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Guide e consigli
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Sociologia per la moda, Schemi e mappe concettuali di Sociologia Della Moda

Il libro analizza la moda da un punto di vista sociologico.

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2019/2020

Caricato il 22/02/2023

federica-ragni-2
federica-ragni-2 🇮🇹

4.7

(9)

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Scarica Sociologia per la moda e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Sociologia Della Moda solo su Docsity! RIASSUNTO SOCIOLOGIA PER LA MODA CAPITOLO PRIMO. MODA: DEFINIZIONE, AMBITI, AMBIVALENZE Definizione moda sul vocabolario: “aspetto e comportamento di una comunità sociale secondo il gusto particolare del momento”. In senso figurato: “simbolo di sola apparenza, frivolezza, volubilità”. Senso concreto e al purale: “articoli per abbigliamento femminile, con una certa pretesa di lusso e di eleganza”. Il passato della moda assomiglia a queste definizioni, che invece si applicano con difficoltà al tempo presente, in cui la moda è divenuta una parte essenziale delle attività immaginative della nostra cultura. L’abito è un abito definito dalla moda; anche chi cerca di opporvisi si mette in relazione con la moda. Le istanze anti-moda (comportamenti condotti contro di essa) non sono altro che una prova del suo potere. A metà 800 Simmel nota che: “vestirsi fuori moda può diventare di moda in intere cerchie di una società estesa, si tratta di una delle più notevoli complicazioni sociopsicologiche”. Davis individua diverse categorie di anti-moda; opponendosi con motivazioni diverse all’ideologia che la moda si ritiene rappresenti, questi movimenti si situano in un rapporto dialettico con la moda stessa. Ma, nella contemporaneità, i fenomeni di anti-moda sono inglobati sin dal loro nascere nella moda: sia perché non c’è più una unica moda, sia perché i tempi tra azione e reazione sono sempre più brevi (un esempio è il grunge, nato entro la cultura musicale dei giovani di Seattle nel 1990 e presentato pochi mesi dopo sulle passerelle del pret à porter internazionale). In poche parole, l’antropologa Kondo scrive: “nessuno può sfuggire alla moda, farne a meno, ignorarla”. Quindi, il dilagare della moda e dell’interesse per la moda è un fatto. Ma sulla definizione di moda c’è una grande varietà, riflesso dei tentativi di cogliere quello che la letteratura definisce “il carattere ineffabile della moda”. Barnard trova nove significati di del termine “fashion”, e conclude dicendo che il significato è tutt’altro che chiaro. Per Lang: “la moda sfugge alla definizione per la sua varietà, la sua incostanza, la sua costante incostanza”. Per Mercier la moda sarebbe proprio ciò che sfugge alla definizione, l’arte più vasta, più inesauribile, più indipendente dalle regole comuni. Se tutto è moda, si può anche affermare che niente è moda in senso specifico, al punto che qualcuno ne decreta la fine prossima. Volli sostiene provocatoriamente che l’epoca della moda intesa come susseguirsi di proposte diverse e rapidi cambiamenti stia volgendo al termine, o si sia già conclusa con la sua diffusione nella società dei consumi di massa, e che in futuro si potrà parlare prevalentemente di stili vestimentari e di una universale tendenza al vestire casual. Qui la moda viene interpretata come un fenomeno storicamente collocato nel 900, secolo caratterizzato dalla nascita e dall’evoluzione della moda moderna. In futuro ognuno vestirà come crede, in un destino informale. Ma: le mode cambiano, e tuttavia la moda resta. Oggi la parola “moda” viene utilizzata quotidianamente per riferirsi ai più diversi ambiti. La nozione di moda si intreccia con quella di stile di abbigliamento; infatti, la moda può essere considerata il processo sociale per cui vengono creati nuovi stili accettati dal pubblico. Tentiamo una definizione: - Il primo elemento è la propensione al cambiamento, il gusto per il nuovo e l’abbandono delle tradizioni (“la moda è l’abito la cui caratteristica principale è il cambiamento continuo di stile”). Per Davis l’elemento di rapida mutazione è ciò che meglio definisce la moda e per Konig la moda “si rivela come una disposizione strutturale ad accettare l’innovazione”. Anche per Hollander la “moda moderna, agendo come indicatore delle insoddisfazioni della civiltà moderna, non cerca mai di addomesticare le fantasie collettive in forme fisse destinate a durare nel tempo, ma è sempre tesa alla trasformazione…”. - Se il cambiamento è ciò che connota in prima battuta il fenomeno, i ritmi e le caratteristiche di questo cambiamento sono vari e differenziati, così tanto da rendere quasi tautologica una definizione legata a questo aspetto. - Quindi, la moda sembra priva di un suo contenuto specifico, e si traduce in un “dispositivo sociale definito da una temporalità molto breve e da cambiamenti veloci, che coinvolgono ambiti diversi della vita collettiva”. La parola inglese “fashion”: fashion intende alludere non solo all’insieme degli abiti, ma a un sistema culturale che si è sviluppato con la nascita della società di massa. Seguendo un approccio evolutivo, almeno in Occidente, si individua un passaggio dal costume alla moda, o meglio alla “mode” (femminile e francese), e poi al “fashion” (sistema culturale mondializzato, policentrico, maschile e femminile). Quindi: costume => mode => fashion. Abbiamo accennato il legame tra la moda e la società di massa (quest’ultimo è un altro elemento centrale del fenomeno moda così come viene inteso oggi): la moda è divenuta essa stessa un mezzo di comunicazione di massa “che si riproduce e diffonde secondo le sue proprie modalità e che, al tempo stesso, entra in circolazione con altri sistemi massmediatici”. Inoltre, molti autori, fra cui Baudrillard (per il quale essa è oggetto di critica), ritengono che la moda offra il terreno per analizzare aspetti significativi della nostra società (moda come forma di espressione delle società contemporanee). Una prima definizione: a moda oggi può essere considerata un “universo immaginario di possibili scelte individuali e sociali”, una “costruzione culturale dell’identità fisica”, un punto di intersezione tra abito, corpo e cultura. Ma qualsiasi significato attribuito alla moda resta allusivo, secondo il filosofo della moda Lehman la questione è: “si può analizzare e studiare la moda senza pietrificarla?”. D ‘altronde, proprio la sua fuggevolezza e la sua ambiguità rendono la moda una metafora della contemporaneità. Per Baudrillard, come il linguaggio, la moda mira alla socialità ma, a differenza del linguaggio (che cerca un senso nella socialità), la moda ricerca una socialità teatrale che si compiace solo di se stessa. Non comunica, ma si limita a imitare la comunicazione. Per Davis la moda può essere considerata una forma di linguaggio, ma solo in senso metaforico. Assomiglia più a quello musicale che a quello verbale; rispetto al linguaggio verbale si caratterizza per minore arbitrarietà e maggiore ambivalenza (è così ampio lo spettro dei significati che un certo stile di abbigliamento e i singoli capi possono assumere da complicarne la decodificazione rispetto al linguaggio verbale). Per lui il significato dipende varia in base all’identità della persona che indossa quegli abiti, all’occasione, al luogo, alla compagnia, e allo stato d’animo di chi osserva. Per McCracken, come per Davis, il punto fondamentale della moda è l’interpretazione che varia a seconda del contesto. La moda comunica con minor efficacia di quanto faccia qualsiasi lingua. Il codice vestimentario è un insieme di messaggi più che un mezzo per la creazione di messaggi. A differenza del linguaggio, che stabilisce segni e regole per