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Sociologia Generale (Croteau e Hoynes) + Introduzione alla Sociologia (ambrogio santambrogio), Sintesi del corso di Sociologia Avanzata

Ottimi riassunti di sociologia generale

Tipologia: Sintesi del corso

2015/2016
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Caricato il 22/03/2016

Alessandro2612
Alessandro2612 🇮🇹

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Scarica Sociologia Generale (Croteau e Hoynes) + Introduzione alla Sociologia (ambrogio santambrogio) e più Sintesi del corso in PDF di Sociologia Avanzata solo su Docsity! INTRODUZIONE ALLA SOCIOLOGIA 1.1 Cos’è la sociologia? La sociologia è lo studio sistematico del rapporto fra individui e società. L’approccio sociologico può essere ritenuto una prospettiva, un modo di osservare il mondo. Assumere una prospettiva sociologica significa riconoscere e comprendere i collegamenti fra gli individui e i più vasti contesti sociali nei quali essi vivono. 1.1.1 La prospettiva sociologica Nel 1959, il sociologo americano C.Wright Mills fornì la più nota descrizione della prospettiva so- ciologica. Secondo Mills “L’immaginazione sociologica ci consente di afferrare biografia e storia e il loro mutuo rapporto nell’ambito della società”. La nostra condizione di individui (biografia) dipende in parte da forze più ampie all’interno della società (la storia). Come rileva Mills, con il mutare delle condizioni sociali cambia anche la nostra vita personale. Mills e altri sociologi non ritengono che le persone siano semplicemente soggetti passivi. La prospettiva sociologica rivela che esiste un’inte- razione fra le condizioni sociali che plasmano la nostra vita e le azioni che compiamo in quanto individui. Non abbiamo la possibilità di scegliere le condizioni in cui viviamo, le opportunità che ab- biamo o le difficoltà che dobbiamo affrontare, ma possiamo decidere come rispondere a queste circostanza, sia come persone sia come collettività. 1.1.2 Sociologia e buon senso Le opzioni che abbiamo nella vita vengono determinate da condizioni sociali che non abbiamo po- tuto scegliere. Si tratta di fattori che possono notevolmente influenzare le opportunità che le per- sone hanno di godere di buona salute, accedere all’istruzione, agli agi materiali e a un benessere generale. D’altro canto, se non abbiamo la possibilità di “sceglierci le nostre carte”, possiamo comunque de- cidere come giocarle. Per operare in una società così complessa abbiamo bisogno di capire non solo il modo in cui noi percepiamo e concepiamo il mondo, ma anche come lo comprendono gli altri. 1.1.4 La sociologia come disciplina La sociologia fa parte delle scienze sociali, un gruppo di discipline basate sulla ricerca empirica che raccolgono e valutano dati al fine di studiare la società umana. È questo aspetto a distinguere le scienze sociali dalle scienze naturali che, al contrario, si concentrano sugli aspetti fisici della na- tura. Le scienze sociali comprendono anche la scienza politica, l’economia, la psicologica e l’antr- opologia culturale, discipline che si occupano di aspetti diversi della vita sociale. I sociologi hanno molti interessi e, nel suo complesso, questa disciplina presenta diverse aree di specializzazione: fra queste la sociologia della salute, della famiglia, della religione, delle migra- zioni, del lavoro, del genere, dei media e dei movimenti sociali. 1.2.1 L’ascesa della modernità Nel ‘700 la società europea entrò in un nuovo periodo storico, la modernità, caratterizzato dalla crescita della democrazia e della libertà personale, da una dipendenza sempre maggiore dalla ra- gione e dalle scienze per spiegare il mondo naturale e quello sociale, e da uno spostamento verso un’economia industriale urbana. L’ascesa della modernità nel XVII e nel XIX secolo si contraddistinse per alcuni cambiamenti rivo- luzionari in ambito culturale, politico, economico e sociale. Il passaggio dall’economia rurale e agricola all’economia industriale urbana trasformò l’ordine sociale europeo; nello stesso tempo, la nuova enfasi posta su ragione e scienza pose le condizioni necessarie alla nascita della sociolo- gia. 1.2.2 Rivoluzione culturale: la scienza e l’Illuminismo Nel corso del Medioevo, la Chiesa e il clero dominavano la vita intellettuale europea controllando il limitato numero di libri dell’epoca. Poiché la dottrina religiosa costitutiva la base di un pensiero so- ciale accettabile, gli eretici, contrari alla dottrina della Chiesa, venivano spesso perseguitati e per- sino uccisi. Un clima intellettuale di questo genere era il meno adeguato per le indagini della scienza. A poco a poco, il dominio della Chiesa declinò, mentre la ricerca scientifica rivelava i limiti delle spiegazioni del mondo naturale fornite dalla religione. Scrittori e filosofi si impossessarono di alcuni progressi nelle scienze naturali per promuovere l’Illuminismo, un movimento intellettuale del XVIII secolo che univa alla fede nella libra individuale e al rispetto per i diritti dei singoli la logica delle scienze naturali. Questi filosofi illuministi affermavano che non si dovevano accettare per fede né il mondo fisico né il mondo sociale; entrambi, anzi, andavano esaminati alla luce della ra- gione. Qualsiasi affermazione di conoscenza doveva essere soggetta a verifiche compiute racco- gliendo prove concrete, e le spiegazioni dovevano basarsi su cause ed eventi naturali. 1.2.3 Rivoluzione politica: l’ascesa della democrazia I filosofi illuministi ritenevano che l’apertura del dibattito delle idee avrebbe promosso la tolleranza, i diritti individuali, l’uguaglianza e la democrazia. Essi suggerirono che applicando ragione e scien- za ai problemi di rilevanza sociale si sarebbero favoriti il progresso dei diritti individuali e la libertà. Le idee illuministe furono il supporto intellettuale sia della Rivoluzione Americana (1775-1783) sia della Rivoluzione Francese (1789-1799), ma anche di una serie di sollevazioni che divamparono in Europa nel 1848, sfidando i governi tradizionali e promuovendo gli ideali democratici. Tali rivolu- zioni stimolarono un grande interesse per l’ottenimento di una società più equa e per il migliora- mento delle condizioni di vita. Pertanto, i primi problemi affrontati dai sociologi includevano le con- troversie sulla natura dell’ordine sociale e sui cambiamenti sociali. 1.2.4 Rivoluzione economica e sociale: capitalismo industriale e urba- nizzazione Per Rivoluzione Industriale si intende una serie di importanti sviluppi che trasformarono le società rurali e agricole in società urbane industriali. Questo processo ebbe inizio in Gran Bretagna nel XIX secolo, diffondendosi poi in tutta Europa e negli Stati Uniti. L’applicazione pratica del progres- so scientifico, come per esempio la creazione della macchina a vapore, segnò l’inizio dell’industria- lizzazione, l’utilizzo di grandi macchinari per la produzione in serie di beni di consumo. L’industria- lizzazione richiese importanti investimenti in fabbriche e stabilimenti dotati di macchinari comples- si, come il telaio meccanizzato. L’industrializzazione, quindi, andò di pari passo con l’ascesa dei capitalisti, attori economici che miravano al profitto attraverso investimenti e acquisizioni di azien- de. La produzione in serie si basava su un nuovo tipo di rapporto fra lavoratori e proprietari: i lavo- ratori vendevano la propria manodopera in cambio di un salario e utilizzavano poi i guadagni per acquistare cibo, abiti e un luogo in cui vivere. Ne derivò quindi la nascita del lavoro salariato e del consumismo, un sistema di vita che dipende dall’acquisto e dell’utilizzo dei beni e servizi messi in commercio. Tali sviluppi alimentarono la rapida espansione del capitalismo, un sistema economi- co nel quale i macchinari utilizzati per la produzione sono di proprietà privata, i lavoratori ricevono un salario e i commercianti mediano lo scambio di beni e servizi. Tali cambiamenti economici ap- portarono importanti mutamenti nella vita sociale: nell’economia agraria, i contadini vivevano e la- voravano nelle zone rurali, mentre con l’economia industriale i lavoratori si concentrarono nelle zone urbane maggiormente industrializzate. Con l’affermarsi della Rivoluzione Industriale, molte persone abbandonarono le case nelle campagne e si trasferirono nelle città in cerca di un lavoro, contesto culturale nel quale si svolge la sua azione. Una delle sue affermazione teoriche fonda- mentali fu che nelle società premoderne era la tradizione (credenze e costumi ai quali viene spes- so attribuito un significato emotivo che si tramandano di generazione in generazione) ad avere un’influenza primaria sulle azioni delle persone. Nelle nuove società capitalistiche industrializzate, però, era molto più probabile che tali azioni fossero influenzate principalmente dalla razionalità strumentale. Weber affermò che la razionalizzazione della società - il processo storico a lungo termine grazie al quale la razionalità ha sostituito la tradizione come base dell’organizzazione della vita economica e sociale - era il motore del cambiamento sociale della sua epoca. L’influenza della razionalizzazione andava al di là delle azioni umane, arrivando a comprendere le più vaste istitu- zioni sociali. Weber riteneva che la razionalizzazione potesse essere utile per la società, in quanto incideva sulla stabilizzazione delle procedure. Secondo il sociologo tedesco, nel momento in cui la razionalizzazione avesse permeato tutti gli aspetti della vita avrebbe creato società fredde ed im- personali. Weber temeva che nella società moderna gli esseri umani potessero impegnarsi in azioni significative soltanto all’interno delle grandi organizzazioni, dove venivano loro assegnati compiti ristetti e ben definiti, sacrificando gli obiettivi personali a quelli impersonali dell’insieme. 1.4.1 Comprendere la teoria La teoria cerca di dare spiegazione a qualcosa che si è osservato. Le teorie rispondono ai “perché” e aiutano a spiegare i dati o le prove: “Perché è accaduto questo?”, “Perché è così?”. Una teoria sociale è un insieme di principi e affermazioni che spiegano il rapporto fra fenomeni sociali. Caratteristiche di una teoria: Una teoria non è soltanto un’intuizione o un’opinione personale. Una teoria per poter essere utile va sottoposta a verifica al fine di controllare che sia coerente con le prove: è questa la natura della scienza. Le teorie evolvono lasciando sopravvivere solo le idee più utili. Quando i dati empirici con- traddicono ripetutamente una teoria, questa viene riveduta o scartata. Spesso le teorie multifattoriali forniscono un quadro più completo rispetto a qualsiasi teoria monofattoriale. Molti fattori contribuiscono a gran parte degli aspetti sociali. Prendere in considerazione teorie differenti può servire a mostrarci una varietà di possibili spiegazioni per un fenomeno sociale e a farci constatare che a esso contribuisce una serie di elementi diversi. 1.4.2 Le dimensioni chiave della teoria Le teorie sociologiche variano lungo dimensioni chiave, che comprendono consenso e conflitto, realtà oggettive e soggettive, analisi microsociologiche e macrosociologiche. Consenso e conflitto: per conflitto si intende la presenza di tensioni e dispute nella società, spesso dovute a una distribuzione ineguale di risorse scarse, che possono contribuire al cambia- mento sociale. Il termine consenso invece si riferisce alla solidarietà e alla cooperazione, spesso determinate dalla presenza di valori e interessi condivisi che possono contribuire alla stabilità so- ciale. In alcuni casi il conflitto può produrre un certo grado di consenso, mentre un consenso appa- rente spesso maschera tensioni latenti, che divengono palesi solo quando si esprimono in un con- flitto aperto. Realtà oggettiva e soggettiva: le condizioni oggettive sono gli aspetti materiali della vita sociale, tra cui l’ambiente fisico, i social network e le istituzioni sociali. Si tratta di qualcosa che esiste al di fuori di noi e che forma le dimensioni oggettive della vita sociale. La dimensione soggettiva della vita sociale riguarda il mondo delle idee, che include la nostra coscienza di Sé, le norme sociali, i valori e i sistemi di credenze. Sia il mondo fisico oggettivo, nel quale viviamo, sia le nostre interpre- tazioni soggettive di quel mondo hanno un’influenza significativa sulla nostra vita e sulla società. Analisi microsociologiche e macrosociologiche: la terza dimensione della teoria sociologica concerne i diversi livelli di analisi, oltre che i diversi livelli della società stessa: le teorie che si con- centrano sull’interazione sociale su piccola scala, solitamente fra due persone, operano a livello di analisi microsociologica; quelle incentrate su sistemi e processi sociali su larga scala, operano a livello di analisi macrosociologica (trend economici, politici e demografici); infine quelli che si con- centrano su un punto qualsiasi fra due fenomeni sociali molto grandi e piccoli operano a livello di analisi mesosociologica. 1.4.3 Teorie struttural-funzionaliste Le teorie struttural-funzionaliste si concentrano sul consenso e sull’interazione cooperativa nella vita sociale, sottolineando come i diversi elementi che compongono la struttura di una società con- tribuiscano al suo operato generale. Le teorie struttural-funzionaliste dominavano negli Stati Uniti verso la meta del XX secolo, quando il loro principale sostenitore era Talcott Parsons. Parsons considerava le società come sistemi complessi formati da parti interdipendenti (famiglie, tribunali, scuole, economia) che operano insieme per produrre la stabilità sociale. Poiché sono bilanciati, tali sistemi tendono a muoversi verso il normale stato di equilibrio: un mutamento di una parte del si- stema comporta il cambiamento di un’altra parte a compensazione. Le persone si integrano nella struttura sociale attraverso la cultura, in particolare sotto forma di valori condivisi. Dal consenso sui valori di base deriva un impegno morale nei confronti della società che aiuta a farla funzionare in modo regolare. Perché possa perdurare, un’istituzione sociale deve soddisfare una specifica necessità del sistema come insieme; le istituzioni che non danno il proprio contributo si adattano o scompaiono. Parsons affermava che qualsiasi organizzazione sociale deve adempie- re diverse funzioni chiave per poter sopravvivere fra cui insegnare ai membri del gruppo i valori essenziali della comunità, definire gli obiettivi comunitari e raggiungerli, adattarsi ad un ambiente che cambia. In un importante contribuito alla teoria funzionalità, Robert K. Merton distinse fra funzioni manife- ste, riconosciute e volute dei fenomeni sociali, e funzioni latenti, le conseguenze per lo più non riconosciute e non volute di tali fenomeni. Merton inoltre, ci ricorda che, pur nella loro persistenza, alcuni fenomeni possono essere disfunzionali in quanto inibiscono o disturbano il funzionamento di un sistema. 1.4.4 Teorie del conflitto Le teorie del conflitto si concentrano sui conflitti, sul potere e sulle disuguaglianze, evidenziando come la vitale sociale e il suo sviluppo ruotino intorno alla competizione per le risorse scarse rite- nute più importanti. L’approccio del conflitto sottolinea come, per soddisfare i bisogni comuni, le persone cerchino di acquisire risorse che possono includere i beni materiali ma anche beni meno tangibili, come il rispetto sociale e la libertà. Poiché spesso tali risorse sono limitate, per ottenerle le persone entrano in competizione, formando gruppi sociali e portandoli al conflitto. Spesso, an- che quando è invisibile, il conflitto è reso latente dal predominio dei più potenti sul resto della so- cietà. Le teorie del conflitto collocano il potere al centro della vita sociale, poiché esso consente a chi lo detiene di ottenere un vantaggio sugli altri, acquisendo maggiori risorse. In questa lotta in- cessante, i diversi gruppi si avvalgono dei valori culturali e delle idee come armi per promuovere le proprie posizioni mentre la cultura dominante spesso sostiene e giustifica le disuguaglianze esi- stenti. Le teorie del conflitto affermano che l’immagine popolare della famiglia tradizionale degli anni ’50, vista come istituzione sociale che funzionava senza problemi, è un mito. 1.4.5 Teorie dell’interazionismo simbolico L’interazionismo simbolico si concentra sul modo in cui le persone utilizzano i simboli condivisi e costruiscono la società come risultato delle proprie interazioni quotidiane. Le teorie dell’interazioni- smo simbolico ebbero pieno sviluppo negli Stati Uniti sulla base delle opere degli psicologi sociali dell’inizio e della metà del XX secolo. Mead analizzò il modo in cui sviluppiamo il nostro Sé grazie all’interazione con gli altri e all’auto-riflessione. Goffman, invece, nella sua teoria drammaturgica, dimostrò che la vita somiglia ad un dramma teatrale, completo di scenografie e sceneggiature, nel quale gli attori impersonano un ruolo. Le teorie dell’interazionismo simbolico sono fortemente as- sociate alle dimensioni soggettive della vita sociale; quest’ultima viene spiegata partendo dal fatto che l’interazione fra gli individui su cui si basa il mondo sociale avviene mediante simboli culturali, come le parole e il linguaggio non verbale del corpo. Grazie all’interazione, gli individui sviluppano un senso del Sé e creano una comprensione della realtà condivisa con gli altri, anche se prevalen- temente influenzata dalle persone che hanno maggior potere. L’interazione quotidiana, tuttavia, ricrea o modifica in continuazione i modelli, quindi la società stessa ha un’instabilità innata ed è in continuo mutamento, il mondo sociale è in perenne evoluzione. 1.4.6 Teorie femministe e del genere Fra le più importanti teorie contemporanee di può annoverare quella del genere, che si concentra sulle disuguaglianze sociali basate sulle differenze sessuali e sui processi di costruzione del ma- schile e del femminile all'interno della società, oscillando tra la tradizione della teoria del conflitto e quella dell'interazionismo simbolico. Analogamente a quanto avviene per le altre tradizioni teoriche, non esiste un'unica teoria del gene- re bensì una grande varietà. Il movimento femminista degli anni 60' e 70' contribuì a creare uno spazio per le studiose neo-femministe, dall'iniziativa delle quali, derivò la teoria del genere. Gli uomini avevano storicamente dominato le analisi della vita sociale, spesso con la presunzione che il oro modo di capire e vedere potesse essere applicato a chiunque. La teoria femminista della differenza rifiutava questo concetto, sottolineando invece come tutta la conoscenza fosse costruita seguendo una particolare prospettiva e che le esperienze diverse delle donne dovessero esservi inserite per arrivare a una comprensione accurata della vita sociale. La teoria del genere ha con- tribuito a mettere in luce come il colori femminile sia il fulcro di lotte sociali che coinvolgono ses- sualità, canoni di bellezza, violenza. La teoria del genere, nei suoi più recenti sviluppi e generaliz- zandosi come una più ampia prospettiva sulla vita sociale, ha prodotto opere su uomini, rivelando come anche le nostre idee sulla mascolinità siano un costrutto sociale. 1.5 Il terreno comune della sociologia: cultura, struttura e potere Le diverse teorie sono unite tra di loro da alcuni concetti chiave che costituiscono il nucleo della prospettiva sociologica ovvero cultura, struttura e potere. Il funzionalismo mette in rilievo il ruolo della cultura nel fornire alla società dei valori comuni, come l'amore per la famiglia. La teoria del conflitto sottolinea come i gruppi in competizione possano manipolare idee e simboli culturali a proprio vantaggio. L'interazionismo simbolico enfatizza il procedimento grazie al quale gli individui creano la cultura, come quando la famiglia viene ridefinita per comprendere una più ampia ha,,a di relazioni. 1.5.1 Cultura La cultura è l'insieme di valori, credenze, conoscenze, norme, linguaggi, comportamenti e oggetti materiali condivisi da un gruppo e trasmessi socialmente da una generazione all'altra. La cultura opera a qualsiasi livello sociale: attraverso le interazioni quotidiani e fra individui; mediante norme organizzative nelle scuole, negli uffici e in altri gruppi; grazie a meccanismi diffusi in tutta la società come i media e la religione. In senso più ampio, la cultura è modo di vivere. La cultura non è natu- rale ed è priva di una base biologica, perché deve essere insegnata e va appresa attraverso il pro- cesso di socializzazione. Poiché le persone devono riprodurre la cultura per garantirne la soprav- vivenza, è sempre possibile che la cambino adottando nuovi valori, credenze e comportamenti, abbandonando quelli più antichi. Questo processo di evoluzione culturale può creare conflitti, lad- dove alcune persone scelgano di attenersi ai valori e ai modi di vita più tradizionali, mentre altre abbraccino idee e comportamenti nuovi; di conseguenza, i conflitti culturali sono piuttosto comuni. Gli scontri di valori, credenze e modi di vita aiutano ad alimentare il conflitto, contribuendo talvolta anche a scatenare una guerra. La cultura è spesso un valore da celebrare, e la nostra identità de- riva in parte dagli elementi culturali ai quali abbiamo scelto di aderire. La cultura, quindi, è un fatto- re intrinseco della vita sociale ed è un elemento essenziale dell'analisi sociologica della società. 1.5.2 Struttura consiste nel proporre tentativi di soluzione del nostro problema e scartare le soluzioni false come erronee.
 Quest’affermazione di Popper può essere la base di partenza per la comprensione della scienza come viene intesa oggi, per tre ragioni. La prima è che la scienza e le altre forme di conoscenza vi è una continuità di fondo: osservare, conoscere e ragionare sulle cose serve a risolvere dei pro- blemi. Per la seconda, la scienza moderna si basa sul confronto costante tra quanto affermato in teoria rispetto alla soluzione di un certo problema conoscitivo e la sua messa alla prova, attraverso un confronto con la realtà concreta. In terzo luogo, la scienza moderna suggerisce implicitamente che per operare questo confronto tra ciò che affermiamo in teoria e ciò che risulta valido in pratica occorre seguire un percorso sistematico, scartare quindi le idee errate di un metodo attraverso il quale interroghiamo le nostre idee teorico-ipotetiche. 
 Le due parole chiave che definiscono la scienza moderna sono “teorizzazione” e “metodo”, le quali consentono allo scienziato di esaminare le proprie idee attraverso prove empiriche. 
 L’epistemologia è una branda della riflessione filosofica che si occupa dei fondamenti e delle pos- sibilità conoscitive delle scienze. La metodologia è una parte della logica che si occupa dei fonda- menti del metodo, con lo scopo di individuare e riflettere sui principi da seguire per giungere a una conoscenza scientifica.
 Teorizzazione: Soffermiamoci sulle caratteristiche che deve avere una teoria per essere conside- rata scientifica. La scienza moderna si definisce come un campo a sé stante, con proprio linguag- gio e determinate regole. Essa vuole definire le cose in modo razionale e più chiaro possibile, co- sicché le nostre idee trovino una forma che le renda in grado di essere trasferite ad altri e control- late empiricamente (controllo in base all’esperienza).
 La base di ogni attività scientifica è la concentualizzazione, ovvero l’attività razionale tramite la quale, con un’operazione di astrazione, vengono formulate idee logicamente definite ed empirica- mente controllabili che rappresentano fenomeni reali. Queste idee sono dette concetti scientifici e il loro insieme in un dato campo scientifico costituisce il linguaggio oggettivo di quella disciplina, ov- vero l’insieme dei concetti che definiscono gli oggetti e gli eventi oggetto di studio. 
 Si definisce teoria scientifica un insieme circoscritto di concetti legati tra loro da specifiche relazio- ni, che punta a offrire una spiegazione possibile di uno o più fenomeni. In una teoria scientifica, le idee che superano la prova empirica sono dette proposizioni analitiche, mentre quelle che ancora non l’hanno superata sono dette ipotesi. Metodo: il metodo è un percorso sistematico attraverso il quale una teoria è messa alla prova, mediante procedure codificate. Si possono distinguere due grandi approcci per quanto riguarda l’utilizzo del metodo nella ricerca scientifica, deduttivo e induttivo. L’approccio deduttivo (dal gene- rale al particolare) la teorizzazione precede la prova empirica, indirizzando l’intera attività di ricerca attraverso le definizioni dei fenomeni che fornisce e il quadro generale che ne deriva. Tale posizio- ne è propria delle scuole razionaliste. 
 Secondo l’approccio induttivo (dal particolare al generale) l’osservazione precede la teorizzazione e quest’ultima deriva direttamente dalla valutazione dei risultati emersi dalla ricerca. Posizione del- l’empirismo. 
 Secondo Cartesio vi sono quattro regole principali alla base della concezione procedurale, che a sua volta è alla base dell’attuale visione canonica della scienza moderna. Queste regole sono: ac- cettare l’evidenza, scomporre la difficoltà, andare dal più semplice al più complesso, fare ricogni- zioni esaustive. Secondo il sociologo Merton uno scienziato non apprende e riproduce solo un habitus tecnico, ma anche un’etica professionale che influenza la sua identità sociale e personale. Quest’etica è chia- mata ethos della scienza moderna ed è costituita da quattro imperativi istituzionali: universalismo, comunismo, disinteresse e dubbio sistematico. 
 L’universalismo è un principio per cui ogni verità che pretende di essere tale deve conformarsi a criteri impersonali prestabiliti. Di conseguenza la soggettività dello scienziato verrà messa da parte e il giudizio sulle affermazioni contenute in una ricerca deve dipendere solo da criteri generali e non dalle caratteristiche socioeconomiche dell’autore.
 Il comunismo scientifico è una posizione per cui i risultati raggiunti da uno scienziato non sono par- te del suo patrimonio personale ma devono essere comunicati e resi trasparenti agli altri membri della comunità scientifica, che possono così controllarli, condividerli e discuterli criticamente.
 Il disinteresse scientifico è un atteggiamento per cui l’unico criterio che deve orientare l’attività del- lo scienziato è la ricerca rigorosa della conoscenza in quanto tale.
 Il dubbio sistematico è un principio secondo il quale ogni aspetto del mondo può e deve essere oggetto di critica, sospendendo ogni giudizio fino a quando non vi siano prove empiriche che lo supportino. 
 Inoltre Merton sostiene che tutti e quattro i principi fondamentali dell’ethos scientifico trovano l’ambiente adatto a proliferare solo nel contesto democratico. Durante il corso di tutta la storia dell’umanità, la parola scienza ha avuto diverse concezioni in base all’ambiente culturale in cui si sviluppava. Si passava dalla concezione di scienza delle popo- lazioni egizie, babilonesi, sumere, greche e romane, fino al Medioevo e alla prima rivoluzione scientifica. Fu solo nel XVII secolo che si cominciò ad affermare l’idea di scienza moderna, basata sul primato dell’esperienza e, attraverso un processo che terminò solo nel XIX secolo, sul ricorso alla matematica intesa come linguaggio principale delle scienze moderne. Il concetto e la pratica della scienza in generale non sono mai assolute, ma relative.
 Un’altra concezione della scienza e del metodo viene fornita dal fisico e storico della scienza Tho- mas Kuhn. Secondo lui a seconda del momento storico gli scienziati usano diverse teorie condivi- se e accettate dalla comunità scientifica per risolvere quei rompicapi conoscitivi che si presentano volta per volta. A questo punto bisogna definire il concetto di paradigma scientifico, ovvero un in- sieme di assunti, idee e presupposti filosofici sul mondo e sul modo di fare scienza, adottati da una determinata comunità scientifica in un dato momento, all’interno del quale vengono sviluppate le teorie propriamente scientifiche e condotta l’attività scientifica stessa. 2.3 La sociologia come scienza empirica 
 La sociologia assume come proprio l’ideale fondamentale della scienza moderna, l’interrogazione empirica della realtà. Da una parte la sociologia è un prodotto storico e culturale che ha incluso e ridefinito selettivamente i principi della scienza moderna, anche in base ai vari contesti nazioni in cui è sviluppata; dall’altra ha elaborato un linguaggio oggettivo suo proprio, misconoscendo così l’”idea generatrice” della sociologia, in quanto scienza empirica che si origina dai fatti e deve resta- re ai fatti. Di conseguenza le dimensioni di base in cui si articolano l’identità e i dilemmi della socio- logia come scienza empirica sono due: il rapporto fra teoria e ricerca sociale; le controversie sul tipo di metodo da utilizzare.
 I meta-dati sono le definizioni che precedono e fondano uno studio empirico concreto. 
 Merton distingue la teoria sociologica propriamente detta, da ciò che sembra teoria, ma che fa par- te delle attività necessarie all’impostazione della ricerca. Queste attività teoretiche diverse sono: • Orientamenti sociologici generali: quali caratteristiche del fenomeno debbano esse- re prese in considerazione. • Concetti sociologici: categorie attraverso le quali un fenomeno viene definito ed è studiabile attraverso l’utilizzo di specifici indicatori • Interpretazioni post-factum: le interpretazioni dei dati raccolti, messe in campo suc- cessivamente all’effettuazione dell’indagine e che puntano a rendere coerente ciò che è rilevato. • Generalizzazioni empiriche: egli distingue due categorie, la generalizzazione empi- rica propriamente detta, ovvero l’individuazione di una regolarità nella relazione tra due variabili e le leggi scientifiche, che definiscono una invariante nella relazione tra i variabili. Le teorie a medio raggio sono teorie che devono essere caratterizzate da coerenza logica interna e precisione, in modo da poter essere utilizzate e controllate in più ricerche empiriche. 
 Per serendipity si intende la scoperta inattesa che nasce nel corso di un’indagine come prodotto di una mente allenata a osservare e del caso. 2.4 I principali programmi di ricerca della sociologia 
 Esistono due grandi programmi di ricerca della sociologia: l’asse positivismo-neopositivismo (post positivismo) e l’approccio ermeneutico. Il primo non è esclusivo delle scienze sociali, ma fa anche parte delle scienze naturali, costituendo un ponte tra le due discipline. Il secondo comprende orientamenti molto diversi, si avvicina di più alle culture umanistiche ed è proprio delle sole scienze sociali. A volte succede che i due grandi programmi tagliano trasversalmente le stesse scuole teo- riche in cui si organizza la sociologia e si mette in pratica la ricerca sociale. Infatti lo struttural-fun- zionalismo rientra nel positivismo e neopositivismo, l’interazionismo simbolico nel programma er- meneutico, mentre la teoria del conflitto presenta studiosi che si rifanno ad uno e studiosi che si rifanno all’altro programma. Analizziamo i due grandi programmi di ricerca in base alle tre dimen- sioni, ontologica, epistemologica, metodologica. Corrispondo a tre domande: qual è la natura della realtà, entro quali limiti si può conoscere, quali procedimenti pratici posso legittimamente utilizzare per interrogare la realtà e produrre intorno a essa un sapere valido. Asse positismo-neopositivismo
 Caratteristico di Comte e Durkheim, ma condiviso anche dal marxismo e dallo strutturalismo nove- centesco.
