano su tematiche conflittuali attraverso un uso frequente di varie forme di protesta. I loro elementi costitutivi sono dunque, in dettaglio: 1. Reti di relazioni perché non sono gruppi o organizzazioni ma racchiudono una pluralità di individui e gruppi. 2. Credenze condivise, solidarietà e identificazioni collettive, essendo caratteristica dei movimenti sociali l’elaborazione di sistemi di valori alternativi rispetto a quelli dominanti. 40 3. Conflittualità, poiché i valori emergenti sono contrapposti a quelli preesistenti; ciò rende i movimenti i protagonisti del mutamento sociale. Oggi i conflitti si basano su valori quali difesa dell’ambiente, differenze di genere ecc. 4. Forme inusuali di comportamento politico, poiché i movimenti usano la protesta come strumento di pressione politica, e i mass media come “cassa di risonanza”. Le soglie istituzionali. Affinché ciascuno movimento politico diventi pianamente integrato nelle istituzioni democratiche occorre che superi quattro soglie. 1. Soglia di legittimazione. Riconoscimento del diritto di esprimere le proprie idee e del diritto di critica. 2. Soglia di incorporazione. Diritto e capacità di partecipare alle scelte dei rappresentanti e influenzarle. 3. Soglia di rappresentanza. Ingresso del movimento politico in Parlamento. 4. Soglie del potere esecutivo. Capacità del movimento politico di influenzare il processo di governo. Le opportunità politiche. La partecipazione politica a movimenti politico-sociali si intensifica quando si aprono canali di accesso ai decisori politici, portando a sperare in un successo della protesta. Varie componenti determinano un maggiore accesso ai decisori:  Decentramento territoriale; tanto più sono maggiori i poteri degli organi locali, tanto maggiore sarà la possibilità per i singoli movimenti di trovare un punto di accesso nel sistema decisionale.  Separazione funzionale del potere; il successo dei movimenti aumenta con l’aumentare della divisione dei compiti tra esecutivo, legislativo e giudiziario.  Strategia inclusiva; nelle democrazie orientate alla concertazione con i movimenti sociali e alla mediazione (inclusive), è maggiore il ruolo dei movimenti e la loro aggregazione nel sistema politico. Le democrazia esclusive, orientare cioè alla repressione - radicalizzano i movimenti e creano instabilità. RAPPRESENTANZA POLITICA. Nella politica moderna c’è una sequenza logica: partecipazione  rappresentanza  governo La rappresentanza è l’elemento di mediazione tra la partecipazione e il governo. Nella democrazia moderna permane una forte tensione tra i due concetti di partecipazione e rappresentanza. Il concetto stesso di politica richiama quello di partecipazione: nell’antica Grecia la politica si faceva partecipando alle pubbliche discussioni nell’agorà della polis. La democrazia 41 moderna ha parzialmente sostituito questo concetto con quello di rappresentanza. Ad ogni modo, ci sono stati due grandi tipi di rappresentanza:  Rappresentanza diretta;  Rappresentanza indiretta. Il concetto di rappresentanza nasce con i liberali. In “Considerazioni sul governo rappresentativo” di Stuart Mill c’è la prima teorizzazione del concetto: la rappresentanza è la terza via tra oligarchia e democrazia (quella degli antichi); è la «grande scoperta dei tempi moderni». Essa consiste nel fatto che il popolo non governa direttamente, poiché ciò è impossibile, ma i governanti hanno un legame con il popolo in moda da stabilire un rapporto tra governo e partecipazione. Il popolo controlla il governo attraverso i propri rappresentanti, che sono scelti mediante una procedura elettorale libera e competitiva. Forme e gradi di rappresentanza. Con la nascita dei regimi rappresentativi è sorto il problema di decidere la forma della rappresentanza. Si sono distinti tre diversi principi di fondo:  Rappresentanza fiduciaria o politica, secondo la quale chi ha ottenuto un mandato gode di una certa libertà nei confronti dei mandatari. E’ una sorta di “delega in bianco”, anche chiamato divieto di mandato imperativo.  Rappresentanza classica-medioevale, opposta alla prima, secondo la quale colui che riceve il mandato è vincolato rigidamente al suo ben preciso mandato, il quale gli può essere revocato in ogni momento. Egli semplicemente agisce per conto dei mandatari. E’ stato chiamato anche principio del mandato imperativo.  Rappresentanza sociologica o anche rappresentanza specchio, secondo la quale la rappresentanza deve assomigliare ai rappresentanti, secondo la definizione di Togliatti: «Il Parlamento dev’essere lo specchio del Paese». Ha come esempio la struttura del soviet supremo dell’URSS, che rappresentanza tutte le principali categorie sociali. In Italia, nella Prima Repubblica, si cercava di seguire questo principio stilando liste elettorali che seguissero la stratificazione sociale del Paese. Rappresentanza politica moderna. In “Il governo rappresentativo”, Bernard Manin individua alcuni elementi caratteristici alla base dei sistemi rappresentativi moderni: 1. Il governo ha una base rappresentativa; 2. I rappresentanti godono di indipendenza rispetto ai rappresentati; 3. La pluralità dei mezzi di informazione crea un’opinione pubblica autonoma; 4. La decisione politica dev’essere il frutto di una discussione. Manin elabora una classificazione di carattere storico delle democrazie sulla base del sistema rappresentativo: 1. Epoca parlamentarista, cioè l’epoca liberale, in cui c’è l’applicazione completa dei principi sopra riportati poiché esisteva un governo monoclasse rappresentante di un unico ceto sociale. 2. Democrazia dei partiti, in cui la rappresentanza è filtrata dai partiti politici, e la formazione dei governi è basata sul filtraggio della 42 attività parlamentare), la quale si convince dell’importanza del proprio compito e, conscia della sua indispensabilità per il partito, diviene inamovibile. Il tutto porta a una mutazione dei fini del partito, che diventano sempre più moderati rispetto all’origine, e sempre più “interni” nel senso dell’essere orientati alla sopravvivenza del partito invece che alla trasformazione dell’ambiente esterno. In seguito, le tesi di Michels sono stati criticate su vari punti: 1. Benché i dirigenti abbiano una certa autonomia di manovra, essi hanno comunque bisogno del sostegno della base e dei seguaci. 2. Le ideologie non sono del tutto manipolabili, poiché i fini ufficiali in esse espressi restano un punto di riferimento per i militanti e anche per i leader come strumenti di continuità per l’organizzazione. 