la combinazione dei segni in specifici messaggi, l’abbigliamento non ha la stessa capacità generativa. Ma proprio per le sue caratteristiche può funzionare come il pensiero mitico (paragonato nell’analisi strutturalista dell’antropologo Lévy-Strauss all’attività del bricoleur): cioè l’abbigliamento produce nuovi significati servendosi di pezzi esistenti. L’abbigliamento, come tutta la cultura materiale, può parlare “sotto voce”. È quindi un mezzo imperfetto di comunicazione, ma con un potere pragmatico notevole che lo rende indispensabile alla trasmissione della cultura e delle sub-culture, che soprattutto con l’abbigliamento comunicano la loro ideologia. Per Crane, in quanto comportamento non verbale, l’abbigliamento è anche un potente mezzo di comunicazione dello status sociale, spesso inconscio, in quanto dettato dall’abitudine più che da decisioni consapevoli. MODA E TEMPO La moda, spirito del tempo per definizione, sembra invece fluttuare tra passato e futuro, disancorata al presente. Per quanto dipenda dal momento presente, dall’attimo, la moda ne è infatti anche libera. Nel suo negare la tradizione reinventa l’antico e prefigura il nuovo. Come prodotto della modernità, secondo Baudrillard la moda gioca sempre con il tempo. Nel “salto della tigre” che essa compie tra passato e futuro, Benjamin ne individua la specificità e la parentela con la modernità. Lui è attratto dalla capacità della moda di anticipare il futuro, dalla possibilità che offre di leggere l’avvenire nei vestiti. Moda che guarda al passato non tanto in termini di opposizione, ma di flusso costante, punto di riferimento, per trasformarlo continuamente, con insaziabile appetito per il futuro. Baudelaire e Benjamin indagano le diverse forme del rapporto che intercorre tra moda e modernità: - la brevità e il gusto per l’istante da un lato, - lo sguardo nel passato e la sua autonomia da esso dall’altro. Lehman, riprendendo i loro temi, considera la moda uno specifico oggetto culturale in grado di interrompere la continuità storica. Ogni indumento o accessorio può essere considerato “storico” (lontano dal vestire contemporaneo) e al tempo stesso può costituire la base per una riattualizzazione, per una nuova versione. Citando stili del passato, la moda oltrepassa la storia, e lo fa giocando di continuo con l’annullamento del tempo. La passione per il vintage è un esempio di come la moda produca il nuovo attraverso il vecchio. Come spiega Steele, “uno degli aspetti più impressionanti del fenomeno rétro è l’irrilevanza dell’effettivo passato storico, che esiste solo per essere cannibalizzato”. Il fascino della moda sta infatti nel suo esaltare la capacità delle forme di sopravvivere e rivivere, mantenendo intatto il loro potere di soddisfare chi le indossa (anche quando il significato storico è stato ignorato, dimenticato, o anche inventato). Quindi, la moda è, nelle parole di Appadurai, un elemento dei ritmi temporali delle società industriali e post-industriali, in cui la nostalgia si inserisce come variabile indipendente dal passato reale (non implica l’evocazione di un sentimento provato da consumatori che hanno veramente perso qualcosa). Esempi: - la citazione della cultura del Mediterraneo e della Sicilia nella comunicazione di Dolce & Gabbana (rielaborazione nostalgica) - un caso che si spinge verso l’invenzione è Ralph Lauren, che ha rielaborato il sentimento di nostalgia per l’”aristocrazia americana” (conferendo patina all’oggetto di moda) - Yamamoto applica lo stesso “inganno” quando usa il prelavaggio per distruggere l’aspetto del troppo nuovo di un abito - Giorgio Armani, al contrario, dichiara che la moda è estranea alla citazione, il fine della moda deve essere quello di guardare al futuro. Secondo Vinken, la moda moderna (quella dei couturier francesi dei primi del 900) mira a rappresentare la durata e l’eternità, la negazione del tempo; invece, quella che si è sviluppata nel tardo 900 (anni 80 con gli stilisti) ha lo scopo di ridisegnare il tempo, produrre una sorta di arte della memoria. Anche per Wargnier c’è una opposizione primaria nel rapporto fra moda e tempo: quella tra la moda che “trascende il tempo” e la moda che “passa di moda”. Moda come durata, cioè come continuità, e moda come nuovo inizio, come discontinuità. Il sistema moda sembra dunque parlare le due lingue, il nuovo e il vecchio, il duraturo e l’effimero, proprio in virtù di un particolare uso del tempo. MODA E GENERI Per molti autori la moda ha tra le principali finalità quella di definire continuamente i confini di genere. Si ritiene che la moda nasca sul finire del Medioevo, quando gli abiti maschili e femminili cominciano a differenziarsi e viene abbandonato il costume delle larghe tuniche. Quindi, la moda è un mezzo per stabilire il “posto” di uomini e donne, è il luogo in cui si costituiscono le identità di genere determinato dalle condizioni sociali e culturali. Due aspetti della relazione tra abito, moda, genere: - questione della moda come nemica dell’emancipazione femminile, - la presunta indifferenza dell’uomo rispetto alla moda. Entrambi temi che assumono particolare rilevanza agli esordi dell’era industriale. È Simmel tra i primi ad affrontare il tema del rapporto di genere in relazione alla moda; per lui “è dalla debolezza della posizione sociale alla quale le donne sono state condannate per la maggior parte della storia che deriva il loro vincolante rapporto con tutto ciò che appartiene al ‘costume’, con ciò ‘che si conviene’…mentre l’uomo, per un maggiore varietà della sua natura, può fare a meno di quei cambiamenti esteriori”. Quando alle donne viene concesso lo spazio per l’affermazione individuale (lui contrappone la donna italiana del Rinascimento e quella tedesca dello stesso periodo), le stravaganze nella moda cessano, perdono la loro ragione d’esistere. Invece, nel periodo in cui il suo ruolo è più costretto, la donna necessita di maggiore vivacità di cambiamenti in altri campi, appunto nella moda. Ma poi Simmel aggiunge anche che è la costruzione organica, naturale della donna a renderla meno libera, più bisognosa di attenersi a norme e di trovare nella moda una varietà che conferisca fascino alla sua vita esteriore ed interiore, altrimenti troppo omogenea e livellata; questo perché la moda “integra la mediocrità della persona, la sua incapacità ad individualizzare da sé l’esistenza”. La maggiore vicinanza della donna alla moda sarebbe un segno della sua innata inferiorità rispetto all’uomo; l’idea di una differenza naturale viene spesso usata per spiegare le differenze dell’interesse maschile e femminile verso l’abito. Ad esempio: - Flugel parla di pulsioni psichiche che portano la donna a essere naturalmente più narcisistica dell’uomo e a servirsi della moda per rivaleggiare sessualmente con le altre donne; - Uzanne, uno scrittore, sostiene che le donne sono rese schiave dalla moda e, sempre a causa della moda, riducono in schiavitù anche gli uomini; per conservare il loro potere sugli uomini, le donne sarebbero pronte a rinunciare alla libertà e ad accettare la schiavitù della moda (quindi per lui la moda è il peggior nemico dell’emancipazione femminile). Il rapporto tra moda ed emancipazione femminile è uno dei più complessi e contradditori (pensiamo alle innovazioni di Chanel negli anni ’30 nella direzione di una maggiore libertà espressiva e corporea delle donne, o all’impatto della minigonna sulla liberazione sessuale). Teoria femminista classica (anni ’70 del 900): individua nella moda uno dei nemici dell’emancipazione femminile in quanto proporrebbe un’immagine rispondente a ciò che l’uomo esige dalla donna e la costringerebbe e limiterebbe al ruolo di oggetto sessuale, di “splendida schiava”. La moda andrebbe quindi combattuta