 Metodo centrato sulla fiducia incondizionata nella scienza e nel metodo scientifico come “mezzo e fine” del progresso umano. Ha le seguenti caratteristiche. 1. Dimensione ontologica: realismo ingenuo, ovvero la realtà esiste ed è quella che appare subito ai nostri sensi. Si parla anche di realismo del senso comune, poiché si pensa che gli oggetti del mondo hanno e sono definiti da quelle proprietà percepibili con i sensi. Descri- vere quindi i fenomeni come appaiono immediatamente. 2. Dimensione epistemologica: la realtà è conoscibile pienamente dall’uomo, ovvero l’ogge- tto conosciuto (fenomeno) esiste indipendentemente dal soggetto conoscitore (mente). I due sono entità separate. Il soggetto che osserva non influenza l’oggetto osservato e quin- di può coglierlo nella sua verità oggetti, che è quella di un grande meccanismo che funzio- na mediante leggi generali e universali. 3. Dimensione metodologica: l’unico vero metodo è basato sull’osservazione e sull’esperi- mento. Si possono individuare le leggi della natura che governano il mondo e che sono • Dimensione ontologica: la realtà sociale è intrinsecamente costruita attraverso l’azione e il pensiero di uomini e donne, e non esiste indipendentemente da loro. La storicità di que- sto mondo rende relativa e contestualizzata la verità mentre la presenza di leggi universali da scoprire è una possibilità remota. • Dimensione epistemologica: alla stretta unità ontologica del mondo sociale corrisponde una stretta unità tra soggetto conoscitore e soggetto conosciuto. Non è possibile produrre una conoscenza obiettiva perché entrambi si influenzano reciprocamente. La sociologia non può e non deve cercare di trovare leggi universali. • Dimensione metodologica: cercare di comprendere e ricostruire in modo corretto le moti- vazioni alla base delle azioni degli attori sociali e come queste si combinano, ricorrendo anche a categorie teoriche. Vi sono due sottocorrenti principali, una proposta da Weber, l’altra che fa riferimento all’interazioni- smo simbolico. Per avalutatività si intende la capacità dello scienziato sociale di tenere in considerazione i propri valori nello scegliere cosa osservare e da che punto di vista, per poi effettuare in modo rigoroso il percorso di ricerca. Secondo Weber le caratteristiche metodologiche delle scienze sociali sono tre: 1. Le scienze sociali si riferiscono alla cultura: la cultura comprende ciò che gli individui producono con le proprie azioni sociali, costruendo così l’ambiente in cui vivono. Anche entità che consideriamo come oggetti, in realtà sono idee rese effettive da persone concre- te (Stato) 2. Le scienze sociali sono storiche: la produzione culturale e le azioni sociali degli individui si svolgono sempre all’interno di un divenire storico, sono cioè mutevoli perché mutevoli sono le loro condizioni. 3. Le scienze sociali utilizzano la comprensione dell’azione sociali per costruire spie- gazioni: la sociologia cerca di comprendere, attraverso l’empatia metodologica, i significai, i valori e le motivazioni che gli attori sociali pongono alla base del loro agire. Per Weber gli ideal-tipi sono l’”alfa e l’omega” del processo scientifico, poiché rendono possibile a un tempo la comprensione e la spiegazione sociologiche. Essi sono concetti tipici delle scienze sociali attraverso i quali i fenomeni empirici vengono definiti analiticamente nelle loro caratteristi- che ricorrenti ed essenziali. Esistono tre grandi categorie di ideal-tipi weberiani. • Individualità storiche: puntano a individuare le caratteristiche essenziali di grandi feno- meni situati nel tempo e nello spazio. • Elementi della realtà storica che si ritrovano in un gran numero di casi concreti: come il potere. • Ricostruzioni razionalizzate di insiemi di comportamenti: modalità d’azione tipiche del- l’economia. Gli ideal-tipi vengono utilizzati per studiare la realtà sociale. Inoltre si parla di effetto emergen- te, ovvero conseguenze non volute né prevedibili di una serie di comportamenti all’interno di un processo storico. Interazionismo simbolico e ground theory 
 Processo che si concentra su ciò che avviene nei piccoli contesti della vita quotidiana. Si fonda sul pragmatismo americano (azione e pensiero non possono non si dividono) e sulla fenome- nologia sociale di Alfred Schutz. Il più influente sociologo di questo processo è Blumer e i prin- cipi metodologici di questo approccio si riassumono così: 1. “Oggetto” della conoscenza sociologica sono le interazioni sociali reali. 2. La realtà sociale va studiata nei suoi contesti naturali: il ricercatore deve entrare il più possibile negli ambiti sociali che sta studiando. 3. I concetti devono essere utilizzati in funzione sensibilizzante: cioè come elementi che fungono da guida, ma che non condizionano il lavoro di analisi in termini di necessi- tà di verifica o falsifica di precise ipotesi. L’approccio di Blumer è induttivista. La Ground Theory è una strategia metodologica secondo la quale la teoria deve emergere direttamente dai dati, attraverso un lavoro di codificazione e riac- corpamento delle informazioni. Ne esistono due versioni: la prima naturalista, in cui il ricercatore sociale è un osservatore esterno che costruisce una teoria che riproduce in maniera semplificata ma precisa ciò che avviene effettivamente nella realtà studiata; la seconda, costruttivista, in cui il ricercatore deve cercare di stabilire un percorso di ricerca collaborativo e condiviso con i soggetti studiati, essendo la stessa ricerca sociale il risultato di un processo interattivo, carico di soggettivi- tà, tra attori sociali diversi. 2.5 La ricerca sociale in pratica: tecniche quantitative e tecniche qualita- tive Le informazioni sono gli elementi del reale che noi raccogliamo, attraverso l’osservazione, per farci un’idea di un determinato fenomeno. Quando la raccolta avviene su basi sistematiche e seguendo alcune procedure, le informazioni vengono riorganizzate nei dati empirici. I dati sono usati per trar- re conclusioni nel nostro studio. Le tecniche della ricerca sociale sono quell’insieme delle procedu- re pratiche e sistematiche attraverso cui si raccolgono informazioni sui fenomeni sotto osservazio- ne e si elaborano i dati che ne conseguono. Esistono due tipi di indagini: quelle esplorativo-descrit- tive, volte ad aumentare le nostre conoscenze su un dato fenomeno e quelle esplicative, che mira- no a fornire una spiegazione del perché un dato accadimento si “verifichi” in un certo modo. Inoltre per accumulare dati, la ricerca sociale può avvalersi di fonti informative primarie e secondarie. Le prime sono direttamente costruite dal ricercatore e sono definite on field (sul campo) poiché i dati sono raccolti in maniera diretta. Le seconde vengono costruite da altri e non sono elaborate per gli scopi specifici della ricerca. Sono dette ricerche desk perché il ricercatore lavora da scrivania. 
 Vi sono poi due famiglie di tecniche di ricerca sociale, quella quantitativa e quella qualitativa. In alcune indagini sono usate entrambe. 
 Le tecniche quantitative si basano su una matematizzazione delle informazioni e forniscono dati espressi in un linguaggio statistico. L’attore sociale viene scomposto, concettualizzato, matematiz- zato e poi ricomposto teoricamente. Esse puntano alla generalizzazione e alla controllabilità dei passaggi utilizzati, ispirandosi a una logica geometrica.
 Le tecniche qualitative si basano sull’utilizzo del linguaggio naturale e del linguaggio oggettivo per analizzare e descrivere il mondo sociale, rinunciando all’uso della matematica. L’attore sociale è colto nella sua soggettività. Le tecniche di ricerca qualitative non forniscono dati generalizzabili, ma mirano alla significatività e alla profondità di ciò che viene restituito mediante l’indagine stessa. Un altro fatto che porta alla scelta di una delle due tecniche dipende dalla natura peculiare dell’og- getto di analisi. Tecniche di ricerca quantitative 
 Una ricerca quantitativa prevede: 1. La ricognizione preliminare della letteratura disponibile sul problema trattato, nonché la sua discussione critica; 2. La scelta di una teoria di riferimento su cui basare le ipotesi e i concetti utilizzati nelal ricer- ca, anche alla luce della fase precedente; 3. L’operazionalizzazione, cioè il processo tramite il quale si scelgono dimensioni, indicatori, indici e variabili; 4. La scelta dello strumento di rilevazione e la sua costruzione; 5. La scelta della popolazione da studiare e la selezione del campione; 6. La rilevazione tramite interviste strutturate; 7. L’analisi statistica dei dati; 8. L’interpretazione dei risultati e il ritorno alla teoria e alle ipotesi da cui si è partiti. Le fasi sono tutte collegate e le scommesse principali su cui si basa la ricerca quantitativa sono: la validità e l’attendibilità di ciò che si rileva e misura; la rappresentatività del campione che si è sele- zionato. Solo se entrambi i problemi vengono risolti in modo soddisfacente la ricerca può produrre risultati generalizzabili.
 Il questionario a risposte chiuse, un formulario contenente domande pre-confezionate dal team di ricerca che prevedono alternative di risposta date, è lo strumento di rilevazione canonicamente utilizzato. 
 L’operazionalizzazione è il processo della ricerca quantitativa tramite il quale i concetti teorici sono trasformati in indicatori, indici e variabili. Gli indicatori indicano il grado, gli indici le sotto-misure collegate al macro-concetto da analizzare empiricamente e le variabili sono lo spazio entro cui un indice può variare.
 Esistono quattro categorie di misurazione delle variabili, ciascuna delle quali presenta le proprietà di quella che la precede. Esse sono: nominale, ordinale, a intervalli e di rapporti. In tutte le modali- tà le variabili sono qualitative e mutuamente escludenti. Nella prima si può solo conteggiarle; nella seconda anche ordinarle secondo una data graduatoria; nella terza svolgere le operazioni di sot- trazione e addizione; nella quarta compiere la moltiplicazione e la divisione. 
 La validità di uno strumento di misurazione è il grado in cui le differenze di punteggio riflettono au- tentiche differenze tra gli individui relativamente alle caratteristiche che cerchiamo di misurare, non errori costati o casuali. Lo studioso può verificare che lo strumento sia attendibile solo decidendo che lo strumento utilizzato è valido, oppure confrontare i dati di due strumenti, o ancora confronta- re i risultati di due indici e se sono uguali, gli strumenti di misurazione (il primo in particolare) sono validi. 
 L’attendibilità è la proprietà per cui vi è un collegamento effettivo tra variazione della misurazione e variazione del fenomeno osservato. 
 Per quanto riguarda il campionamento, la popolazione (o universo) è il collettivo che, in un’indagi- ne quantitativa, si intende studiare e a cui si riferiranno le conclusioni dello studio stesso. 
 Il campione è l’insieme di soggetti appartenenti alla popolazione oggetto di studio rappresentativo Valori: principi profondamente radicati o standard utilizzati dalle persone per giudicare il mondo, in particolare per decidere cosa sia desiderabile o significativo. Per esempio la cultura americana è estremamente individualistica: negli Stati Uniti, in genere, le persone reputano che la libertà e l'autonomia dell'individuo siamo al di sopra della responsabilità collettiva e dell'impegno verso la comunità. I giapponesi, per esempio, danno grande importanza alla solidarietà di gruppo e alla lealtà, e da questo tipo di orientamento collettivo prende forma l'idea di cosa significhi avere suc- cesso. I valori possono tradursi in politiche pubbliche. Il legame fra valori culturali e le politiche pubbliche può avere a volte conseguenze drammatiche, persino mortali. I valori variano moltissimo tra le diverse culture, ma la ricerca sociologica ha dimostrato che alcuni possono essere condivisi. Shalom Schwartz e colleghi, in una serie di studi compiuti nell’arco di oltre due decenni in decine di paesi, hanno identificato dieci valori distinti, ampiamente condivisa e generalmente cinesi con un significato simile da diverse culture: potere, universalismo, succes- so, edonismo, benevolenza, tradizione, auto-affermazione, conformismo, autodetermina- zione, sicurezza. L’importanza relativa di ciascun valore di questo elenco varia da una cultura al- l’altra, e non sempre i valori coesistono facilmente. Il fatto che alcuni diano la priorità a un gruppo di valori rispetto a un altro può essere motivo di conflitto anche all’interno di una particolare socie- tà. Secondo alcuni sociologi negli Stati Uniti è in atto una guerra culturale, ovvero un profondo di- saccordo sui valori fondamentali e le posizioni morali e sono particolarmente evidenti in ambienti come la famiglia, le scuole e le arti. Credenze: specifiche condizioni od opinioni che le persone accettano in genere come vere. Le nostre credenze culturali ci incoraggiano a comprendere i problemi fondamentali del mondo da un punto di vista particolare. Le credenze sono profondamente influenzate dalla cultura alla quale ap- partengono. La fede in una divinità e la preoccupazione per la religione sono molto diffuse, in al- cune società più che in altre. In genere, l’importanza della religione in una cultura declina con il crescere dell’istruzione e del benessere delle persone. Conoscenze: insieme di informazioni, consapevolezza e comprensione che ci aiuta a orientarci nel nostro mondo. Talvolta i sociologi si riferiscono a questo genere di conoscenza con l’espressi- one “capitale culturale”. Spesso le persone danno per scontata la conoscenza della cultura che hanno interiorizzato. Shock culturale: esperienza di disorientamento dovuta alla mancata conoscenza di una situazio- ne sociale non famigliare. È probabile sperimentare tale turbamento quando si viaggia al di fuori del proprio paese. Tuttavia è possibile provare uno shock culturale anche nel proprio paese: una persona nata in un piccolo borgo che visiti per la prima volta una grande città, oppure un ateo che trascorra un po’ di tempo in casa di una famiglia profondamente religiosa potrebbe sentirsi all’im- provviso fuori luogo. La conoscenza culturale è essenziale per la sopravvivenza. Norme: sono le regole e le aspettative di una cultura rispetto a un comportamento ritenuto inap- propriato. In un certo senso le norme costituiscono una sorta di ponte fra le idee di una cultura e le sue consuetudini, in quanto suggeriscono quale sia il comportamento appropriato. Le norme pos- sono comunicare alle persone che cosa dovrebbero fare e che cosa non dovrebbero fare, ma non sono comunque fisse e rigide. Con il mutare della società, anche la cultura si evolve per affrontare nuove situazioni. Le norme sociali, però, non sempre tengono il passo dei cambiamenti tecnologi- ci. Negli anni ’20 il sociologo William Ogburn coniò l’espressione ritardo culturale per descrivere il modo in cui i nuovi sviluppi tecnologici spesso sono più veloci delle norme che governano le espe- rienze collettive associati ad essi. Le norme rigidamente applicate, con potenziali pene severe per chi le viola sono chiamate norme formali e sono spesso parte dell’ordinamento giuridico; chi le trasgredisce molto spesso deve affrontare la pubblica vergogna, nonché la possibilità di una con- danna al carcere. Per contro, il termine costumi descrive abitudini del gruppo o norme informali comuni a una determinata cultura. È improbabile che chi violi i costumi subisca una punizione. Nel loro complesso valori, conoscenze credenze e norme aiutano a plasmare il modo in cui le persone si orientano nel mondo e costituiscono una guida non scritta su cosa pensare e come comportarsi. 3.2.2 Comunicare la cultura: simboli e linguaggio Un simbolo è qualsiasi cosa - un suono, un gesto, un’immagine, un oggetto - ne rappresenti un’al- tra. L’associazione fra un simbolo e ciò che rappresenta è arbitraria e culturalmente definita. Ana- logamente, lo stesso simbolo può avere significati diversi in culture diverse. La cultura è fonda- mentalmente simbolica ed è attraverso i simboli che comunichiamo e rafforziamo gli elementi della nostra cultura, collegandoli gli uni con gli altri, e li trasmettiamo ai nostri figli. Un linguaggio è un sistema elaborato di simboli che consente alle persone di comunicare fra loro in modi complessi. Il linguaggio umano è unico nella sua capacità di comunicare informazioni su oggetti e situazioni non immediatamente presenti. Grazie al linguaggio, possiamo raccontare even- ti accaduti nel passato o programmare cosa faremo in futuro, e possiamo persino narrare storie di persone e avvenimenti immaginari. Il linguaggio ci permette di accumulare e immagazzinare in- formazioni, di trasmetterle ad altri e di plasmare una storia condivisa. Tuttavia, la comunanza di linguaggio non comporta necessariamente la condivisione di una cultura. Un dialetto è una varian- te del linguaggio con un proprio accento distintivo, un proprio vocabolario e, in alcuni casi, proprie caratteristiche grammaticali. Il principio della relatività linguistica, sviluppato da Edward Sapir e Benjamin Whorf è noto come l’ipotesi di Sapir-Whorf, suggerisce che i diversi linguaggi influenzano il modo di pensare e com- portarsi di chi li parla a causa della loro diversità di contenuto e struttura. Il linguaggio riflette i più ampi contesti culturali in cui si è evoluto e, di conseguenza, ciascuna cultura tende a sviluppare parole, frasi ed espressioni uniche che sono difficili, se non impossibili, da tradurre in un’altra lin- gua. Gli interazionisti simbolici esaminano i modi in cui le persone danno un senso al proprio mon- do attraverso significati che attribuiscono alle proprie azioni e a quelle degli altri. 3.2.3 Riprodurre la cultura: comportamenti Nel contesto della cultura, i comportamenti sono le azioni associate a un gruppo che aiutano a riprodurre uno stile di vita ben preciso. Si tratta di questioni di poco conto, ma l’accumulo di tante piccole azioni quotidiane da parte delle persone - a casa, sul lavoro, durante il gioco o le funzioni religiose - aiuta a distinguere una cultura da un’altra. Il comportamento, inoltre, richiama l’attenzi- one sulla differenza fra cultura normativa, ciò che gli appartenenti a una cultura dicono essere i propri valori, le proprie credenze e le proprie norme, e cultura effettiva, ciò che essi fanno real- mente e che può rispecchiare o meno la cultura normativa. 3.2.4 Oggetti: i manufatti della cultura Spesso i sociologi si riferiscono agli elementi principali della cultura materiale definendoli oggetti culturali (anche manufatti culturali), ovvero gli oggetti fisici creati da persone che condividono una cultura, e a questa associati. Gli oggetti culturali sono spesso variazioni di oggetti normali che si ritrovano nella vita quotidiana. Gli oggetti culturali, tuttavia, non sono solo quelli che teniamo in casa. Anche opere d’arte o icone religiose possono essere considerati come tali, ma anche qual- siasi aspetto del paesaggio che sia utilizzato o modificato. 3.3 Cultura, ideologia e potere Un modo per comprendere l’incontro fra cultura e potere è capire l’ideologia. I sociologi definisco- no l’ideologia come un sistema di significati che aiuta a definire e spiegare il mondo e che fornisce giudizi di valore su di esso. Un’ideologia è una visione generale del mondo. All’interno di ogni cul- tura esiste un’ideologia dominante, un gruppo di affermazioni ampiamente condivise e regolar- mente rafforzate che sostengono il sistema sociale e servono gli interessi delle autorità. Anche quando gran parte delle persone che vivono in una cultura condividono una determinata visione del mondo, gli studiosi ritengono in maniera unanime che l’esistenza di un’ideologia dominante non implica l’assenza di visioni alternative. Anzi, le diverse prospettive ideologiche sono coinvolte in una sorta di disputa culturale. Analogamente, l’ideologia dà forma a ciò che definiamo come “naturale”. In genere, tutto ciò che è naturale viene considerato più durevole e stabile di ciò che è creato dall’uomo; pertanto, le strutture che definiamo naturali sono ritenute permanenti e quindi difficili da sfidare. Ciò che le persone ritengono naturale e normale è quindi, in realtà, una costru- zione ideologica. Per esercitare efficacemente il potere all’interno di una determinata cultura, colo- ro che lo detengono, quindi, rinforzare continuamente l’idea che alcune affermazioni siano sempli- cemente di “buon senso” e “naturali”, poiché è probabile che le esperienze della vita portino le per- sone a mettere in discussione tali affermazioni. 3.4 Diversità culturale La cultura è estremamente diversificata, variando non solo nel corso del tempo, ma anche fra so- cietà diverse e persino all’interno di una stessa società. Tale varietà è uno dei motivi per cui una parte importante di molte professioni si basa sulla “consapevolezza culturale”. 3.4.1 Cultura dominante, subculture e sottoculture Anziché essere formate da un’unica cultura, la maggior parte delle società include una cultura dominante, che permea la società e rappresenta le idee e la prassi di coloro che sono nelle posi- zioni di potere, e un certo numero di subculture, associate a piccoli gruppi della società, aventi norme, valori e stili di vita diversi, che li distaccano dalla cultura dominante. Accanto alla cultura dominante, le società comprendono un certo numero di subculture più piccole, aventi propri tratti culturali distinti. Poiché le subculture spesso rimarcano le differenze dalla cultura dominante, ac- cade altrettanto spesso che i loro membri accettino il proprio status di devianti, anzi lo apprezzino. I membri di una subcultura, quindi, condividono un’identità comune, che si tratti di appassionati di sport estremi o di fantascienza. Anche se, tipicamente, le subculture non hanno una struttura for- male di leadership, abitualmente sviluppano un linguaggio o uno stile particolare, comportamenti specifici e possiedono oggetti per loro importanti. A livello microsociologico, persino i gruppi di amici intimi che vivono nello stesso quartiere possono sviluppare una subcultura. Una subcultura che si organizza opponendosi alla cultura dominante può essere classificata come controcultura. I membri delle controculture sfidano valori e atteggiamenti ampiamente condivisi e rifiutano le norme culturali convenzionali. Le subculture, comprese le controculture, spesso introducono inno- vazioni e cambiamenti nella cultura tradizionale. Caratteristiche di una subcultura che al suo insor- gere potrebbero apparire radicali o minacciose, col tempo potrebbero essere incorporate dalla cul- tura dominante. 3.4.2 Alta cultura e cultura popolare I sociologi hanno riconosciuto il rapporto fra cultura e disuguaglianza economica. La locuzione alta cultura è usata in riferimento alle forme culturali associate alle élite e diffusamente riconosciute come valide e legittime. Fra gli esempi di alta cultura si possono annoverare le gallerie d’arte, l’opera, la musica classica e la letteratura. Storicamente, l’alta cultura è stata dominata da persone ricche e molto istruite. Per contro, la cultura popolare si riferisce a forme culturali diffuse e comu- nemente accettate in una società. La cultura popolare comprende forme accessibili a una vasta parte della popolazione, come programmi televisivi, film di Hollywood, concerti e eventi sportivi. Per godere della cultura popolare non si deve essere particolarmente ricchi né avere conoscenze specialistiche. La distinzione fra alta cultura e cultura popolare suggerisce un conflitto di fondo. Come afferma il sociologo Gans, “i sostenitori dell’alta cultura attaccano la cultura popolare defi- nendola una cultura di massa che provoca effetti deleteri sia nelle persone che ne usufruiscono sia sulla società in generale. I consumatori di cultura popolare ribattono ignorando in massima parte le critiche e rifiutando l’alta cultura”. 3.4.3 La mercificazione della cultura Con l’influenza crescente della mercificazione, le persone tendono sempre più a quantificare il va- lore di gran parte degli oggetti culturali in base al possibile profitto che da essi si può trarre. A livello mesosociologico, la secolarizzazione è la perdita di autorità delle verità rivelate. L’ur- banizzazione e l’industrializzazione hanno riunito persone di culture diverse, portatrici di idee dif- ferenti e contraddittorie sulla religione. Anziché rimanere portatori di verità di ispirazione divina, i gruppi religiosi sono diventati più simili ad altri movimenti sociali o ad altri gruppi di pressione che si contendono gli adepti, cerando di influenzare il dibattito politico e morale. A livello microsociologico, la secolarizzazione è la perdita di rilevanza della religione nella vita quotidiana delle persone. Nel suo complesso, la secolarizzazione riflette il declino dell’autorità religiosa, come si bede nella sempre minore influenza delle credenze religiose. La continua crescita degli ideali di libertà individuale, di uguaglianza democratica e del rispetto per la diversità ha ulteriormente indebolito l’autorità religiosa tradizionale. La religione è diventata una componente meno importante della vita sociale. Ne è derivata un’ascesa dell’umanesimo secola- re, un sistema di credenze che enfatizza la moralità e il processo decisionale basato sulla ragio- ne, sull’etica e sulla giustizia sociale, anziché sulla dottrina religiosa o sul soprannaturale. Queste società hanno sviluppato in effetti una religione civile, un insieme di credenze comuni e di prati- che rituali che uniscono le persone in una società prevalentemente secolare. I simboli e i rituali sa- cri della libertà democratica - come le bandiere, i giuramenti di fedeltà alla patria, gli inni nazionali e le medaglie di guerra - sono l’equivalente secolare delle icone e dei rituali religiosi. A livello macrosociologico, nelle società moderne l’influenza della religione è diminuita nell’educa- zione, nel diritto, nella politica e nella scienza, ma non è più la fonte di riferimento principale per le istituzioni o per la vita culturale. A livello mesosociologico svariate confessioni competono sul mer- cato religioso. A livello microsociologico, il numero di praticanti, le attività religiose e l’attaccamento alla religione sono costantemente diminuiti, specie in Europa, fin dalla metà del XX secolo. STRUTTURA, AZIONE SOCIALE E POTERE 4.1.1 Osservare la struttura sociale La struttura sociale è invisibile. A livello microsociologico, potremmo esaminare la struttura d’inte- razione tra due persone o all’interno di piccoli gruppi; a livello mesosociologico, potremmo studiare la struttura di un’organizzazione come una scuola o un’azienda; a livello macrosociologico, po- tremmo focalizzarci sulla struttura di disuguaglianza tra Paesi in via di sviluppo e Paesi industria- lizzati. Il ragionamento sociologico ci aiuta a capire sia come la struttura sociale influenzi la vita quotidiana, sia come le azioni individuali contribuiscano a influenzare la struttura sociale. La strut- tura sociale è costituita da comportamenti schematizzati e ripetitivi. Una routine può essere modifi- cata, ma tende a protrarsi nel tempo. Queste routine più o meno prevedibile stanno alla base di quelle che i sociologi chiamano istituzioni sociali, ovvero le grandi aree della vita sociale in cui si sviluppano routine e modelli di comportamento destinati a durare nel tempo. Le istituzioni sociali includono, tra l’altro, il governo, le scuole, le imprese e le istituzioni religiose. 4.1.2 Costruire e modificare la struttura sociale In genere, viviamo la struttura sociale come se questa fosse salda e immodificabile, costituita da modelli di comportamenti quotidiani che ci sembrano permanenti, naturali ed inevitabili. È vero che a livello individuale, non possiamo modificare tali modelli. Tuttavia, l’analisi sociologia dimostra che i modelli di comportamento di cui si compone la struttura sociale non sono naturali, immodificabili o inevitabili; al contrario, in quanto prodotto dell’azione umana, gli esseri umani possono modificarli. Inoltre, le strutture sociali variano con il tempo e da una cultura all’altra. In effetti, uno dei modi più efficaci per capire la struttura di una società è confrontandola con altre società o altre epoche. Per capire come varino nel tempo le strutture sociali all’interno di una stessa cultura, si può considera- re, per esempio, le aspettative di genere. Le esperienze che vivono gli uomini e le donne nei Paesi occidentali all’indio del XXI secolo sono profondamente diverse da quelle che hanno vissuto i loro noni a metà del XX secolo. Allora le opportunità a disposizione delle donne erano molto più limitate rispetto ad oggi. In poche parole, le credenze e i comportamenti standardizzati che vengono asso- ciate al genere sono notevolmente cambiati: ciò che una o due generazioni fa sembrava naturale o inevitabile, oggi appare artificioso e superato. Questo cambiamento si è verificato attraverso le azioni di molti individui - che a volte agiscono singolarmente, a volte collettivamente - ripetute nel tempo 4.1.3 Status e ruoli: vita quotidiana e struttura sociale La struttura sociale affonda le proprie radici nell’attività quotidiana dei membri di una società. I so- ciologi usano due concetti chiave “status” e “ruolo”. Per i sociologi, lo status designa una posizio- ne che può essere occupata da un individuo all’interno di un sistema sociale. Tutti noi abbiamo di- versi status, nel senso che occupiamo posizioni sociali diversificate. Lo status può essere ascritto o acquisito. Gli status ascritti sono quelli che ci vengono assegnati fin dalla nascita, indipenden- temente dai nostri desideri o dalle nostre capacità; gli status conseguiti sono quelli che otteniamo volontariamente, in larga misura, per oggetto dei nostri sforzi. Per contro, i ruoli, rappresentano i comportamenti che si associano a determinati status. Per esempio, gli attributi di ruolo fondamen- tali di chi ha lo status di studente è frequentare i corsi, svolgere le esercitazioni. I ruoli condiziona- no la nostra vita chiarendo ciò che ci si aspetta da noi nei diversi contesti. I membri di un gruppo sociale condividono aspettative analoghe sul ruolo di ciascuno, cosicché l’interazione tra singoli finisce per rafforzare tali ruoli. Il concetto di ruolo spiega come mai il comportamento di un indivi- duo si conformi ad un modello generale, ma possa essere modificato per effetto delle forze sociali. I ruoli si modificano nel tempo, come per esempio per i ruoli di genere, come quello genitoriale. 4.2 Interazione a livello microsociologico: l’etnometodologia I sociologi analizzano la struttura a livello microsociologico concentrandosi sui modelli e sui feno- meni ricorrenti che emergono dalle attività di routine. L’etnometodologia è un approccio che esa- mina i metodi usati dalle persone per dare significato alle proprie attività quotidiane, enfatizzando le modalità con cui creiamo collettivamente una struttura sociale nelle nostre attività di tutti i giorni. Gli etnometodologi sono convinti che la struttura sociale esista proprio perché la creiamo costan- temente, man mano che costruiamo e ricostruiamo l’ordine sociale. Garfinkel e colleghi hanno cer- cato di far emergere queste strutture sociali microsociologiche tramite i cosiddetti “breaching ex- periments”, situazioni sociali controllate, in cui le persone coinvolte violano intenzionalmente le regole sociali, ignorando le norme e comportamenti consolidati. Violando le norme sociali di appli- cazione quotidiana, gli esperimenti etnometodologici mettono in luce l’esistenza di norme ine- spresse che strutturano numerevoli aspetti della vita sociale, e che diventano visibili solo quando vengono infrante. 