3. La distribuzione di risorse tra leader e basi varia nei diversi partiti, paesi e periodi storici, benché la tendenza sia verso una sempre maggiore defezione della base (negli ultimi anni il numero di iscritti ai partiti è calata drasticamente). Oggi è tuttavia inevitabile osservare un sempre maggior disaffezionamento degli elettori verso i partiti politici, acuita anche dal fatto che le decisioni rilevanti per la vita di partito – in primis le candidature nelle liste elettorali – vengono prese sempre più dall’alto e in maniera poco trasparente, mentre il partito stesso diviene sempre più opportunistico e meno ideologico. Il partito pigliatutto. Questa evoluzione (o degenerazione) del partito di massa è stata proposta da Otto Kircheimer; è il partito caratteristico del secondo dopoguerra. Si caratterizza per: 1. Drastica riduzione del bagaglio ideologico del partito; 2. Ulteriore rafforzamento dei gruppi dirigenti di vertice; 3. Costante diminuzione del ruolo del singolo membro del partito; 4. Sempre minore accentuazione del riferimento ad una specifica classe sociale; 5. Desiderio di assicurazione l’accesso a diversi gruppi di interesse. L’elemento centrale del partito pigliatutto, da cui deriva la sua denominazione, è che questo tipo di partito ha come interesse principale il prendere quanti più voti possibile; per ottenere i consensi degli elettori moderati, tali partiti smussano le loro posizioni, sono meno ideologizzati, cercano di accontentare i diversi gruppi di interesse. Tutta l’energia del partito pigliatutto si concentra nella competizione elettorale, durante la quale sceglie temi quanto più consensuali possibile per ottenere l’appoggio di quanti più elettori possibili. L’elettorato di appartenenza. Attorno agli anni ’40 del Novecento, negli USA si sono sviluppate due scuole che hanno cercato di spiegare il comportamento elettorale:  La Scuola di Columbia (Columbia University di New York) ha sottolineato il ruolo nell’ambito del comportamento elettorale del gruppo socio-economico di appartenenza. Pur essendo un comportamento individuale, il voto è influenzato dalle norme e dai valori dominanti nei diversi gruppi sociali. Si è scoperto che nel 77% dei casi studiati i figli votano per lo stesso partito che votano i genitori. A contare sono dunque lo status socio-economico, la religione, il luogo di residenza. 45  La Scuola di Michigan ha guardato alle caratteristiche psicologiche individuali che prevarrebbero rispetto all’appartenenza sociale nel determinare le scelte elettorali. L’elettore è influenzato dalle sue idee su tematiche, candidati e programmi. Vi è comunque una tendenza a identificarsi col partito votato dai genitori, e quest’identificazione al partito resta stabile e si rafforza nel tempo. L’elettorato volatile. Dal secondo dopoguerra in avanti, si è osservata una riduzione dell’elettorato di appartenenza ed una crescita degli elettori indipendenti. Al posto dell’identificazione con un partito, prevale la posizione individuale riguardo una tematica specifica: è l’elettorato d’opinione che vota sulla base di specifiche preferenze per i programmi dei partiti su singoli temi (questo fenomeno è aumentato dagli anni ’70 in poi); dissimile nelle cause ma con lo stesso effetto è l’elettorato di scambio, formato dagli elettori che scambiano il loro voto con favori. Tra l’altro c’è anche un drastico declino del voto di classe (quello sottolineato dalla Scuola di Columbia). L’elettorato moderno è ora in massima parte incentrato sulla figura dell’elettore razionale, il quale è portato a scegliere i partiti che massimizzano i suoi desideri e valutando il comportamento dei partiti in base alla loro prestazione di governo. Nasce il concetto di elettorato volatile, dunque: viene a mancare la fedeltà cieca ai partiti tradizionali e aumenta il numero di elettori “da convincere”, il terreno di caccia del partito pigliatutto; uno dei risultati di questo fenomeno è tuttavia l’aumento dell’astensionismo elettorale. Il partito professionale-elettorale. Questo tipo di partito è un’evoluzione (o un’ulteriore degenerazione) del partito pigliatutto, delineato da Panebianco negli anni ’80. Il concetto di base è la sostituzione della burocrazia di partito (prima vicina alla base) con tecnici ed esperti specializzati nel rapporto con gli elettori . Mentre prima era compito delle sezioni il raccogliere le informazioni riguardo le domande dell’elettorato, ora il compito è delegato ai sondaggi effettuati da sondaggisti ed esperti di marketing. Il partito che ne deriva è organizzativamente debole, privo di un’ideologia specifica, totalmente dipendente dal leader che crea questi partiti come bandiere di comodo per la campagna elettorale. E’ l’effetto di un’americanizzazione della politica, derivata dall’importanza data al ruolo del candidato e non del partito e al ruolo dei professionisti della propaganda e della campagna elettorale che “allenano” il candidato: la campagna è affidata non più a volontari, ma a consulenti pagati. FAMIGLIE DI PARTITI. Gli studi di Rokkan (approccio genetico) hanno dimostrato che i partiti politici presenti in ciascun paese riflettono alcune fratture sociali presentatesi storicamente. Rokkan distingue quattro fratture (o cleavages), due delle quali verificatesi durante il processo di costruzione dello Stato nazionale e due durante il processo di costruzione del capitalismo industriale. 1. Cultura centrale vs. cultura periferica. 2. Stato-nazione vs, Chiesa. 3. Interessi agrari vs. imprenditori industriali. 4. Lavoratori vs. proprietari. 46 1. La prima frattura è quella centro-periferia. Si esprime l’opposizione all’accentramento territoriale del potere, simbolizzato generalmente attraverso l’affermazione di un’unica lingua ufficiale. Le minoranza linguistiche, etniche, religiose, che esprimono orientamenti culturali diversi dalla cultura nazionale egemone, si scontrano con questo processo. La differenza tra centro e periferia è che il centro è un’area privilegiata, dove i detentori delle risorse politiche, economiche e culturali si riuniscono in apposite istituzioni per esercitare il loro potere decisionale; la periferia è invece distante dal luogo dove si prendono le decisioni, culturalmente differente ed economicamente dipendente. Espressione di questi conflitti sono i partiti etno-regionalisti. 2. La seconda frattura è determinata sempre dal processo di costruzione dello Stato-nazione: la Chiesa di Roma ha infatti in questo processo cercato di difendere la propria sfera di competenza nella “formazione delle anime” (anche tramite un controllo dell’istruzione). A questo processo lo Stato si è opposto cercando di affermare il proprio potere in campi quali l’istruzione, dove si è combattuto il conflitto più acceso. Espressione di questo conflitto sono i partiti a difesa della religione (in Italia il Partito popolare e la Democrazia cristiana). 3. La terza frattura è quella città-campagna. La rivoluzione industriale, infatti, diede sempre maggiore importanza al settore secondario e terziario rispetto al settore primario, e all’importanza delle città rispetto alle campagne. Espressione di questo conflitto sono i partiti conservatori-agrari e i partiti liberali-radicali. 4. La quarta frattura è quella tra imprenditori e classe operaia. Le richieste sempre più pressanti di un’eguaglianza sociale oltre che politica da parte della classe operaia verso lo Stato portano alla nascita dell’asse destra-sinistra; la destra si caratterizza per una richiesta di minore intervento dello Stato e una minore tassazione, la sinistra per una richiesta di maggiore intervento dello Stato in servizi sociali. A seconda del comportamento delle élite a queste richieste si possono distinguere democrazie inclusive, tese a una maggiore partecipazione della classe operaia e che portò a partiti di sinistra più pragmatici e moderati, e democrazie repressive, che invece tentarono di soffocare le richieste delle classi operaie portando a una radicalizzazione delle ideologie. Espressione di questo conflitto sono i partiti socialisti e comunisti. Basandosi sulle teorie di Rokkan, Klaus von Beyme ha proposto una categorizzazione delle famiglie di partiti, che possa inquadrare tutti i diversi tipi di partiti politici che esistono e sono esistiti nelle democrazie occidentali.  Partiti liberali e radicali. Portatori degli interessi della borghesia contro i proprietari terrieri; chiedono la rimozione delle barriere doganali, l’estensione dei diritti civili (in primis la prosperità privata) e un minor intervento statale nell’economia.  