come simbolo di sottomissione a valori imposti e come segno di “falsa coscienza”, ossia come problema di ordine morale (infatti le femministe di quel periodo ignorano la moda, per vestire jeans e maglietta come gli uomini, o con abiti che si oppongono allo stereotipo della donna sexy). Pensiero contemporaneo: tende invece a prendere in considerazione altri aspetti della moda, ad esempio quello ludico e di piacere, quasi fosse “veicolo per la fantasia” a disposizione delle donne. Quindi la moda è un campo in cui le donne trovano piacere nell’elaborare un significato che “è lì per essere preso e utilizzato” (la moda non è solo un fatto che opprime la donna). La connessione tra moda ed erotismo risulta problematica: le donne possono cercare l’erotismo e partecipare attivamente all’eccitazione attraverso alcune forme di vestiario che non sono semplicemente un segno di accettazione passiva di una richiesta maschile. La ricomparsa ripetuta e frequente del corsetto è un esempio di come il significato dell’abbigliamento venga costantemente ridefinito. Kunzle, studioso del costume, nell’uso del busto non coglie gli aspetti di ribellione a un ruolo culturalmente imposto (lo dimostra il fatto che lo indossano soprattutto le donne mobili e in ascesa). Per lui la critica al corsetto come innaturale deriva dalla visione reazionaria e antifemminista del periodo vittoriano. Il corsetto viene così visto come simbolo di aspirazione sociale e aggressività, più che di conformità. Si può dire che quella del tessile sia una industria anti-fordiana, presenta una “doppia-natura”, quasi si situasse tra artigianalità e post-industrialismo. Le caratteristiche di flessibilità, apertura, e i diversi agenti che operano lungo la filiera (persi in altri comparti con la cultura industriale della normalizzazione e della serie) diventano di nuovo attuali con la cultura post-industriale che ambisce a un traguardo iper-artigianale. A proposito dell’industria della moda italiana, Bucci scrive che considera un modello post-industriale di industria: “sistema aperto anche perché non legato a schemi preordinati neppure di tipo manageriale (che in altri paesi hanno portato a meccanismi chiusi in se stessi)”. Così le valenze del settore tessile-moda possono divenire modello della produzione post-moderna, anche al di fuori del tessile-moda. Il lavoro di tipo artigianale può valer dire specializzazione e competenza da un lato, ma anche sfruttamento di manodopera decentrata e a basso costo dall’altro (ad esempio “sweat shop”). Entwistle: sostiene che la particolare imprevedibilità che caratterizza la moda da sì che si cerchi di spostare il rischio verso il basso della catena produttiva. L’ambivalenza che comporta l’esistenza stessa di un’industria del lusso non è una novità (“il tessile è l’industria dei poveri al servizio della vanità dei ricchi”), il concetto di lusso sembra inseparabile da quello di sfruttamento. MODA E GLOBALIZZAZIONE L’imperfezione dell’industria tessile di cui parla Entwistle si amplifica quando la moda si fa globale e la delocalizzazione produttiva diviene quasi una regola. Nell’era della globalizzazione l’industria della moda si rincorre tra paesi che la progettano, paesi che la fabbricano e paesi che la imitano. Le implicazioni della circolazione dei prodotti di moda sono molte e in evoluzione, con l’allargarsi del campo d’azione della moda, della circolazione mediatica, delle merci e delle persone. E ancora più complessa è la dinamica geografica e culturale della circolazione delle immagini di moda che sostengono i prodotti (e senza le quali i prodotti non esisterebbero o non avrebbero la stessa forza). Infatti, un’immagine può essere gradita in una cultura e bandita in un’altra. La commercializzazione dei prodotti moda e della loro comunicazione a livello globale è molto più che una conseguenza della globalizzazione economica. Crane parla di globalizzazione culturale (ossia di quella forma specifica di globalizzazione economica, politica o tecnologica), e identifica 4 modelli teorici in cui è classificata: - Il primo modello è un’applicazione del modello dell’imperialismo culturale; generalmente considerato intenzionale (ossia ricercato dagli attori del processo), questo tipo di imperialismo si applica alle attività delle multinazionali. Ad esempio l’attività di grandi marchi del tessile (Nike, Benetton), che non inventano e impongono idee e immagini, ma si impossessano di quelle che già circolano nelle culture globali e nazionali, sfruttandole o de-politicizzandole. Questo modello, critico e ideologico verso la globalizzazione culturale, ha i suoi ascendenti nell’impostazione teorica della Scuola di Francoforte (il paese, colonizzato dai prodotti, è considerato un ricettore passivo di quando viene imposto dal sistema industriale). - Concetto di flusso culturale, o rete (network), inteso come insieme di influenze non necessariamente provenienti dalla medesima origine o come compresenza di flussi che vanno in diverse direzioni. Chi riceve il flusso può anche originarne un altro. Mentre nel primo caso il risultato è l’omogeneizzazione, in questo caso è l’ibridazione. Qui la globalizzazione non è vista negativamente, ma favorisce il dialogo internazionale, conferisce potere alle minoranze e costruisce forme di solidarietà. Secondo Crane, nel caso della moda il secondo modello può essere applicato solo all’industria del lusso, poiché lo scambio di marche e prodotti avviene solo all’interno di un gruppo ristretto di nazioni avanzate economicamente; ma lo scambio di beni di lusso si sta allargando, ora che paesi con economie in espansione come Cina e India sono pronti a ricevere questi beni di lusso, le cui immagini circolano già da anni svolgendo un’azione di socializzazione anticipatoria). Per contro, la capacità della Cina di imitare e copiare i marchi e la moda occidentale a un costo inferiore sta mettendo in crisi il sistema moda italiano e l’economia dei distretti, producendo una sorta di imperialismo rovesciato (dove il più debole mette in crisi il più forte). In ambito coloniale e post-coloniale, le possibilità e le implicazioni sono molteplici e non sempre prevedibili. In molti casi Africa post-coloniale e Occidente sono coinvolti in un reticolo di significati complessi e articolati che pone in discussione i concetti stessi di modernità e tradizione. Come indica Hendrickson, la negoziazione di identità nazionali e internazionali si esprime nell’abito e nel trattamento del corpo. Anche gli abiti tradizionali assumono significati diversi, a seconda di chi li indossa. Le dichiarazioni implicite nel modo di vestire sono talvolta più potenti di quelle verbali. - Teoria della ricezione: usato per spiegare la varietà di risposte alla globalizzazione culturale che si sono verificate in diversi paesi. L’ipotesi è che il pubblico risponde in modo attivo e non passivo alla cultura espressa dai media e che i diversi gruppi etnici interpretino il medesimo materiale in modo diverso. Quindi, la globalizzazione culturale non è un pericolo per le identità locali, poiché ognuno reagisce in modo diverso e critico. - La quarta teoria prende in esame le strategie adottate dalle nazioni, dalle città e dalle organizzazioni culturali per far fronte, contrastare o facilitare la globalizzazione culturale della moda. Si tratta di un processo non ordinato, dominato da tensioni, competizioni e conflitti. Per restare al caso cinese, si può riconoscere in questo modello una delle due risposte italiane al “pericolo” cinese: quella protezionistica e quella che invece considera la Cina come una opportunità di espansione del mercato. Si possono inserire in questo filone anche tutte le iniziative di valorizzazione del Made in Italy e della sua capitale Milano