4.3 Struttura sociale a livello mesosociologico: le organizzazioni La prospettiva sociologica ci aiuta a capire come la struttura organizzativa influenzi la nostra vita e come le nostre attività quotidiane ci permettono di negoziare, riaffermare, e talora anche rivedere questa struttura. La struttura organizzativa designa le regole e la routine, sia formali sia informali, che disciplinano l’attività quotidiana all’interno delle diverse organizzazioni. Tra gli esempi di regole formali possiamo citare i codici di condotta e le job description. Le regole informali e le routine in- cludono gli accordi tra gruppi di dipendenti su come condividere al meglio spazi di lavoro o i com- puter, la suddivisione delle faccende domestiche tra i membri di una famiglia. 4.4 Struttura sociale a livello macrosociologico: funzioni e interrelazioni tra istituzioni sociali A livello macrosociologico, è possibile riconoscere la struttura sociale nei molteplici modelli di comportamento di una società. A questo livello di analisi, alcuni sociologi ricorrono spesso alla prospettiva funzionalista, concentrandosi in particolare modo sull’interrelazione tra le istituzioni. Per i sociologi che utilizzano questo tipo di analisi, le strutture sociali hanno funzioni specifiche che soddisfano i bisogni della società nel suo complesso; per garantire la sopravvivenza di una socie- tà, le sue strutture e le sue istituzioni devono continuare a soddisfare tali bisogni. Al centro dell’a- nalisi funzionale è il concetto di equilibrio, il bilanciamento tra varie strutture che mantiene la stabi- lità sociale. Talcott Parsons, pioniere della teoria funzionalista, era particolarmente interessato al tema della integrazione sociale, ossia del processo mediante il quale i valori e le strutture sociali uniscono le persone all’interno di una società. Secondo i funzionalisti, inoltre, dal momento che le istituzioni sociali sono interdipendenti, il loro equilibrio è precario per definizione. Di conseguenza, un cambiamento che si verifichi in una istituzione indurrà un cambiamento anche nelle altre. Ad ogni modo, la semplice esistenza di una struttura o di un’istituzione sociale non ne implica neces- sariamente una funzione positiva. 4.5.1 Tipi di azione sociale Weber definiva la sociologia come la scienza che studia l’azione sociale, ossia l’azione umana nel contesto sociale. Weber identifico quattro ideal-tipi di azione umana. Azione tradizionale è motivata dal costume. Guidata dal passato, l’azione tradizionale è vinco- lata dall’idea che le cose si sono sempre fatte nello stesso modo. Azione effettiva è guidata dalle emozioni e dai sentimenti. Azione razionale rispetto al valore è orientata da un’ideale sia nel suo svolgersi sia nei fini che intende perseguire. Azione razionale rispetto allo scopo è motivata da logiche di efficienza. Quando le persone definiscono i propri obiettivi e decidono come raggiungerli, la loro analisi è una forma di azione razionale. I dipendenti che tentano di agire razionalmente per contribuire al raggiungimento degli obiettivi finanziari di un’azienda sono guidati da questo tipo di azione. 4.7.1 Definizione di potere Il sostantivo “potere” deriva dal verbo latino potère, che significa “essere in grado”. Weber definì il potere come la capacità di ottenere un risultato desiderato, anche andando contro l’opposizione altrui. In questa definizione è possibile distinguere due elementi importanti del potere: il primo è “la capacità di ottenere un risultato desiderato” , il “potere di”, la capacità di ottenere una determinata cosa; il secondo è incentrato sulla capacità di prevalere su un’opposizione, il “potere su”, così chiamato perché mette in luce la capacità di dominare gli altri. 4.7.2 Obiettivi collettivi ed empowerment: il “potere di” Come sosteneva Parsons, l’approccio del “potere di” può essere applicato anche ai sistemi sociali come le scuole, i governi o intere società: secondo il suo schema interpretativo, una collettività de- tiene il potere nella misura in cui può realizzare i propri obiettivi. L’approccio basato sul concetto di empowerment, ovvero l’ampliamento della propria capacità di ottenere un risultato desiderato, enfatizza chiaramente il momento del “potere di”. Tuttavia, l’empowerment può coinvolgere anche organizzazioni, comunità e intere categorie di persone. Le agenzie di sviluppo internazionale, per esempio, tentano di accrescere il potere dei gruppi di persone povere accrescendone le capacità di prendersi cura di se sessi e delle proprie famiglie. Le strategie finalizzate ad accrescere l’empo- werment richiedono generalmente una combinazione di educazione, organizzazione e networking. L’educazione è probabilmente il più noto approccio all’empowerment. Per raggiungere il proprio obiettivo, le persone o i gruppi devono capire la situazione in cui si trovano, avere un’idea abba- stanza chiara di ciò che si deve fare e acquisire la formazione e le competenze di cui hanno bi- sogno. L’organizzazione consiste nel mettere assieme delle persone per identificarne gli obiettivi co- muni e tentare di raggiungerli. Gli ambienti di lavoro produttivi sono ben organizzati, per esem- pio, nel senso che i dipendenti e il management cooperano per il conseguimento degli obiettivi generali. Quando persone prive di potere si organizzano in comunità, le associazioni di quartiere, i sindacati e i gruppi di sostegno che ne derivano possono fungere da megafoni per amplificare le preoccupazioni dei propri membri e aiutarli a opporsi più efficacemente agli avversari. 4.10.3 Il potere della disobbedienza Poiché il potere opera all’interno delle relazioni sociali, uno dei grandi paradossi della vita sociale è che coloro che ritengono di non avere potere, in realtà, ne hanno molto. Tutti possono esercitare una certa dose di potere. Il buon esito delle iniziative in difesa dei gruppi oppressi e dell’attivismo studentesco attesta due semplici verità sul potere. In primo luogo, quando lavorano insieme, le persone accrescono il proprio potere individuale di attenzione del cambiamento. In secondo luogo, la disobbedienza è un mezzo potentissimo per i promotori del cambiamento. Poiché il potere p una relazione sociale, gli individui possono rifiutarsi di obbedire, anche se ciò accade raramente, spes- so per paura della coercizione o della violenza. 4.10.4 Potere e privilegio Rispetto a molte altre popolazioni del mondo, noi abbiamo potere e privilegi in abbondanza. Il pri- vilegio è un vantaggio o un beneficio specifico di cui non tutti godono. La consapevolezza del pri- vilegio non mira a farci sentire in colpa. Ci consente invece di capire meglio la società, rimuovendo i paraocchi che ci impediscono di vedere come opera il potere. Per capire le dinamiche del potere e del privilegio, conviene spesso mettersi nei panni di coloro che hanno meno potere. Dorothy Smith ha sviluppato la teoria orientata dal punto di vista specifico, che mette in discussione assunti incontestati sulla società, analizzandola da vari punti di vista, in particolare quello di chi si trova in posizioni subordinate. Il “punto di vista” è letteralmente il luogo da cui una persona vede il mondo. Il punto di vista specifico di una persona è strutturato dalla sua collocazione sociale, che include l’etnia, la classe il genere e l’orientamento sessuale. A diversi punti di vista specifici corri- spondono diverse visioni del mondo. L’INTERAZIONE, I GRUPPI, LE ORGANIZZAZIONI 5.1.1 Interazione: giungere a un’interpretazione comune In quanto esseri umani, la nostra vita trascorre producendo simboli. Per interagire con successo con gli altri, dobbiamo concordare con loro il significato di questi simboli. Quando comunichiamo, ci affidiamo al linguaggio e alle conoscenze condivise con gli altri per far intendere il nostro pensie- ro. Senza il terreno comune di un significato condiviso, l’interazione sociale diventa disorientante, fru- strante, inefficiente e persino allarmante. Anche quando il linguaggio è condiviso, comunque, esi- stono sempre parole o espressioni che non sono comprese da tutti, essendo specifiche di un parti- colare periodo storico, paese, gruppo o subcultura. Il gergo è una parte comune delle subculture, e i termini gergali, come “figo” o “cozza”, spesso evolvono rapidamente, entrano ed escono dall’uso quotidiano nel giro di poco tempo, perdendo la capacità di rendere significative le interazioni. Quando comunichiamo con persone conosciute, spesso la conversazione si basa su riferimenti comuni e interpretazioni condivise che ci evitano di dover dar voce a una serie di presupposti di base che vengono dati per scontati. Una vita quotidiana che scorre senza intoppi dipende da quel- la che i sociologi definiscono interosoggettività, una condizione in cui più persone interpretano nello stesso modo la conoscenza, la realtà o un’esperienza. Un’interazione di successo richiede che ogni persona assuma la prospettiva dell’altra per giungere ad un’interpretazione comune. I membri di una società non condividono solo il linguaggio comune, ma anche norme, costumi, rife- rimenti storici e altre informazioni socialmente utili che hanno appreso attraverso la socializzazio- ne. Il tranquillo funzionamento della vita quotidiana si basa in parte sull’interpretazione condivisa delle persone di quella che è la natura della realtà. Quando incontrate e interagite con degli estranei, gli elementi condivisi della cultura costituiscono un terreno comune che facilita le interazioni di routine. Alcune interazioni mancate possono avere conseguenze ben più gravi di una visita frustrante a un negozio di computer. Le persone che oc- cupano posizioni sociali diverse considerano spesso il mondo da prospettive diverse. Ciascun gruppo attinge a conoscenze ed esperienze diverse per comprendere il mondo sociale. 5.1.2 Definire "reale" una situazione: il teorema di Thomas I sociologi affermano che la "realtà" è il risultato di ciò che impariamo dalla nostra società; in altre parole, la realtà viene socialmente costruita. W.I. Thomas (1863-1947), sociologo americano dell'inizio del XX secolo , continui a sviluppare il concetto della necessità di interpretare una situazione sociale prima di agire. In questo processo, che Thomas denominò "definizione della situazione", prendiamo in considerazione sia la nostra interpretazione spontanea delle circostanze che abbiamo di fronte, sia ciò che la società ci ha in- segnato riguardo a queste. La nostra interpretazione, quindi, influenza la nostra azione. Thomas espresse la sua intuizione, oggi nota come teorema di Thomas, con questo enunciato: "Se gli uomini definiscono reali certe situazioni, esse saranno reali nelle loro conseguenze". In altre paro- le, l'interpretazione soggettiva della realtà ha effetti oggettivi. Se dobbiamo capire come e perché gli esseri umani agiscono come di fatto fanno, dobbiamo prestare attenzione al modo in cui defini- scono la realtà e a come quella definizione, a sua volta, influenza il loro comportamento. Il teorema di Thomas ci aiuta a capire come le interpretazioni di una situazione diano forma all'interazione sociale e vari livelli. Inoltre può anche aiutarci a capire il funzionamento degli stereotipi, che defini- scono gli individui come esempi tipi di gruppi di persone. Gli stereotipi sono generalizzazioni esagerate, distorte o non vere su categorie di persone, che non tengono conto della specificità di ogni individuo. Spesso gli stereotipi sono negativi, e di fatto è tipico degli stereotipi perpetuare im- magini ingiustamente negative delle persone, che non hanno alcun rapporto con loro né come in- dividui né come gruppo. Trattandosi di definizioni condivise, tutti gli stereotipi creano un senso di realtà, quindi possono avere pesanti conseguenze. La dichiarazione: "Mediamente, il reddito an- nuale dei cittadini dell'Europa occidentale è fra i più elevati del mondo", non è uno stereotipo, per- ché è qualificata in modo appropriato e può essere sostenuta dai dati concernenti i livelli di reddito nei diversi paesi. È uno stereotipo, invece, la dichiarazione "Tutti gli europei sono ricchi", perché utilizza uno spettro e ignora le profonde differenze di reddito esistenti all'interno dei versi paesi del- l'Europa; utilizza inoltre un termine indefinito. 5.1.3 Tre passi per costruire la realtà sociale Nel loro libro La realtà come costruzione sociale, Peter Berger e Thomas Luckmann riassumono il processo attraverso il quale le persone costruiscono la realtà: "La società è un prodotto dell'uomo. La società è una realtà oggettiva. L'uomo è un prodotto sociale". I due autori definiscono i tre passi per costruire la realtà sociale: esternalizzazione, oggettivazione e interiorizzazione. 1. Esternalizzazione. Le persone creano la società attraverso una continua attività fisica e men- tale. Questo complesso procedimento contribuisce ad assicurare un ambiente stabile entro il quale poter vivere. (Rapporto speciale con una persona) 2. Oggettivazione. Attraverso questo processo le disposizioni sociali arrivano a sembrare ogget- tivamente reali: la società appare separata dalla creazione umana, ma piuttosto naturale, inevi- tabile e al di fuori del controllo delle persone. (Vi chiamate amici l'uno con l'altra e le persone riconoscono nel vostro un rapporto reale) 3. Interiorizzazione. È il complesso procedimento attraverso il quale apprendiamo la cultura del- la nostra società e determiniamo la nostra visione del mondo. Nel corso di questo processo, gli esseri umani giungono a farsi influenzare dalle proprie creazioni: divengono prodotti sociali. Lo stesso processo in tre fasi avviene sia nelle interazioni sociali di livello microsociologico, sia nelle strutture sociali di più ampio respiro. Le persone creano diverse strutture e istituzioni sociali come la famiglia, la scuola e il governo, possono trattare queste entità socialmente costruite come se fossero oggettivamente reali e sono infine influenzare dalla società che creano. Nel caso delle grandi strutture sociali, tale influenza spesso viene percepita solo dalle generazioni successive. Proprio perché le persone costruiscono continuamente la società e, a loro volta, ne sono influenza- te, il mondo sociale nel quale viviamo è in flusso costante. Le donne e gli uomini possono anche cambiare quello che hanno contribuito a creare, quindi la mostra definizione e il nostro modo di intendere lavoro, famiglia, educazione e altri aspetti della società è aperto al cambiamenti e all'e- voluzione. 5.1.4 Status sociali e ruoli L’interazione prende forma anche attraverso status sociali e ruoli, che sono parte di quel collante che unisce un individuo a un altro, nonché ai modelli di comportamento che costituiscono la strut- tura sociale. Uno status è una posizione che può essere occupata da un individuo all’interno di un sistema sociale. Uno status set è l’insieme degli status di un individuo. Per esempio potreste es- sere allo stesso tempo studenti, impiegati, genitori, vicini di casa, fratelli o sorelle, immigranti, membri di una band e cristiani. Una categoria di status è uno status sociale che le persone pos- sono avere in comune, come per esempio infermiere, padre o meridionale. Un ruolo sociale, inve- ce, consiste nell’insieme dei comportamenti attesi che si associano a particolari status. In quanto studenti, da voi ci si aspetta che frequentiate le lezioni, consegniate a tempo debito gli elaborati. Le aspettative generiche riguardanti il comportamento, i doveri e i diritti associati al ruolo sono sta- te definite dalla nostra cultura ancor prima che diveniste studenti. I ruoli associati a molti status sono ancora meno formali di quelli di studente e genitore; tuttavia, l’insieme di aspettative che si accompagna al ruolo di amico o di buon vicino rimane ampiamente riconosciuto. Anche altri ruoli, per esempio quello del malato, sono intesi da quasi tutti allo stesso modo. In un suo saggio, Talcott Parsons, affermò che la malattia fisica ha un lato sociale che coinvolge quattro aspettative in parti- colare. In primo luogo l’essere malati ci esenta da altre aspettative di ruolo, soprattuto se un medi- co ha certificato la malattia. In secondo luogo, spesso non si ritiene che chi è malato debba pren- dersi cura di se stesso. In terzo luogo, essendo la malattia qualcosa di socialmente indesiderabile, ci aspettiamo che i malati desiderino stare meglio. In quarto luogo ci si aspetta che i malati si sfor- zino a guarire. I malati che non rispettano il proprio ruolo frustano le aspettative di coloro che li cir- condano. Il conflitto inter-ruoli avviene quando le aspettative associate a ruoli diversi si scontra- no. (genitori che devono conciliare la cura dei figli con le esigenze del lavoro) Il conflitto intra-ruolo, al contrario, si verifica quando le aspettative associate a un singolo ruolo competono le une con le altre. Poiché gli individui possono detenere contemporaneamente molti status con i relativi ruoli, si crea spesso il problema di soddisfare con successo le aspettative so- ciali. I conflitti inter-ruoli si verificano quando due ruoli diversi hanno aspettative incompatibili, il conflitto intra-ruolo occorre quando un singolo ruolo ha aspettative conflittuali. 5.1.5 L'approccio drammaturgico: interpretare la vita sociale L'approccio drammaturgico alla realtà sociale, un approccio allo studio delle interazioni sociali che utilizza la metafora della vita come teatro, è strettamente legato al sociologo canadese Erving Goffman. Nel suo celebre libro la vita quotidiana come rappresentazione, Goffman attinse ad alcu- ni elementi tipici di una rappresentazione teatrale per delucidare la natura dell'interazione sociale. Aspettative di ruolo. In una commedia è soprattuto l'autore a determinare il ruolo dell'attore, nella vita reale, sono le aspettative culturali a determinare il contenuto di un ruolo sociale. Il costume, gli accessori, il linguaggio e le emozioni appropriate sono alcune delle risorse che gli attori utilizzano per rendere convincete la propria performance. Un attore, però, deve anche inter- pretare un ruolo, il che lascia molto spazio alla creatività. Lo stesso vale per i ruoli sociali. Le aspettative associate a un qualsiasi ruolo sono socialmente definite, ma gli individui che godono di un particolare status devono "interpretare" attivamente quel ruolo. Gestione delle impressioni. In genere, un ruolo viene interpretato alla presenza di un pubblico. Gli attori cercano di convincere gli spettatori di essere "veri" e che la loro interpretazione di un per- sonaggio è autentica. In quanto attori sociali, noi siamo impegnati nella gestione delle impressioni: attraverso la nostra interpretazione cerchiamo di controllare l'immagine che gli altri hanno di noi. Talvolta le persone si calano a tal punto in un ruolo da considerarne l'interpretazione una parte in- tegrante di se stessi. In altre situazioni, però, le persone cercano di "mantenere le distanze", sepa- l'organizzazione più piccola esige di stabilire una procedura per prendere le decisioni basilari. Un'organizzazione di questo tipo non richiede necessariamente un leader formale, ma potrebbe utilizzare dei coordinatori a rotazione per gestire le necessità correnti. Quando le organizzazioni crescono, una struttura informale in genere si rivela inadeguata. Un'organizzazione più ampia svi- luppa abitualmente un procedimento più formale per le decisioni e una suddivisione più elaborata degli incarichi. Pagare i dipendenti, acquistare le materie prime e spedire le merci dalla fabbrica erano compiti che richiedevano lo sviluppo di sistemi complessi. Man mano che si rendevano ne- cessarie nuove strutture e nuovi metodi per portare a termine i diversi lavori, la burocrazia si svi- luppò, fino a divenire la struttura organizzativa dominante dell’era industriale. Una burocrazia è un sistema gerarchico amministrativo avente regole e procedure formali, utiliz- zato per gestire organizzazioni. In genere, le burocrazie condividono alcune caratteristiche fonda- mentali: 1. Divisione del lavoro. A causa delle dimensioni, le burocrazie richiedono specializzazione: non tutti possono fare tutto. Nelle burocrazie, le persone assolvono compiti rigidamente definiti. 2. Gerarchia di autorità. Le burocrazie hanno una struttura piramidale. Il potere è concentrato al vertice della gerarchia, mentre la maggior parte dei burocrati si divide una scarsa influenza; l’autorità è estremamente frammentata, e il principale compito dei manager consiste nel far ri- spettare le regole e nel controllare gli altri dipendenti. 3. Impersonalità. Il potere risiede in un ufficio, non nella persona che occupa una determinata posizione. Le persone possono essere assunte, promosse, licenziate o andare in pensione, ma la struttura della burocrazia resta. 4. Regole scritte o archivi. In genere, compiti e doveri di una burocrazia sono fissati in regole scritte e procedure formali. I formulari per comunicare le informazioni e registrare i dati aiutano a garantire una coerenza interna. Le burocrazie, essendo rette da norme e regolamenti, possono essere impersonali, cosicché può risultare difficile fare eccezioni per accontentare tutte le specifiche esigenze di un singolo. Norme e regole tendono a moltiplicarsi e a farsi più raffinate con l’insorgere di nuove situazioni; di conseguenza, le organizzazione burocratiche hanno politiche particolareggiate che specificano non solo come far rispettare le regole, ma anche come modificarle. Le burocrazie possono essere decisamente inefficienti anche quando sono state create per coor- dinare e far funzionare le attività senza intoppi. Le organizzazioni possono avere culture ben distin- te che influenzano il modo in cui sono strutturate, i valori che esse sostengono e il loro modus ope- randi. Tutte le organizzazioni, qualunque cultura abbiano operano in un ambiente più vasto, che comprende altre organizzazioni oltre che una varietà di condizioni che fanno parte del contesto sociale più ampio. Nel complesso, l’ambiente organizzativo è costituto dai fattori che esistono al di fuori dell’organizzazione, ma che potenzialmente ne influenzano l’operato. La forza dell’econo- mia, la stabilità delle norme politiche, i fattori demografici, il contesto legale, la tecnologia e l’ambi- ente culturale sono tutti elementi che possono influenzare il modus operandi delle organizzazioni. L’ambiente organizzativo comprende il contesto giuridico nel quale le organizzazioni operano. Le leggi definiscono la natura di alcune organizzazioni, come le società per azioni e i gruppi no-profit. La tecnologia è un altro elemento dell’ambiente organizzativo. L’ambiente culturale influenza ance il modus operandi stesso delle organizzazioni. Le norme sociali e le aspettative di ruolo variano da una cultura all’altra. 5.3.1 In-group e out-group I gruppi possono esercitare il controllo includendo o escludendo i membri tramite un senso di ap- partenenza e di non-appartenenza. Un in-group è il gruppo sociale con il quale una persona si identifica e verso il quale ha sensazioni positive; i suoi membri hanno un senso collettivo del “noi”. Un out-group è un gruppo sociale verso il quale una persona prova sensazioni negative, i cui membri sono considerati inferiori, “loro”. 5.3.2 Conformità: gli esperimenti di Asch Gli esperimenti di Asch suggeriscono che la pressione psicologica esercitata dal gruppo può porta- re alla conformità. Asch scoprì che solo un quarto dei soggetti dava sempre la risposta corretta; i tre quarti fornivano per lo meno una risposta sbagliata, anche se soltanto il 5% accettava tutte quelle errate. In media, i soggetti davano una risposta sbagliata nel 37% dei casi. Asch, inoltre, scoprì che era più probabile che i soggetti fornissero risposte sbagliate se i complici erano unanimi nella risposta e che la dimensione del gruppo influiva sul risultato. La presenza di un solo complice eliminava “l’effetto maggioranza”, che al contrario si produceva appieno quando i complici erano tre o più. Le azioni altrui spesso promuovono un comportamento di conformità. 5.3.3 Obbedienza: gli esperimenti di Milgram Gli esperimenti di Milgram erano stati condotti in un laboratorio di ricerca, dove scienziati in camice bianco incoraggiavano i partecipanti a somministrare scosse elettriche apparentemente dolorose come parte di un presunto studio su come le punizioni influenzino l’apprendimento. Come dimo- strano gli esperimenti di Milgram, molti di noi si sono socializzati in modo da ubbidire a figure auto- ritarie e conformarsi alle aspettative sociali, anche se sappiamo che queste azioni sono sbagliate. In parte, gli esperimenti di Milgram erano stati condotti per comprendere come mai gli uomini fos- sero disposti ad accettare atrocità come la Shoa. 5.3.4 Conformismo Il conformismo è una forma di pensiero acritico, tramite il quale le persone rafforzano il consenso anziché porsi domande o analizzare il problema che hanno di fronte nella sua interezza. Chi si conforma al pensiero di gruppo ignora le prove o le idee che contraddicono il suo pensiero e quello degli altri membri del gruppo. Quanto più simili sono i membri del gruppo tanto più è probabile che essi accettino le affermazioni della maggioranza sul mondo anziché metterle in discussione. Valu- tando le situazioni in modo analogo, è probabile che i conformisti si accordino sulla soluzione di un problema anziché considerare altre opzioni che contraddicono le loro ipotesi. Poiché sono omoge- nei e i loro membri si sostengono a vicenda, questi gruppi tendono inoltre ad escludere sia i pareri dissenzienti sia il mondo esterno, il che li rende ancor più disfunzionali. I gruppi inclini a questo genere di pensiero minimizzano i conflitti interni, incoraggiando tutti i membri a fare gioco di squa- dra. I membri possono conformarsi per eludere i conflitti, per evitare di fare la figura degli sciocchi, oppure semplicemente perché è più facile conformarsi che sfidare le affermazioni del gruppo. 5.3.5 Leadership, oligarchia e potere Nelle burocrazie formali le persone, a qualsiasi livello della struttura organizzativa, hanno potere su chi è sotto di loro e sono soggette all’autorità di chi sta sopra. All’inizio del XX secolo, l’espansi- one delle organizzazioni burocratiche incoraggiò, i sociologi a porsi domande sul loro impatto po- tenzialmente antidemocratico. Il sociologo tedesco Roberto Michels, coniò il termine legge ferrea dell’oligarchia per descrivere ciò che considerava l’ultimo e inevitabile consolidamento del potere al vertice delle organizzazioni burocratiche. Michels affermava che le burocrazie collocano troppo potere nelle mani di chi è al vertice; inevitabilmente, questi pochi prescelti ne fanno un pessimo uso e lo consolidano grazie a un accesso privilegiato a informazioni e risorse. I leader sono esclusi dal contatto con altre persone dell’organizzazione o con il pubblico, il che permette loro di sfuggire a qualsiasi controllo del loro operato. Chi è sotto di loro nella gerarchia burocratica non ha il potere di sfidarli pur disapprovandoli: da questo deriva la loro tendenza alla passività. La disuguaglianza burocratica può essere contestata mediante un conflitto politico sotterraneo fra coalizioni organizzative, che comprende sottili forme di mancata collaborazione e persino il sabotaggio (sciopero bianco). Gran parte delle organizza- zioni burocratiche non opera su principi democratici, eppure alcune assegnano posizioni all’interno della propria gerarchia con procedimenti democratici. 5.3.6 Gestione scientifica e controllo sul luogo di lavoro Fra la fine del XX secolo e l’inizio del XX, l’industrializzazione diede origine alle prime grandi aziende burocratizzate, prive anche solo dell’illusione della democrazia. I proprietari pretendevano di controllare il luogo di lavoro, limitando il potere dei lavoratori di chiedere salari o condizioni di lavoro migliori. Per consolidare il proprio potere sul luogo di lavoro, i proprietari dovevano trasferire la conoscenza del processo produttivo da questi lavoratori specializzati a un gruppo di dirigenti, riducendo allo stesso tempo lavori complessi in compiti semplici. Il processo di dequalificazione dei lavoratori generici e di ottimizzazione dell’efficienza del luogo di lavoro mediante uno studio calco- lato divenne noto come organizzazione scientifica del lavoro. Frederik Taylor (1911) fu il mag- gior fautore di questo modello organizzativo e il suo approccio viene spesso definito taylorismo: i dirigenti osservavano attentamente i lavoratori all’opera, annotando ogni singolo passaggio e cal- colando quanto tempo era necessario per compierlo; gli analisti esaminavano poi le informazioni raccolte, al fine di trovare il modo di fare lo stesso lavoro più rapidamente e con maggiore efficien- za. Dividendo la produzione in processi sempre più semplici, i dirigenti potevano assegnare a cia- scun operaio un compito specifico, di modo che a ognuno era sufficiente conoscere soltanto quel singolo, semplice passaggio. La classica applicazione del taylorismo fu la catena di montaggio. Applicando i principi di Taylor, il lavoro venne suddiviso in compiti individuali, ciascuno dei quali era eseguito da un operaio diverso che poteva esser assunto a un salario più basso e addestrato in tempi brevi a compiere quel lavoro noioso e ripetitivo. STRATIFICAZIONE, CLASSI SOCIALI E DISUGUA- GLIANZE GLOBALI 6.1 Le disuguaglianze strutturate: i sistemi di stratificazione Per “disuguaglianza sociale” si intende una distribuzione ineguale di risorse economiche, sociali, politiche e culturali all’interno di un determinato contesto sociale. Le disuguaglianze sociali si ba- sano su una particolare combinazione di desiderabilità, abbondanza e scarsità: esse compaiono in modo vistoso solo nel momento in cui gli esseri umani passano dal Paleolitico (nomadismo) al Neolitico (sedentarietà), cioè con la nascita delle prime città e dell’agricoltura. Per esiste dunque, le disuguaglianze abbisognano di una soglia minima di abbondanza. L’abbondanza che genera disuguaglianze è dunque quella relativa: le risorse disponibili e dotate di valore da distribuire non sono infinite sia per un limite intrinseco ai metodi produttivi utilizzati sia perché qualcuno è in grado di erigere e far rispettare le barriere al loro utilizzo. Qualunque società umana esistita, dunque, formalizza e istituzionalizza queste disuguaglianze sociali incluse quelle riguardanti il potere. Un sistema di stratificazione può essere definito come l’insieme delle strutture e delle norme cultu- rali che producono e mantengono le disuguaglianze sociali dislocando le persone in un gerarchia di gruppi che ricevono risorse diseguali. Nel corso dei secoli, diverse società hanno dato vita a dif- ferenti tipi di stratificazione sociale. Tuttavia, tutti i sistemi di stratificazione esisti condividono tre elementi fondamentali: l’ineguale distribuzione delle risorse dotate di valore sociale e culturale; la presenza di gruppi distinti di persone, che formano strati sociali gerarchizzati; un’ideologia che cerca di spiegare e giustificare le disuguaglianze esistenti. 