Partiti conservatori. Nati come contrapposizione ai partiti liberali, espressione degli interessi dei proprietari terrieri e in parte del clero, contrari all’estensione dei diritti di cittadinanza (in primis dell’estensione del diritto di voto), fede nella tradizione, sostegno per l’ordine e la stratificazione sociale.  Partiti socialisti e socialdemocratici. Nati dalla mobilitazione della classe operaia per ottenere diritti politici e sociali. Sostengono la necessità di una trasformazione del sistema capitalistico attraverso procedure democratiche e introduzioni di economie di tipo keynesiano. 47 opposizioni irresponsabili a causa delle tendenza a fare promesse che non si possono mantenere da parte di quei partiti d’opposizione che non potranno mai salire al governo; 7) essendo costretto a restare al governo, il partito di centro avrà anch’esso scarsa responsabilità democratica.  Pluralismo atomizzato o segmentato. I partiti che contano sono nove o più, ma c’è bassa polarizzazione ideologica, alta frammentazione, presenza di coalizioni poco coese e dispersione del potere. I casi storici furono la Repubblica di Weimar e la Quarta repubblica francese. Oggi è il caso delle giovani democrazia africane e latino-americane. Il caso italiano. Sartori affermò che il modello del multipartitismo polarizzato caratterizzò il caso italiano almeno fino agli anni ’70 inclusi. In esso vi era presenza di partiti antisistema quali il Movimento sociale italiano (Msi) e il Partito comunista italiano (Pci), un centro occupato dalla Democrazia cristiana (Dc) al governo per lunghi periodi e dunque con scarsa responsabilità democratica. Questa interpretazione è stata criticata tra gli altri da Pizzorno il quale ha osservato che il Pci non poteva essere considerato all’epoca come un partito antisistema, cosa in realtà verificata col fatto che l’ingresso degli eredi del Pci nel governo negli anni ’90 non ha portato a mutamenti del sistema. Paolo Farneti ha invece affermato che a partire dagli anni ’60 l’Italia è stata caratterizzata da un pluralismo centripeto, con un rafforzamento del centro e una costante tendenza alla moderazione della polarizzazione ideologica: la nascita del Partito democratico di sinistra (poi Ds) e di Alleanza nazione (An) è visto come un compimento negli anni ’90 di questa tendenza alla moderazione dei due poli estremi. L’ELEZIONE. Le elezioni (dal latino eligo, scegliere) sono procedure istituzionalizzate per scegliere dei rappresentanti o dei titolari di cariche. Le elezioni vanno distinte dal referendum e dal plebiscito.  Il referendum, pur essendo una votazione, non serve a scegliere titolari di cariche.  Il plebiscito è un’elezione di carattere referendario, poiché consiste in una scelta pro o contro una persona o una linea politica. Tendono ad essere di carattere plebiscitario le elezioni di figure monocratiche. Il termine ha significato negativo qualora indichi un’elezione non fondata su una procedura razionale ma su un coinvolgimento emotivo dell’elettorato. Il metodo elettorale è piuttosto recente. Per secoli le cariche politiche sono state assunte tramite il metodo ereditario, poi tramite il metodo per nomina, cooptazione, per acquisto, per acclamazione, per sorteggio (nell’antica Grecia per i membri dell’esecutivo). Le origini delle elezioni risalgono all’ambiente ecclesiastico del medioevo, dove non era possibile l’ereditarietà delle cariche: i priori, i Papi. Nell’ambito politico il metodo dell’elezione è introdotto per la prima volta in Inghilterra dopo la “gloriosa rivoluzione”, benché la vera svolta si abbia con la Rivoluzione francese con l’affermarsi dell’idea di rappresentanza politico- fiduciaria: il delegato rappresenta l’intera nazione e il corpo elettorale non dev’essere di classe ma nazionale. Il lento processo di democratizzazione vede 50 un graduale estendersi del diritto di voto (di seguito i dati relativi all’Italia): 1861- 80 -> 2%; 1882-1909 -> 7,7%; 1913-24 -> 27%; 1946 -> 65,7%. Elezioni e democrazia. Poiché le elezioni sono un metodo usato anche in regimi non democratici, va fatta una maggiore precisazione riguardo l’uso delle elezioni in regimi democratici: Schumpeter osserva che un sistema può essere definito democratico quando le posizioni più importanti vengono ricoperte mediante elezioni regolari, corrette, periodiche, in cui i candidati possano competere liberamente e tutta la popolazione adulta detenga il diritto di voto. In base a questi parametri, ai giorni nostri non riterremmo democratici paesi quali gli USA fino al 1870 o la Svizzera fino al 1971 che vietavano il diritto di voto rispettivamente ai neri e alle donne. Un’altra componente chiave è il grado di libertà di movimento dell’opposizione, che in alcuni paesi non ha la possibilità di esprimersi anche tramite una censura dei media. Si può sintetizzare affermando che le condizioni necessarie per considerare democratiche delle elezioni sono tre: 1. La rilevanza, cioè quanto i risultati delle elezioni pesano sugli effetti decisionali del governo; 2. La competizione, cioè il tipo di offerta politica, che dev’essere davvero plurale e permettere ai candidati di essere davvero competitivi; 3. La libertà, cioè quanto liberamente gli elettori possono scegliere, sottraendosi da manipolazione e convincimenti di chi detiene il potere. Il voto originariamente era però un atto pubblico, ed è stato tale in Europa per buona parte dell’Ottocento. L’istituto del voto segreto è stato introdotto tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo. La scheda elettorale prima non era stampata dallo Stato, ma i fogli con i voti erano dati dai candidati; l’introduzione della scheda di Stato, della cabina elettorale, del divieto di propaganda nei seggi hanno rafforzato la democraticità del meccanismo elettorale. I SISTEMI ELETTORALI. Il sistema elettorale determina come i voti sono trasformati in seggi. E’ una variabile fondamentale nel sistema politico perché incide sull’assetto stesso del sistema. La classificazione generale distingue tra sistemi maggioritari, sistemi proporzionali e sistemi semi-proporzionali. Le componenti chiave dei sistemi elettorali sono tre:  Struttura della votazione, cioè la forma di espressone del voto, il livello di scelta che si trova di fronte l’elettorale sulla scheda. Si distingue quindi tra voto alla persona e voto al partito, e tra scheda categorica (se c’è da esprimere una sola preferenza) e scheda ordinale (se va espresso un ordine di preferenza).  Tipo di collegio; un collegio è l’area all’interno della quale viene effettuata la trasformazione dei voto in seggi, un’area spesso territoriale che comprende un certo numero di elettori. Non conta la grandezza (il numero di elettori), ma la magnitudine, cioè il numero di eletti. La differenza va fatta tra collegi uninominali (dove può esserci un solo eletto) e collegi plurinominali (dove possono esserci più eletti).  Formula elettorale; è la componente fondamentale. La formula è la procedura matematica di calcolo per l’attribuzione dei seggi in base ai voti registrati. Si distingue tra formula maggioritaria (tesa ad assicurare 51 tutta la posta in gioco al candidato che ha ottenuto la maggioranza, relativa o assoluta) e formula proporzionale (tesa a ripartire la rappresentanza tra i vari contendenti in relazione ai voti di ciascuno). Sistemi maggioritari. Si basano sul principio del “chi arriva primo prende tutto” (the winner takes all). Di solito fa uso di collegi uninominali. L’obiettivo dei sistemi maggioritari è aumentare la governabilità, creando maggioranza nette; il loro intento è di eleggere non solo un parlamento, ma anche un governo. La differenza principale è tra sistemi a maggioranza assoluta (almeno il 50%+1) e sistemi a maggioranza relativa (o semplice, chi ottiene più voti).  