volte a contrastare la crisi economica e culturale del modello del pret à porter. Considerare la circolazione di prodotti vestimentari in quest’ottica culturale, oltre che economica, sottolinea ancora una volta la specificità della merce moda. In una società in cui tutti siamo consumatori, mentre le merci sono consumate secondo modalità perlomeno simili nelle diverse zone del mondo, i vestiti e le marche di vestiti mascherano, simulano, si trasformano sui corpi di chi li indossa, creano alchimie nuove, rivelano identità culturali, attitudini di genere, rapporti di potere. Lo sanno bene anche le aziende tessili, che selezionano, modificano, adattano i capi a seconda del paese in cui li esportano. IL MITO DELLA FINE Atteggiamenti frugali e condanna del lusso dono i cardini delle argomentazioni contro la moda. Più volte nella storia si è cercato di riformare l’abito e abolire la moda. La Società per l’abito razionale è fondata in Inghilterra nel 1881 con lo scopo di introdurre un modo di vestire che sia salutare, confortevole e bello. Fanno parte della lotta della moda, dannosa per la salute, anche le associazioni mediche (per promuovere un modo di vestire sano e igienico). In Francia la riforma dell’abito continua, con movimenti diversi, fino al 1887, anno in cui viene fondata un’associazione con lo scopo specifico di abolire il corsetto. Fra 800 e 900 anche la sociologia ipotizza in un futuro non definito l’estinzione della moda, di pari passo con la fine del sistema capitalista cui è connaturata. Per i sociologi la moda sarà sostituita da un modo di vestire più libero e più “estetico”, perché per essi la moda è spesso brutta in quanto non risponde a esigenze funzionali ma solo sociali. Crane individua, a metà 800, un interessante modo di vestire femminile, che definisce “alternativo”. L’abito alternativo consiste nell’inserimento nel vestiario femminile di alcuni capi maschili. Ad adottarlo non sono le donne delle classi elevate (di cui parlano Simmel e Veblen) né le suffragette impegnate nel riscatto della condizione femminile, bensì donne della classe media e della classe operaia che rappresentano in questo modo la loro resistenza o perlomeno il conflitto rispetto ai ruoli di genere imposti dalla moda ufficiale. L’abolizione della moda può portare anche a quella dell’abito stesso. L’abito e la moda sono parte fondativa della civilizzazione (l’idea della civilizzazione è l’altra faccia della modernità, intesa come impoverimento e alienazione della natura). Il nudismo rappresenta quindi sia la risposta alla critica verso la civilizzazione, sia un immaginario ritorno alla perfezione dello stato di natura. Il movimento naturista, o nudismo, soprattutto dopo la prima guerra mondiale, riprende il tema dell’abolizione del vestito, che vede come segno dell’ipocrisia delle relazioni sociali (negli anni ’30, già Flugel sostiene che in futuro, quando l’estetica si riconcilierà con la natura dell’uomo, non ci sarà più bisogno di vestiti). La rivoluzione giovanile e sessuale degli anni ’60 prosegue in questa linea che legge nella nudità una possibilità di riscatto del genere umano dalle costrizioni borghesi, ma soprattutto il segno di un nuovo modo di intendere le relazioni tra i sessi e di vivere la sessualità come godimento (la nudità intesa come liberazione è uno degli ingredienti dei raduni giovanili). Allo stesso periodo appartiene il ritratto di Yves Saint Laurent nudo, che mostra come la moda stessa sia sensibile al tema della sua evanescenza, precarietà, possibile estinzione. Anche negli anni ’80 lo stilismo ha infatti ironizzato su di sé e sulla fine della moda; un esempio è Moschino. Abolire il vestito senza abolire la moda sembra essere il discorso implicito di queste forme apparenti di anti-moda. SPENCER Appartiene a una cultura e a una generazione immersa nell’idea di evoluzione (le leggi morali e sociali sono destinate a mutarsi con l’evolversi della vita sociale e il sorgere di nuove esigenze). Gran parte della sua opera del 1879, “Principi di Sociologia”, è rivolta all’analisi delle istituzioni sociali che vengono considerate “strutture che soddisfano i requisiti funzionali dell’organizzazione umana e che regolano, appunto, controllano e circoscrivono le azioni degli individui e dei gruppi in una società”. Nell’istituzione della moda egli vede l’evoluzione di un’istituzione precedente, ossia il cerimoniale (caratteristica di società militari e molto gerarchizzate in cui le scelte individuali sono minime). Mentre il controllo su come sia lecito o meno vestirsi nelle società pre-industriali è effettuato con sanzioni e divieti, nell’istituzione della moda sono il sarcasmo e il ridicolo a fungere da controllo: un controllo più morbido, meno normativo, ma altrettanto efficace. Ma mentre il cerimoniale mira a far risaltare disuguaglianze sociali, la moda tende a produrre le somiglianze, cioè l’uguaglianza con le classi superiori (si tratta di rivalità più che di ammirazione). È solo con l’ascesa della borghesia che la moda in quanto espressione di un atteggiamento di competitività diviene un fenomeno socialmente rilevante; quindi, la moda si caratterizza nei periodi in cui si va verso la libertà di espressione individuale. Spencer sottolinea anche l’aspetto “individualistico” della moda, benché le scelte non vengano attribuite all’espressione di un gusto individuale, ma al “capriccio”. Poi alla moda si riconosce un carattere di mobilità in base al quale non solo gli uguali si imitano nel fasto, ma anche gli “inferiori” sono stimolati ad emulare i “superiori”. Il fasto, nella società borghese, non rientra più fra i diritti derivati dalla nascita, ma dipende dalla ricchezza acquisita; per questo si innesca un meccanismo competitivo nelle simbologie di status fra strati sociali diversi. VEBLEN Altrettanto evoluzionista, riprende e amplia i temi di Spencer e di Sumner con la sua “Teoria sulla classe agiata”, del 1899. Lui spiega le origini, la natura, le diverse forme assunte dalla classe agiata americana. Anche lui delinea un modello della società umana costituito da stadi evolutivi che tutte le società attraversano: - quello selvaggio e pacifico, - quello delle barbarie, - quello della cultura finanziaria e del moderno sistema degli affari che caratterizza la sua epoca. Per lui la moda, prodotto dell’ultimo stadio, ha una funzione ostentativa e dimostrativa. Attraverso il “costume vistoso”, la “leisure class” mostra il suo privilegio attraverso la cura dell’abito e della persona che non devono apparire contaminate da nessuna traccia di fatica. Nonostante esistono altri metodi per evidenziare la propria condizione economica, l’abbigliamento è comunque il migliore e il più efficace per la sua immediatezza (poiché gli abiti indicano a un primo guardo la posizione sociale di chi li indossa, sono “insegne dell’agiatezza”, e sono belli in proporzione al loro costo). Inoltre, Veblen razionalizza il mutamento costante del gusto, e indica che i requisiti che qualcosa deve avere affinché diventi di moda sono: - adempiere alla regola del “consumo vistoso” (gli oggetti testimoniano una spesa superflua e la più completa estraneità al lavoro produttivo di chi li possiede), - avere una caratteristica di “novità” (questo requisito vuole che gli oggetti siano, oltre che nuovi, innovativi). Con la trasformazione della società moderna e l’accentuarsi delle differenze di classe, la moda si diffonde per emulazione progressivamente dai ceti agiati verso il basso. Il risultato è che le classi agiate, per distinguersi dalle altre, sono le più innovative, e diventano il modello di vita dello strato immediatamente inferiore (che impiega le sue energie per vivere secondo quell’ideale). SIMMEL Prende le distanze dall’approccio evolutivo. Per