6.1.1 Risorse disuguali Il primo elemento comune a tutti i sistemi di stratificazione è l’ineguale distribuzione di risorse rite- nute preziose. Queste posso includere: risorse economiche, compreso il denaro, la proprietà e la terra; risorse umane, come per esempio l’educazione, l’addestramento e le capacità professionali; risorse culturali, che aiutano a conseguire il successo in una data collettività, come per esempio le conoscenze implicite e le abilità informali apprese mediante il processo di socializzazione; Paese, ma nella maggioranza dei casi era costituito da tre stati principali: la nobiltà, il clero e il ter- zo stato. La nobiltà, lo strato dominante, possedeva quasi tutte le terre coltivabili, basando su questo fat- to il proprio potere e la propria ricchezza. I nobili vivevano in una situazione di relativo benessere e respingevano il valore del lavoro. Il clero, il secco stato, serviva largamente la nobiltà, ma aveva un certo grado di indipendenza, dovuto alla sua autorità religiosa. In genere i membri del clero erano in possesso di un buon livel- lo di istruzione e, all'interno della Chiesa Cattolica, erano a loro volta suddivisi in una elaborata gerarchia. Il terzo stato, era costituito dalla gran parte della popolazione. Generalmente analfabeti, i suoi membri non possedevano terre proprie, ma vivevano e lavoravano su quelle di proprietà di un nobile. Il lavoro di queste persone comuni arricchiva la nobiltà al prezzo di condizioni di vita spesso difficili. A differenza del sistema delle caste propriamente detto, il feudalesimo si basava sul l'idea del ceto. Un ceto sociale è uno strato sociale cui vengono associati diritti, doveri e privilegi specifici, indivi- duati dal diritto, e connotato da un determinato stile di vita. Il sistema feudale presentava alcuni canali di mobilità e condizioni strutturali che ne attenuavamo la rigidità: benché i gradi più alti della gerarchia ecclesiastica fossero appannaggio quasi esclusivo dei figli dei nobili, anche i membri del popolo potevano entrare nel clero; inoltre, non esistevamo tabù e divieti specifici riguardanti la pu- rezza e la contaminazione, come nel caso delle caste indiane; infine, erano sopratutto il diritto e la tradizione a regolare questo sistema. La rottura di questo sistema fu infine operato dalle rivoluzioni settecentesche: la rivoluzione francese, assieme alla rivoluzione america- na e al processo di industrializzazione, traghettarono il mondo dell'Ancien Régime verso la moder- nità. 6.3 Sistemi di disuguaglianza nella modernità: le classi sociali Con l'affermazione del capitalismo industriale e del mercato formalmente libero delle merci e della forza lavoro, si ebbe una scissione tra sfera del diritto e sfera sociale: la prima, attraverso l'istituzi- one del concetto di cittadinanza, si basava sull'idea di uguaglianza di tutti di fronte alla legge, men- tre la seconda continuò ad essere caratterizzata da una disuguaglianza di ricchezze e di condizioni materiali di vita, generate dal funzionamento del processo produttivo e dei mercati. All'intero di questa nuova configurazione sociale, politica ed istituzionale, i diritti di libertà, sopratutto quelli le- gati alla sfera economica, costituirono il meccanismo istituzionalizzato utilizzato a giustificare di questa ambivalenza una vera e propria contraddizione sistematica. Il forma,dato delle disugua- glianze è previamente economico, e il sistema di stratificazione tende a giustificarsi e a costruirsi attraverso una logica acquisitiva. Il sistema di stratificazione che venne così ad affermarsi nel cuo- re delle società moderne si fondava sulle classi sociali, espressione utilizzata per la prima volta dagli storici francesi del primo '800. La classe sociale è un insieme di persone che condividono una determinata condizione economica. Il concetto di classe permea il linguaggio comune. Espressioni come "classe media" o "tute blu" ricorrono frequentemente nei nostri discorsi e molte di esse affondano le proprie radici nell'analisi sociologica delle classi e della disuguaglianza. Que- sta analisi inizio con le teorie di Weber e Marx tra la fine dell''800 e i primi del '900 al fine di com- prendere la crescente disuguaglianza e i dolorosi cambiamenti sociali che si accompagnavano al- l'ascesa del capitalismo industriale. 6.3.1 L'analisi di Karl Marx Marx fondò la propria analisi delle classi sociali sull'idea che, per sopravvivere, le persone devono soddisfare bisogni primari. L'economia di una società è il sistema mediante il quale soddisfare questi e altri bisogni. Per Marx, il modo in cui è organizzata un'economia incide su tutti gli altri aspetti della vita sociale. Marx osservò che per gran parte della propria storia, gli esseri umani avevano vissuto in società nomadi egualitarie, nutrendosi delle piante che raccoglievano e delle prede che riuscivano a cacciare. Producendo pochi beni in eccesso al di fuori di quelli necessari alla sopravvivenza, queste società non avevano praticamente disuguaglianze economiche. Circa 8000 anni fa, la nascita dell'agricoltura permise loro di creare insediamenti stabili, produrre surplus alimentari e accumulare beni materiali. Da allora, secondo Marx, la struttura fondamentale della società è stata sempre la stessa: una netta divisione tra chi possiede i mezzi di produzione e chi non li possiede pur essendo, con l'erogazione della propria forza-lavoro, parte necessaria del pro- cesso produttivo. Marx affermò che questa divisione determina la nascita delle due classi più im- portanti di una società, e che le dinamiche in base alle quali esse interagiscono spiegano là disu- guaglianza economica e tutte le altre forme di disuguaglianza sociale. Nelle economie agricole, la divisione principale è tra i proprietari terrieri, da una parte, e i contadini, i servi della gleba e i mez- zadri dall'altra, che lavorano la terra ma non la possiedono. Nelle economie industriali, la risorsa principale non è più la terra ma il capitale - il denaro da investire in fabbriche, terreni e altre impre- se. Nel capitalismo, la divisione principale è tra la classe capitalista (borghesia), che controlla il capitale e possiede i mezzi di produzione, e la classe lavoratrice (proletariato), che vive del pro- prio salario. Secondo Marx, a causa degli interessi contrapposti, le due classi principali sono inevi- tabilmente il conflitto. I capitalisti sfruttano i lavoratori, pagandoli in misura inferiore al valore reale del loro apporto produttivo. Alla fine, questo sfruttamento è destinato a sfociare in una crisi econo- mica, in un divario insostenibile tra ricchi e poveri, e i proletari si unirebbero per rovesciare il capi- talismo. Il risultato per il filosofo tedesco, sarebbe il socialismo, un modello economico in cui lo Stato detiene i grandi mezzi di produzione per conto dei lavoratori, abolendo così le distinzioni di classe che si basano sulla proprietà privata. Marx era convinto che, con il tempo, i grandi capitalisti avrebbero fagocitato i piccoli imprenditori: le “vecchie” classi medie avrebbero così subito un pro- cesso di depauperizzazione, ingrandendo le fila del proletariato (processo di proletarizzazione). 6.3.2 Max Weber e le "chance di vita" In primo luogo Weber non si concentrò esclusivamente sulla disuguaglianza economica, enfatiz- zano invece l'intenzione tra dimensioni: status sociale, partito e classe. Secondo la teoria weberia- na, lo status sociale si fonda su differenze legate al riconoscimento e alla manifestazione del pre- stigio. Nelle società moderne ed industriali, lo state viene rivendicato dall'attore sociale attraverso la costruzione di determinati stili di vita, che riguardano, per esempio, l'abitazione, l'abbigliamento, il tipo di consumi e così via; elementi questi che contribuiscono a delineare la reputazione dell'indi- viduo agli occhi degli altri. La seconda dimensione presa in considerazione da Weber riguarda il partito. Per il sociologo tedesco questo è un fattore importante nella distribuzione del potere, in quanto il partito può essere definito come un gruppo di individui che agiscono insieme per rag- giungere un determinato obiettivo. Mediante il potere statale, questo attore può influenzare la di- stribuzione economica indipendentemente dai meccanismi di mercato. Infine, una classe può es- sere definita principalmente come un insieme di persone che hanno in comune una situazione di mercato - vale a dire, più o meno la stessa capacità di guadagno e una professionalità simile. Sof- fermandosi sulla complessa interazione tra status, partito e classe, egli individuo nelle chance di vita, ossia nelle possibilità di accedere a risorse economiche e culturali apprezzare, l'elemento in grado di gettare luce sulle dinamiche della stratificazione nelle società industrializzate. 6.4 Inerzia e fluidità delle strutture di classe: capitale culturale e mobilità sociale Il sistema di stratificazione fondato sulle classi sociali presenta sia meccanismi di inerzia, atti a ri- produrre le distinzioni sociali che accompagnano e rinforzano le disuguaglianze economiche, sia meccanismi di fluidità, ovvero strutture di opportunità più o meno grandi, attraverso le quali l'indivi- duo può modificare la propria condizione. In più, il sistema occupazionale che è alla base della formazione delle classi può subire, nel corso del tempo, profonde modificazioni che finiscono per mutare strettamente la posizione sociale dei singoli e dei gruppi. 6.4.1 La stratificazione delle classi è funzionale? Per Marx e Weber, la disuguaglianza tra classi era strettamente interconnessa con le lotte per la conquista del potere all’interno della società. Per contro, i funzionalisti americani di metà ‘900 ana- lizzarono la disuguaglianza economica in base al contributo positivo che essa fornisce alla società nel suo complesso. Per i funzionalismi la competizione tra gli individui per l’ottenimento delle posi- zioni meglio remunerate finisce per produrre un beneficio positivo per l’intera società: per garantire la sopravvivenza della collettività, le posizioni importanti devono essere occupate da persone al- tamente qualificate. In genere, queste posizioni richiedono livelli più elevati di formazione e spesso un talento non comune, e le maggiori ricompense che vi si associano inducono le persone a stu- diare e a competere per occuparle. Invece di classi sociali in conflitto tra di loro, i funzionalismi ve- dono perciò un continuum di occupazioni che offrono un ampio ventaglio di ricompense e contri- buiscono alla sopravvivenza e al buon funzionamento delle società. I critici della prospettiva fun- zionalità osservano che il mondo reale non opera in questo modo. Infatti, la disuguaglianza preesi- stente incide sulla capacità si competere di una persona, mentre le barriere alla mobilità - cioè al mutamento delle condizioni economiche e sociali - spesso impediscono a individui meritevoli di progredire. 6.4.2 Il capitale culturale Secondo lo studioso francese Pierre Bourdieu, le persone riproducono le classi di generazione in generazione, trasmettendo ai giovani non solo la ricchezza materiale ma anche il patrimonio cultu- rale. Per descrivere queste particolari risorse, Bourdieu coniò l’espressione capitale culturale: l’insieme dei diversi tipi di conoscenze, competenze e altre risorse culturali. Nei differenti contesti assumono valore forme diverse di capitale culturale. Bourdieu affermò che i giovani vengono so- cializzati diversamente a seconda della classe sociale a cui appartiene la loro famiglia, appren- dendo gusti, comportamenti e atteggiamenti che li distinguono dai membri delle altre classi: essi interiorizzano tali insegnamenti, che diventano praticamente naturali per loro, formando degli habi- tus sociali e mentali caratteristici. L’automatica capacità nel padroneggiare questi habitus interio- rizzati può indirizzare i giovani verso posizioni di classe simili a quelle dei genitori. Bourdieu osser- vò anche che il capitale culturale interagisce con il capitale economico e con il capitale sociale, ossia l’insieme delle relazioni potenzialmente preziose sul piano economico che derivano dall’ap- partenenza a un gruppo. 6.4.3 La mobilità sociale L’antropologo francese Claude Levi-Strauss distinse le società in “fredde” e “calde”: le prime pon- gono l’enfasi sulla stabilità, mentre le seconde tendono a valorizzare il mutamento sociale. Le so- cietà moderne, che possono essere fatte rientrare in quest’ultimo tipo, presentano un “potenziale di mobilità” certamente più ampio rispetto al passato, perché i loro sistemi di stratificazione si fon- dano per lo più su una logica acquisitiva. Diversa è la situazione nella società moderna, caratteriz- zata da una maggiore dinamicità: i canali di mobilità sono più fluidi rispetto al passato aumentano le aspettative e le opportunità di scelta degli individui, i quali possono aspirare a migliorare la pro- pria posizione all’interno della scala socio-economica. In ogni tipo di società è riscontrabile un pro- cesso fondamentale: la mobilità sociale, intesa come lo spostamento di un individuo o di un inte- ro gruppo da una posizione sociale a un’altra. La mobilità sociale può essere verticale od orizzon- tale, intragenerazionale o intergenerazionale. Per mobilità verticale si intende il movimento dalle posizioni più basse della piramide sociale a quelle più alte e viceversa. In tal senso, si parla di mobilità ascendente in tutti quei casi in cui si ottiene un miglioramento in termini di reddito o di status (impiegato che diventa manager di una grande impresa); diversa è invece la mobilità discendente, in cui lo spostamento all’interno della piramide sociale avviene dall’alto verso il basso, con il conseguente peggioramento degli stan- dard di vita. È questo il caso di un benestante che, a causa di una serie di investimenti sbagliati, perde parte della sua ricchezza e vede fortemente peggiorata la sua condizione sociale. Gli approcci neo-weberiani sostengono che la multidimensionalità della stratificazione sociale oggi è ancor più valida che ai tempi di Weber, sottolineando come col tempo essa aumenti in comples- sità. Inoltre, i neo-weberini dedicano un’attenzione particolare sia allo studio de processi di mobilità sociale sia all’influenza del potere nella produzione e riproduzione delle disuguaglianze, ritenendo che le classi sociali contemporanee siano caratterizzate da vari gradi di chiusura che le rendono simili ai ceti sociali. Per i neo-wberiani in una società priva di classi queste continuerebbero a sus- sistere in forma diversa, divenendo la sola conseguenza dei differenti meriti e talenti individuali. La proposta di Goldthrope è una delle più influenti della scuola neo-weberiana. Secondo egli, per ana- lizzare la formazione e la struttura delle classi contemporanee occorre prendere in considerazione due distinte dimensioni: la situazione di mercato e la situazione di lavoro dei vari membri della so- cietà. Per individuare la prima, egli elenca tre risorse fondamentali: i mezzi di produzione, le cre- denziali educative o qualifiche professionali e la forza di lavoro. Nel considerare la seconda di- mensione, Goldthrope analizza la posizione che ciascun individuo assume all’interno della gerar- chia organizzativa e della più generale divisione sociale del lavoro. Date specifiche barriere siste- matiche alla mobilità sociale, queste due dimensioni danno vita a sette posizioni di classe principa- li: la classe di servizio, gli impiegati di routine, la piccola borghesia, la piccola borghesia agricola, gli operai qualificati, gli operai non qualificati e gli operai agricoli. 6.6.3 Le teorie della complessità Gli autori aderenti alla teoria della frammentazione sostengono che l’avvento della società post- industriale ha comportato mutamenti nella struttura sociale molto profondi. Secondo tali autori, i processi di strutturazione delle disuguaglianze tipici delle società industriali, legati all’occupazione e al reddito ma anche al genere e all’età, hanno visto dissolvere la propria originaria consistenza e con essa la capacità di condurre alla costituzione raggruppamenti stabili. Le disuguaglianze com- poste in modo caotico e imprevedibile, così come si è frammentata l’identità stessa dei singoli indi- vidui, ora correlata a un insieme sempre più esteso e mutevole di appartenenze spesso contraddit- torie. Ne deriva un scenario nel quale la dimensione del consumo diventa prioritaria rispetto a tutte le altre, poiché da questa si originano stili di vita instabili e altamente differenziati, attorno ai quali si aggregano persone anche di condizione economica e occupazionale diversa. 6.7.1 Classificare le economie nazionali Disuguaglianza globale: differenza di ricchezza e di potere tra i Paesi del mondo. La distribuzione globale del reddito è estremamente ineguale. Il reddito medio del 20% più benestante della popolazione mondiale che include quasi tutti i cit- tadini dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti è circa cinquanta volta il reddito medio del 20% più povero. Più del 50% del reddito mondiale va a solo il 10% della popolazione e il 75% al 20%. Appena l’1,5% del reddito mondiale va al 20% più povero della popolazione, e solo il 5% va al 40% più povero che vive con meno di due euro al giorno. I 500 individui più ricchi del mondo hanno un reddito combinato superiore a quello dei 416 milio- ni di persone più povere del mondo. 6.7.2 L’impatto delle disuguaglianze globali Il livello di reddito di un Paese è tipicamente radicato in tutta una serie di dimensioni. 1. Aspettativa di vita e di salute. La povertà uccide. In media, l’aspettativa di vita per gli abitanti dei Paesi più poveri del mondo è inferiore di trent’anni rispetto a quella degli abitanti dei Paesi ricchi. I Paesi poveri hanno alti tassi di mortalità infantile, e la gente muore in giovane età per malnutrizione, polmonite, malaria, dissenteria e HIV/AIDS. 2. Abitazione. Quasi un terzo della popolazione urbana mondiale vive in baraccopoli, abitazioni instabili e precarie, prive di spazi insufficienti, senz’acqua potabile e servizi igienici. 3. Istruzione. Molti abitanti dei Paesi poveri sono analfabeti. I tassi di alfabetismo degli adulti in Afghanistan (18%), Mali (26%) e Niger (29%) riflettono l’estrema povertà di questi paesi, dove spesso la scuola non è gratuita e i bambini devono mettersi a lavorare in tenera età. Nell’ultimo mezzo secolo, il numero di coloro che vivono in povertà assoluta è diminuito, grazie so- prattutto alla fortissima crescita economica di Cina e India, che nel loro insieme racchiudono il 40% circa della popolazione mondiale. 6.7.3 La disuguaglianza interna ai Paesi La disuguaglianza esiste in tutti i Paesi, ed è causata in parte da scelte di politica pubblica. I livelli più elevati di disuguaglianza si riscontrano in America centrale e meridionale e nell’Africa meridio- nale. In queste zone, una piccola élite controlla risorse limitate, mentre la maggior parte della po- polazione vive in povertà. Paesi ricchi come Francia e Svizzera presentano in genere livelli relati- vamente bassi di disuguaglianza economica grazie alla forte imposizione fiscale che grava sui ric- chi, a salari minimi generosi e ad altre politiche che riducono la disuguaglianza. L’eccezione è co- stituta dagli Stati Uniti, il Paese ricco più disuguale del mondo. Nei Paesi meno ineguali, i gruppi sociali a reddito basso e medio-basso tendono ad avere molto più potere che negli Stati Uniti. 6.8.1 Cultura e disuguaglianze globali: la teoria della modernizzazione La teoria della modernizzazione attribuisce la disuguaglianza nel mondo alle differenze culturali tra i Paesi. In base a questa teoria, alcune società avrebbero resistito, all’industrializzazione per- ché preferivano mantenere stili di vita tradizionali anziché adottare nuove tecnologie disgreganti. Conservare i vincoli familiari e comunitari, un’economia agricola e convinzioni religiose tradizionali era più importante che adottare le nuove tecnologie per produrre una maggiore abbondanza mate- riale. Di conseguenza si venne a creare un divario economico sempre più ampio tra i Paesi indu- strializzati e quelli allora definiti “in via di sviluppo”, ancora legati a valori e ad orientamenti culturali di tutt’altro tipo. 6.8.2 Colonialismo e neo-colonialismo: la teoria della dipendenza Molti sociologi affermano che l’odierna disuguaglianza globale affonda le proprie radici in un pro- cesso assai meno innocuo di quello dovuto alle differenze culturali. La loro spiegazione alternativa, la teoria della dipendenza l’attribuisce allo sfruttamento dei Paesi più deboli e più poveri da parte dei Paesi ricchi e potenti. Questa teoria individua l’origine della sempre maggiore disuguaglianza globale nell’intensificazione delle scoperte, dei viaggi e del commercio internazionale che ebbero inizio circa cinque secoli fa. Infatti nel corso dell’Era Moderna, più o meno a partire dal 1500, i de- stini delle diverse nazioni si sono profondamente intrecciati tra loro, in una competizione globale sulle risorse. La forma più visibile di competizione globale fu il colonialismo, ovvero l’utilizzo del potere militare, politico ed economico da parte di una società per dominare i membri di un’altra so- cietà, quasi sempre per trarne beneficio economico. Gli stati coloniali esercitavano direttamente il controllo politico sulle proprie colonie, creando governi-fantoccio mentre attuavano un’occupazione militare e imponevano la propria cultura. Soprattutto, cercavano quasi sempre di estrarre le risorse naturali dalle colonie e di sfruttarne la manodopera locale. Alcuni osservatori affermano che in real- tà il colonialismo è stato sostituito dal neo-colonialismo, un sistema di dominio economico eserci- tato sui Paesi più poveri da parte dei Paesi più ricchi senza utilizzare un controllo politico formale e/o l’occupazione militare. In un regime neocoloniale, le ex colonie continuano a dipendere da un Paese più ricco per gli investimenti e l’expertise tecnica, il che assicura a questi Paesi più ricchi un’influenza fortissima sul loro sviluppo. 6.8.3 La World System Analysis Un altro approccio allo studio della disuguaglianza globale, la World System Analysis, si concen- tra sull’interdipendenza tra i Paesi che fanno parte di un unico sistema economico globale. A se- conda della relazione che intrattengono con l’economia globale, egli suddivide i Paesi in tre gruppi principali. 1. Paesi centrali, che attualmente includono Stati Uniti, Canada, Giappone e quelli dell’Europa occidentale. Questi stati, i più ricchi dl mondo, sono al centro dell’economia globale. Quasi tutti i Paesi centrali hanno tratto beneficio dal colonialismo e continuano a dominare l’economia tramite le multinazionali e le istituzioni finanziarie globali. 2. Paesi periferici, includono molti stati dell’Africa e dell’America latina e alcune regioni dell’Asia. Sono i Paesi più poveri e meno potenti del mondo, situati ai margini dell’economia globale. Partecipano a essa principalmente fornendo risorse naturali e manodopera a basso costo per le grandi imprese transnazionali, pur fungendo da mercati per alcuni beni. 3. Paesi semiperiferici, includono invece Cina, India, Pakistan, Argentina, Cile e Brasile. Questi stati dal reddito medio sono meglio integrati nell’economia dei Paesi centrali rispetto quelli peri- ferici e hanno spesso una base industriale più solida. ETNIE E MIGRAZIONI 7.1 Il ruolo della cultura: inventare l’etnia e la razza Molte società classificano le persone in termini di “razza” e “etnia”. L’etnia designa una comunità caratterizzata da una tradizione culturale condivisa, che deriva spesso da un’origine e da una pa- tria comuni. Le etnie sono costrutti culturali che esistono solo nella misura in cui vengono accolti spontaneamente dalle persone o loro imposti da qualcun altro. Le persone reinventato e ridefini- scano costantemente le identità etniche, il che può renderle un concetto fluido e nebuloso. Diver- samente dall’etnia, la razza denota una categoria di persone che hanno in comune delle caratteri- stiche fisiche socialmente significative, come il colore della pelle. L’etnia può essere confusa con la razza perché i due concetti sono potenzialmente sovrapponibili. 7.1.1 Pseudoscienza e razza La parola "razza" ha assunto le sue popolari connotazioni contemporanee nel XVII secolo, allorché alcuni scienziati europei iniziarono a denominare e classificare le piante e gli animali. Il naturalista svedese Carolus Linnaeus inventò quattro sottospecie di homo sapiens, ciascuna designata non solo per tratti fisici distintivi ma anche per specifiche particolarità caratteriali, secondo criteri valuta- tivi: l'Europeanus, Americanus, Asiaticus, Africanus. Questa classificazione fondò i presupposti per giustificare "scientificamente" il razzismo, ossia la convinzione che una razza sia intrinsecamente superiore a un'altra. Nel XIX secolo, il conte Joseph Arthur de Gobineau, considerato il padre del razzismo moderno, contemplò l'esistenza di tre tipologie di razze umane distinte tra loro: quella bianca, quella nera e quella gialla. Secondo Gobineau, la razza bianca qualità superiori rispetto a tutte le altre. Johann Blumenbach stabilì che a essere stati creati da Dio a sua immagine e somi- glianza dovevano essere stati caucasici. Questi sistemi di classificazione arbitraria e confliggenti tra loro andavano a braccetto con l'essenzialismo razziale ovvero l'idea che presunte differenze naturali e immutabili separino le razze. I bianchi che crearono questi sistemi di classificazione ave- vano il potere di imporre queste idee nella società. Concetti culturali ispirato all'essenzialismo razziale furono usati per giustificare la supremazia dei bianchi, la schiavitù e il dominio coloniale europeo sugli altri popoli. 7.1.2 Razza ed etnia nel tempo e nelle culture Poiché le razze e le etnie sono costrutti culturali e non dati biologici, la definizione e la significativi- tà dei gruppi razziali ed etici variano da una cultura all’altra e si modificano nel tempo. Nei Paesi in cui la razza è importante, le definizioni che se ne danno variano enormemente. Negli Stati Uniti, i anni nella penombra dell'incertezza e della precarietà, malgrado si assumano, nella maggioranza dei casi, mansioni che contribuiscono al benessere delle società riceventi". Nonostante le numero- se trasformazioni degli ultimi anni, l'Italia continua a essere, per certi versi, un Paese di emigrazio- ne soprattutto per quanto riguarda le giovani generazioni che, a causa della crisi economica e del- la crescente disoccupazione, scelgono di trasferirsi all'estero privilegiando tra le diverse mete il Regno Unito, la Germania, la Svizzera e la Francia. 7.4.1 Atteggiamenti e comportamenti individuali: pregiudizio, discrimi- nazione, etnocentrismo, xenofobia e relativismo culturale Le teorie socio-psicologiche che si focalizzano sugli atteggiamenti e sui comportamenti individuali possono aiutarci a capire come fanno le persone a sviluppare le proprie opinioni sulla disugua- glianza. Uno stereotipo largamente accettato può diventare la base di atteggiamenti preconcetti verso i membri di un out-group. Gli stereotipi e il pregiudizio si limitano alle credenze e agli atteg- giamenti, ma la discriminazione, implica azioni e comportamenti. La discriminazione razziale impli- ca sezioni che aiutano a mantenere il predominio di una razza sulle altre. Di conseguenza, l'azione discriminatoria è generalmente limitata a coloro che hanno il potere di agire in modo da ostacolare gli altri. Chi ha relativamente poco potere potrebbe sì avere dei pregiudizi, ma non avrà quasi mai le risorse o le capacità necessarie per trasformarli in azioni discriminatorie efficaci. In questo sen- so, la discriminazione è "pregiudizio più potere". Strettamente legato a stereotipi e pregiudizi è il concetto di etnocentrismo, ovvero la pratica di giudicare una cultura diversa utilizzando gli stan- dard della propria e con una presunzione di superiorità. Una visione etnocentrico del mondo può generare xenofobia, l'irragionevole timore od odio per gli stranieri o persone di una cultura diver- sa, che portato all'estremo, può degenerare nel genocidio. Diversamente dall'etnocentrismo, il re- lativismo culturale è la pratica di comprendere una cultura attraverso i suoi stessi standard. Il re- lativismo culturale non richiede di adottare o accettare idee e pratiche di un'altra cultura, ma di fare lo sforzo di comprenderla utilizzando i criteri suoi propri e con la disponibilità a riconoscerla come valida alternativa alla propria. In altre parole, per praticare il relativismo culturale dobbiamo com- prendere una cultura, non giudicarla, come avviene, per esempio, quando cerchiamo di capire i rituali religiosi e le tradizioni familiari di una cultura diversa. 7.4.2 Discriminazione istituzionale: barriere strutturali all'uguaglianza Gli individui possono mettere in atto pratiche discriminatorie ma l'ineguaglianza etnica e razziale si produce e si rinforza con la discriminazione istituzionale, non con l'azione individuale. La discri- minazione istituzionale deriva dall'organizzazione strutturale, dalle politiche e dalle procedure di istituzioni come il governo, le imprese e le scuole, ed è estremamente efficace poiché coinvolge ampie fasi della popolazione. È molto difficile da eliminare, perché non è associata a un individuo in particolare, ma è una caratteristica generalizzata della burocrazia istituzionale. 7.4.3 Teorie del pregiudizio e della discriminazione: cultura e interessi del gruppo Le interpretazioni sociologiche del pregiudizio e della discriminazione oscillano tra due tradizioni teoriche: quelle che enfatizzano l'impatto della cultura e quelle che enfatizzano il peso degli inte- ressi materiali del gruppo. La socializzazione ci ha abituato a interagire senza sforzo con le persone che sono simili a noi nel- l'aspetto e nei comportamenti, perché ci risultano familiari e prevedibili. Per contro, interagire con persone diverse da noi o dal comportamento insolito, e quindi prevedibile, può metterci a disagio. La socializzazione induce spesso i ragazzi a stringere legami con i membri del proprio gruppo, persone simili a loro, e a sviluppare stereotipi negativi sui membri dell'out-group, dissimili da loro. Alcune ricerche indicano che i bambini assimilano stereotipi e sviluppano pregiudizi già a tre anni, spesso prima di comprenderne appieno il significato o la rilevanza. I mass media possono perpe- tuare gli stereotipi negativi con spettacoli che presentano figure rigidamente standardizzate come il campione asiatico di arti marziali, il delinquente di colore, il terroristi arabo o la sex symbol esotica. Stando all'ipotesi del contatto elaborata da Gordon Allport il contatto tra membri di gruppi diversi può ridurre il pregiudizio se è protratto nel tempo, se coinvolge gruppi di uguale status agenti obiet- tivi comuni e se viene approvato dalle autorità. Le spiegazioni del pregiudizio e della discriminazione che fanno riferimento agli interessi del grup- po si focalizzano sulle modalità di competizione tra gruppi per risorse scarse, come i posti di lavoro o le case popolari. Questa competizione può portare al conflitto e alla discriminazione di un gruppo da parte di un altro come mezzo per ottenere un vantaggio su di esso. in generale, la discrimina- zione spesso sembra aumentare nei periodi di crisi, quando la competizione per risorse scarse cresce. La split labor market theory afferma che i conflitti etnici e razziali emergono spesso quando due gruppi di etnia o rasa differente competono per gli stessi posti di lavoro. Stando a questa teoria, datori di lavoro, lavoratori ben pagati e lavoratori sottopagati formano tre gruppi aventi interessi distinti e contrapposti: i datori di lavoro assumono operai sottopagati per massimiz- zare i profitti, cercando così un conflitto tra i lavoratori ben pagati, che vengono estromessi, e quelli sottopagati, che li rimpiazzano. Nell'immediato, la discriminazione risponde anche agli interessi degli operai bel pagati, perché impedisce alle minoranze di competere com loro per i posti di lavo- ro più appetibili; nel lungo termine, tuttavia, queste divisioni riducono il potere negoziale di tutto lavoratori. Più in generale, i membri di un gruppo possono vedere in quelli di un altro una minaccia, specie nei momenti di difficoltà. Il capro espiatorio è un individuo o un gruppo falsamente accusa- to di aver creato una situazione negativa. A volte le persone, quando sono frustrate dalla propria incapacità di superare le difficoltà, cercano spiegazioni semplicistiche dei propri problemi, identifi- cando un capro espiatorio. 