First past the post (FPTP) o plurality system. Collegio uninominale e maggioranza semplice. Il candidato vincitore e' semplicemente quello che ottiene la maggioranza semplice (relativa) dei voti. E’ usato in Gran Bretagna, Canada, India, USA. In totale lo usano 68 paesi, circa 1/3.  Voto bloccato (BV1). E’ usato in paesi semi-democratici o non democratici, come la Palestina, il Kuwait, Thailandia, Maldive, Filippine. E’ un FPTP a collegi plurinominali: si eleggono in blocco delle liste. Ogni partito presenta una lista di candidati e il partito che ha preso più voti fa vincere l’intera lista di candidati, gli altri non vincono niente.  Doppio turno (TRS2) o majority system. Per Sartori, è un sistema elettorale a sé stante. Diversamente dal plurality system, qui c’è bisogno di una maggioranza assoluta, non relativa, per vincere. Siccome però questo sistema si applica a collegi uninominali, se nessun candidato raggiunge al primo turno la maggioranza assoluta si torna a votare entro 2 settimane. Se il secondo turno è un ballottaggio tra i due candidati che al primo turno hanno ottenuto più voti, ovviamente ci sarà di certo un vincitore con maggioranza assoluta; se al secondo turno passano più di due candidati, allora subentra il plurality system e cioè vince chi ha la maggioranza relativa. E’ applicato in Francia e in totale in 30 paesi.  Voto alternativo (ATV3). L’Australia è l’unico caso. Si basa su collegi uninominali, maggioranza assoluta e soprattutto su una scheda ordinale: gli elettori sulla scheda devono graduare le loro preferenze per i candidati. Se un candidato nelle sole prime preferenze ha la maggioranza assoluta, vince. Altrimenti, si comincia con l’eliminazione dei candidati che hanno avuto meno voti nelle prime preferenze; le seconde preferenze di queste schede vengono però calcolate, e infine è eletto chi ha la media più alta in posizione. Il premio di maggioranza ha come intento il produrre o rinforzare una maggioranza. Il sistema Saenz Pena applicato in Argentina (fino al 1962) assegna in ogni collegio due terzi dei seggi al partito con il più alto numero di voti e il restante terzo al partito arrivato secondo. In Paraguay (in passato) due terzi dei seggi vanno al partito con il più alto numero di voti, e il restante terzo è distribuito proporzionalmente ai restanti partiti. Il premio di maggioranza si applica in sistemi partitici frammentati allo scopo di obbligare i partiti a stringere 1 Blocked Vote 2 Two Rounds System 3 Alternative Vote 52 Gli effetti di Duverger sono di due tipi: effetto meccanico ed effetto psicologico.  L’effetto meccanico è la tendenza a dare un bonus di seggi ai partiti maggiori e penalizzare i partiti minori allo scopo di creare maggioranze più stabili. E’ una tendenza insita in tutti i sistemi elettorali e ha come frutto la riduzione del sistema partitico.  L’effetto psicologico è l’attitudine degli elettori ad adottare un comportamento di voto che, in base all’osservazione dell’effetto meccanico, penalizza i partiti meno competitivi (con meno chance di vittoria) e premia quelli più competitivi. Ovviamente richiede almeno due elezioni successive o due successivi turni elettorali per manifestarsi. Ha come effetto sempre quello di ridurre il sistema partitico. In pratica tutti i sistemi elettorali tendono ad essere disproporzionali. Secondo Lijparth, i sistemi elettorali tendono a sovrappresentare i partiti maggiori e sottorappresentare quelli minori. Secondo Rae, tutti i sistemi elettorali tendono a ridurre il numero di partiti rappresentati in Parlamento. Uno degli effetti più notevoli dei sistemi elettorali è la capacità di fabbricare una maggioranza laddove non vi sono condizioni per produrla. In base alla capacità manipolativa- riduttiva dei sistemi elettorali, Sartori distingue tra sistemi forti, cioè sistemi maggioritari, e sistemi deboli, cioè sistemi proporzionali. Sempre Lijparth fa una classificazione delle maggioranze create dai sistemi elettorali: 1) maggioranze artificiali; 2) maggioranze guadagnate; 3) minoranze naturali; 4) minoranze guadagnate. Le leggi di Duverger. Sono due: 1. Il sistema maggioritario determina il bipartitismo. 2. Il sistema proporzionale e il doppio turno determinano il multipartitsmo. Queste due leggi sono state abbondantemente criticate da Sartori. In primo luogo egli afferma che le leggi di Duverger stabiliscono correlazioni, non nessi causali (cioè, solitamente il bipartitismo è associato con il sistema maggioritario, e il multipartitismo è associato con la proporzionale). Inoltre nelle scienze sociali le leggi sono «generalizzazioni dotate di potere esplicativo che rilevano una regolarità», e le leggi sull’influenza dei sistemi elettorali sono tra quelle «rare 55 ISSUES POLITICHE NUMERO DI VOTI PER UN DETERMINATO PARTITO REGOLE ELETTORALI (effetto meccanico di Duverger) NUMERO DI SEGGI PER UN DETERM. PARTITO DEVIAZIONE della PROPORZIONALITA’ (effetto psicologico di Duverger) NUMERO DEI PARTITI ELETTORALI NUMERO DEI PARTITI PARLAMENTARI STABILITA’ POLITICA leggi» che dovrebbero valere per tutti gli eventi elettorali, cosa che quelle di Duverger non fanno ignorando infatti numerose eccezioni. Il problema è che le leggi delle scienze sociali non sono mai deterministiche, e possono perciò sopportare qualche infrazione. Le leggi di Sartori. Sulla base dell’analisi di numerose eccezioni alle leggi di Duverger, Sartori ha proposto delle nuove leggi che possano descrivere efficacemente gli effetti dei sistemi elettorali sui sistemi partitici. Egli comincia col formulare un insieme di regole descrittive: 1. Un sistema maggioritario non può produrre di per sé un formato bipartitico nazionale, ma aiuterà a mantenerlo una vota che c’è. 2. Un sistema maggioritario produrrà a lungo andare un formato bipartitico a due condizioni: primo, quando il sistema partitico sia strutturato e, secondo, se l’elettorato refrattario a qualsiasi pressione del sistema elettorale si trova disperso attraverso i collegi in proporzioni largamente minoritarie. 3. Per contro, un formato bipartitico non si formerà mai qualora minoranze razziali, linguistiche, ideologiche e in generale incoercibili siano concentrate in alte proporzioni in determinati collegi o aree geografiche. 4. Anche i sistemi proporzionali consentono effetti riduttivi sul sistema partitico in proporzione alla propria disproporzionalità; e particolarmente quando sono applicati a piccolo collegi, o stabiliscono una soglia di accesso, o attribuiscono un premio di maggioranza. Si passa poi a mettere in relazione i formati previsti delle quattro regole con le caratteristiche dei sistemi partitici, che come abbiamo visto possono essere secondo Sartori: 1) bipartitismo; 2) multipartitismo moderato; 3) multipartitismo polarizzato. Sono quindi formulate tre ipotesi: 1. Quando la formula maggioritaria produce un formato bipartitico (regole 1 e 2), questo formato produrrà a sua volta una meccanica bipartitica se, e soltanto se, la polarizzazione della comunità politica è bassa. 2. Presupponendo una dispersione sotto-quota delle minoranze incoercibili (se ci sono), le formule impure di rappresentanza proporzionale consentiranno con tutta probabilità un sistema di 3-4 partiti. Questo sistema darà luogo a sua volta alla meccanica del multipartitismo moderato se, e soltanto se, la comunità politica non dispiega alta polarizzazione. 