lui la moda è un fenomeno sociale più generale che caratterizza l’agire umano (e può trovare applicazioni al di fuori dell’abbigliamento). Nel saggio “Die Mode” del 1895, ne individua i principi ispiratori: - l’imitazione, o uguaglianza sociale, - la differenziazione individuale, o mutamento. Per lui è l’esistenza pratica dell’umanità che si consuma nella lotta tra l’individualità e l’universalità, tra l’individuale e il sociale. La moda rappresenta ciò che egli definisce come l’unità della totalità della vita e costituisce il principio formale dei singoli contrasti tipici della nostra esistenza; è quindi un sottoprodotto sociale, una conseguenza dell’opposizione di processi di conformismo e individualismo, di unità e di differenziazione. Per Simmel proprio in questo interesse per la differenziazione sta la radice dell’attribuzione di valore e dell’apprezzamento per tutto ciò che è nuovo. La classe media è lo strato sociale che meglio esprime il “nervosismo collettivo” dell’epoca moderna, ossia quel bisogno psicologico di sentire continuamente sollecitata la propria sensibilità, il fascino della rapida successione delle forme. Quando una moda comincia a essere imitata, la classe che l’ha adottata per prima l’abbandona per differenziarsene e ne adotta un’altra, e così via. È questo il modo più facile per raggiungere la parità con il ceto superiore, poiché il consumo di moda che rappresenta l’esteriorità diviene accessibile con il possesso di denaro (la moda è favorita dall’economia monetaria). La moda, come il matrimonio, unisce (gli uguali) e separa (dagli altri). Ma, come il matrimonio, può consentire anche mobilità. Infatti, le classi sono definite ma permeabili. La moda non sorge quindi da finalità pratiche, le sue decisioni sono determinate dall’astrattezza, dalla casualità. E proprio questa sua noncuranza delle norme oggettive della vita rinvia a motivazioni prevalentemente sociali: la moda, dice Simmel, è un prodotto della divisione in classi (penso: quindi la moda è sottoprodotto sociale perché è la società a produrla non per scopi pratici ma per differenziarsi, e poi viene imitata da chi vuole conformarsi con le classi superiori, che di nuovo per differenziarsi creano a caso una nuova moda, e così via, e così la moda continua a mutare; quindi per questo la moda è una conseguenza dell’opposizione dei processi di conformismo, da parte della classe media, e individualismo, della classe elevata). LO STRUTTURALISMO: BARTHES E BAUDRILLARD BARTHES Per lui la moda fa parte dei fenomeni di “neomania” che caratterizzano il sistema capitalista: il nuovo è istituzionalmente un valore che si compra. Attraverso la moda si rende esplicito il grado d’integrazione dell’individuo rispetto alla società in cui vive. Il suo metodo semiologico consente di svelare, attraverso l’analisi delle strutture verbali, il senso compreso nella moda quale significazione che rimanda alle rappresentazioni collettive e dunque a un determinato modello di società. Per lui la moda rispecchia la mobilità della società consumistica, ma anche le regole e i codici della classe dominante. Nel vestiario lui vede un sistema normativo legittimato dalla società; e il vestiario di moda è significante di un significato più generale, da cui la sua ipotesi di analizzare il sistema della moda quale specchio del sociale. Per sistema lui intende una struttura in cui gli elementi, singolarmente, non abbiano una valenza propria, ma solo legati a norme collettive. Per lui il costume (langue) è una realtà sociale e istituzionale indipendente dall’individuo, mentre l’abbigliamento (parole) è una realtà individuale con cui l’individuo concretizza sulla propria persona l’istituzione del costume. La moda è vista come un fatto di costume: è la forma in cui il costume costringe l’individuo. È un sistema di senso che si esprime in un discorso. La moda prende vita attraverso i sistemi comunicativi che ne costituiscono il senso. BAUDRILLARD Riprende il tema della simbolizzazione dello status e della pratica ostentativa con fruizione distintiva (care a Veblen), ma entro l’ambito della critica tipica dell’ideologia degli anni ’60 (quindi da un lato strutturalismo e semiologia, dall’altro l’analisi del consumo come ordine sociale delle differenze). Per lui non si consumano oggetti, ma segni. Quindi, i beni sono parte di un sistema culturale, di un ordine sociale in grado di comunicare le posizioni e le differenze tra le persone e i gruppi nella società. I bisogni non sono innati, ma sono le aziende che condizionano i comportamenti dei consumatori. Della società occidentale apparentemente omologata, Baudrillard vuole analizzare come si producono le differenze (che diversamente da come intendono Simmel e Veblen, che credono siano generate dalla moda, sono di natura inconscia, sono parte della natura di una persona). Come per Barthes, la struttura culturale è latente ed è compito dello strutturalismo svelarla, rendere espliciti i suoi presupposti. Quindi, il consumo ha una funzione ideologica: quella di creare a priori delle regole di combinazione e uso dei beni che sono specifiche di ciascuna classe e che consentono alle classi dominanti di mantenere il loro livello di prestigio sociale e di esercitare una funzione di controllo. Il consumo è paragonabile a un linguaggio, una comunicazione che si basa sullo scambio di oggetti-segni. Questo modello della selezione collettiva sottolinea il concetto di ricerca estetica caratteristica dell’epoca contemporanea. Blumer accetta l’idea di Simmel secondo la quale la moda è una forma sociale, ma è il ruolo dell’élite che interpreta in modo diverso rispetto a Simmel: l’élite diventa tale perché i suoi membri sono i primi a percepire la direzione in cui la moda si svilupperà e si costituisce come élite attraverso il processo medesimo della moda. Blumer è critico sul legame diretto della moda con una struttura di classe, benché sia d’accordo con Simmel sul fatto che, perché esista la moda, occorre un certo tipo di società che attribuisca valore a un’idea di prestigio. Il concetto di gusto è per Blumer fondamentale, come per Bourdieu, ma a differenza degli studiosi francesi di orientamento strutturalista la sua analisi è meno rigidamente ancorata al concetto di classe: un gusto collettivo esiste e funziona come orientamento su cosa accettare e cosa rifiutare e come agente di innovazione. La moda dipende dal gusto collettivo e al tempo stesso lo riproduce, in relazione alla sua predisposizione culturale a stare al passo con i tempi. LIPOVETSKY: moda e democrazia Scrive il testo “L’impero dell’effimero”. Come con Blumer, comincia a farsi sentire la voce dell’individuo rispetto alla pressione sociale e viene messa in discussione l’idea che i consumatori siano solo passivi nel rapporto con le aziende che producono beni. Vuole così riscattare la moda dall’interpretazione ideologica dominante; né buona né cattiva in sé, la moda per lui è uno dei simboli e dei punti saldi delle moderne democrazie. Ciò che meglio rappresenta l’orientamento individualista della società occidentale. Egli critica l’impostazione della sociologia classica e la sua interpretazione della moda quale pratica della distinzione; questi aspetti nell’epoca moderna sono del tutto secondari rispetto al ruolo comunicativo ed espressivo che le scelte vestimentarie e il sistema contemporaneo della moda mettono in essere. La moda non solo pacifica il conflitto sociale ma, allo stesso tempo, produce conflitti soggettivi e interpersonali, permette più libertà individuale ma genera più male di vivere; la moda rinvia sempre di più l’individuo a se stesso e alla sua solitudine, rende più problematico il rapporto tra se stessi e gli altri. Il conflitto è quello dell’individuo con