7.5.1 Il Multiculturalismo Uno dei modelli emergenti che risponde alla sempre maggiore eterogeneità culturale e alla cresci- ta delle identità multietniche e multirazziali è il multiculturalismo, ovvero il riconoscimento, la va- lorizzazione e la protezione delle distinte culture etnico-razionali che formano una società. Anziché presumere che tutti adotteranno le idee e le pratiche della cultura dominante - attraverso il proces- so di assimilazione - le società multiculturali accettano, accolgono e possono perfino celebrare le differenze di lingua, religione, costumi, abiti, tradizioni e credenze. Anche le istituzioni che ricono- scono ospitano culture diverse, come alcune aziende e università, possono essere considerate multiculturali. Le persone che vivono in una società multiculturale hanno la straordinaria opportuni- tà di conoscere e apprezzare la splendida varietà delle culture umane. La diversità, tuttavia, porta con sé anche sfide e problemi, allorché persone con stili di vita differenti cercano di convivere. Pur- troppo, le differenze culturali portano spesso a disuguaglianze e conflitti quando i gruppi con mag- giore potere opprimono, sfruttano o discriminano in vari modi chi è diverso e ha meno potere. 7.6.1 Fattori di attrazione ed espulsione Da un punto di vista analitico, possiamo distinguere due tipi diversi di fattori che generano i pro- cessi migratori. Il primo è costituto dai cosiddetti fattori di espulsione (push), vale a dire l'insieme delle problematiche interne al paese d'origine che spingono le perone a migrare nella speranza di trovare condizioni migliori di vita. Il secondo insieme è rappresentato dai fattori di attrazione (pull) che riguardano in particolare maggiori possibilità di lavoro, maggiore libertà e benessere economico, elementi questi che contribuiscono ad attirare i migranti nei Paesi più ricchi. La combi- nazione di tali fattori "pus" and "pull" ha prodotto, a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondia- le, i seguenti modelli di regolamentazione dell’immigrazione. Modello storico: adottato in passato da Paesi come gli Stati Uniti, Canada e Australia consiste in un modello che garantisce il diritto di cittadinanza a tutti i nuovi arrivati. Tali Paesi hanno dato vita, nel corso del tempo, a vere e proprie nazioni di immigrati. Modello selettivo: adottato dagli ex imperi coloniali, come la Francia e la Gran Bretagna, tale 'o dello favoriva l'immigrazione di individui provenienti dalle proprie ex colonie piuttosto che da altri Paesi, al fine di mantenere un controllo indiretto su di essi. Modello dei lavoratori ospiti: si tratta la politica seguita in passato da Paesi come la Svizzera, Belgio e Germania, i quali incoraggiavano l'accesso temporaneo di manodopera straniera al solo fine di soddisfare le esigenze contingenti del mercato del lavoro, senza che ciò comportasse il riconoscimento dei diritti di cittadinanza. Modello della chiusura crescente: si tratta della politica seguita oggi da gran parte dei Paesi occidentali i quali, di fronte ai massicci esodi di popolazioni provenienti dai Paesi più poveri, ap- plicano miniere sempre più restrittive nei confronti dei flussi migratori in entrata, generando fe- nomeni di diffusa clandestinità. 7.6.2 Le diaspore Un altro modello migratorio globale è rappresentato dalla diaspora, io fenomeno per cui una popo- lazione abbandona il proprio Paese d'origine disperdendosi in diversi Paesi stranieri, pur mante- nendo la propria identità culturale e, spesso, i legami con altri gruppi di emigrati. Robert Cohen, nel suo moto lavoro Global Diasporas individua quattro diverse categorie di diaspora, a seconda delle cause che la determinano. Diaspora di vittime: diaspora generata da eventi particolarmente negativi e drammatici, come è avvenuto per esempio per gli ebrei nel corso della storia. Diaspora imperiale: la dispersione è legata allo sviluppo di un impero e al conseguente trasfe- rimento di parte della sua popolazione nelle nuove colonie. Diaspora di lavoratori: il trasferimento avviene a causa della ricerca di nuove possibilità di lavo- ro, in più Paesi. Diaspora dei commercianti: la dispersione della popolazione è correlata alla creazione di reti commerciali internazionali. GENERE E SESSUALITÀ 8.1 Biologia e cultura: sesso e genere Il sesso è la distinzione biologica tra femmine e maschi. Per contro il genere designa le aspettati- ve culturali socialmente costruite che si associano alle donne e agli uomini. 8.1.1 Sesso e biologia Il sesso di una persona si determina al concepimento, quando l’ovulo della madre apporta un cro- mosoma X e lo sperma del padre un cromosoma X o Y: una combinazione XX produce una fem- mina; una combinazione XY produce un maschio. I cromosomi contribuiscono a determinare lo sviluppo fisico, incluse le distinzioni tra i sessi. I caratteri sessuali primari, cioè i genitali e gli organi riproduttivi, sono differenze sessuali coinvolte direttamente nella riproduzione. I caratteri sessuali secondari, inclusi i fianchi più larghi e lo sviluppo del seno nelle femmine, oppure la maggior pelo- sità e la massa muscolare più consistente negli uomini, non sono coinvolti direttamente nella ripro- duzione. Le differenze sessuali possono essere assolute e relative. Le differenze sessuali assolute includono quelle che hanno a che fare con la riproduzione, altre differenze, invece, sono relative per esempio, sia gli uomini sia le donne possiedono tutti gli stessi ormoni, ma in misura diversa. 8.1.3 Il genere come costrutto sociale Quasi tutte le differenze che associamo agli uomini e alle donne sono prodotte culturalmente e non hanno una base biologica. In passato, gli uomini hanno sempre superato le donne quanto a livello di istruzione, anche per- ché, sino alla metà del XX secolo, molte università rifiutavano l’iscrizione alle studentesse. Tutta- via, negli ultimi decenni le donne hanno recuperato il terreno perduto e stanno superando gli uo- mini. A metà del XX secolo, in Italia lavorava fuori casa circa una donna su tre, nel 2013, secondo i dati ISTAT, lavorava o era in cerca di occupazione il 53,8% delle donne in età attiva. Soffitto di cristallo: barriera spesso invisibile creata dal sessismo, che impedisce a donne qualifi- cate di raggiungere i livelli più elevati della struttura manageriale. 8.3.5 Potere politico Nonostante la presenza femminile ai vertici delle istituzioni politiche italiana sia stata storicamente piuttosto contenuta, con le elezioni politiche del 2013 la percentuale di donne presenti nel Parla- mento italiano è salita al 31% ponendosi nettamente al di sopra di altri Paesi come la Francia (25%) e la Gran Bretagna (22%). 8.3.6 La violenza sulle donne La violenza sulle donne è al tempo stesso una causa e una conseguenza delle disuguaglianze. Ancora oggi molte società tollerano la violenza domestica, in altri paesi invece le attiviste del mo- vimento femminista sono riuscite a modificare norme culturali e pratiche di applicazione della legge in tema di violenza domestica. La violenza domestica può essere definita come un comporta- mento violento che viene usato da una persona per acquisire o mantenere il potere o il controllo sul proprio partner. Questo tipo di abuso può includere componenti fisiche, sessuali, psicologiche ed emotive. 8.3.6 Molestie sessuali sul lavoro s Le molestie sessuali sono proposte sessuali non gradire, richieste di favori sessuali e molestie verbali di varia natura. Le molestie possono avvenire ovunque. Quasi tutte le molestie sessuali vengono commesse da uomini nei confronti delle donne, ma in teoria il molestatore la vittima pos- sono essere di entrambi i generi. Durante le guerre, dovrei ed eserciti hanno organizzato e messo in atto forme di violenza sistemata contro le donne inclusa la schiavitù sessuale: le donne erano costrette a prostituirsi per i soldati. Per mutilazioni dei genitali femminili si intende una serie di procedure intese a rimuovere parzial- mente o totalmente i genitali esterni delle donne. Alcune culture usano questa pratica per incorag- giare la verginità fino al matrimonio e la fedeltà dopo di esso. 8.4 Sessualità La sessualità designa i desideri, i comportamenti e l’identità sessuale di una persona. Come il ge- nere, anche la sessualità ha a che fare con delle caratteristiche di origine biologica, ma è anche un costrutto sociale. 8.4.1 Biologia, cultura e sessualità Esistono due approcci fondamentali alla sessualità umana. Da una parte, possiamo considerare gli essere umani come animali “superevoluti”, per i quali il sesso è semplicemente un’attività biologica naturale necessaria alla riproduzione, come avviene per gli altri animali. Dall’altra parte il comportamento umano è il prodotto della cultura, oltre che della biologia, e in questo senso la sessualità umana non è tanto naturale, quanto piuttosto un insieme di pratiche socialmente regolate che variano da una cultura all’altra e nel tempo. Le culture hanno sempre delle norme e delle aspettative riguardo alla sessualità. Quasi tutte le culture hanno qualche forma di tabù dell’incesto, una norma che vieta le relazioni sessuali tra determinati parenti. 8.4.3 Identità sessuali La teoria queer afferma che, durante la vita di una persona, le identità sessuali sono socialmente costruite, quindi si evolvono e possono essere modificate. L’identità sessuale od orientamento sessuale designa il nostro Sé innervazione al tipo di attrazione sessuale che proviamo nei con- fronti degli altri. eterosessuali sono attratti da persone dell’altro sesso. omosessuali sono attratti da persone dello stesso sesso. bisessuali sono attratti da persone di entrambi i sessi. asessuali non sono attratti sessualmente da nessuno. (Non decidono di astenersi dal sesso, di reprimere gli impulsi sessuali, di non cercare partner o di negarsi il sesso per ragioni morali o religiosi) 8.4.6 Identità sessuali e disuguaglianza L’eterosessismo è un insieme di atteggiamenti e di comportamenti che indica la convinzione che tutti siano eterosessuali, è molto comune: dare per scontato che un’amica parli di un uomo quando accenna a un appuntamento galante è tipico esempio di eterosessismo. Gli eterosessisti non pro- vano necessariamente sentimenti negativi nei confronti degli LGBT, si limitano a ignorarne l’esist- enza. Per contro, l’omofobia è un misto di disapprovazione e di paura nei confronti degli LGBT, ed è spesso fonte ostilità e discriminazione. 8.5.1 Il genere in sociologia Engels definì la disuguaglianza di genere, sottolineando gli effetti dell’interazione tra classe sociale e stratificazione di genere. Parsons evidenziò la tensione esistente tra i diversi ruoli che la donna americana della classe media ricopriva, in particolare quelli di madre e di lavoratrice dipendente. A suo giudizio, il lavoro retribuito avrebbe una funzione strumentale perché orientato ad un compito specifico e comporta interazioni impersonali di breve termine, mentre la famiglia svolgerebbe fun- zioni espressive insite in una relazione interpersonale stabile e di lunga durata. 8.5.2 L’attivismo delle donne Il femminismo, è una filosofia che promuove l’eguaglianza sociale, politica ed economica tra uo- mini e donne. L’attivismo per l’uguaglianza delle donne è una forza costante del mondo moderne e si divide in “ondate”. Il femminismo della prima ondata si è concentrato negli Stati Uniti e nel Regno Unito tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, quando le attiviste che lottavano per i diritti politici e civili delle donne ottennero il diritto di voto. Il femminismo della seconda ondata (anni ’60-70’) affrontò problemi delle disuguaglianze di gene- re. Il femminismo della terza ondata, iniziato negli anni ’90, è considerato un tutt’uno con la seconda ondata e al giorno d’oggi promuove l’autoemancipazione e l’autostima sessuale. LE FAMIGLIE E I PROCESSI DI SOCIALIZZAZIONE 9.1 La famiglia come istituzione sociale I sociologi definiscono la famiglia come due o più individui, uniti dalla nascita o da un vincolo socia- le, che condividono risorse, si prendono cura delle persone a loro carico e mantengono spesso forti legami emotivi. La famiglia è un'istituzione sociale fondamentale. Le relazioni a base biologica - i cosiddetti "vincoli di sangue" - hanno un ruolo nella costruzione dei legami familiari, ma anche svincolo sociali come l'adozione, il matrimonio, l'Unione civile o semplicemente una relazione amo- rosa di lunga durata possono creare una parentela, ovvero dei vincoli familiari. Le famiglie variano enormemente proprio perché sono costruzioni sociali, e riflettono le norme e le credenze di culture diverse in momenti storici diversi, sono le azioni degli individui, però, che preservano o modificano le strutture familiari. La famiglia viene influenzata da forze sociali di più vasta portata, alcune delle quali contribuiscono a creare differenze di potere che perpetuano le disuguaglianze sociali. 9.1.1 La famiglia nella prospettiva funzionalista Secondo l’approccio funzionalista la famiglia deve contribuire, al pari di altre istituzioni sociali, a mantenere l’integrazione della società. Secondo Talcott Parsons, per poter assolvere a questa funzione, una famiglia doveva avere una determinata struttura interna, in cui si distinguesse un ruolo strumentale riservato al marito (male breadwinner, uomo che mantiene la famiglia) e uno espressivo attribuito alla moglie (le spettano tutte le attività di cura e di gestione del contesto do- mestico). Partendo da questa prospettiva, i sociologi che si rifanno alla tradizione funzionalista hanno messo in luce diverse altre funzioni positive della famiglia. Stabilità sociale. Le famiglie creano dei legami di parentale. A livello microsociologico, queste relazioni creano un vincolo sociale tra gli individui e i loro parenti; a livello macrosociologico, i legami di parentela possono creare reti sociali intricate, che includono la famiglia allargata e più generazioni. Nella società preindustriali, queste reti costruivano un’importantissima fonte di sta- bilità sociale perché promuovevano la solidarietà ed erano, allo stesso tempo, unità di produzio- ne e consumo. Nelle società industrializzate, molte delle funzioni delle tradizionali reti parentali sono state assunte da istituzioni formali governative ed economiche: sono le famiglie nucleari a contribuire, anche se in modo sempre più incerto, alla riproduzione dell’integrazione sociale. Aiuto materiale. I membri delle famiglie si aiutano reciprocamente, condividendo risorse mate- riali e sforzi. In alcuni casi, lavorano per procurarsi beni di prima necessità, tra cui il cibo, il ve- stiario e la casa. Nelle economie industriali, i salari vengono usati per il beneficio materiale dei membri della famiglia, mentre il lavoro non pagato, svolto principalmente dalle donne nelle attivi- tà domestiche e di cura, contribuisce al mantenimento e al benessere della famiglia. Discendenza e successione ereditaria. Il termine “discendenza” fa riferimento al vincolo pa- rentale che si trasmette di generazione in generazione, mentre la “successione ereditaria” defi- nisce le regole sulla riallocazione della proprietà all’interno di una famiglia dopo il decesso di uno dei suoi membri. Nelle moderne società industriali, la discendenza è quasi sempre bilaterale, ossia ascritta sia alla madre sia al padre. In molte società tradizionali dell’era preindustriale, in- vece, la discendenza era monlineare, ossia ascritta unicamente al padre (discendenza patrili- neare) o alla madre (discendenza matrilineare). La famiglia è alla base della riproduzione della classe sociale. Cura e socializzazione delle persone a carico. Le famiglie spesso si prendono cura di varie persone a carico, soprattutto bambini e anziani. Oltre a insegnare ai bambini delle competenze pratiche, come vedremo nel seguito del capitolo, i familiari li abituano a coltivare determinate credenze e valori, tra cui i ruoli di genere, la moralità e la religione. La cura degli anziani è sem- pre più importante perché sempre più persone vivono a lungo, arrivando a sperimentare disabili- tà fisiche e mentali. Regolamentazione sessuale. Tipicamente, le norme culturali indicano quali relazioni sessuali sono socialmente accettate. I tabù dell’incesto proibiscono i rapporti sessuali con determinati membri della famiglia. Inoltre alcune società vietano severamente la pratica del sesso nelle cop- pie non sposate: il matrimonio legittima automaticamente una partnership sessuale, delegitti- mando le relazioni extraconiugali. Conforto psicologico. Oltre a svolgere funzioni pratiche, la famiglia moderna dovrebbe anche essere una fonte di conforto psicologico e di intensi vincoli emotivi. L’amore dovrebbe avere un ruolo centrale nel matrimonio, e i membri della famiglia dovrebbero assistersi reciprocamente, per un senso naturale di responsabilità e impegno affettivo. A partire dalla fine degli anni ’60, questi assunti della teoria funzionalista sono stati messi in di- scussione, soprattutto dalle prospettive neo-femministe. Queste ultime rinnovarono in modo deci- sivo la sociologia della famiglia, andando ad analizzare le trasformazioni che si stavano delinean- glia, ma quando crescono, altri agenti di socializzazione assumono ruoli di importanza crescente, e fra questi la scuola, i media, i gruppi dei pari, il luogo di lavoro, la religione e le istituzioni totali. 9.3.1 La famiglia La famiglia costituisce il primo agente di socializzazione primaria. È all’interno della famiglia che gran parte degli individui impara le abilità fondamentali, come parlare e curare l’igiene personale, oltre a importanti valori come la differenza fra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato o il modo cor- retto di trattare gli altri. Le famiglie hanno un ruolo cruciale nel primo sviluppo del senso d’identità di un bambino. Le famiglie, sono le prime a insegnare i ruoli di genere appropriati, spesso indicati dall’abbigliamento che scelgono, dai giocattoli che comprano e dai compiti che assegnano. All’in- terno di una stessa società, i metodi educativi possono variare in base alla cultura, in modi che ri- producono la struttura sociale. Per esempio, il sociologo Melvin Kohn (1977) ha scoperto che negli Stati Uniti i genitori appartenenti alla classe operaia tendono a insegnare ai propri figli il valore del- l’obbedienza, l’atteggiamento loro richiesto sul lavoro. I genitori della classe media, al contrario, incoraggiano i figli a valorizzare l’autodeterminazione, atteggiamento necessario a molti lavoratori della classe media. Questi valori diversi, a loro volta, accrescono la probabilità che i bambini fini- scano per avere le stesse opportunità educative e lo stesso genere di lavoro dei genitori, riprodu- cendo in tal modo la disuguaglianza strutturale esistente da una generazione all’altra. 9.3.2 Scuola Per molti bambini, la prima esperienza prolungata di contatto con il mondo sociale esterno ha luo- go nell’asilo nido o nella scuola per l’infanzia. In questi ambienti essi imparano a interagire con gli altri e a far parte di un gruppo. Le scuole, in quanto agenti di socializzazione dediti principalmente all’insegnamento delle conoscenze culturali, preparano i bambini ai futuri ruoli nella società, for- nendo istruzioni in molti campi, fra i quali capacità linguistiche avanzate, matematica, storia e scienze. Oltre al curriculum accademico formale, le scuole trasmettono anche un curriculum na- scosto ovvero lezioni implicite sul comportamento corretto. Queste lezioni variano in funzione del- la scuola, e spesso cambiano con l’avanzare dei ragazzi negli studi. Gran parte delle scuole inse- gnano comunque ai bambini a essere tranquilli e attenti, a obbedire alle autorità, a seguire le rego- le, a rispettare gli altri e a essere orgoglioso del proprio Paese. 9.3.3 I media I bambini e gli adolescenti di oggi sono stati definiti “Generazione M” a causa del loro massiccio uso dei media. Il ruolo dei media nella vita di molti giovani è divenuto sempre più significativo, so- prattutto nei Paesi industrializzati. Per esempio, il 20% dei ragazzi italiani con un’età compresa tra i 7 e gli 11 anni passa più di 4 ore al giorno davanti alla televisione; il 70% dei ragazzi europei e americani ha una televisione in camera. Per gran parte della storia dell’uomo, i bambini apprende- vano morale e valori dai miti e da altre storie ascoltate in famiglia; oggi, nelle nazioni sviluppate, queste lezioni provengono da media commerciali, il cui primo interesse è vendere prodotti e socia- lizzare i giovani in modo tale che diventino avidi consumatori. Pertanto, aziende come Disney e Viacom rivestono ormai un ruolo fondamentale nel presentare ai bambini una serie di valori, cre- denze, norme e comportamenti che promuovono uno stile di vita consumistico. Attraverso la pub- blicità e la programmazione offerta, i media aiutano a definire i gusti e i desideri della popolazione. I media hanno pesantemente alterato la socializzazione dei bambini anche in altro modo. Grazie alla televisione, in particolare, per la prima volta i bambini hanno avuto accesso a un mondo di idee e di situazioni tipiche degli adulti. In questo modo si è andato sfumando il confine fra infanzia ed età adulta, che una volta costituiva un punto fermo della socializzazione. 9.3.4 Gruppo dei pari Si definisce gruppo dei pari, un gruppo di persone, in genere di età simile, che condividono status sociale e interessi. I gruppi dei pari possono influenzare lo sviluppo e il comportamento degli indi- vidui in modo significativo. Avvicinandosi all’età adulta, gli adolescenti si rendono sempre più indi- pendenti dalla famiglia, e in questo periodo il gruppo dei pari può agire da suo surrogato. Il gruppo dei pari dà l’opportunità ai giovani di sperimentare valori, credenze e comportamenti diversi da quelli dei loro genitori. Per separarsi dalle famiglie e integrarsi nel gruppo dei pari, di solito gli ado- lescenti cambiano modo di parlare, vestire e comportarsi, nonché gli interessi che perseguono. Tale processo, tuttavia, non appartiene solo all’adolescenza. Quando un adulto inizia un nuovo la- voro o una nuova carriera, oppure si trasferisce in un’altra città o in un altro quartiere, spesso cer- ca i membri di un gruppo dei pari per comprendere le nuove norme sociali e i comportamenti ap- propriati. Esistono diversi tipi di gruppi dei pari. Alcuni sono informali, come un gruppo di amici che sceglie di trascorrere insieme il tempo libero. Negli adolescenti le attività del gruppo dei pari sono assai diversificate, come andare a un centro commerciale o al cinema, praticare sport, provare si- garette, alcolici, droga e sesso. In ambienti più strutturati esistono altri gruppi di pari, come è il caso dei compagni di classe e dei colleghi di lavoro. 9.3.5 Il luogo di lavoro Il luogo di lavoro è uno degli ambienti più importanti in cui sperimentare la socializzazione secon- daria. La socializzazione professionale è l’apprendimento delle norme informali associate a un tipo di impiego. Studiando ed facendo esercitazioni per una determinata categoria lavorativa, si viene in possesso di molte indicazioni, grandi e piccole, su come avere successo in quel lavoro. Comprendere norme, valori e comportamenti che fanno parte di una determina categoria lavorati- va può essere di fondamentale importanza per il successo in quel campo. La socializzazione nelle occupazioni professionali è una delle funzioni più significative delle università, delle scuole e dei tirocini professionali. Ovviamente, queste esperienze strutturate forniscono informazioni specifiche del tipo di studio intrapreso, così gli aspiranti medici studiano anatomia e gli aspiranti avvocati i contratti, ma tutte insegnano anche le norme informali, e spesso non dichiarate, della professione scelta, cioè a comportarsi come un medico o un avvocato (socializzazione anticipatoria). Questo genere di socializzazione professionale prosegue nell’arco della carriera. Acquisendo esperienza in un determinato campo, le persone imparano a rapportarsi con i colleghi di minore esperienza o più giovani. Se si riceve una promozione, per esempio, bisogna imparare le norme e le aspettative della nuova posizione, che possono comprendere la supervisione di altri dipendenti, la partecipa- zione a riunioni con gli altri dirigenti e la partecipazione a una programmazione a lungo termine. 9.3.6 Religione La religione è l’agente di socializzazione più esplicitamente dedito all’insegnamento di valori e cre- denze. In passato, le istituzioni religiose esercitavano un’enorme influenza su ogni aspetto della vita, offrendo opportunità sociali ed educative oltre a indottrinare su moralità e valori. In linea gene- rale, questa influenza ha subito un declino nel corso del XX secolo. Per i credenti, la religione può essere un agente socializzante di particolare importanza, in quanto spesso basa i propri precetti su testi considerati sacri, e qualcun persino infallibili, come la Bibbia cristiana o il Corano musulmano. Per coloro che credono in una divinità che sostiene o proibisce determinati valori, credenze e comportamenti, l’influenza socializzante della religione può rimpiazzare tutte le altre. In una società in cui il benessere materiale e il consumismo sono segni distintivi della cultura più convenzionale, le istituzioni religiose sono fra le poche che promuovono un serio dibattito sui valori immateriali. Nei decenni recenti, le organizzazioni hanno notevolmente ampliato l’utilizzo dei mass media, dif- fondendo il proprio messaggio attraverso notiziari a tema, telecronache e spettacoli, oltre che at- traverso la più tradizionale messa in onda delle funzioni religiose. 9.3.7 Istituzioni totali Un particolare gruppo di agenti di socializzazione è dato da quelle che il sociologo Erving Goffman ha definito istituzioni totali, strutture inglobanti nelle quali un'autorità regola ogni aspetto della vita di una persona. Goffman identifica cinque tipologie generali di istruzioni totali: 1. istituzioni che si occupano di persone definite incapaci e innocue (orfanotrofi e case di riposo); 2. istituzioni create per occuparsi di persone che non sono in grado di badare a se stesse, ma che, pur senza averne l'intenzione, possono rappresentare una minaccia alla comunità (ospe- dali psichiatrici); 3. istituzioni create per proteggere una comunità da colore che le autorità ritengono costituire un pericolo significativo (prigioni); 4. istituzioni fondate su un compito specifico che richiede l'impegno totale dei partecipanti (ca- serme e colleghi); 5. istituzioni intese come distaccate dal mondo (monasteri e conventi). Il mondo chiuso di un'istituzione totale è un esempio estremo di risocializzazione, il processo me- diante il quale gli individui che passano da un ruolo a un altro o da una fase di vita a un'altra sosti- tuiscono vecchie norme e passati comportamenti con altri nuovi. Nelle istituzioni totali, le persone devono sottomettersi a un regime strettamente controllato e vivono in gruppo con altre persone nella stessa condizione. Queste istituzioni controllate cercano di riprogrammare le e persone affin- ché evitino i problemi del passato, accettino la realtà del momento, oppure si preparino a impegni futuri. Non sempre le istituzioni totali riescono a risocializzazione tutti i propri membri. 9.4.2 Riflessività: il Sé-specchio di Cooley Il senso del Sé è l'insieme di pensieri e sensazioni che si provano considerando se stessi come un oggetto. Gli umani sono esseri coscienti di Sé: possiamo renderci oggetto dei nostri pensieri e delle nostre attenzioni. Questa capacità di autoriflessione è il nucleo del concetto del Sé, emerge soltanto attraverso l'interazione sociale. Non nasciamo con il senso del Sé; lo sviluppiamo nel cor- so del tempo come prodotto della cultura nella quale siamo socializzati e, soprattutto, attraverso le nostre esperienze di interazione sociale. Uno dei primi sociologi americani, Charles Horton Cooley elaborò questo punto introducendo il concetto del Sé-specchio (Looking Glass Self), l'idea che il nostro senso del sé si sviluppi come riflesso del mondo in cui riteniamo che gli altri ci vedano. Se- condo Cooley, le nostre intenzioni con gli altri comportando tre fasi che, ripetuto in tutte le nostre interazioni, forgiano il nostro Sé: 1. immaginiamo la nostra immagine negli occhi degli altri; 2. immaginiamo che gli altri esprimano giudizi su di noi; 3. proviamo una sensazione che deriva dal giudizio immaginato. La capacità empatica (ovvero la capacità di interpretare quello che gli altri pensano o provano) e molte risposte emotive sono funzioni innate del nostro cervello. Come sottintende l'idea del Sé- specchio, il Sé delle persone è determinato dalle loro interazioni con gli altri, e quindi varia in fun- zione delle persone con le quali interagiscono. Se uscite con amici intimi vi sentite fiduciosi e a vo- stro agio, mentre durante un difficile colloquio di lavoro vi sentite nervosi e incerti. Non siete cam- biati, ma lo sono il contesto e le vostre interazioni con gli altri. La sicurezza o il nervosismo sono collegati alla vostra percezione dei giudizi altrui in ciascuna situazione, oltre che all'importanza at- tribuite a quel giudizio. Orientarsi senza problemi nella vita sociale richiede in genere una reazione bilanciata: tener conto delle reazioni degli altri, ma senza lasciare che siano loro a dettare le vostre azioni. 9.4.3 Spontaneità versus norme sociali: L’”io” e il “me” di Mead Un altro modo per esprimere l’equilibrio richiesto per sviluppare un Sé sano viene dal lavoro del sociologo americano George Mead. Secondo Mead, il Sé è costituto da quelli che definiva “io” e “me”. L’”io” di Mead è la parte del Sé che è spontanea, impulsiva, creativa e imprevedibile. Non è riflessiva ed esiste solo nel presente: nello stesso istante in cui iniziate a rifletterci, perdete quel Sé spontaneo. Vi è mai capitato di lasciarvi sfuggire qualcosa che avete poi immediatamente rimpian- to di aver detto? Era l’”io” che parlava. Quando le persone attribuiscono le proprie azioni a istinti, riflessi, oppure all’aver agito senza pensare, si riferiscono all’”io” di Mead, che rappresenta anche chusetts del XVII secolo. Erickson spiega come fu un cambiamento interno alla comunità puritana a generare l’isteria per le streghe. Questo caso dimostra come concentrarsi su una devianza pos- sa unire una comunità. Il modo in cui le persone rispondono alla devianza può generare una soli- darietà di gruppo. La devianza mette in luce i confini del gruppo e fornisce a diversi cittadini l’oppo- rtunità di esprimere il proprio comune disprezzo per comportamenti definiti immorali, criminali o patologici, e così facendo unisce le persone. 10.2.3 Fornire una fonte di innovazione Durkheim affermò che la devianza è una forma di creatività e innovazione nella vita sociale. Egli, infatti, riteneva che le società avessero bisogno della devianza per essere sane, perché quelle to- talmente conformiste sono repressive e limitano le possibilità dell’uomo. Molte idee e comporta- menti che oggi riteniamo scontati un tempo erano considerati devianti. La democrazia ne è un esempio: dal punto di vista storico, la democrazia è un’idea relativamente nuova, perché la sua ampia diffusione e il suo sviluppo sono avvenuti soltanto negli ultimi duecento anni. 10.3 Spiegare la devianza La devianza è il prodotto del rapporto sociale fra coloro che sostengono i confini della “normalità” e coloro che li superano. Alcune spiegazioni si concentrano sulle cause individuali della devianza, sottolineando difetti o debolezze di chi è considerato deviante. Queste interpretazioni descrivono la devianza in termini di immoralità o come sintomo di una malattia; esse circolano fra la gente co- mune, ma sono rifiutate dai sociologi. 