3. I sistemi di rappresentanza proporzionale puri o relativamente puri producono un formato da 5 a 7 partiti. In caso di alta polarizzazione questo formato esibirà le caratteristiche meccaniche del multipartitismo polarizzato. Altrimenti, in condizioni di polarizzazione medio-bassa, si potrà verificare il multipartitismo moderato. Sistemi elettorali Maggioritario Proporzionale (I) EFFETTO RIDUTTIVO del SISTEMA ELETTORALE (II) EFFETTO CONTROBILANCIANTE 56 Sistema partitico Strutturato Non strutturato DEL SISTEMA PARTITICO (III) EFFETTO RIDUTTIVO a LIVELLO di COLLEGIO (IV) NESSUNA INFLUENZA La combinazione (I) include tutti i sistemi bipartitici basati su elezioni maggioritarie. La combinazione (II) indica che quando alla formula proporzionale fa da contraltare un sistema partitico strutturato, l’elettore resta comunque frenato dalla potenza della canalizzazione partitica, e i partiti restano pochi (si può avere un bipartitismo senza voto maggioritario). La combinazione (III) indica che quando un maggioritario opera in un sistema partitico non strutturato, l’effetto riduttivo sul numero di partiti si ha solo collegio per collegio e non a livello nazionale. La combinazione (IV) intende che quando una proporzionale relativamente pura si combina con l’assenza di strutturazione partitica, non si hanno effetti manipolativi né da parte del sistema elettorale né da quello partitico. Di qui si ricavano infine le quattro leggi: 1. Dato un sistema partitico strutturato e la dispersione tra collegi, i sistemi maggioritari causano un formato bipartitico. 2. Dato un sistema partitico strutturato ma in difetto di dispersione tra i collegi, i sistemi maggioritari causano l’eliminazione dei partiti sotto- maggioritari ma non possono eliminare, e dunque consentono, tanti partiti sopra due quanti sono consentiti dalle concentrazioni sopra- maggioritarie. 3. Dato un sistema partitico strutturato, la rappresentanza proporzionale consegue un effetto riduttivo causato dalla sua non-proporzionalità. Pertanto, quanto maggiore è l’impurità della proporzionale, tanto più forte è l’effetto riduttivo. 4. In difetto di sistema partitico strutturato e con una rappresenta proporzionale pura (o quasi pura), e così con un eguale (quasi eguale) costo di ingresso per tutti i partiti, il loro numero può aumentare di tanto quanto lo permette la quota. Valutazione del sistema maggioritario. I sistemi maggioritari vengono giustificati sulla base di quattro considerazioni:  Essi eleggono (o aiutano a eleggere) una maggioranza di governo e, per questa via, un governo.  Essi riducono la frammentazione partitica fino a creare un sistema bipartitico.  Essi creano una relazione diretta tra elettori e rappresentanti.  Essi migliorano la qualità dei titolari di cariche elettive. La principale critica che si rivolge ai sistemi maggioritari è che essi cercano la governabilità “fabbricando” maggioranze in grado di sostenere l’azione di governo. Pertanto il maggioritario non presta attenzione alla “rappresentanza 57  In base al numero delle camere si distingue tra parlamenti monocamerali e parlamenti bicamerali. Un parlamento monocamerale è dotato di un’unica struttura assembleare, cioè una sola camera. Un parlamento bicamerale è composto invece di due camere. La seconda camera in questo caso può avere poteri più limitati della prima (es. Camera dei Lord britannica) o avere le stesse competenze della prima (es. Senato in Italia). Nei sistemi federali la seconda camera rappresenta le unità territoriali federali (es. Bundesrat tedesco e Senato USA). In questi casi, i rappresentanti della seconda camera possono essere eletti dai cittadini (USA) o nominati dai governi degli Stati federali (Germania).  La distinzione riguardo il diverso peso attribuito alle commissioni rispetto al plenum dell’assemblea ritiene che i parlamenti (come quello italiano) in cui alle commissioni sono conferiti poteri considerevoli, che vanno fino all’approvazione delle leggi, funzionino meglio. Il più discreto lavoro in commissione facilita accordi pragmatici, a differenza del lavoro in assemblea che acuisce i conflitti ideologici.  Un’altra variabile chiave è la strutturazione dei partiti all’interno del parlamento. Solitamente l’affiliazione partitica tende ad essere mantenuta all’interno dei gruppi parlamentari, ma varia la capacità di controllo dei gruppi parlamentari sui propri membri e questo a seconda del grado di coesione dei partiti politici e delle prevalenza in essi di una leadership parlamentare o extraparlamentare. Tendenzialmente, maggiore è il numero dei partiti e minore è la forza numerica dei partiti che sostengono il governo, maggiore sarà il potere autonomo del parlamento rispetto al governo. Sulla base di queste variabili, è stata compiuta una distinzione tra due modelli di parlamento: il parlamento avversariale e il parlamento policentrico. 1. Il parlamento avversariale è monocamerale o con bicameralismo solo formale, le commissioni hanno scarso potere, vi è un sistema bipartitico con partiti molto compatti. Il Parlamento ha scarso potere autonomo, poiché c’è un’identificazione tra maggioranza e governo (monopartitico). 2. Il parlamento policentrico è bicamerale, ha un forte sistema di commissioni, vede un numero elevato di partiti con scarsa coesione interna, cosa che rafforza l’autonomia del Parlamento rispetto al governo. FORME DI GOVERNO. Generalmente, si ritiene che ai parlamenti sia assegnata la funzione legislativa e ai governi la funzione esecutiva. Questa distinzione è spesso poco netta, e sul rapporto tra parlamento e governo si basa la distinzione delle forme di governo: sistema parlamentare, sistema presidenziale, sistema semipresidenziale. Forme di governo parlamentari. Il potere esecutivo è diviso tra capo dello Stato e capo del governo. Il parlamento è l’unico organo direttamente responsabile rispetto agli elettori, elegge il capo dello Stato, il quale nomina il governo, che deve ricevere la fiducia dal parlamento. Nei sistemi bipartitici il capo dello Stato investe del compito di formare il governo il segretario del 60 partito che ha vinto le elezioni; nei sistemi multipartitici, invece, se nessun partito ottiene una maggioranza sufficiente a governare il capo dello Stato avvia consultazioni con i leader dei diversi partiti prima di poter assegnare l’incarico di formare il governo. Al parlamento spetta la funzione legislativa, esercitata attraverso la presentazione di progetti di legge da parte dei parlamentati e attraverso la votazione dei progetti di legge governativi. La funzione legislativa si sta gradualmente indebolendo, tuttavia, a vantaggio dell’esecutivo. Ciò a causa di una tendenza verso la personalizzazione della politica che accresce il potere del capo del governo. Il parlamento detiene comunque le funzioni di rappresentanza delle opinioni pubbliche e di controllo di governo. Il potere condiviso. Il parlamentarismo si basa sul fatto che è esclusa la concentrazione del potere esecutivo in una sola persona (come avviene nel presidenzialismo): è la logica del potere condiviso. Secondo Sartori, il capo del governo può essere:  Un primo sopra ineguali.  Un primo tra ineguali.  Un primo tra eguali. Un primo sopra ineguali è un capo dell’esecutivo che è anche il leader del partito, che difficilmente può essere scalzato dal voto dei suoi parlamentari e che soprattutto nomina e sostituisce a sua discrezione i ministri del proprio gabinetto. Un primo tra ineguali può anche non essere il leader del partito, ma resta in carica anche quando cambiano i membri del suo gabinetto. Un primo tra eguali è un primo ministro che cade con il suo gabinetto e che ha poco controllo sulla squadra dei ministri. Sempre secondo Sartori, solo i primi due tipi permettono la governabilità, e sono i sistemi definiti premierato. Il Premierato. Il termine deriva da premiership, governo del primo ministro. In questa forma di governo formalmente parlamentare esiste una predominanza del premier, benché questa predominanza non derivi dal fatto che esso è eletto dal popolo (come per il presidenzialismo). Il premier ha la possibilità di sciogliere il parlamento. Il sistema inglese di governo, secondo Sartori, si regge sue tre condizioni: 1. Elezioni con maggioritario semplice. 