se stesso, con la moda emerge la libertà dagli schemi prefissati e, contemporaneamente, la maggiore insicurezza che l’indebolirsi dei ruoli ascritti genera negli individui. Lui però mette in rilievo l’importanza della moda “come iniziativa estetica e forza autonoma di innovazione formale”, il cui dato determinante è “la ricerca travolgente delle novità in quanto tali”. Ma la ricerca ossessiva del nuovo e il valore attribuito all’effimero sono considerati un’espressione della società contemporanea e non negativamente (come Barthes e Baudrillard). Inoltre, nel suo testo lui persegue anche un altro obiettivo: integrare la periodizzazione storica della moda con una di tipo culturale. Distingue diverse fasi: - la moda nasce alla fine del Medioevo con le prime modificazioni codificate del gusto, la differenziazione tra abbigliamento femminile e maschile; segue un lungo periodo di mode diverse provenienti da paesi che si alternano e la scena internazionale dell’epoca si assesta con la consacrazione della Francia quale “arbiter elegantiarum” europeo tra 600 e 700. - si arriva alla seconda fase, la “moda dei Cent’anni” periodo “eroico” in cui la moda diventa uno degli epifenomeni della società moderna; - l’ultima fase, la “moda moderna” comincia a partire dal 1960, con l’affermazione del pret- à-porter (la moda diventa rilevante grazie allo sviluppo di una società dai consumi di massa e alla rivoluzione giovanile che impone nuovi canoni dell’eleganza e del lusso e nuovi stili di vita, liberati dai codici del perbenismo borghese); una sorte di rivoluzione democratica che sancisce il ruolo della moda come propulsore delle moderne democrazie. Tuttavia, Lipovetsky non individua nell’ascesa del sistema del pret-à-porter italiano un’ulteriore soluzione di continuità. BAUMAN: la modernità liquida La sua teoria della condizione contemporanea quale “modernità liquida” contiene aspetti per capire il ruolo della moda in relazione al concetto di libertà di scelta. La modernità liquida è da Bauman definita in opposizione a quella della società industriale, solida nei ruoli e negli obiettivi, in cui l’individuo è meno libero, ma anche più protetto dall’ansia e dallo sperdimento che genera l’eccesso di possibilità presenti nella società contemporanea; quest’ultima è, rispetto al passato, priva di norme ed è guidata dalla seduzione e dal capriccio. Mentre il desiderio rivolge il suo sguardo al lusso (categoria culturale), il capriccio è modellato sulla ricerca del piacere immediato, che appartiene a un diverso registro del consumo. La modernità liquida è prodotta e organizzata intorno al concetto di consumo, diversamente dalla modernità solida, che ruota intorno alla produzione. L’attività stessa degli individui è per lui modellata su quella dello shopping. La ricerca di identità (per mancanze di identità innate) è la lotta continua per arrestare o rallentare il flusso, provando e riprovando, attaccandoci a cose solide e intangibili. Ma questa solidità può essere vista solo per un attimo e solo al di fuori; ecco perché le vite degli altri, le identità degli altri si sembrano solide e perfette, mentre l’identità vissuta ci appare fragile e vulnerabile e può essere tenuta insieme solo dal collante della fantasia. Per questo la moda rappresenta per Bauman la soluzione ideale per cercare di dare forma a un’identità fluida e lacerata da forze disgreganti (poiché non è più debole, ma nemmeno più forte della fantasia); la moda permette di esplorare i limiti senza impegnarsi nell’azione, senza soffrirne le conseguenze, attraverso le identificazioni che la moda procura specialmente quando le scelte sono facili e a portata di mano. L’APPROCCIO ANTROPOLOGICO: L’UNIVERSALE E IL PARTICOLARE La prima questione che l’antropologia si pone riguardo alla moda, conseguenza del relativismo culturale che caratterizza la disciplina, è quella in merito alla sua universalità. Per alcuni antropologi la moda è un fatto universale; essa fa parte di quelle attività antropoietiche, cioè del “fare umanità”, nelle quali l’uomo è impegnato costantemente. Infatti, l’umanità è oggetto di cure continue, e “fare umanità” comprende anche gli interventi sul corpo e la ricerca della bellezza. La moda fa parte degli universali che “più facilmente emergono dall’esplorazione antropologica delle forme di umanità”. Sono proprio i sacrifici e le sofferenze che la moda e la ricerca della bellezza comportano a provare le sue origini antropologiche e antropoietiche. La moda (e in ciò consiste il suo fascino antropologico) mette in scena da un lato l’insoddisfazione che ogni forma di umanità costruita in modo effimero genera perlomeno sul piano estetico e dall’altro la ricerca costante di innovazione, dell’esplorazione di altre forme e modelli. Anche Barnes e Eicher e Craik sostengono che sia una forma di etnocentrismo quella di considerare la moda un fenomeno solo occidentale e che fenomeni di moda siano riscontrabili anche in altre culture da loro studiate. Craik distingue tuttavia tra moda elitaria, collegata ad una cultura economica e politica, quella capitalista, e moda di tutti i giorni (il modo in cui le persone vestono abitualmente) che è molto più simile ad altri sistemi vestimentari al di fuori dell’Europa e al di fuori della cultura capitalista. Non solo, ma il vestirsi non deriva, né si ispira alla moda elitaria; quindi la moda può essere studiata comparandola con altri sistemi vestimentari di culture diverse da quella occidentale. Konig anche individua forme di moda in altre culture, estendendo la ricerca comparativa al passato. Rintraccia in alcune civiltà esempi di moda intesa come cambiamento modificato del gusto. Rouse invece, che pur considera il fenomeno diffuso, identifica alcune culture estranee o refrattarie alla moda, riconducibili a due tipi: quelle molto semplici, egualitarie, e quelle molto rigide e strutturate gerarchicamente (entrambi questi tipi di società non hanno necessità di esprimere attraverso il cambiamento delle mode vestimentarie un ruolo sociale che è ascritto e quindi poco suscettibile all’intervento del singolo). Altri antropologi sostengono la tesi opposta e cioè che la moda sia esclusivamente un prodotto della società occidentale e capitalista. Ruth Benedict argomenta, tra l’altro, che l’abbigliamento abbia origine tra il X e il XIV secolo e che si tratti di un evento che ha a che vedere con la vita di città e di corte. Sapir distingue tra moda e costume, le cui caratteristiche sono rispettivamente il cambiamento e la stabilità. Per Polhemus e Proctor non è il cambiamento che fa la moda, in quanto nessun costume è davvero immobile, ma i ritmi, la velocità e l’organizzazione di tali cambiamenti, che fanno della moda un fenomeno circoscritto temporalmente, culturalmente e geograficamente. Benché l’interesse per la cultura materiale e per il corpo come oggetto di natura mediato e prodotto della cultura sia centrale per l’antropologia, il contributo di questa disciplina allo studio Il conflitto tra “decorazione” e “pudore” costituisce il punto chiave della psicologia del vestire. Le vesti accrescono l’attrazione sessuale e lo spostamento dell’erotismo dal corpo all’abbigliamento fa di questo un simbolo sessuale destinato a caricarsi di tutti i contenuti che costituiscono gli equivalenti “culturali” del sesso: il potere, la ricchezza, l’autorità. Mentre nei popoli primitivi l’aspetto sessuale è immediatamente riconoscibile, nei popoli civilizzati questo aspetto è mediato dalla moda. Ma lo scopo ultimo è per la donna quello di attrarre il sesso opposto o ingelosire le rivali. Non solo quindi l’origine della moda è per la psicanalisi prevalentemente di attrattiva sessuale, ma molti capi stessi simboleggiano, rappresentano gli organi sessuali. Ma