10.3.1 La devianza come immoralità La devianza viene a volte spieata come la conseguenza di un’immoralità individuale. Il confine fra normale e deviante, visto sotto questa prospettiva, è più o meno analogo alla linea che divide il bene dal male. Dal punto di vista sociologico, quindi, spiegare la devianza come conseguenza del- l’immoralità ci aiuta ben poco ad identificare le condizioni sociali che la provocano o a comprende- re come le persone vi rispondano. 10.3.2 La devianza come malattia: medicalizzazione Un secondo approccio basato sul comportamento individuale trova le fonti della devianza nella pa- tologia, o malattia. In questa prospettiva, gli individui che hanno un comportamento deviante sono malati e soffrono di un disturbo psicologico o biologico. In questo caso il confine fra normalità e devianza coincide con quello che separa chi è in salute da chi è malato. Le radici della devianza nella malattia individuale sono particolarmente evidenti nei casi di infermità mentale come la schi- zofrenia. Questo processo - la designazione di un comportamento deviante come malattia che può essere curata da medici specializzati - viene definito dai sociologi medicalizzazione della de- vianza. In alcuni casi, specifici comportamenti devianti identificati in precedenza come immorali sono stati riclassificati come problemi medici. Un classico esempio è l’alcolismo. Con la medicaliz- zazione dell’alcolismo, è cambiato anche il tipo di soluzione offerta al problema, trasformandosi dalla riabilitazione morale alle cure mediche e alle terapie psicologiche che potrebbero controllare i sintomi della malattia. Trattare il comportamento deviante come un disturbo può modificare lo stigma sociale associato ad esso. È più probabile che le persone con una devianza medicalizzata siano oggetto di pietà che di disprezzo. D’altro canto, se tale devianza è identificata come esito di una malattia ereditaria, può ancora essere oggetto di uno stigma che durerà per tutta la vita. I so- ciologi hanno identificato nel potere crescente della professione medica il primo motivo per la me- dicalizzazione della devianza. Con l’incremento dell’autorità dei medici, in particolare di psichiatri e pediatri, un campo sempre più vasto della vita sociale viene definito in termini clinici. Esistono cin- que stadi chiave nella medicalizzazione della devianza: Primo stadio. Un comportamento o un’attività vengono definiti devianti. Secondo stadio. Viene “scoperta” una concezione medica di questi comportamento deviante. Terzi stadio. Interessi organizzati - di ricercatori, medici, organizzazioni di assistenza sanitaria - incitano alla definizione medica della devianza. Quarto stadio. Chi avanza rivendicazioni mediche si appella ai funzionari governativi per legit- timare la definizione medica della devianza. Quinto stadio. La definizione medica della devianza viene istituzionalizzata come parte del si- stema di classificazione medico e legale. A volte la medicalizzazione può essere fermata, o anche invertita, con successo, mediante un pro- cesso che i sociologi definiscono demedicalizzazione. 10.3.3 La devianza come scelta razionale Altre spiegazioni della devianza superano il livello individuale per comprendere i fattori sociali. Se- condo uno di questi approcci la devianza deriva da un processo decisionale razionale: le persone sono inclini a comportamenti devianti nei casi in cui la devianza ha ricompense significative a fron- te di costi limitati. Se la devianza è piuttosto inoffensiva, potrebbe non valere la pena controllarla, se però è distruttiva, un buon sistema per farlo è aumentare le sanzioni. 10.3.4 Devianza e socializzazione: la teoria dell’associazione differenzia- le Altri due approcci sociali spiegano la devianza in termini di socializzazione. Il primo di questi si fo- calizza sull’inadeguata socializzazione. In questa prospettiva, le persone impegnate in un compor- tamento deviante non sono riuscite ad interiorizzare le norme sociali e, quindi, non sono adegua- tamente regolate dalla struttura morale della società. La prima causa alla base di questa devianza è l’incapacità degli attori di base della socializzazione, come la famiglia e la scuola, di trasmettere i valori fondamentali. Un approccio alternativo che si concentra sulla socializzazione considera la devianza il risultato delle interazioni sociali. L’articolazione più celebre di questo approccio è forse la teoria dell’associazione differenziale di Sutherland, che suggerisce che la devianza è appre- sa attraverso l’interazione con altre persone coinvolte nel comportamento deviante. Secondo tale prospettiva, le persone si socializzano in una subcultura deviante: accompagnandosi ad altri anti- conformisti, imparano a essere devianti e a criticare le convenzioni sociali, e possono subire pres- sioni per comportarsi in modo da evitare oppure per unirsi ad attività devianti. Quando il compor- tamento deviante diviene parte dell’identità collettiva di un gruppo, fra i suoi membri vengono a crearsi forti legami sociali. In questa prospettiva, il più efficace sistema di controllo dei gruppi so- ciali devianti è limitare l’interazione fra i membri del gruppo, interrompendo in tal modo i legai so- ciali che li portano a violare le norme. Subculture devianti. Tutti noi dobbiamo affrontare una pressione sociale a conformarci. In gran parte dei casi genitori e insegnanti ci ricompensano se ci conformiamo e ci puniscono se non lo facciamo, e col passare del tempo interiorizziamo molte di queste prescrizioni. È probable che la devianza a lungo termine richieda il sostegno sociale di una subcultura deviante, un gruppo che pretende da tutti i propri membri l’impegno a sostenere particolari credenze o comportamenti anti- conformisti (Ku Klux Klan). Devianza individuale. Non sempre la devianza è collegata a una subcultura. In alcuni casi, il comportamento deviante è fortemente individuale, e le relazioni tra coloro che ne hanno di simili sono scarse o addirittura nulle. I sociologi definiscono questo comportamento devianza individua- le, ovvero attività devianti che un individuo compie senza il sostegno sociale di altri partecipanti. L’instabilità della devianza individuale mette in luce un punto importante della sociologia: il compor- tamento deviante si verifica entro un contesto sociale specifico. 10.3.5 Devianza e struttura: la teoria della tensione di Merton Un’altra spiegazione sociale della devianza sottolinea come le contraddizioni sottostanti l’ambiente sociale o economico possano spingere le persone alla devianza. In questa prospettiva, la non-con- formità è causata in primo luogo dalla disuguaglianza insita nella struttura sociale. Nel suo classico saggio Social Structure and Anomie (1938) Merton suggerì che la devianza derivi dal conflitto fra le norme e gli obiettivi che dominano la società americana e i mezzi legittimi per raggiungere quegli obiettivi. L’approccio di Merton fu alla base della teoria della tensione, che mette in evidenza la tensione o la pressione sperimentata da coloro che non hanno i mezzi per raggiungere obiettivi culturalmente definiti e che sono quindi portati a seguire strade devianti nella loro ricerca del suc- cesso. La teoria di Merton spiega anche altre forme di comportamento, oltre alla conformità e al- l’innovazione. Coloro che hanno accesso a mezzi legittimi per raggiungere il successo, ma respin- gono gli obiettivi apprezzati nella propria cultura si imbarcano nel ritualismo, eseguendo formal- mente i loro compiti, ma senza più credere nel loro lavoro. Un’altra risposta, la rinuncia, si ha quando una persona non ha accesso ai mezzi e respinge gli obiettivi, spesso finendo nell’isola- mento sociale e nell’abbandono. Infine c’è la ribellione: chi si ribella spesso crea nuovi obiettivi e adotta noi mezzi per raggiungerli, comportandosi in tal modo da attore del cambiamento sociale. 10.4.1 Peso I diffusi tentativi di perdere peso sono la risposta al crescente aumento di peso della popolazione. Poiché l’obesità è spesso associata a gravi problemi di salute, è frequente che il dimagrimento faccia parte di uno sforzo più vasto, indirizzato verso una vita sana e attiva. Nello stesso tempo, il desiderio di essere magri è radicato in norme culturali che definiscono le persone grasse come deviante. Considerando quanto sia diffuso l’ideale della magrezza, non deve sorprendere che le persone spesso assumano un atteggiamento negativo nei confronti degli obesi e che lo stigma so- ciale associato all’obesità abbia conseguenze reali. Analizzando un sondaggio nazionale america- no compiuto sulla popolazione adulta si è scoperto che le persone in sovrappeso sono maggior- mente soggette a discriminazione sul posto di lavoro rispetto a quelle di taglia “normale”, e che quelle fortemente obese spesso debbono affrontare anche una discriminazione interpersonale, oltre a quella operata dall’assistenza sanitaria. Inoltre, lo stigma sociale correlato al peso può ave- re significative conseguenze psicologiche; le persone molto obese hanno “livelli più bassi di accet- tazione del Sé” rispetto a chi è normopeso. I disordini alimentari derivano dall’ultraconformismo, o eccessiva aderenza alle aspettative culturali. Spesso le persone rispondono negativamente al- l’ultraconformismo; per esempio gli studenti particolarmente dotati sono spesso evitati dai compa- gni di classe, e le donne molto attraenti vedono sempre messa in dubbio la loro intelligenza. Tal- volta però l’ultraconformismo riceve una risposta positiva, costituendo la cosiddetta devianza po- sitiva. Gran parte di noi percepisce il corpo eccessivamente magro, o anoressico, come deviante ma in alcune comunità, questo fisico dolorosamente magro è un simbolo di devianza positiva. 10.4.2 Alterare il corpo Nella nostra società, orientata alla gioventù, una forte pressione sociale esorta le persone a man- tenere giovane un fisico che invecchia. La chirurgia plastica elettiva è diventata sempre più comu- ne. Nelle generazioni precedenti la nostra, la chirurgia estetica era molto meno comune di quanto non sia oggi, ed era associata a uno stigma sociale. Veniva ritenuta abbastanza unanimemente una forma di devianza, derivata dalla vanità o dall’ansia nei confronti del proprio aspetto fisico. Il moderno atteggiamento, favorevole alla chirurgia estetica, e il declino dello stigma sociale associa- to ad essa riflettono uno spostamento nelle norme culturali conosciuto come normalizzazione, per cui un comportamento in precedenza considerato deviante viene accettato come convenzionale. 10.5 Potere e devianza Il potere è un fattore cruciale per tutti quelli che vengono etichettati come devianti. Il potere è signi- ficativo per quattro motivi fondamentali: 1. Il potere è legato alle nostre concezioni di base circa ciò che è normale e ciò che è de- viante. Alcuni gruppi della società hanno il potere di definire le norme, creare le regole e deci- dere che determinati comportamenti o attributi debbano essere considerati devianti. Altri non hanno questo potere e, di conseguenza, le loro interpretazioni hanno scarsa importanza. con il concetto stesso di natura, intesa come realtà ultima, caratterizzata da proprie leggi interne. Lo stadio metafisico è importante perché sviluppa le capacità di astrazione già utilizzare nelle faso politeiste e monoteiste dello stadio teologico. Lo stadio positivo è caratterizzato dal pieno dispiegamento del metodo dell’osservazione ora la generalizzazione viene fatta partire da cose osservate, non più in riferimento a cose assolute, ma a cose relative. Inoltre, la scienza, nello stadio positivo, è la base di un’attività pratica caratteriz- zata dalla tecnica, nella sua capacità di controllare il mondo esterno. In questo stadio vengono anche a sintesi le tensioni tra ordine e progresso: in questo stadio è possibile un ordine che so- stiene il progresso dell’umanità. Secondo Comte, le scienze sono destinate a superare e a sostituire la teologia e la metafisica; il vero sapere passa attraverso l’osservazione e la generalizzazione; la conoscenza di cose non os- servabili non è possibile. 1.4 La religione dell’umanità Secondo Comte, la nuova società è scientifica ed industriale, mentre quella ancora esistente, ma desinata a tramontare, è teologica e militare. In quest’ultima, sacerdoti e militari sono le figure do- minanti, figure che saranno sostituite da quelle degli scienziati e degli industriali, il sapere scientifi- co soppianterà quello religioso. Comte pensa che il lavoro sostituirà la guerra Ma se la scienza so- stituisce la religione allora davanti a un sapere universale e universalmente condiviso spariranno tutte le divisioni e l’umanità potrà finalmente riconciliarsi con se stessa. Comte pensa che alla reli- gione cattolica si sostituirà una nuova religione positiva, basata su una fede dimostrabile perché razionale, ma anch’essa dotata di una propria dottrina positiva, di una regola morale e di un siste- ma di culti, gestito da una vera e propria Chiesa positiva. Questa religione deve essere il fonda- mento del nuovo ordine industriale. Gli scienziati sono i nuovi sacerdoti, e lo stesso Comte è il sommo sacerdote di questa nuova religione. Al cuore di questa religione laica c’è la venerazione dell’umanità, con cui si porta a compimento il processo di progressiva presa di possesso della na- tura esterna e della realtà interna dell’uomo, nei suoi aspetti razionali, pratici e morali. Comte, al- l’interno della sociologia, distingue tra dinamica sociale e statica sociale. La statica riguarda le condizioni di esistenza di una società (ordine), mentre la dinamica quelle di movimento (progresso). Nella sua statica, Comte sostiene che l’unità di base della società è la famiglia e non l’individuo, poiché, non può essere oggetto di osservazione scientifica. La famiglia è il luogo primo e naturale dove si estrinseca tale socievolezza. La società è una cooperazione basata sulla divi- sione del lavoro. Per Comte nel futuro ci sarà sempre più bisogno di un governo consapevole ed illuminato, capace di pianificare e coordinare un ordine sociale via via più complesso e articolato. 1.5 Umanità o società? Comte è contrario al dogma del libero mercato. La società è organizzazione razionale. Comte è ostile anche a ogni sommossa, sia essa popolare, operaia o democratica. Il vero cambiamento non può riguardare la sfera politica e dello Stato; deve coinvolgere, al contrario, la società nel suo complesso: in Comte il concetto di società, una volta identificato con quello di ordine sociale, tende a sostituire anche la nozione di società civile, legata a quella di Stato e alla dialettica reciproca tra le due dimensioni. ÉMILE DURKHEIM 4.1 La biografia e le opere Émile Durkheim nasce a Épinal, in Lorena, nel 1858. Il padre era rabbino, la quale cosa influenzò fortemente la sua formazione e i suoi interessi scientifici. Studia all’Ercole Normale Supérieure dove sviluppa e consolida le sue posizioni politiche, ispirate al repubblicanesimo e al riformismo progressista, che non cambierà mai più. Gli autori che lo influenzano maggiormente sono Comte e Kant. Nel 1897 fonda una rivista che diverrà famosa, l’Année sociologiche, allo scopo di sviluppare gli studi sociologici in Francia. Nel 1912 pubblica le forme elementari della vita religiosa. Egli si preoccupò di dare un fondamento empirico e una legittimazione accademica alla sociologia. Dal punto di vista dell’analisi sociale, il suo problema è studiare la nascita dell’individualismo moderno e, quindi, cercare di spiegare come sia possibile una società, quella moderna, che si fonda sull’in- dividuo. Durkheim pensa che l’individualismo, sia, al tempo stesso, il problema e la risorsa della modernità. 4.2 Il metodo In cosa consiste la società? Per rispondere a questa domanda, Durkheim polemizza con l’utilitari- smo inglese, soprattutto di Jeremy Bentham e Herbert Spencer: le azioni degli uomini, contraria- mente a come essi ritengono, non sono mosse da interessi. Per Durkheim, la società è, invece, un fatto morale, è cioè un insieme di credenze condivise che, messe assieme, costituiscono la co- scienza collettiva, sui cui, a sua volta, si basa la solidarietà sociale, il senso dello stare assieme degli individui socializzati. La società è quindi una realtà ideale, nel senso che è costituita da cose immateriali, spirituali, cioè prodotte dallo spirito umano. Secondo Durkheim, il sociologo deve se- parare il dominio della sociologia da quello della psicologia. Se il mondo è un insieme di fatti natu- rali, la società è un insieme di fatti sociali. Un fatto sociale è, innanzitutto “opera nostra”, è cioè un prodotto dell’uomo, che perl ci appare come qualcosa a noi esterno, allo stesso modo di un albero o di un sasso. La società è fatta dagli uomini, ma poi diventa indipendente da loro, dai suoi artefici, diventa qualcosa dotato di una propria natura autonoma, esterna all’individuo e come dice Dur- kheim, diventa una realtà sui generis. Un fatto sociale, quindi, è “ogni modo di fare, più o meno fissato, capace di esercitare sull'individuo una costrizione esterna”. Durkheim introduce quindi la sua teoria dell’homo duplex. L’uomo ha due componenti: una prettamente individuale, l’altra socia- le. I due aspetti non sono facilmente separabili: il fatto che io pensi una determinata cosa può es- sere allo stesso tempo espressione della mia autonomia di pensiero, ma anche della mia apparte- nenza a un determinato gruppo sociale. Ecco perché Durkheim distingue tra rappresentazioni indi- viduali e rappresentazioni collettive. Secondo Durkheim la società esiste in quanto si possono se- parare queste due dimensioni, quella individuale e quella collettiva, e mettere in luce la forza coer- citiva che la seconda esercita su di noi. Secondo Durkheim, la vita sociale è interamente costituita da rappresentazioni, cioè da modi di pensare condivisi. Nonostante la società abbia una realtà sui generis, di tipo ideale e spirituale, può essere ugualmente studiata scientificamente. Per Durkheim “è una cosa tutto ciò che è dato, tutto ciò che si offre e si impone all’osservazione”, anche se non è materiale. Il sociologo deve però studiare i fatti sociali con lo stesso stato d’animo dei fisici e dei chimici di fronte ai fenomeni fisico-chimici. Inoltre, per spiegare il fatto sociale “bisogna ricercare separatamente la causa efficiente che lo produce e la funzione che esso assolve”. Infine occorre sottolineare che i fatti sociali sono validi solo per la coscienza collettiva: ogni società costituisce un certo modo specifico di vedere le cose, di rappresentarsi il mondo, che è necessariamente arbitra- rio, ma allo stesso del tutto valido per chi si rappresenta il mondo in quel modo. 4.3 Solidarietà sociale Dal punto di vista della società si pongono due questioni fondamentali: l'integrazione e la regola- mentazione. La prima ha a che vedere con la possibilità che gli individui possano costituire un'enti- tà indipendente attraverso l'integrazione reciproca, la seconda riguarda invece la possibilità che ciò avvenga attraverso la regolamentazione degli impulsi profondi tipici della natura umana. Nelle so- cietà tradizionali, secondo Durkheim, esiste una moralità comune, basata sulla coscienza colletti- va, che fa riferimento a valori condivisi. Integrazione e regolamentazione sono quindi di tipo mec- canico: tutti gli individui tendenzialmente si comportano allo stesso modo, sulla base degli stessi valori di riferimento. Lo spazio di autonomia dell'individuo è ridotto, perché egli non sceglie tra al- ternative, ma si conforma alle credenze e alle pratiche comuni. Agli individui non è dato scegliere tra alternative - sposarsi in chiesa oppure con rito civile o semplicemente convivere - perché que- ste alternative neppure si danno: là coscienza collettiva impone una morale diffusa e condivisa e, di conseguenza, un comportamento pressoché obbligato. L'individuo non è costretto a sposarsi in chiesa in modo coercitivo: egli stesso non pensa che sia possibile fare altro perché, semplicemen- te, altro non c'è. Ecco perché Durkehim parla di solidarietà meccanica. Introduce anche il concetto di solidarietà organica. La società ora quindi non si fonderebbe più si valori condivisi bensì su un meccanismo socio-economico, quello della divisione del lavoro, e della coscienza collettiva si può fare a meno. La società moderna è caratterizzata dall'aumento della divisione del lavoro, così che ognuno di noi diventa sempre meno indipendente e sempre più legato alle prestazioni professiona- li altrui. Tanto più aumenta la divisone del lavoro, e il bisogno di specializzazione professionale, tanto più ci si lega agli altri. Quindi per Durkheim, ci sono due diversi modi di fondare il legame so- ciale: il primo tipico delle società premoderne, integrate attorno a valori comuni; il secondo, invece, caratteristico della modernità, basato sull'integrazione funzionale di competenze specializzate. Nel- la prefazione alla seconda edizione della Divisione del lavoro sociale, pubblicata nel 1902, Dur- kheim si rende conto del carattere problematico della questione e sostiene che anche la società moderna ha bisogno di una morale collettiva, anche se con contenuti diversi da quelli tipici delle società che l'hanno preceduta. Egli perla delle corporazioni professionali e della loro specifica im- portanza nel mondo moderno proprio nel combattere l'anomia generale. Durkheim ritiene che lo stato non possa più adempiere alla funzione di integrazione tra gli individui e i gruppi sociali, così come pensava il giusnaturalismo. Altro tema fondamentale in Durkheim è quello della devianza. Per Durkheim, un comportamento deviante è quello che si contrappone alle norme sociali condivi- se, alla coscienza collettiva. In questo caso si dà un conflitto tra individuo e società. Secondo Dur- kheim il comportamento normale non coincide con il comportamento giusto. Ciò che è lecito qui e ora potrebbe essere deviante altrove e in un altro tempo e viceversa. E se è lecito non lo è perché è giusto, ma solo perché tutti, o quasi, fanno così. Se la devianza è il prodotto della tensione tra autonomia dell’individuo e costrizione sociale, ne consegue che, per Durkheim, non ci sarà mai una società senza devianza. La devianza oltre a essere un fenomeno ineliminabile e quindi norma- le, può essere anche utile alla società: senza devianza non ci sarebbe cambiamento sociale. Il tema della devianza viene affrontato anche nell’opera sul suicidio. C’è molta differenza tra uno studio psicologico e uno sociologico sul suicidio. Il primo tenderà a mettere in luce gli elementi che hanno spinto il soggetto al suo specifico comportamento deviante, il secondo, invece, deve definire il suicidio in quanto fatto sociale. Perciò non studia il comportamento del singolo, quanto piuttosto il tasso dei suicidi, che è un fenomeno sociale, cercando di mettere in luce “la causa efficiente che lo produce e la funzione che esso assolve”. Durkheim identifica quattro modelli di rapporto tra dimen- sione della solidarietà collettiva e comportamento suicidogeno, che chiama suicidio egoista, al- truista, anomico e fatalista. Immaginiamo due assi che si incrociano, il primo che identifica l’inte- razione e il secondo la regolamentazione. I quattro tipi si dispongono agli estremi dei due assi, es- sendo il suicido egoista caratterizzato da un difetto e quello altruista da un eccesso di integrazione; il suicidio anomico da un difetto e quello fatalista da un eccesso di regolamentazione. Il suicidio egoista è determinato da situazioni sociali ove c’è scarsa integrazione, dove i legami sociali sono deboli, come è il caso dei credenti. Questo suicidio aumenta nei periodi di pace e di stabilità e di- minuisce in quelli di guerra e di tensione sociale, che producono più integrazione. Il suicidio al- truista è caratterizzato da un eccesso di integrazione sociale: l’individuo crede talmente alle nor- me condivise da togliersi la vita, per esempio il capitano che, per motivi di onore, si lascia affonda- re con la sua nave. Il suicidio anomico è l’espressione di situazioni caratterizzate da bassa rego- lamentazione sociale: l’assenza di regole lascia l’individuo davanti al flusso potenzialmente indefi- nito dei suoi desideri, esponendolo alla frustrazione continua. Troviamo questa forma in situazioni sociali sottoposte a un rapido cambiamento sociale, nelle quali le regole tradizionali vengono meno e agli individui si aprono orizzonti tanto inaspettati quanto incerti. Il suicidio fatalista è tipico di un eccesso di regolamentazione, una sorta di dispotismo morale esercitato dalle regole sociali, di un eccesso di disciplina che chiude gli spazi del desiderio, come può essere nel caso di ragazzi che si sposano troppo giovani. un suo specifico interesse. Secondo Weber, occorre escludere dal processo di indagine il concetto di totalità storica: non posso cioè, ad esempio, studiare il capitalismo in quanto tale. Posso studia- re il rapporto tra scienza e capitalismo, tra religione e capitalismo ecc., selezionando cioè uno dei possibili nessi di spiegazione che rendono possibile un’interpretazione del fenomeno. Ogni singolo ricerca, se ben condotta, produrrà un sapere valido e oggettivo a partire dalla selezione iniziale con cui il ricercatore, sulla base del suo particolare interesse, ha privilegiato alcuni aspetti piuttosto che altri. 5.3 Senso e personalità Secondo Weber, all’uomo non è dato vivre in presa diretta con la realtà; noi non sappiamo e non sapremo mai se quest’ultima è razionale o irrazionale: essa ci appare talmente sfuggente, con- traddittoria, mutevole e persino ostile da impedirci un chiaro e diretto rapporto con essa, sia di tipo pratico che conoscitivo. Il destino dell’uomo è perciò quello di essere costretto ad articolare la pro- pria posizione nel mondo cercando di dare un proprio autonomo senso alla realtà e ovviamene, in primis, a se stesso. Possiamo perciò dire che agire implica dare un senso a se stessi e al mondo che ci circonda, introducendo, dentro uno sfondo oscuro il cui senso complessivo ci è ignoto, la nostra pur piccola impronta personale. In questo senso, la concezione sociologica di Weber è indi- vidualista. La capacità individuale di dare un personale senso alle cose non è però né semplice né scontata: ciò che è in gioco è infatti la nostra personale visione della nostra esistenza, la capacità di dare un senso, il più possibile unitario e coerente, alla nostra vita e la possibilità di costruire una nostra personalità. Per Weber ciò che caratterizza e distingue l’azione è il senso che intenzional- mente il soggetto le dà. Occorre per ciò distinguere tra comportamento e azione. Non tutto ciò che noi facciamo è azione, perché non sempre noi diamo a ciò che facciamo un senso intenzionale. Non tutte le nostre azioni sono sociali: perché lo siano, occorre che il senso intenzionato sia espressamente rivolto ad altri. L’agire umano è raramente un agire in senso proprio; nella stra- grande maggioranza dei casi, “l’agire si svolge in una oscura semicoscienza o nell’incoscienza del suo senso intenzionato istintivamente o in base all’abitudine”. Perciò, “l’agire effettivamente, e cioè pienamente consapevole e chiaro, è in realtà sempre e solo un caso limite”, anche se “ciò non to- glie che la sociologia elabori i suoi concetti mediante una classificazione del possibile senso inten- zionato come se l’agire fosse di fatto procedesse in modo consapevolmente orientato in base ad un senso”. Per poter generalizzare il senso intenzionato, occorre quindi fare come se l’azione fos- se consapevolmente orientata, anche se raramente lo è. Weber identifica quattro tipi ideale d’azi- one, due di tipo razionale e due di tipo non razionale. I due tipi razionali sono: agire razionale ri- spetto allo scopo e agire razionale rispetto al valore; i due non razionali sono: agire tradizionale e agire affettivo. Non esisterà ma nessuna azione concreta che corrisponda totalmente a uno di questi tipi ideali: ogni azione concreta è sempre un insieme, variamente articolato, di questi model- li, che sono puramente astratti. L’agire effettivo è mosso prevalentemente da affetti, cioè sentimen- ti, passioni, moti dell’animo, e fa perciò riferimento alla dimensione pulsionale dell’uomo. Un agire di questo tipo è quindi quello maggiormente imprevedibile, quello più difficilmente inseribile dentro dentro un nesso conseguente di azioni. L’agire tradizionale, invece, si basa su abitudini consolida- te nel tempo: una volta che si conoscono queste ultime, diventa facilmente prevedibile. In entrambi i casi, abbiamo azioni per lo più passive e non consapevolmente orientate in base a un senso soggettivamente, cioè autonomamente intenzionato. La piena autonomia soggettiva si realizza solo attraverso i due tipi ideali di agire razionalmente orientati: solo in questo caso possiamo parla- re di azione in senso proprio. Di conseguenza, solo agendo in modo razionale è possibile acquisi- re, definire e consolidare una propria personalità. 5.4 Due aspetti della razionalità La razionalità è per Weber, in prima battuta chiarezza e consapevolezza. Agire razionalmente nel mondo significa agire in modo autonomo, dando alla propria azione un senso intenzionato che non sia meramente meccanico, dettato da impulsi o mosso da abitudini, ma che diventi chiaro ed evi- dente alla coscienza dell'attore. La distinzione esiste a seconda del modo con cui l'attore pensa di agire razionalmente nel mondo, a seconda che adotti una logica di coerenza oppure di adeguatez- za. Il requisito della coerenza è tipico della razionalità rispetto al valore. Questo tipo di atteggia- mento è determinato "in modo razionale rispetto al valore di un determinato comportamento in quanto tale, prescindendo dalle sue conseguenze". La razionalità è quindi qui identificata dalla coerenza rispetto ad un valore incondizionato. Il soggetto sente garantita la propria personalità at- traverso un'azione che vive come coerente con quei valori, o fini ultimi, che costituiscono il modo con cui egli costruisce il suo rapporto con il mondo e mette alla prova la capacità di quei valori di trasformarsi in scelte concrete, in azioni che testimoniano la sua autonomia personale, così che quest'ultimo non sia, e non appaia, una semplice "smargiassata". Per Weber, razionale non è il valore in sé, bensì solo la consapevole coerenza rispetto a un valore. Il giudizio razionale dell'attore non è sul valore, che egli rimane razionalmente sottratto; esso ha sempre come oggetto una relazione, che qui assume la forma del rapporto tra un'azione e un valo- re. Ma il valore non può essere derivato dalla ragione: non esistono valori razionali. La ragione è uno strumento con cui facciamo i conti con il carattere intrinsecamente e irriducibilmente irraziona- le del mondo, ma non può annullare tale irrazionalità di fondo. L'azione concreta può essere solo più o meno coerente con il valore dato: non esiste un'azione concreta che coincide con il tipo idea- le dell'assoluta coerenza. Tutte le azioni possono allora essere ordinate dentro un continuum, che va da un massimo a un minimo di coerenza. Il mio agire sociale, e il senso che ad esso chiara- mente e consapevolmente attribuisco, è determinato "da aspettative dell'atteggiamento di oggetti del mondo esterno e di altri uomini, impiegando tali aspettative come condizioni o come mezzi per scopi voluti e considerati razionalmente, in qualità di conseguenza". Mi comporto razionalmente se valuto le aspettative che mi provengono dall'esterno come condizioni o mezzi utili per raggiungere uno scopo. L'azione viene giudicata razionalmente non più sulla base del suo valore di intenzione, ma del suo valore di successo. Per Weber ci sono due aspetti della razionalità, alquanto diversi: il primo può essere definito con il binomio chiarezza-coerenza; il secondo con quello chiarezza-adeguatezza. L'alternativa è piutto- sto evidente: la mia azione può essere razionale perché coerente con un valore oppure perché utile strumentalmente a raggiungere un fine. In primo luogo, l'agire razionale rispetto al valore si basa su una logica che consente di isolare ogni singola azione dal contesto in cui è inserita. Di ogni azione può essere valutata la coerenza con un valore, a prescindere dai Messi che la legano ad altre azioni. Diversa è invece la situazione nel caso della razionalità secondo uno scopo, poiché l'adeguatezza del mezzo rispetto al fine non è separabile dalle conseguenze e neppure dalla cate- na di scopi che contribuisce a realizzare. L'adeguatezza deve essere valutata non solo sulla base della singola azione mirata al singolo scopo, ma, più in generale e per quanto possibile, sulla base di una catena di scopi tra loro commesso e che appaiono direttamente influenzabili dall'azione. L'adeguatezza è, infatti, una questione di misurazione; la coerenza può essere misurata solo in senso metaforico. Il grado di efficacia rispetto allo scopo può essere devastante o nullo e può es- sere verificato; il grado di coerenza può essere alto o basso, e questa cosa può essere solo testi- moniata. In terzo luogo, posso prevedere un'azione razionale rispetto al valore se comprendo il valore di riferimento: a un non credente il martirio appare incomprensibile. Come si misura l'ade- guatezza? La scienza è lo strumento universalmente valido per misurare l'adeguatezza razionale delle azioni umane. Dal punto di vista dell'efficacia, è irrazionale e gire coerentemente, e lo è tanto più quanto il valore di riferimento è vissuto come un assoluto; dal punto di vista della coerenza, è irrazionale agire efficacemente. 