2. Bipartitismo. 3. Partiti fortemente disciplinati. In Germania si chiama cancellierato: il capo del governo (cancelliere) è eletto dal parlamento e protetto dal meccanismo della sfiducia costruttiva che rafforza l’esecutivo e il suo capo. Per Sartori è il caso debole di premierato. Questo perché si fonda su un sistema tripartitico, sul sistema elettorale misto- proporzionale, ed ha sperimentato solo per breve tempo un governo monopartitico fondandosi principalmente sul governo di coalizione. Il governo semiparlamentare. E’ stato applicato solo in Israele dal 1992 al 2001. Prevede l’elezione diretta e popolare del primo ministro, separatamente dall’elezione del parlamento. Il primo ministro forma il governo ma deve avere la fiducia del parlamento; in caso contrario può sciogliere il parlamento, ma così 61 facendo deve dimettersi anch’egli e indire elezioni generali. Il Capo dello stato è invece eletto dal parlamento ed ha pochi poteri (come quello italiano). Il governo assembleare. E’ il lato oscuro del parlamentarismo. Caso tipico fu la Terza Repubblica Francese, la repubblica dei deputati. La Quarta Repubblica francese e la Prima Repubblica italiana si sono avvicinati molto a questo deprecabile sistema. Esso si fonda sui seguenti elementi:  Il gabinetto non guida la legislatura.  Il potere è diffuso e atomizzato.  La responsabilità si annebbia.  La disciplina partitica è quasi inesistente.  I primi ministri e i loro governi non sono in grado di agire.  Le coalizioni sono fragili. Forme di governo presidenziali. Il potere esecutivo è concentrato nelle mani del presidente che è sia capo dello Stato che capo del governo. E’ eletto direttamente dai cittadini, forma il suo governo, e questo non ha bisogno della fiducia parlamentare. Il governo non può sciogliere il parlamento, e il parlamento non può sfiduciare il presidente se non tramite l’impeachment. La funzione legislativa è condivisa dai due organi. Il fatto che in questo sistema sia il presidente (potere esecutivo) che il parlamento (potere legislativo) sono eletti direttamente dal popolo ha portato Juan Linz ad affermare che questo sistema è retto da una doppia legittimità democratica. I sistemi presidenziali incorrono tuttavia in una situazione molto pericolosa: quella, cioè, che si verifica quando il presidente appartiene a una fazione politica e il parlamento è a maggioranza della fazione avversaria. In questo caso si creano problemi di governabilità. Esistono circa 20 paesi presidenziali, la maggior parte in America: USA e paesi sudamericani. In Europa questo sistema non ha avuto fortuna per un fatto storico, e cioè che quando sorsero i primi governi costituzionali c’era già un capo dello Stato: il monarca; gli USA furono la prima democrazia al mondo a eleggere un capo dello Stato, essendone sprovvisti. Il modello Washington. Il modello statunitense di presidenzialismo è l’unico al mondo che ha funzionato bene. E’ caratterizzato dalla divisione-separazione del potere tra presidente e Congresso, grazie al quale l’esecutivo non poggia sulla fiducia parlamentare, e il parlamento non può interferire negli affari interni dell’esecutivo né può rimuovere un presidente (impeachment a parte), mentre il presidente non può sciogliere il parlamento. Questo non significa però che il presidente americano è indifferente al fatto di poter contare o meno sul sostegno del Congresso. Anzi, gli USA sono caratterizzati dal trend del governo diviso: negli ultimi 40 anni il presidente è stato quasi sempre privo di una maggioranza in parlamento. Mentre i repubblicani hanno tenuto la Casa Bianca dal 1968 al 1992 (tranne per i quattro anni di Carter), i democratici hanno interamente controllato il Congresso (tranne sei anni) dal 1955 al 1995. Questo è il problema maggiore dei sistemi presidenziali, che gli USA hanno fronteggiato grazie a meccanismi particolari:  Convergenza bi-partisan in politica estera; 62 di impegno del governo cittadino nella distribuzione della grande ricchezza della città».  Politiche regolative; introducono vincoli ai comportamenti di tutti. Studio di Lowi sui dipartimenti di polizia, vigili del fuoco ecc. In queste arene c’è un accordo sul fine – la protezione della vita e della proprietà – e i conflitti si creano riguardo i modi per raggiungere questi fini. Un’altra classificazione delle politiche è stata compiuta da Wilson. La distinzione è in base al livello di concentrazione di costi e benefici. La concentrazione di costi a fronte di benefici diffusi (es, costruzione di un inceneritore di rifiuti) tende a produrre un’opposizione forte; una politica con benefici concentrati e costi diffusi (es., incentivi all’industria automobilistica) trova forte sostegno di gruppi d’interesse e scarsa opposizione. Attori delle politiche pubbliche e reti d’interazione. Nei processi di produzione delle politiche pubbliche operano sia attori pubblici che attori privati. Gli attori pubblici sono parlamenti, governi, burocrazie pubbliche, magistratura. Gli attori privati sono partiti, gruppi d’interesse, movimenti, esperti. Il loro ruolo dipende dalle diverse tappe delle politiche pubbliche: 1. Identificazione di un problema. Partiti, gruppi e movimenti si mobilitano per inserire un certo tema nell’agenda politica. 2. Formulazione di una soluzione. I tecnici e gli esperti elaborano delle proposte analizzando e selezionando le alternative. 3. Adozione di una decisione. Governi e parlamenti regolamentano la decisione. 4. Attuazione della decisione. La messa in opera della decisione è compito delle burocrazie pubbliche, anche se spesso si coinvolgono attori privati che rappresentano gli interessi dei soggetti coinvolti dalla politica pubblica in questione. 5. Valutazione dei risultati. Analisi del modo in cui una politica pubblica è stata attuata e sui suoi esiti, al fine di verificarne l’adeguatezza al raggiungimento di determinati obiettivi e proporre eventuali correttivi. Le interazioni tra gli attori possono essere diverse. Se ne riconoscono generalmente tre tipi:  Triangoli di ferro. Tipici negli USA: s’instaurano rapporti stabili tra gruppi d’interesse, burocrazie pubbliche, commissioni parlamentari. I burocrati favoriscono i collegi elettorali dei parlamentari membri delle commissioni che tendono ad accresce il budget e le competenze della burocrazia; i parlamentari offrono ai gruppi d’interesse contributi pubblici in cambio di voti; i gruppi d’interesse aiutano i burocrati con informazioni e consulenze private in cambio di politiche a loro favorevoli.  Issue networks. Reticoli legati al tema specifico, le interazioni tra gli attori mutano a seconda del tema oggetto di decisione. Accanto ai politici, alle burocrazie e ai gruppi d’interesse si collocano esperti, giudici, giornalisti, movimenti sociali.  Policy communities. Comunità relativamente stabili di attori pubblici e privati che tendono a condividere alcune idee di fondo sulla soluzione da dare a specifici problemi. 65 Il processo decisionale. Come si decide sulle politiche pubbliche? Quale logica presiede alla decisioni pubbliche? Diversi approcci riguardo questa domanda.  