Flugel è ricordato soprattutto per la teoria della “grande rinuncia”, quella dell’uomo al suo interesse per l’abito nel passaggio dalla società pre-industriale a quella industriale, con la nuova organizzazione del lavoro e tra i sessi; l’uomo assume la divisa del lavoratore, il tre pezzi sobrio e scuro che simboleggia la dedizione al lavoro e alla costruzione della reputazione familiare. Come scrive Silverman, ci sono alcune implicazioni di tipo psicologico ancora molto interessanti nella teoria di Flugel: - la prima riguarda la sublimazione dello sfarzo precedente in una forma di ostentazione professionale (successo maschile indicato come “performance”), - la seconda tratta il rovesciamento della rinuncia su di sé in scopofilia (piacere di guardare), - la terza riguarda l’identificazione da parte maschile con la donna come spettacolo. Poi, Lemoine-Luccioni mette a confronto l’attitudine maschile e femminile verso la moda, definendole rispettivamente parata e maschera: la donna si serve della maschera per mostrare ciò che non ha, il pene, mostrando altro, mentre l’uomo fa sfoggio di ciò che ha decorandolo con ciò che non ha (come piume e ornamenti). Anche per lui la funzione primaria del vestito è quella di essere “la bandiera del sesso!”, ma più in generale per lui il vestito disegna il corpo in modo da renderlo visibile culturalmente. Abito come pelle simbolica che esprime e manifesta la socialità del soggetto (quindi deve poter essere tolto e messo, cioè deve esserci libertà, trasformazione, movimento). Oggi si cerca piuttosto di individuare il ruolo che l’abbigliamento ricopre nella percezione interpersonale, nelle relazioni sociali, nelle diverse fasi della vita: protezione dall’ambiente, socializzazione e comunicazione, manifestazione della propria personalità, espressione del gusto entro i codici della cultura di appartenenza. Oggi l’aspetto comunicativo (funzione assunta dagli anni ’60) prevale rispetto a quello psicologico. Dalla psicologia sociale provengono molti studi sul tema del vestire degli individui in contesti specifici. La psicologia sociale ha approfondito il tema della leadership nella moda, argomento che si incrocia con Blumer, con quella della diffusione della moda, più sociologico. Il tema di influenzatori in diversi gruppi rappresenta un momento di confine tra le dimensioni socio-economica, comunicativa ed emotiva: attraverso la figura dei leader un nuovo modello di comportamento incomincia a diventare socialmente visibile. Teorie come l’adozione simultanea, cioè la diffusione orizzontale della moda (e non verticale come ipotizzava la sociologia classica), e l’identificazione della “fashion leadership” sono state applicate da teorici del marketing. APPROCCIO DEI “CULTURAL STUDIES”: MODA E SUBCULTURE GIOVANILI I cultural studies definiscono uno specifico approccio allo studio dei processi culturali sviluppato in Gran Bretagna tra gli anni ‘50 e ‘60 soprattutto dalla scuola di Birmingham. Il campo di interesse dei CCS è soprattutto la realtà urbana inglese e la cultura operaia. Viene introdotto il tema della “popular culture” intesa come specifico campo di studi, e viene messa in discussione la distinzione tra cultura alta e cultura bassa. Per popular culture si intende tutto ciò che deriva e di cui si compone la vita quotidiana contemporanea, oltre al lavoro; in particolare, i CCS volgono lo sguardo al modo in cui è costruita la vita quotidiana delle persone, partendo dal presupposto che sia la cultura il vero materiale di cui è composta e con cui si interagisce con gli altri. La cultura così intesa funziona come un linguaggio e come tale va studiata per individuare le strutture che regolano usi e pratiche individuali. HEBDIGE La moda, non quella ufficiale ma quella delle subculture giovanili, viene analizzata come pratica di protesta. Il libro di Hebdige “Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale” è l’esempio più noto di trattazione degli stili giovanili inglesi degli anni ’70; attraverso lo stile, le subculture rivelano la loro identità negli aspetti più nascosti, rafforzandola e differenziandola rispetto alle altre. Questi stili nascono entro uno specifico contesto culturale e non devono essere letti solo come forme di resistenza o soluzione magica alle tensioni sociali; piuttosto le subculture definiscono il loro stile da una ibridazione delle immagini e della cultura materiale per costruire identità in grado di conferire loro relativa autonomia entro un ordine sociale fatto di classi, di differenze generazionali, possibilità di lavoro, ecc. Dai cultural studies derivano ricerche che mirano a individuare specifici comportamenti vestimentari specialmente negli Stati Uniti, dove è presenta sensibilità per i concetti di minoranza. Un limite di questo approccio può essere quello di postulare una netta separazione tra le suggestioni della moda istituzionale (stilisti e marchi) e i modi specifici di vestirsi degli individui; infatti, le pratiche si iscrivono soprattutto nella descrizione dei comportamenti anti-moda di specifici gruppi di minoranza (tali comportamenti possono poi essere copiati e riproposti dagli stilisti, e quindi c’è una moda e c’è un’anti-moda a sua volta suscettibile di diventare moda). MUGGLETON Una critica all’approccio dei CCS alle mode giovanili proviene da Muggleton, secondo il quale i teorici della scuola di Birmingham non tengono nella dovuta considerazione l’esperienza diretta e l’interpretazione che i giovani stessi danno del loro stile. Il problema risiede anche nella metodologia che privilegia materiale teorico, mentre Muggleton, che privilegia un approccio pragmatico alla ricerca, propone un metodo che intende valorizzare l’aspetto propulsivo e creativo che alcune pratiche giovanili comportano e che non si pongono necessariamente in un rapporto di esclusione-inclusione. L’utilizzo della tecnica del video-diario che lui teorizza ha lo scopo di fornire un’interpretazione delle proprie scelte e dei propri gusti. Inoltre, la visione “politica” dei CCS nei confronti delle subculture giovanili (ossia che siano “una soluzione alle contraddizioni di classe”) viene contrastata da lui, che invece vede in esse un’espressione culturale della post-modernità. Lo stesso Hebdige ha messo in discussione il suo approccio in quanto “l’idea stessa di una sottocultura contrapposta alla cultura dominante non è più sostenibile. Infatti, la cultura generale è oggi talmente pervasa da immagini alla moda, dallo stile e dal design, che si può quasi dire che tende essa stessa a divenire sottocultura. Con tutte le conseguenze del caso”. Infatti, in un recente lavoro ha preso in maggiore considerazione il potere del consumo e della cultura del consumo nella creazione di stili contro-egemonici. La linea di confine tra subcultura (intesa come forma di resistenza) e consumo (come fonte di piacere e al tempo stesso come strumento di controllo da parte del potere egemone) è, per Hebdige, oggi molto difficile da tracciare, soprattutto nel caso del mercato giovanile. I “FASHION STUDIES”: VERSO UNA CULTURA DELLA MODA A PIU VOCI “Fashion studies”, “fashionology” o “fashion theory”. Con il termine “fashion studies” si definisce un ‘corpus’ di ricerche e studi eterogenei che dalla fine degli anni ’80 trattano il rapporto tra cultura, moda e abito in una prospettiva molto ampia. Come scrive Breward, già dalla metà dell’800 la moda è entrata nei discorsi di intellettuali interessati alla modernità; ciò che è nuovo è il modo in cui comincia a prodursi una consistente letteratura critica propria della moda stessa, che non è più trattata in margine ad altre discipline. Nel 1997 esce la rivista “Fashion Theory” di Valerie Steele, a carattere multidisciplinare sul tema della moda, del