5.5 Il processo di razionalizzazione Secondo Weber la storia dell'umanità è retta da un progressivo processo di disincantamento del mondo. Il rapporto con il mondo subisce cioè un progressivo processo che va al di là del magico e conduce a vedere il mondo sempre meno come un campo retto da forze oscure che possono es- sere dominare o influenzate con la magia. Anche il mito, in quanto racconto strutturato, è un primo passo razionale con cui l'uomo supera la paura che domina il suo rapporto con le forze della natu- ra, che gli appaiono nemiche e ostili. Compaiono quindi le grandi religioni, di cui i miti sono l'anti- camera. Esse costituiscono racconti strutturati che ordinano il rapporto tra uomo e mondo in ma- niera via via più razionale, superando cioè le forme magiche precedenti. Esse sono l'espressione, in quanto strutture di senso autonome, di una nuova capacità dell'uomo di rapportarsi con la realtà esterna in maniera sempre più razionale proprio perché sempre meno passiva. Esse sono perciò la prima e fondamentale forma di disincantamento del mondo e, allo stesso tempo, di razionalizza- zione del rapporto uomo-mondo. Weber considera le sue ricerche sulla religione "un contributo alla tipologia e alla sociologia del razionalismo". In secondo luogo, per Weber, il mondo con cui si for- ma la struttura della personalità è strettamente collegato al modo in cui si dà il rapporto con il mondo. In questo senso, il processo di razionalizzazione è, allo stesso tempo, un processo di indi- vidualizzazione: il soggetto moderno è il risultato di un modo poi razionale di rapportarsi con il mondo. Razionalizzazione e individualizzazione sono lo stesso processo. Le religioni sono perciò il risultato di una prima razionalizzazione che mira a superare la magia. Ognuna mette a punto una sua specifica concezione del rapporto con il mondo. Weber identifica un'alternativa di fondo: ci sono le religioni che giudicano positivamente il mondo e le religioni che lo giudicano negativamen- te. La prima prospettiva è fatta propria dal confucianesimo e dal taoismo; la seconda è tipica della religione indiana e, soprattutto, della tradizione giudaico-cristiana. Per questa seconda prospettiva, la realtà è sempre corrotta di fronte alla perfezione divina. Le religioni che si basano su un rifiuto del mondo hanno il problema di rendere possibile per il credente una redenzione dall'imperfezione mondana. In risposta a questo problema, Weber identifica un'alternativa: esistono una via mistica e una via ascetica alla redenzione. Per la prima, la redenzione è possibile solo attraverso una fuga dal mondo corrotto; per la via ascetica, al contrario, la redenzione è quella più capace di sviluppare il potenziale di razionalizzazione implicito in tutte le religioni: infatti, essa implica l'idea di un'azione razionale sul mondo attraverso la quale il credente ottiene la sua redenzione. Il cristianesimo è una religione di redenzione che impone al cristiano una condotta corretta di vita, così che egli possa, dentro la corruzione del mondo, guadagnarsi il paradiso. Il protestantesimo, quindi, è il punto di arrivo del processo di disincantamento del mondo. E lo è come terminale degli sviluppi della con- cezione cristiana del rapporto con il mondo, in primis del modo di pensare il comportamento eco- nomico. Nell’ipotesi weberiana, si tratta di vedere come il protestantesimo produca lo spirito del capitalismo. Il capitalismo per Weber non è solo struttura, ma anche sovrastruttura. Occorre partire dall’etica protestante e dalla dottrina della predestinazione. Il protestantesimo porta a compimento il processo di de-magificazione perché non crede che attraverso le azioni si possa ottenere la re- denzione. La polemica concreta contro la pratica cinquecentesca della vendita delle indulgono as- sume un carattere più generale: il cristiano che crede di poter influenzare la volontà di Dio attra- verso le sue azioni è ancora vittima dell’illusione con cui il mago credeva di poter influenzare le forze della natura. Dio ha già deciso se ogni singolo credente sarà redento o dannato, e la sua de- cisione non può essere cambiata. In questa condizione di profonda ansia esistenziale, il credente è costretto così a cercare segni della volontà divina nella sua attività concreta ed è spinto a pensa- re che il successo nella sua vita quotidiana possa essere letto come un segno della benevolenza divina. Si sviluppa così un’etica del lavoro non tanto tesa al successo economico, quanto piuttosto a cercare segni mondani di salvezza. Ciò che importa al cristiano riformato è l’affermazione di un comportamento ascetico intra-mondano che lo spinge a realizzarsi nella professione. Un’etica reli- giosa produce così un’etica del lavoro, fondamentalmente capitalista, perché, il comportamento ascetico che la caratterizza spinge al continuo reinvestimento deli utili, producendo così il proces- so dell’accumulazione ai fini dell’investimento produttivo. Per Weber non è possibile spiegare un fenomeno storico sulla base di una sola causa, in maniera unilaterale. L’ipotesi weberiana è che il processo di razionalizzazione prosegue ora indipendentemente dall’etica religiosa, anzi addirittura contro di essa. Il processo di razionalizzazione, dopo aver liberato l’uomo dalla sudditanza nei con- fronti dei potenti demoni di un passato oscuro, sembra ora imporre all’uomo un nuovo demone: la potenza coercitiva dell’ordinamento economico moderno, rispetto al quale dobbiamo essere pro- fessionisti. In questo modo, la nostra professione non è più il luogo dell’affermazione della nostra personalità, ma quello della sua negazione: “allora certo per gli uomini di questo sviluppo culturale potrebbe diventare verità il principio: specialisti senza spirito, gaudenti senza cuore”. Lo spirito del capitalismo, basato su un’etica religiosa che faceva del lavoro una professione, diventa solo ora una semplice “gabbia d’acciaio”, dove il soffio dello spirito è bandito. La razionalizzazione va oltre il disincanto religioso e trasforma il mondo in una macchina senza senso, un grande meccanismo retto da leggi causali nel quale l’intervento dell’uomo è anch’esso dominato dalla pura logica del- dell’intellettualizzazione sono i punti centrali della sua analisi della modernità come luogo di una crisi infinita, perché intrinseca e irresolubile. Da un lato, infatti, abbiamo una sempre maggiore quantità di informazioni, o cultura oggettiva; dall’altro, appare la difficoltà dell’individuo a padro- neggiare soggettivamente questa massa di saperi. All’interno di questa crisi, per Simmel diventa fondamentale la questione di salvaguardare l’identità personale dentro l’alienante mondo moderno. 6.2 Un autore senza metodo? Già all'inizio del suo primo libro sociologico, La differenziazione sociale, appare netta la presa di- stanza di Simmel dal positivismo. Non esistono fatti sociali di per sé, ma semmai sempre e solo dei contenuti che si danno attraverso forme, che lo spirito soggettivo può cogliere. Il rapporto tra contenuti e dorme rimanda a quello più generale tra vita e forma: la prima è un fluire incessante, ma, allo stesso tempo, una produzione di forme attraverso cui quel fluire si manifesta. Tra i due momenti esiste una continua tensione: la vita tende a superare le forme in cui essa si stabilizza, ma il suo manifestarsi concerto non può evitare di coagularsi ogni volta all'interno di forme sempre nuove. La tensione continua tra contenuto e forma produce il cambiamento culturale. Le forme non sono da intendersi in senso kantiano. Nella società, invece, "l'unità sociale viene realizzata senz'al- tro dai suoi elementi, poiché essi sono coscienti e sinteticamente attivi, e non ha bisogno di alcun osservatore". Il soggetto trascendentale kantiano viene sostituto dai soggetti umani empirici che sono presenti dentro le interazioni sociali e dalle forme che tali relazioni assumono. Le forme sono perciò parte di un insieme che chiamiamo società e sono il risultato della vita sociale che pulsa al di sotto di esse: la loro stabilità è quindi solo parziale. Se l’individuo di per sé è già complicato, an- cor più lo sarà l’insieme delle relazioni che crea relazionandosi con altri individui. Forma e intera- zione sociale sono allora i due concetti fondamentali della sociologia di Simmel. Essi sono, allo stesso tempo, opposti e complementari. Gli effetti di reciprocità sono il risultato dell’incontro con- creto tra individui che, come monadi isolate, si attraggono e si respingono, creando un’infinita gamma di interazioni possibili, ora fugaci e passeggere, altre volte più stabili e durature. Per Sim- mel, tutto è in rapporto con tutto, ciò che domina nella realtà sociale è l’azione reciproca tra ele- menti che interagiscono e questa universale razionalità è il vero oggetto della sociologia in quanto scienza. Per Simmel, tertium datur: una logica ferrea mal si addice le cose umane, e ancora più a quelle sociali. Questo però non significa che non sia possibile trovare schemi interpretativi efficaci: “non c’è dubbio che ogni elemento di una società si muova in base a leggi naturali; solo per il tutto non c’è alcuna legge: in questo caso non c’è, come nella natura, una legge superiore che si elevi al di sopra delle leggi che regolano i movimenti delle parti minime”. Dalla complessità è possibile far emergere schemi interpretativi a patto che non diventino schemi assoluti e univoci, da cui credere di poter dedurre lo sviluppo delle società e della storia. Occorre sottolineare che tali forme sono il prodotto della carità astrattiva dello spirito individuale applicata alla realtà; non sono cioè kantianamente forme a priori del conoscere. Si tratta sempre di far emergere la ricomposizione sintetica di forma e contenuto, a partire dalla pluralità magmatica di interazione concrete: anche la società è, in questo senso, una forma. La società, quindi, non è una realtà, non è una cosa, essa non è per Simmel una realtà autonoma, dotata di una forza costrittiva nei confronti dell’individuo. La sociologia, e il suo metodo, si devono perciò concretizzare in un’at- tenzione infinita per la complessità delle interazioni tra gli uomini, per le forme che esse si danno, per le sfumature che sono capaci di sviluppare e dentro le quali si conserva, la straordinarietà irri- petibile della vera e autentica esperienza soggettiva. 6.3 Il problema della sociologia Simmel parte dall’intuizione che l’uomo è, in tutta la sua essenza e in tutte le sue manifestazioni, determinato dal fatto di vivere in azione reciproca con altri uomini”. L’azione reciproca ha la sua base nei vari impulsi umani che sono la materia, il contenuto della società. Essi però non sono an- cora la società, ma la costituiscono solo quando strutturano la coesistenza isolata degli individui uno accanto all’altro in determinate forme di coesistenza con e per l’altro, le quali rientrano sotto il concetto generale dell’azione reciproca. L’associazione, o meglio la società, è quindi un contenuto più una forma specifica che essi assumono. Forma e contenuto sono un tutt’uno dentro un proces- so inarrestabile che è, alla fine, la storia umana, intesa come l’insieme delle concrete associazioni prodotte dal diverso articolarsi tra contenuto e forma. Questo significa che, perché si produca un’associazione tra gli uomini, l’impulso umano deve avere un’influenza, che poi diventa reciproca, su altri esseri umani; in secondo luogo, l’influenza reciproca deve assumere una forma specifica, stabilizzandosi nel tempo e nello spazio. La sociologia studia proprio queste forme di associazione prodotte dall’influenza reciproca. La sociologia, in quanto disciplina scientifica, separa ciò che è unito, il contenuto e la forma, per studiare ciò che vi è di tipicamente sociale nella storia umana, cioè le forme storiche che assume l’azione reciproca tra gli uomini. Individuo e società non sono due entità tra loro contrapposte, perché non sono entità: il primo è il punto di incontro delle relazio- ni e delle interazioni; la seconda è l’insieme delle reti di relazioni. La sociologia ha un oggetto di studio che non è né l’individuo né la società come realtà contrapposta all’individuo. Oggetto di stu- dio è allora l’insieme delle interazioni e la forma che queste assumono, la sociologia giunge a ciò che è specificamente sociale, cioè alle forme della sociazione in quanto tali, le forme di cui quei contenuti concreti si rivestono e con cui si stabilizzano. La sociologia si basa così su un ambito legittimo di astrazione: quello della sociazione in quanto tale e delle sue forme. Queste forme emergono dal contatto tra individui, in modo relativamente indipendente dalle ragioni di tale contat- to, e la loro somma totale costituisce, in concreto, quell’entità che è designata dall’astrazione: la società. Queste forme si trovano anche in contenuti molto diversi: ad esempio, la forma della con- correnza, dell’imitazione della divisione del lavoro si trovano in una famiglia, in una chiesa, in un partito, in una fabbrica ecc ecc. Anche lo stesso contenuto può trovarsi dentro la concorrenza, l’esclusione, la divisione del lavoro ecc ecc. Questo infinito intreccio di forma e contenuto costitui- sce lo sfondo di questioni dentro cui la sociologia si muove e di cui deve tener conto. Le forme pure - sovraordinazione e subordinazione, concorrenza, imitazione, rappresentanza, divisione del lavoro, contemporaneità, chiusura - sono ciò che fa di un insieme di azioni reciproche una società: esse sono quello che c’è di sociale nella società- Non esiste un’azione reciproca in quanto tale, ma sempre una determinata forma di azione reciproca; viceversa, non esiste una forma in astratto, ma sempre e solo un insieme specifico di azioni reciproche. La forma è sempre e solo la forma di un contenuto e quest’ultimo si dà sempre e solo dentro una forma. La sociologia studia le forme che può assumere la realtà sociale, astraendo dalle interazioni concrete. Ecco il senso in cui, per Simmel, la sociologia è una scienza formale, cioè una scienza delle forme di sociazione. Simmel sostiene che un fenomeno storico può essere osservato da tre punti di vista: quello degli individui, che sono il punto di incontro delle reti di relazioni; quello delle forme di azione reciproca; quello dei contenuti astratti, in cui non si colgono più né gli individui né le forme, quanto piuttosto il significato oggettivo degli avvenimenti, vedendoli come espressione dell’economia, della tecnica, dell’arte, della scienza, del diritto, della vita effettiva. Accanto alla macro-sociologia formale, compra in Simmel una micro-sociologia che scopre contenuti precedentemente non ritenuti degni e meritevoli di analisi sociologica. In questa duplicità, tra uno sguardo che astrae dall’alto e le forme sociali e che poi osserva da vicino i fili di cui queste forme sono fatte, risiede “il problema della sociologia” una scienza che studia il suo materiale in modo cinematografico. 6.4 La differenziazione sociale Fondamentale all’interno di tutta l’opera smielata è l’analisi dei processi di differenziazione sociale e di individualizzazione. Si tratta di processi tra loro connessi e che si alimentano reciprocamente: un società più differenziata implica un aumento dell’individualizzazione e viceversa. Al fondo dei due processi sta il problema del rapporto tra gruppo sociale e individuo e della forma che tale rap- porto può assumere. Si può dire che tanto più c’è fusione tra gruppo e individuo, e quindi tanto più quest’ultimo scompare perché assorbito dal gruppo a cui appartiene, tanto più bassi saranno i li- velli di differenziazione sociale e di individualizzazione. Quanto più i legami che ci uniscono al gruppo sono semplici, tanto più essi sono forti e tanto più stretta è la connessione tra gruppo e in- dividuo. Nel primo capitolo del libro Simmel prende in esame la questione della responsabilità col- lettiva. Nelle società primitive, la responsabilità dei crimini non è mai degli individui che li hanno comessi, ma sempre e solo dei gruppi cui essi appartengono. C’è una distinzione tra sanzione re- pressiva e sanzione restitutiva. Nel primo caso, la sanzione è sentita come lo strumento con cui viene riparata l’offesa che il reato ha portato alla coscienza collettiva; nel secondo caso, invece, il reato è visto soprattutto come qualcosa che lede diritti e interessi soggettivi. Con l’espansione del gruppo sociale e il suo allargamento, diminuisce la pressione del gruppo e aumenta il livello di in- dividualizzazione. Allo stresso tempo, il gruppo perde di distinzione e di riconoscibilità e le sue ca- ratteristiche, prima nette e chiare, diventano sempre meno evidenti: la sua forza viene meno quan- to più aumenta quella dell’individuo. I gruppi sociali più ampi sono meno forti, sono più differenziati e consentono stili di vita più individualizzati. Inoltre, tanto più il gruppo si estende, tanto più l’indivi- duo sente valere su di sé obblighi di tipo universale, che riguardano gli individui in quanto tutti egualmente uomini, appartenenti all’umanità generale. Gli obblighi verso l’umanità e quelli verso le cerchi più piccole posti naturalmente entrare in conflitto. L’aumento della differenziazione porta con sé l’aumento del numero delle cerchie sociali cui l’individuo può potenzialmente appartenere. Nel mondo moderno, estremamente differenziato, l’individuo partecipa a numerose cerchie sociali, al- cune ristrette come la famiglia, il gruppo di amici, i colleghi di lavoro ecc., altre più ampie come il partito, la nazione ecc. Se queste cerchie non si sovrappongono e non sono tra loro coordinate ma sono separate o addirittura incompatibili, creando così il fenomeno dell’intersecazione delle cer- chie sociali, allora l’individuo ha davanti a sé una grande quantità di alternative entro cui è costret- to a scegliere, aumentando il suo grado di individualizzazione. Ognuno è allo stesso tempo più li- bero e responsabilizzato, ma anche sempre più privo di questi sostegni e punti di riferimento che una società meno differenziata mette a disposizione. In questo modo, “la possibilità di individualiz- zazione tende all’infinito perché la stessa persona può assumere, nelle diverse cerchie a cui ap- partiene simultaneamente, posizioni relative completamente diverse”. In un mondo differenziato, le posizioni unilaterali diventano sempre pi rare e difficili, la realtà si fa più ambigua. Inoltre, lo stesso individuo potrebbe occupare posizioni molto diverse in riferimento alle varie sfere, aumentando ancor più la difficoltà individuale nel gestire la propria esperienza sociale. A questo proposito, Simmel parla di differenziazione individuale, come se, appunto, la differenziazione penetrasse dal- la società sin dentro l’individuo. Si apre quindi una tensione del tutto nuova tra la cultura dei gruppi sociali e la cultura dell’individuo: quest’ultimo potrebbe non avere le risorse sufficienti per fronteg- giare le quantità di aspettative e problemi che gli provengono dall’esterno. Sorge un’evidente sepa- razione tra cultura oggettiva e cultura soggettiva. 6.5 La forma denaro e la tragedia della cultura Filosofia del denaro, pubblicato nel 1900, è il libro di Simmel più sistematico tra quelli sociologica- mente rilevanti. I problemi che riguardano la vita spirituale sono tali per cui ad essi “non possiamo fornire una risposta esatta” e, allo stesso tempo, “non sappiamo rinunciare”. Perciò, per studiarli, scienza e filosofia devono essere complementari. All’inizio, infatti, e prima dell’analisi scientifica, occorre identificare i presupposti dell’indagine; alla fine occorre inserire i risultati sempre frammen- tari ottenuti con l’analisi scientifica dentro una visione del mondo capace di afferrare “la totalità del- la vita”. Ecco perché, per Simmel, “se deve esserci una filosofia del denaro, questa si può colloca- re soltanto al di qua e al di là della scienza economica della moneta”, ed ecco perché il libro di Simmel non è in nessun senso un saggio di economia. Per prima cosa, anche il denaro, inteso come forma sociale, subisce il processo di differenziazione ed è a sua volta un fattore di differen- ziazione. Il tema dominante di questo libro molto complesso è l’analisi dell’effetto che il denaro, visto come una delle forme più significative dell’economia moderna, ha su tutti gli altri aspetti della vita, sugli individui, sulla loro vita interiore e sulla cultura. Simile sviluppa qui una teoria dell’aliena- zione per molti versi simile a quella di Marx. Diversamente da Marx, Simmel pone però al centro della sua analisi i rapporti di scambio. L’economia è basata sui rapporti di scambio e non su quelli di produzione, perché nello scambio si producono i valori economici. Alla base dell’analisi c’è quin- di un’impostazione soggettivistica, per cui il valore di un bene è dato dall’utilità che procura a un soggetto e di cui quest’ultimo è l’unico arbitro. Inoltre, per Simmel l’economia è solo una forma par- ticolare che assume la forma sociale dello scambio, intesa come la forma fondamentale delle rela- zioni umane. Tutte le interazioni complicano uno scambio. Esistono individui vicini tra loro che inte- ragiscono, e lo scambio è una delle forme principali che queste interazioni assumono. Le forme acquistano poi una loro oggettività indipendente attraverso un processo di reificazione dai conte- nuti concreti da cui emergono: “il denaro appartiene a questa categoria di funzioni sociali reificate. La funzione dello scambio, come interazione diretta tra individui, si cristallizza attraverso il denaro tà tedesca del tempo. Marx fin da subito compie studi di natura filosofica e il suo interesse cresce soprattutto quando entra in contatto con la filosofia hegeliana. Marx rimarrà sempre profondamen- te influenzato dal pensiero di Hegel tanto che quest'ultimo costituirà uno dei tasselli principali del suo pensiero. Per un certo periodo della sua vita Marx si dedicherà al giornalismo politico ma ben presto le sue posizioni politicamente estreme gli varranno un'attenzione particolare da parte del governo prussiano che deciderà di esiliarlo ed espellerlo dalla sua terra d'origine. Marx si stabilisce così in Francia e qui entra in contatto con quegli autori che rappresenteranno la seconda grande influenza del suo pensiero: primo tra tutti Proudhon. Da questi autori assorbe una visione di SO- CIETÀ SOCIALISTA alternativa rispetto a quella del suo tempo. Con questi tuttavia entrerà ben presto in polemica, tanto da utilizzare l'espressione SOCIALISTA UTOPISTA in senso negativo ac- cusandoli di pensare ad una società socialista su basi non scientifiche. Nel 1848 a Parigi scoppia la rivoluzione francese e qui Marx si guadagnerà un ruolo di primo piano con la pubblicazione di una delle sue opere più famose, scritte in collaborazione con Engels, che ha per titolo MANIFE- STO DEL PARTITO COMUNISTA e la cui pubblicazione gli costò l'espulsione dalla Francia. Marx ed Engels vengono identificati come i leader di una nuova organizzazione internazionale (comuni- sta) che rappresentava una minaccia per i governi del tempo. Lasciata la Francia, Marx si trasferi- sce nell'altra grande capitale europea e cioè Londra in cui entra in contatto con l'ultima grande in- fluenza del suo pensiero: il pensiero degli economisti classici. La conoscenza dell'economia politi- ca del tempo gli permetterà di conferire un fondamento scientifico al suo pensiero sull'ordine socia- le, in contrapposizione con la posizione del socialismo utopistico che andava criticando. Marx de- dica la sua vita all'analisi dei processi di formazione, sviluppo e affermazione della società borghe- se moderna impostando il suo lavoro di scienziato sociale su un'analisi critica dell'economia bor- ghese e del suo funzionamento. Ai suoi innumerevoli seguaci Marx appare come colui che per primo ha dato una base scientifica all'utopia comunista e all'idea di una società nuova e giusta. Probabilmente nessun pensatore nell'intera storia dell'umanità ha cambiato il mondo quanto Marx: le sue idee hanno unito e diviso studiosi, hanno mantenuto viva l'idea di uguaglianza e di giustizia sociale e hanno costituito l'elemento principale di movimenti, associazioni e partiti (basti pensare all'URSS, alla Cina o al Vietnam che hanno fatto del marxismo una vera e propria ideologia di Sta- to). Nonostante egli usi solo raramente il termine capitalismo, Marx è essenzialmente uno studioso critico del capitalismo moderno. Per lui, la società moderna e,ǹella sua essenza, capitalista, cioè segnata dal grado enorme di sviluppo che in essa raggiungono le forze produttive. 3.2 Il metodo Marx contrariamente alle scienze naturali, le quali non sono critiche nei confronti dell'oggetto stu- diato ma solo nei confronti di altre forme di sapere come la religione o il mito poiché non fondate su una conoscenza razionale ed oggettiva, sostiene che la scienza della società implica la cri- tica sia di altri saperi non scientifici che della società stessa. L'obiettivo di Marx è quello di individuare la LEGGE EVOLUTIVA DELLA SOCIETÀ UMANA e ritiene che una volta individuata questa legge, non si possa rimanere neutrali ma si debba ostacolare oppure incoraggiare tale evo- luzione. Quindi, secondo Marx, finché l'uomo non è in possesso di un sapere vero ed oggettivo sul funzionamento della società e della storia, può ancora credere ad esempio che Dio esista oppure che i borghesi facciano l'interesse di tutti, ma una volta che ha tale conoscenza deve necessaria- mente prendere una posizione che può essere: • DI CONSERVAZIONE DELLO STATO ATTUALE DELLE COSE • DI CRITICA DELLA SOCIETÀ BORGHESE e in questo caso deve contribuire all'evoluzione sociale che è al contempo: → NECESSARIA poiché risponde alla logica di sviluppo della storia → FRUTTO DELL'AZIONE UMANA in quanto la storia è il risultato di ciò che gli uomini fanno e vo- gliono Il sapere scientifico impone quindi di essere critici, cioè di diventare attori consapevoli, laddove prima si agiva solo inconsapevolmente. In un certo senso, secondo Marx, potremmo dividere la storia umana in due fasi: .1)  Nella prima fase le leggi evolutive operano senza che l'uomo ne sia consapevole 
 .2)  Nella seconda fase l'uomo conosce la vera natura della sua vita sociale e può decidere di assecondarla oppure di contrastarne lo sviluppo. Durante la prima fase, in cui è dominato dai miti o dalla religione, l'uomo non è libero in quanto la sua azione è mossa da falsi saperi e senza il vero sapere (scientifico) non esiste libertà. Però dopo aver acquisito il sapere, l’uomo deve fare la scelta che definirà la sua natura, quella tra: conserva- re il proprio potere (particolare), solita di chi ha interessi personali, oppure scegliere il cambiamen- to assecondando la legge di movimento della società umana (universale), tipica di chi non ha nulla da perdere. La storia è il risultato della tensione continua tra particolare (interesse personale) ed universale (movimento della società umana). Il risultato di questa tensione consente all’universale di realizzarsi attraverso il particolare. La società giusta e quella vera per Marx coincidono, perché le leggi scientifiche di movimento della società portano alla realizzazione di un mondo senza inte- ressi particolari, dove si dispiega solo l’essenza universale dell’uomo. Marx lega la visione utopi- ca di una società giusta alla critica scientifica del capitalismo. 3.3 La concezione dell’uomo e della storia La concezione che Marx ha della storia dipende dalla concezione che ha dell'uomo. L'uomo, per Marx “è un ente generico” in quanto è consapevole del suo essere uomo (cioè della sua apparte- nenza, nonostante la sua specificità, al genere umano) ed è questa la principale differenza che c'è tra gli uomini e gli animali. Cioè ad esempio: Mario Rossi si coglie sia nella sua specifica esistenza come Mario Rossi → uomo, alto, magro, ingegnere etc, sia come ente generico, universale e cioè appartenente al genere uomo. Le caratteristiche che lo contraddistinguono, molte determinate dal caso, sono solo uno dei modi possibili con cui avrebbe potuto realizzare la sua essenza di uomo. Per Marx l'esistenza è quindi un mezzo dell'essenza → in quanto attraverso la nostra diversa esi- stenza, ognuno di noi realizza la sua essenza di uomo e in questo ogni uomo è libero poiché con- sapevole che la propria specificità (cioè i caratteri che assume la propria esistenza) non è altro che uno dei possibili modi con cui è possibile realizzare la propria essenza di uomo. Per Marx l’uomo può realizzarsi consapevolmente attraverso la propria attività e cioè attraverso il proprio lavoro. Per Marx l'uomo è HOMO FABER in quanto il lavoro è la dimensione in cui realizza la sua essenza di essere umano. All'interno dell'economia capitalista però, nel lavoro si realizza l'ALIENAZIONE dell'uomo. Marx parla di alienazione in tre sensi principali: 1. L'UOMO E' ALIENATO RISPETTO AL PRODOTTO DEL SUO LAVORO → in quanto quel che l'uomo produce non è più direttamente il risultato della sua attività produttiva. Il mo- tivo per cui l'uomo non si riconosce più nel prodotto del suo lavoro è dato da una caratteristica specifica dell'economia capitalista e cioè la DIVISIONE DEL LAVORO responsabile appunto dell'alienazione. A differenza di un artigiano che produce la merce dall'inizio alla fine e che nel prodotto del suo lavoro riconosce se stesso, chi lavora in un grande capannone industriale non potrà riconoscersi nel prodotto finale poiché con la divisione del lavoro il lavoratore diventa responsabile solo di una pic- colissima parte del processo produttivo, sarà dunque alienato rispetto al processo complessivo e non riconoscerà se stesso nella merce finale che gli si presenterà come qualcosa di ostile. 