Scelta razionale. Secondo Max Weber, il fondamento dell’agire burocratico è il principio della razionalità dell’azione. La scelta razionale è una selezione tra diverse alternative per realizzare obiettivi stabiliti. Si sceglie solitamente l’alternativa meno costosa: il massimo dei benefici con il minimo dei costi.  Razionalità limitata. Secondo Herbert Simon ne “Il comportamento amministrativo”, la razionalità è limitata. Il principale vincolo ad un comportamento pienamente razionale riguarda il costo stesso della raccolta delle informazioni, che rende irrealistica una completa conoscenza di tutte le alternative. Il decisore allora si accontenta della prima soluzione che gli appare soddisfacente.  Comparazioni limitate. Secondo Charles Lindblom, il processo decisionale procede in modo incrementale e incoerente, attraverso successive comparazioni di un numero limitato di alternative. Il processo decisionale quindi avviene attraverso aggiustamenti adattivi, cioè adeguamenti a trasformazioni esterne, e aggiustamenti manipolativi, miranti a trasformare l’ambiente esterno.  Garbage can. Il processo decisionale è attuato non da un unico attore, ma da un insieme di attori in lotta fra loro, poiché ciascuno è dotato di propri obiettivi e strategie spesso incompatibili. Le soluzioni si affastellano in modo disordinato, come in un cestino della spazzatura (garbage can).  Approccio neoistituzionalista. Gli individui agirebbero all’interno della burocrazia pubblica rispettano le regole dell’attività politica, quindi con una certa coerenza di fondo. Il rispetto delle regole deriva da processi di routinizzazione, che scoraggia il mutamento a favore di una tendenza alla conservazione dell’esistente. Si è anche discusso riguardo la struttura gerarchica della pubblica amministrazione. Generalmente si ritiene che il flusso decisionale, in questa struttura, vada dall’alto verso il basso (top down). Tuttavia oggi prevale una visione diversa. E’ stato osservato che le decisioni prese in alto sono spesso imprecise e compromissorie, poiché rinviano alla fase di attuazione le scelte più importanti, che vanno negoziate in basso, tra gli attori interessati (bottom-up). Questo per vari motivi, soprattutto perché si ritiene che coloro che devono attuare le politiche (gli esperti) siano più adatti a prendere le decisioni-chiave rispetto ai burocrati superiori. La burocrazia. Nel modello weberiano, la burocrazia pubblica si fonda sul potere razionale-legale dei suoi funzionari. Il potere è impersonale e orientato all’applicazione neutrale di regole astratte. La pubblica amministrazione dev’essere composta da funzionari con competenze specifiche legate al loro ufficio. Il funzionario pubblico agisce sine ira ac studio, cioè in base a criteri oggettivi, senza riguardo a elementi affettivi puramente personali. Il punto debole della burocrazia è la mancanza di una legittimazione rappresentativa. Data quindi la mancanza di una responsabilità diretta rispetto 66 all’elettorato, la burocrazia dev’essere subordinata al potere politico. Ai politici spetta il compito di definire l’indirizzo generale delle politiche pubbliche, ai burocrati quello di rendere operative le direttive dei politici. In realtà il principio di neutralità è solo un ideale nelle esperienze concrete. Weber aveva osservato che il monopolio del sapere dei burocrati mette i politici in una posizione di obiettiva soggezione: mentre infatti l’amministrazione pubblica potrebbe essere pienamente sovrana ed autosufficiente, in grado cioè di trasformare autonomamente gli input in output, lo stesso non si può dire dei politici che in ogni attività hanno sempre bisogno della collaborazione dei tecnici. La superiorità della burocrazia deriva anche dalla più lunga permanenza in carica dei funzionari rispetto ai politici. Negli anni ’80 e ’90, anche in Italia, si sono succedute leggi di riforma della pubblica amministrazione. Queste riforme si sono rivolte in due direzioni principali:  Deregolamentazione e privatizzazione. Riduzione delle formalità amministrative e privatizzazione allo scopo di limitare fini e funzioni dell’amministrazione pubblica, mediante riduzione dei servizi pubblici e/o vendita in tutto o in parte di imprese dello Stato. Per ridurre il deficit pubblico, si è avuta l’applicazione alla pubblica amministrazione delle tecniche di gestione manageriale tipiche delle imprese private. Da un burocrate solo applicatore delle leggi si passa al burocrate manager. La valutazione delle politiche pubbliche è ora in termini di risparmio di risorse e soddisfazione dei destinatari (democrazia dei risultati).  Trasparenza dell’amministrazione pubblica. Introduzione di procedure che garantiscano maggiore visibilità alle decisioni pubbliche. Maggiore accesso dei cittadini alla documentazione amministrativa che li riguarda, accrescimento dai canali disponibili per opporsi a provvedimenti amministrativi, semplificazione dei rapporti tra privati e pubblica amministrazione. Affermazione della figura del difensore civico. Si afferma la figura del burocrate mediatore, che negozia con i gruppi d’interesse. La magistratura. La magistratura è il corpo incaricato di sanzionare le violazioni del diritto. Dev’essere indipendente rispetto ad altri poteri, privati o pubblici. L’autonomia della magistratura nasce con la creazione del giudice super partes, autonomo rispetto alle due parti private e dipendente invece dal sovrano. Con l’estensione della funzione di arbitro alle contese fra cittadini e Stato, il giudice è diventato autonomo rispetto al potere politico (tripartizione dei poteri di Montesquieu). I giudici oggi sono vincolati al solo rispetto della legge, e non a ordini dell’esecutivo, e la persona del giudice è protetta da eventuali ritorsioni del potere politico. L’indipendenza in Italia della magistratura è rappresentata dal Consiglio Superiore della Magistratura (CSM), nato nel 1959. Ad esso sono assegnate le decisioni in campo disciplinare e di carriera. L’organo è composto per 2/3 da magistrati eletti dal CSM (20 membri), e per 1/3 da esperti di diritto, avvocati o docenti universitari, eletti dal parlamento (10 membri); tre membri sono tali di diritto: il presidente della Repubblica, il primo presidente della Corte di Cassazione, il procuratore generale della Corte di Cassazione. Il CSM è indipendente dal ministero della Giustizia, che mantiene solo alcuni poteri di ispezione. Esistono tuttavia ancora oggi casi di controllo politico della magistratura: es. la dipendenza del pubblico ministero dal 67 di “governo” che il governo locale fornisce può essere facilmente misurata attraverso la quantità di denaro che esso spende, il numero di impiegati pubblici che impiega o, in modo meno facile, attraverso il raggio di attività regolatorie delle quali è responsabile». Il governo locale, principalmente quello della grande città, dipende sempre più da fondi statali e federali. La crisi fiscale e la riduzione dei finanziamenti hanno portato a una competizione tra le città per attrarre investimenti privati nel proprio territorio. Gli amministratori pubblici cercano di incentivare gli investimenti attraverso politiche di sviluppo locale volte a ridurne i rischi e costi o ad aumentare le possibilità di profitto attraverso infrastrutture, aiuti nella ricerca di finanziamenti, incentivi fiscali, favori nell’applicazione delle regole municipali, sviluppo del sistema d’istruzione ecc. GLOBALIZZAZIONE ED EUROPEIZZAZIONE. Gli Stati-nazione sono sempre più indeboliti, più che da processi di federalismo e devoluzione, da processi di globalizzazione. Gli Stati sono sempre meno capaci di far fronte a fenomeni che si presentano su scala globale. La globalizzazione ha tre aspetti principali: aspetto culturale, aspetto economico e aspetto politico.  Dal punto di vista culturale, i nuovi mezzi di comunicazione – in primis Internet – hanno prodotto un villaggio globale dove siamo istantaneamente raggiunti dai messaggi inviati dai luoghi più distanti. Il processo di modernizzazione ha portato alla diffusione su scala globale dei valori e delle credenze occidentali. Ciò comporta di contro la recrudescenza del nazionalismo, dei movimenti etnici, del fondamentalismo religioso e soprattutto islamico.  Dal punto di vista economico, la produzione industriale si trasferisce nei paesi dove i salari sono più bassi, portando alla creazione di corporations multinazionali e soprattutto all’internazionalizzazione dei mercati finanziari. La classe operaia dei paesi occidentali si è indebolita, nei paesi in via di sviluppo le politiche neoliberiste hanno costretto i governi di questi paesi a sostanziosi tagli nelle spese sociali, con conseguenti proteste dei gruppi più poveri.  Dal punto di vista politico, c’è un processo di transnazionalizzazione delle relazioni politiche. Gli Stati-nazione continuano ad essere gli attori principali delle relazioni internazionali, ma nuovi attori politici sovranazionali stanno assumendo sempre più rilievo. Ruolo delle istituzioni sopranazionali. L’affermazione di istituzioni politiche intergovernative quali l’Unione europea e le Nazioni unite ha messo in crisi le teorie classiche delle relazioni internazionali. Al classico approccio realista è subentrato un più moderno approccio pluralista e un approccio istituzionalista:  Approccio realista: le relazioni internazionali sono un sistema anarchico, privo di gerarchie, dato che il principio della sovranità nazionale garantisce ad ogni Stato pari dignità e forza. La difesa della sicurezza nazionale è cercata attraverso politiche di armamento. La temporanea assenza di guerra è legata all’esistenza di equilibri (bipolari o multipolari) che si realizzano quando vi è una certa parità nell’armamento di due o più Stati. 70  Approccio pluralista: c’è una pluralizzazione degli attori rilevanti nelle relazioni internazionali, nonché la compresenza, insieme alla sicurezza, di altri obiettivi rilevanti, in primis lo sviluppo economico. A partire dal secondo dopoguerra, infatti, sono cresciute le organizzazioni governative internazionali sia con un raggio d’azione globale (ONU) che con un raggio d’azione regionale (UE, Mercosur, Nafta), sia a scopi militari (Nato) che di sviluppo economico (FMI, Banca mondiale, WTO).  Approccio istituzionalista: si è sottolineata la capacità delle emergenti istituzioni sopranazionali di generare interessi e risorse orientate alla propria sopravvivenza ed espansione. Le organizzazioni internazionali avrebbero inoltre contribuito a diffondere regole e norme internazionali, eliminando il concetto di sistema anarchico nelle relazioni internazionali, anche andando contro il principio della sovranità nazionale. Cresce anche il numero di organizzazioni sopranazionali dove le decisioni sono prese non più all’unanimità ma a maggioranza e sono vincolanti per tutti gli Stati appartenenti. Attori politici transnazionali. Accanto alle organizzazioni governative internazionali, si sono sviluppate anche le Organizzazioni non-governative (ONG) transnazionali, cioè organizzazioni indipendenti dai governi, che agiscono in più paesi. Alcuni parlato di una politica civica mondiale, poiché le ONG rappresentano quella componente della vita associativa al di sopra dell’individuo e al di sotto dello Stato (la società civile hegeliana). Oltre ad esse, si sono moltiplicate le organizzazioni transnazionali dei movimenti sociali, cioè organizzazioni di movimenti attive in più paesi: Greenpeace, Amnesty International, Friends of the Earth, ecc. ONG e movimenti sociali transnazionali hanno diretto la protesta contro l’approccio neoliberista delle organizzazioni internazionali. A partire delle contestazioni a Seattle (1999) contro la conferenza dell’Organizzazione mondiale del commercio, c’è un sempre maggiore aumento della protesta contro le istituzioni internazionali. Unione europea. La Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) nasce nel 1952 per coordinare le politiche di 6 Stati (Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi) in un’area di rilevanza strategica, la produzione siderurgica. Nel 1957 nasce la Comunità economica europea (CEE), orientata a facilitare gli scambi commerciali tra i sei paesi, ai quali si aggiungono nel 1973 Irlanda, Danimarca e Regno Unito. Nel 1981 entra nella CEE la Grecia, nel 1986 Spagna e Portogallo. Nel 1992 nasce l’Unione europea (UE), col trattato di Maastricht. Nel 1994 entrano Austria, Finlandia e Svezia. Nel 2004 si aggiungono – con lo storico allargamento del 1° maggio – Slovenia, Malta, Cipro, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Estonia, Lettonia, Lituania, Ungheria. Oggi l’UE ha una moneta unica, poteri elevatissimi in campo di commercio e politiche agricole, crescente attenzione alle politiche sociali, prime esperienze di cooperazione in politica estera e militare, assenza di frontiere interne di ogni tipo. Essa si fonda su tre pilastri: 1. Primo pilastro: politiche comuni riguardo agricoltura, trasporti, moneta. 2. Secondo pilastro: politiche comuni riguardo la politica estera e la sicurezza comune. 3. Terzo pilastro: politiche comuni riguardo la giustizia e gli affari interni. 71 L’esecutivo è rappresentato dalla Commissione europea, che comprende un commissario per ogni paese membro e un presidente nominato dal Consiglio europeo. Il Parlamento europeo è l’unica istituzione rappresentativa dell’Unione, dal 1979 è eletta dai cittadini di tutti gli Stati europei: ha poteri di controllo sul bilancio, esprime un voto di fiducia sulla Commissione, condivide il potere legislativo con Commissione e Consiglio. Il Consiglio europeo è composto dai capi di Stato e di governo dei paesi membri, ed agisce come guida politica dell’Unione. Il Consiglio dei ministri è composto da un ministro per ognuno degli Stati membri (con un presidente eletto per sei mesi, con un’alternanza tra i diversi Stati membri), partecipa all’iniziativa legislativa; ci sono diversi consigli dei ministri (affari generali, economia, agricoltura, energia ecc.) ai quali partecipano i ministri nazionali competenti per le singole materie. Alla Corte di giustizia spetta il giudizio sui conflitti e sull’attribuzione di competenza tra l’Unione e i singoli Stati oltre che tra i vari organi di governo. La Banca centrale europea, istituita nel 1997, ha soppiantato il ruolo delle banche centrali nazionali nella politica monetaria. Appunti integrativi da Giovanni Sartori, Ingegneria costituzionale comparata (parte III) LE DIFFICOLTA’ DELLA POLITICA. L’eredita del Sessantotto. La crisi della politica contemporanea è iniziata negli anni Sessanta, col crescere di una generazione che credeva esistessero soluzioni semplici e chiare per tutto. In questa visione semplicistica, i sessantottini ritenevano vera democrazia politica l’attribuire sempre più potere a sempre più persone. E’ evidente, però, che un intero popolo non può esercitare potere su sé stesso. Insieme ad essa si aggiungeva l’idea di una democrazia economica da attuare attraverso l’estensione dei meccanismi di autogoverno della democrazia politica alla fabbrica, all’azienda e in generale a tutti i servizi della società post-industriale. Il problema è che l’economia, per sua stessa natura, esige competizione, produttività, profitto, riduzione dei costi, concetti 72
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