 2. IL LAVORO PER MARX E' LA DIMENSIONE CENTRALE DELL'ESISTENZA DEGLI ES- SERI UMANI → quindi è chiaro che se il lavoro è ciò che rende umano un individuo, essere alienato nella dimensione lavorativa implica allo stesso tempo l'alienazione, oltre che dal prodotto, anche da se stessi 
 3. L'UOMO E' ALIENATO ANCHE NELLE SUE RELAZIONI CON GLI ALTRI UOMINI → que- sto perché anche la comunità umana è pensata da Marx come ad una comunità di produttori. Cioè per Marx, i rapporti umani sono fondati sulle relazioni che questi hanno all'interno del processo produttivo. Dunque essere alienati rispetto al proces- so produttivo, implica automaticamente un'alienazione rispetto alla comunità umana. 
 Questa condizione di alienazione caratterizza la maggioranza della popolazione del suo tempo ma non tutta la popolazione poiché Marx ha una visione della società capitalista, come di una società profondamente spaccata a metà. Da una parte il proletariato e dall'altra parte i capi- talisti, in netta contrapposizione tra di loro. L'alienazione riguarda la classe proletaria e cioè la classe dominata. Questa visione della società è più in generale la visione che Marx ha non solo della società capitalista ma di tutte le società che si sono susseguite nel corso del- la storia. La storia dell'uomo è la storia della sua progressiva realizzazione come universali- tà e cioè come ente generico. Le varie società umane non sono altro che le forme con cui l'uomo si relaziona con gli altri uomini per esprimere la sua essenza e cioè per produrre oggetti. Dunque per Marx la storia dell'uomo non è altro che la storia dei modi con cui l'uomo produce e l'evoluzione storica non è altro che l'evoluzione di questi modi di produzione. Secondo Marx quindi, se un extra-terrestre atterrasse sulla Terra e volesse comprendere lo stadio di sviluppo raggiunto dalla civiltà umana, dovrebbe andare a vedere com'è organizzata la produzione → da questo possiamo dedurre che, secondo Marx, la PRODUZIONE è l'espressione dell'EVOLUZIONE UMANA. A partire dalla critica che Marx fa ad Hegel e alla sua concezione della religione (vista come quella sfera della vita in cui l'umanità esprimeva meglio se stessa, dunque per Hegel se si voleva com- prendere il grado di evoluzione raggiunto da una società bisognava guardare alle credenze religio- se del popolo), Marx matura invece la convinzione che per cogliere davvero il grado di sviluppo raggiunto da una società fosse necessario volgere la propria attenzione su una sfera specifica del- la società → LA SFERA ECONOMICA. Quando parliamo di economia, in Marx, parliamo di MODI DI PRODUZIONE. Per Marx il modo di produzione sta a significare il modo con cui vengono pro- dotte le merci di una certa società in un certo periodo storico e a sua volta, il modo di produzione, è il risultato dell'interazione tra: 1. LE FORZE DI PRODUZIONE → comprendono: la FORZA LAVORO (cioè chi materialmen- te produce le merci, mette in moto i macchinari etc); i MEZZI DI PRODUZIONE ( le materie prime, strumenti di produzione, le fonti di energia, il terreno su cui viene co- struita un'industria, l'industria stessa etc); il SAPERE INTELLETTUALE (che applica- to produce determinate tecnologie). 
 2. RAPPORTI DI PRODUZIONE → il rapporto che intercorre tra i soggetti all'interno di uno specifico modo di produzione e cioè il rapporto che si stabilisce tra chi prende parte al processo produttivo. Il rapporto di produzione stabilisce il tipo di relazione che esiste tra i soggetti all'interno del processo produttivo, rapporti che sono indipen- denti dalla soggettività del singolo individuo. 
 Ci sono delle leggi di carattere economico che non hanno a che fare con la soggettività del singolo ma con lo specifico modo di produzione: quindi il rapporto ad esempio che si stabilisce tra il prole- tario e il capitalista non dipende dalla mancanza di bontà del capitalista e quindi dalla sua sogget- delle forze produttive, ma anche perché sostiene il proprio dominio attraverso false idee che na- scondono questo dominio e lo giustificano. La critica, per Marx, deve realizzarsi: • SULLA STRUTTURA → in quanto occorre sostenere il progressivo sviluppo delle forze produt- tive così da liberare l'attività vitale umana, ma anche... 
 • SULLA SOVRASTRUTTURA → tanto da sviluppare una progressiva liberazione del pensiero da tutte le false credenze passate, così che l'uomo possa finalmente vedere senza veli e senza illusioni la propria posizione nella vita. 
 3.4 “Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria” Per Marx dopo la religione, occorre criticare l'IDEOLOGIA BORGHESE, e cioè quella sovrastruttu- ra culturale che ha preso il posto della religione e che nasconde il proprio dominio. Marx analizza e critica il pensiero di Hegel secondo il quale nella società civile, che è luogo di incontro della divi- sione dei soggetti sociali che la compongono, ognuno porta i propri specifici interessi. Perciò l'uni- tà, impossibile a questo livello, per Hegel, può essere raggiunta solo attraverso lo Stato che deve essere interpretato come la sintesi delle diversità e a cui è necessario conformarsi. La critica di Marx è radicale. Per lui, Hegel, crea una finta universalità per nascondere i reali rapporti di forza presenti nella società. Per Marx, occorre invece guardare dietro alla falsa universalità dello Stato, ai reali rapporti di forza dentro la società dove si può trovare il DOMINIO BORGHESE. Dunque la critica ad Hegel è la critica alla società borghese. La politica, la religione, la filosofia, il diritto etc, sono tutte ideologie funzionali alla classe dominante in quanto servono a nascondere i reali rap- porti di classe. Il compito essenziale del marxismo, intesa come SCIENZA CRITICA, è quello di mascherare tutte le ideologie, in primis quella borghese. Quindi bisogna cogliere dietro le appa- renze ideologiche, la vera realtà delle cose. La prospettiva marxiana insegna il sospetto, insegna a dubitare delle spiegazioni ideologiche che vengono date con l'obiettivo di andare a svelare quelle che sono le reali motivazioni di natura strutturale ed economica della classe dominante e che sono dietro ai fenomeni sociali. 3.5 La teoria del valore/lavoro Nel capitalismo l'oggetto che viene prodotto attraverso il lavoro diviene una MERCE che viene sot- tratta al suo produttore in quanto l'operaio non ha la proprietà di ciò che ha prodotto ma questa proprietà appartiene al capitalista. Il lavoro diventa esso stesso una merce in quanto il lavoratore (proletario) è costretto a vendere il suo lavoro sul mercato come qualsiasi altra merce e così come ogni altra merce, anche il lavoro è sottoposto alle regole del mercato. La caratteristica principale della merce è data dal fatto che questa possiede un VALORE. Per Marx possiamo distinguere tra due modi di concepire il VALORE di una MERCE: 1. VALORE D'USO → Corrisponde all'utilità di una cosa. Si tratta di un elemento qualitati- vo, ad esempio: la frutta ha per me una certa utilità. 
 2. VALORE DI SCAMBIO → E' il rapporto quantitativo con cui le merci (o meglio o loro va- lori d'uso) sono scambiate tra di loro. Si tratta di un elemento qualitativo, ad esempio la frutta viene scambiata con la pizza. Lo scambio delle merci è finalizzato alla realizzazione delle utilità. Lo scambio delle merci avviene nella forma M-D-M’: l’obiettivo è vendere M (frutta), in modo da ottenere D (denaro) e acquistare M’ (carne). Il denaro è solo un comodo strumento che mi consente di avere un denominatore co- mune per confrontare tra loro potenzialmente tutti i valori d'uso. Quindi il denaro è il mezzo dello scambio e rappresenta la quantità, mentre i valori d'uso e quindi la qualità, è il fine.
 IL CAPITALISMO E' INVECE QUELLA FORMA SOCIALE CHE TRASFORMA IL DENARO IN CA- PITALE. Qui il ciclo M-DM' viene sostituito dal ciclo D-M-D' e alla semplice circolazione delle merci si sostituisce quella capitalista. Nel ciclo capitalista, il denaro non è più un mezzo dello scambio, ma il suo FINE. E' per questo motivo che lo scambio non è più dominato da una logica qualitativa in cui si scambiano valori d'uso, ma da una logica quantitativa in cui lo scambio ha senso se il de- naro che ottengo alla fine di questo scambio è maggiore → D'>D . La circolazione semplice di mer- ci inizia con la vendita e finisce con la compera, mentre la circolazione del denaro come capitale inizia con la compera e finisce con la vendita. Quindi il denaro diviene capitale quando da mezzo diviene fine dello scambio. La logica capitalista è indifferente alla qualità della merce, al valore d’uso: quindi non gli importa se M è frutta o carne, perché lo scopo ultimo è quello di fare denaro. Il fare denaro non deve però essere inteso nel senso medievale del termine in quanto l’arricchimento del capitalista non si realizza come accumulazione di denaro, ma come valorizzazione del capitale attraverso investimenti che vengono realizzati nell'attività produttiva. Secondo Marx la valorizza- zione del capitale (cioè ciò che permette a D' di essere maggiore di D) avviene attraverso un FURTO MASCHERATO. Riprendendo la teoria economica di Ricardo, egli sostiene che il motivo per cui un kg di carne vale di più di un kg di frutta è perché la carne richiede l’impiego di più lavoro, sia specializzato che non specializzato. Ma lavoro può assumere forme differenti: ad esempio pos- siamo distinguere tra LAVORO GENERICO e LAVORO SPECIALIZZATO. Per comprendere il va- lore prodotto dalle diverse forme di lavoro, secondo Marx, bisogna ridurre tutte queste differenze ad un unico denominatore comune che definisce chiama LAVORO ASTRATTO e che corrisponde alla capacità lavorativa dell'uomo in quanto ente generico e ad esso si possono riportare tutte le forme di lavoro concreto (ad esempio possiamo supporre che 1 ore di lavoro specializzato valga quanto 2 ore di lavoro non specializzato). Dunque, il valore della merce prodotta non può che cor- rispondere alla quantità di lavoro astratto necessario per produrla. Ma come si realizza l'arricch- imento del capitalista? Come si realizza la valorizzazione del capitale? E' chiaro che se il lavoro venisse retribuito perfettamente e cioè se il capitalista retribuisse il lavoratore in perfetta corrispon- denza rispetto al valore che quest'ultimo ha prodotto attraverso il suo lavoro, D' non sarebbe mag- giore di D, ma ciò non succede nel sistema capitalista: in quanto il borghese si arricchisce facendo proprio quello che Marx definisce PLUSVALORE e cioè il valore che non viene pagato al proletario ma che deriva dal suo lavoro. Quindi la VALORIZZAZIONE DEL CAPITALE avviene attraverso una REMUNERAZIONE INCOMPLETA del lavoro operaio. Naturalmente è chiaro che se l'operaio prendesse consapevolezza del furto che avviene a suo danno e si rifiutasse di essere comperato come una merce, potrebbe creare le premesse per un radicale cambiamento sociale. Il capitalista è però molto abile nel mascherare questo furto: egli acquista dall'operaio la sua capacità di lavora- re e poi la impiega a suo piacimento. Marx definisce questa generica capacità di lavoro → FORZA LAVORO → il cui concetto riporta all'idea che nel capitalismo anche il lavoro diventa merce. Il lavo- ro diventa merce perché il lavoratore, nel sistema capitalista, vende il suo lavoro sul mercato, come qualsiasi altra merce, che viene poi acquistato dal capitalista e usato a suo piacimento. In questo modo l'operaio perde il diritto all'HABEAS CORPUS: in un certo senso si tratta di una nuo- va schiavitù; quella del lavoro salariato. Nel primo libro del Capitale Marx vuole mostrare come scientificamente il capitalista riesca a trarre un PLUSVALORE dal capitale anticipato. Nella sua dimostrazione emerge però un problema del quale Marx stesso è consapevole, e cioè: IL VALORE DELLA MERCE PRODOTTA COINCIDE CON L'EFFETTIVO PREZZO CON CUI VIENE VENDU- TA? Emergono qui due problemi: 1. RAPPORTO DOMANDA/OFFERTA → non è detto che il prezzo coincida con il valore: una merce che è frutto di 10 ore di lavoro potrebbe essere venduta ad un prezzo inferiore rispetto ad una merce che è il frutto di sole 5 ore di lavoro perché della prima c’è una bassa domanda, mentre della seconda la domanda è più alta. Marx sostiene che la con- correnza, sul lungo periodo, farà in modo che le merci possano essere vendute ad un prezzo che corrisponde al loro effettivo valore. 2. PRODUZIONE DELLE MERCI → Marx dice che il valore è dato solo dal lavoro. Se però immaginiamo due fabbriche, una con molti lavoratori e un’altra con pochissimi lavorato- ri ma altamente robotizzata, dovremmo concludere che quella robotizzata sia meno pro- duttiva? Ciò sarebbe assurdo! Quindi occorre aggiungere che il valore della merce, oltre che dal lavoro, dipende anche dalle tecniche impiegate. In più, il profitto finale del pro- prietario robotizzato sarà più alto perché potrà vendere le merci ad un prezzo più basso pur pagando salari più alti ai pochi impiegati. 
 In virtù di questo ragionamento dovremmo quindi concludere che tutta la teoria del VALORE/ LAVORO, secondo cui il valore di una merce è legato alla quantità di lavoro necessario per produrla, è sbagliata, o meglio non è in grado di spiegare i prezzi di produzione delle merci. Il dibattito sull'applicabilità della teoria del valore di Marx si è concluso solo recentemente: lo sfruttamento capitalistico indicato da Marx può anche essere vero, ma se esiste, non è scienti- ficamente misurabile e dimostrabile. 3.6 La teoria dello sviluppo Un'altra parte importante del lavoro di Marx riguarda i processi di nascita, sviluppo e affermazione del capitalismo. ORIGINE DEL CAPITALISMO Per Marx il capitalismo si basa su una spoliazione originaria fatta dai primi borghesi nei confronti di contadini e piccoli artigiani costretti ad abbandonare le loro proprietà per diventare manodopera a basso costo nelle prime città industriali. Ciò viene definito da Marx come ACCUMULAZIONE ORI- GINARIA, che ha consentito ai capitalisti di formare un capitale da investire nell’attività produttiva industriale. SVILUPPO E AFFERMAZIONE DEL CAPITALISMO Le caratteristiche che hanno consentito lo sviluppo del capitalismo sono: 1. PROCESSO DI CONCENTRAZIONE DEL CAPITALE → si passa progressivamente da una situazione di libera concorrenza tra imprenditori ad una di tipo oligopolistico, per poi arrivare alla formazione di veri e propri monopoli industriali capaci di imporre le proprie esigenze al mercato. 
 2. L'EMERGERE DI UNA CLASSE DI MANAGER INDUSTRIALI → costituisce l’indicatore più evidente di una progressiva scissione tra proprietà e controllo dei mezzi di pro- duzione. L’affermazione delle S.p.A. (società per azioni) separa la proprietà del capi- tale dall’amministrazione dell’impresa. Le S.p.A consentono la formazione del capita- le finanziario, la proprietà esiste sotto forma di azioni, quindi il suo movimento e il suo trasferimento sono il puro e semplice risultato del gioco di borsa. 
 3. CARATTERE IRRAZIONALE E ANARCHICO → la logica dominante è solo quella della valorizzazione del capitale e non quella della soddisfazione dei bisogni concreti. Per questo motivo l’economia capitalistica è esposta a crisi economiche ricorrenti, lega- te agli squilibri che si vengono a creare tra domanda e offerta. Molti economisti (sul- la scia delle analisi di Marx) parlano di cicli produttivi: crescita, stabilita,r̀ecessione. 
 Secondo Mead, il senso nasce all’interno dell’interazione, e l’interazione, producendo senso, è il luogo dove si formano il sé e la società. A differenza di Weber, quindi, il senso non è il risultato del- l’attribuzione che un soggetto fa, più o meno intenzionalmente, alla sua azione. Il senso emerge dentro le interazioni tipiche della vita quotidiana, nelle relazioni che intratteniamo ogni giorno nel nostro ambiente. L’oggetto di studio della psicologia sociale e della sociologia non sono perciò strutture oggettive e stabili, siano esse una soggettività tutta interiore o una società esterna all’in- dividuo, quanto piuttosto concrete relazioni, nella loro fluidità e dinamicità. Il mondo sociale è quin- di una realtà dinamica. Alla base dell’interazione c’è il gesto, che può essere osservato. Ma se gli animali compiono gesti non significativi, i rapporti umani sono caratterizzati da gesti significativi, basati su simboli linguistici: l’interazione diventa quindi simbolica e costituisce una vera e propria comunicazione. L’interazione non è allora immediata, ma deve essere interpretata. Il sé è riflessivi- tà. Per potersi riconoscere, deve avere un oggetto su cui esercitare la riflessività e tale oggetto proviene dall’esterno, poiché, il pensiero non può pensare se stesso. Questo oggetto sono i gesti simbolici. Solo facendo proprio l’atteggiamento dell’altro il sé si fa oggetto della sua riflessione, si fa oggetto a sé stesso: il sé diventa individuale solo nella relazione con gli altri. Se noi ora pensia- mo all’insieme del senso fatto proprio dentro le varie interazioni, che costituisce una specie di de- posito, abbiamo quello che Mead chiama il “me”: esso è quella parte del sé che si fa oggetto di se stesso. Il me è il senso sociale che il sé assume al proprio interno, esercitando così la propria ri- flessività e costituendo se stesso, ecco perché per Mead il sé è un prodotto della società. (Esem- pio di interazione significativa è il gioco.) Mead distingue diversi tipi di interazione: ci sono giochi semplici e giochi complessi. Nei giochi semplici - due bambini giocano a lanciarsi la palla l’un l’atro - ego deve far proprio l’atteggiamento di alter nei suoi confronti e reagire positivamente a tale as- sunzione di senso. Nei giochi complessi - una partita a calcio - ego deve far proprio l’atteggiame- nto di molti alteri, ognuno dei quali ha il suo specifico atteggiamento nei confronti di ego. A questo punto, ego è spinto a far proprio l’insieme organizzato del senso che costituisce un gioco comples- so, in sostanza le sue regole: ora non interiorizza più l’atteggiamento di alter, ma la struttura di senso tipica di un Altro generalizzato, cioè indipendente dal singolo individuo che partecipa all’inte- razione. Per Mead, la società è in grande gioco: è cioè l’insieme strutturato di un’enorme quantità di interazioni simboliche riflessivamente assunte dal soggetto nella sua interiorità. Essa è l’Altro generalizzato più generalizzato che si possa pensare consapevolmente. Mead è un comportamen- tista perché la base delle possibilità di conoscere il sé rimane l’osservazione di atti esterni: solo attraverso l’osservazione del comportamento dentro le interazioni dotate di senso ricostruisco la soggettività si è costituita come risposta sensata all’interno dell’interazione. Il sé, per Mead, è un prodotto sociale. Ecco così la differenza con il comportamentismo di Watson e, soprattutto, di Skinner. Il concetto fondamentale non è perciò il comportamento, ma l’intersoggettività che si co- struisce dentro l’interazione: il comportamento non è solo ciò che vediamo dall’esterno, ma anche, il complesso processo di costruzione e ricostruzione simbolica di cui è espressione. 1.2.4 Dal “me”all’ “io” La coscienza rimane, per Mead, una dimensione interna, con una propria autonomia, anche se può essere conosciuta non introspettivamente, ma solo attraverso il processo con cui si costituisce e nelle sue manifestazioni esteriori: in sostanza, nelle azioni sociali che caratterizzano le interazio- ni. Il processo sociale complessivo che caratterizza l’interazione sociale vede allora la presenza di due flussi: il primo che dall’esterno produce l’interno e che porta alla costituzione del me; il secon- do che dall’interno produce l’esterno, e che è il risultato dell’azione autonoma dell’io. Il sé per Mead, è allora l’insieme di me ed io, laddove il primo è il risultato dell’assunzione interna di atteg- giamenti esterni, il secondo è la connotazione specifica della risposta che l’interno dà alle regole sociali. L’io è qualcosa rispondente a una situazione sociale che si colloca all’interno dell’esperien- za dell’individuo. È la risposta che l’individuo dà all’atteggiamento nei confronti di costoro. L’io dà un senso di libertà, di iniziativa. È possibile agire in un modo cosciente del Sé. Il sé, la coscienza, è per Mead un processo sociale che continuamente va dall’esterno all’interno e viceversa. Esso è l’insieme di me e io: “se non esistessero questi due momenti, non vi potrebbe essere una responsabilità consapevole e non vi sarebbe nulla di nuovo nell’esperienza”. In conclu- sione l’individuo deve assumere l’atteggiamento degli altri membri di un gruppo per appartenere ad una comunità, egli deve utilizzare, per poter continuare a pensare, quel mondo sociale esteriore che ha appunto dentro di sé. 1.2.5 Per una società democratica e razionale Attraverso l’assunzione del ruolo dell’altro, il controllo dell’azione dell’individuo in un processo coo- perativo può avere luogo nella condotta dell’individuo stesso, e questo controllo fa progredire il processo di attività cooperativa. Lo fa progredire perché, attraverso il processo di controllo sociale, l’individuo è in grado di governare e dirigere la sua condotta coscientemente e criticamente. In questo modo egli diventa non solo cosciente del Sé, ma anche critico del Sé. Questa continua dia- lettica tra individuo e società, tra interno ed esterno, fa sì che le istituzioni sociali non siano neces- sariamente condizioni restrittive rispetto agli individui. Se il sé è un prodotto sociale, non necessa- riamente la società costringe gli individui dentro gli schemi di comportamento prefissati. Sul piano sociale e politico abbiamo così, in Mead, una concezione che tende a mettere in rilievo le istanze di continuo cambiamento proveniente dal carattere fluido delle concrete interazioni sociali. La complessa dinamica tra io e me si riflette in una concezione della società che tende a superare sia le posizioni individualistiche liberali sia quelle collettiviste socialiste, in nome di una visione radicale della democrazia in parte ispirata a Rousseau. In effetti, per Mead, l’intersoggettività umana ha la possibilità di ampliare sempre di più il proprio raggio: mentre le società primitive e arcaiche sono caratterizzate da un raggio molto ristretto della socialità, tipico dei clan e dei piccoli gruppi, l’avve- nto del mondo moderno è il risultato di un’evoluzione sociale che allarga sempre di più questo ma- rine di azione e cooperativa e aumenta, allo stesso tempo, lo spazio a disposizione dell’individuo. Anche in Mead emergono uno stretto legame tra modernità e individuo e, al tempo stesso, la fidu- cia che l’evoluzione sociale possa portare all’affermazione di una intersoggettività sempre più am- pia e democratica, anche a livello internazionale, superando i confini e le barriere tra le diverse na- zioni. L’essenza della democrazia, per Mead, è l’assunzione del punto di vista altrui, inteso come la base della cooperazione reciproca. FUNZIONALISMO Alla base del funzionalismo c'è il concetto di funzione. Ci sono due modi di intendere questo con- cetto: FUNZIONE BIOLOGICA → Indica un’attività utile al mantenimento in vita dell’organismo. Ad esem- pio, la funzione respiratoria serve a raggiungere una serie di obiettivi fondamentali alla vita. E’ un concetto astratto e non coincide con organo specifico, ma prescinde dalla cosa materiale che lo attua. Durkheim può essere considerato un precursore del funzionalismo in questo senso, in quanto nel suo concetto di solidarietà organica, pensa all'integrazione sociale come alla coopera- zione funzionale di più attività lavorative all’interno di una società concepita come un grande OR- GANISMO. In questo caso possiamo parlare di FUNZIONALISMO ORGANICISTA. FUNZIONE MATEMATICA → Indica un’attività ancora più astratta che prescinde dalla cosa mate- riale che la attua e indica una relazione esistente tra variabili. Precursore di questa tipologia di fun- zionalismo è Parson, il quale intende liberare il concetto di funzione, da ogni possibile riferimento alla metafora organicista: la società non deve essere pensata come un grande corpo e la teoria deve raggiungere un grado di astrattezza tale da superare ogni metafora. L'obiettivo del funzionali- smo è ora quello di fornire un modello teorico, capace di spiegare il modo in cui si costituisce, si mantiene e si sviluppa la società. Si parla di FUNZIONALISMO STRUTTURALE poiché la società viene vista come un sistema sociale strutturato la struttura è quindi la forma relativamente stabile che assumono le relazioni tra le parti del sistema. SISTEMA, STRUTTURA, FUNZIONE e PROCESSO sono i concetti base del funzionalismo: il si- stema si spiega se si é in grado di spiegare come possa persistere la struttura che lo identifica e come tale struttura mantenga una sua funzionalità attraverso i processi. TALCOTT PARSONS Talcott Parsons nasce nel 1902, e fu probabilmente il sociologo americano più influente. Parsons inizia la sua formazione intellettuale studiando biologia, e soltanto in un secondo momento, passa allo studio delle scienze sociali. Per quanto gli Stati Uniti stessero diventando il luogo di elezione delle Scienze Sociali, allora si credeva che la tradizione sociologica appartenesse all'Europa. Per questo Parsons lascia gli Stati Uniti per andare a studiare a Londra. Qui frequenta un dottorato e scrive una tesi intitolata: “Il concetto di capitalismo nella letteratura tedesca contemporanea”. Sce- glie quindi, un tema classico e sceglie di confrontarsi con due grandi autori della tradizione socio- logica, che sono Marx e Weber. Tanto diventa studioso del pensiero di questi autori e in particolare di Weber, che tornato negli Stati Uniti traduce (sarà la prima traduzione in inglese) “L'etica prote- stante e lo spirito del capitalismo”. Nel 1927, ottiene un posto all'università di Harvard presso il di- partimento di Sociologia. Nel 1937 pubblica il suo primo grande libro, La struttura dell'azione socia- le. L'approccio assunto dal dipartimento di Sociologia di Harvard, che ha il suo punto di riferimento in Parsons, entra sempre di più in contrasto con Chicago, sostituendo all'impostazione del metodo comportamentista, empirista e interazionista, il nuovo approccio struttural-funzionalista che diventa punto di riferimento della sociologia americana. Nel 1951 esce il suo secondo grande libro, Il si- stema sociale. A partire dalla seconda metà degli anni '60 l'approccio parsonsiano entra in crisi. In generale si sostiene che la teoria di Parsons dia troppa poca importanza al mutamento sociale, al conflitto, alle disuguaglianze sociali e di classe. Su questa scia, in questi anni nella sociologia americana nascono nuovi modelli teorici (si pensi a Goffman). Lo stesso Parsons, nell'ultima fase del so lavoro, tende ad abbandonare la prima formulazione dello struttural-funzionalismo, svilup- pandolo in una direzione che enfatizza le similitudini tra sistemi biologici e sistemi sociali. In estrema sintesi possiamo dire che gli elementi principali nel lavoro di Parsons sono: 1. LA RICERCA DI UNA TEORIA GENERALE DELLA SOCIETÀ 2. L'IDEA CHE L'INDIVIDUO SI INTEGRA NELLA SOCIETA' ATTRAVERSO L'INTERIORIZZA- ZIONE DI VALORI SOCIALI 3. UN MODELLO DI EVOLUZIONE SOCIALE BASATO SUL CONCETTO DI DIFFERENZIAZIO- NE FUNZIONALE 2.2.2 IL METODO La sociologia, differentemente dall'economia politica e dalla psicologia che riconducono il compor- tamento sociale a qualcosa che è pre-sociale o addirittura asociale (agli interessi → economia, ai processi interiori → psicologia), tenta di spiegare il sociale senza ricondurlo ad altro, ma attraverso una spiegazione anch'essa sociale (si pensi all'idea di Durkheim per cui i fatti sociali devono esse- re spiegati attraverso altri fatti sociali). Secondo Parsons infatti, all'azione sociale non può essere data una spiegazione biologica, economica o psicologica, ma l'azione è volontaria e libera: implica quindi una scelta fatta sulla base di un senso intenzionato che rimanda a valori sociali condivisi. Parsons è forse l'autore che più di tutti cerca di formulare l'idea di una scienza sociale capace di spiegare sociologicamente il sociale, indipendentemente dal particolare momento storico. Quindi la teoria della società, diviene una teoria formulata dentro la società moderna, ma applicabile a qua- lunque gruppo umano, del presente, del passato e del futuro. E' per questo che la teoria deve es- sere astratta, perché deve essere in grado di cogliere ciò che accomuna le diverse società, al di là delle enormi differenze. Quindi ad esempio, per capire ciò che accomuna il clan, la gens romana e la famiglia moderna non devo andare a ricercare le caratteristiche specifiche di queste particolari formazioni sociali, ma la funzione comune che queste diverse formazioni sociali svolgono. Quindi, il clan, la gens romana e la famiglia sono formazioni sociali diverse, ma rispondono alla medesima
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