corpo e della cultura. Dal 2003 si è aggiunta “Textile”. È all’interno della cultura della moda oggi pervasiva, ma estremamente frammentata e diversificata, che trovano spazio studi e ricerche sull’abbigliamento; campo più vasto di eventi, situazioni, fenomeni, riconducibili alla cultura della moda. Più che di una nuova disciplina della moda, si tratta quindi di “discipline della moda”, data l’eterogeneità degli argomenti e dei punti di vista da cui il fenomeno moda è indagato. La parentela con i cultural studies è evidente (moda come aspetto della cultura) a conferirle quindi dignità accademica, e per l’approccio multidisciplinare. Ma rispetto ai CSS, i fashion studies mettono a fuoco il ruolo della moda e delle pratiche vestimentarie di tutti gli strati sociali. Tuttavia, a differenza delle opere tradizionali (incentrate sulla moda “alta”), i fashion studies hanno portato l’attenzioni degli studiosi e del pubblico più ampio sul fatto che oggi la produzione di abbigliamento con un elevato valore culturale aggiunto consente a tutti gli strati sociali di esprimere ed elaborare differenze personali e identità particolari. Intento dei fashion studies è l’integrazione tra la dimensione estetica della moda e quella sociologica. I fashion studies non si esauriscono nel contributo accademico; a rendere necessaria la pluralità di voci è il legame stesso della moda con il mercato e con il mondo mediatico, che richiede una conoscenza e una competenza anche extra-accademica in grado di cogliere la mondanità del fenomeno, il suo ruolo nella società dei consumi. Quindi, è necessario che il mondo accademico “dia spazio ad altre voci e ad altri registri” (anche se difficile è trovare il tono giusto per parlare e CAPITOLO 3. MODELLI PRODUTTIVI, MODELLI CULTURALI PRODUZIONE E CONSUMO La moda è un processo che attraversa pratiche produttive e culturali, tanto da rendere problematico separare gli ambiti di produzione e consumo. Il sistema di produzione e consumo della moda moderna si fa risalire a metà 800 a Parigi, con l’invenzione dell’alta moda. Da allora 3 sistemi, 3 modelli di produzione e consumo di moda si sono avvicendati nel corso del tempo (e ognuno costituisce un modello culturale oltre economico). Sono immaginari e culture entro i quali si delineano pratiche vestimentarie e comunicative. 1)Il primo modello produttivo e culturale cui ci riferiamo è imperniato sul concetto di lusso, inteso come manifestazione di distinzione. Si afferma a metà 800 e continua fino alle soglie degli anni ’60 del 900 (periodo che Lipovetsky definisce appunto “moda dei Cent’anni”). Cambia nel tempo stile e pubblico, ma è sempre definita dall’interrelazione di due modalità produttive: quella dell’alta moda e quella della confezione, e dall’egemonia di Parigi. Lusso e classe sono i concetti portanti, il couturier il loro interprete. 2)il secondo modello, il pret-à-porter, rompe con la cultura dell’atelier e si focalizza intorno al concetto di modernità e di “stili di vita” (stratificazione in cui sfumano le classi sociali, con l’affermarsi della società del consumo). Interprete è lo stilista. Sia uomini che donne sono ugualmente coinvolti nelle pratiche di consumo di moda, che si allarga ai giovani e a un ceto medio in espansione. 3)il terzo modello produttivo e culturale, il pronto moda o moda veloce, è definito dalla globalizzazione dei processi e dalla rapidità di proposta e ricezione. Non appartiene a un luogo specifico, ma alla nuova cultura sia globale che locale della moda. La sua organizzazione produttiva e culturale risponde efficacemente alle nuove trasformazioni del sociale, inserendosi, modificandola, nella tradizionale scansione della moda e della presentazione delle novità. MODA COME PRATICA DELLA DISTINZIONE Nell’800 la rivoluzione del consumo è compiuta e da quel momento il cambiamento sociale è già legato alle dinamiche del consumismo. I negozi si trasformano grazie all’invenzione delle vetrine, che valorizzano e favoriscono il desiderio di consumare. In Francia si diffondono i “Passages”, gallerie che ospitano negozi concentrati. Dalla Francia la nuova cultura del consumo si diffonde rapidamente in Europa e negli USA. I “Magasins de nouveautés”, spesso situati nei Passages, con le loro vetrine attraggono il pubblico, per la prima volta esposto così direttamente alle merci; è proprio la merce in vetrina a segnare un punto di svolta nello sviluppo del consumismo moderno. È di questo periodo anche l’apertura dei primi grandi magazzini a prezzo fisso e l’introduzione del credito: “Bon Marché” apre nel 1850 a Parigi, e in seguito aprono “Printemps” e “Samaritaine”. Tutto il sistema si regge sulla seduzione della merce e sui piaceri, reali e fantasticati, della vita cittadina. Recarsi nei Passages è un’occasione per l’aristocrazia, ma soprattutto per la borghesia, classe sociale in ascesa, di vestirsi bene e dare mostra di sé e del proprio status. Il consumo di moda da metà 800 agli anni ’60 è definito da due istituzioni che si sviluppano in parallelo, ossia confezione e alta moda: - La confezione risale ai primi decenni dell’800 quando Francia e Inghilterra producono abiti industriali, in serie e a buon mercato (è infatti dalla fine del 700 che lo sviluppo dell’industria tessile si avvantaggia della comparsa di nuovi strumenti per una produzione più diffusa). - L’alta moda è inventata nel 1850 da Worth (antenato del moderno stilista), ma anche Doucet e Paquin, artefici del passaggio culturale dalla sartoria che esegue a una struttura creativa e produttiva che propone. Worth apre una boutique nel 1858, e questa data segna simbolicamente la nascita della moda moderna. Il 900 diviene il secolo della moda per antonomasia e il periodo in cui si consolida il primato sociale borghese, si affermano l’industria e la cultura finanziaria. La moda del secolo borghese è una sorta di sistema di classificazione ad uso delle classi elevate sia per distinguersi, sia per procedere sulla scala sociale fino a competere con il fasto dell’aristocrazia. Secondo Appadurai e Douglas un prodotto per appartenere al registro del lusso deve presentare: restrizione a una élite, difficoltà di acquisizione, conoscenza specialistica del mercato, stretto legame con il corpo, la persona, la personalità; l’alta moda risponde a questi requisiti, infatti sono solo le classi superiori a frequentare i grandi sarti per farsi confezionare gli abiti. Il rapporto tra alta moda e confezione riflette il modello di consumo di moda che la sociologia classica identifica come “gocciolamento verso il basso”: la classe borghese, che vuole rivaleggiare in prestigio con l’aristocrazia, utilizza la moda come uno degli strumenti di ascesa. Con la rivoluzione borghese è la donna dell’alta società a dedicare il massimo sforzo alla cura di sé e del suo aspetto, riflettendo così la posizione sociale del marito. Quando la borghesia si afferma come classe sociale dominante, il fenomeno si ripete, gli strati sociali si inseguono, la media borghesia imita lo stile vestimentario dell’alta borghesia. Questo è un gioco di rincorsa, finzione, innovazione che si applica soltanto nelle classi elevate, piccola borghesia e proletariato ne sono esclusi in quanto troppo distanti dal potere, e le loro modalità di consumo si limitano all’industria della confezione e al grande magazzino: creazioni di lusso da una parte e produzione in serie dall’altra. Tuttavia, non si tratta di mondi chiusi, poiché a fare da tramite ci sono le piccole sartorie, la confezione in casa attraverso cartamodelli in vendita nei negozi o diffusi dai giornali di moda e soprattutto l’editoria con le pubblicazioni di manuali relativi ai sistemi di taglio che consentono di imitare i modelli lanciati dalla moda. Riviste di moda, negozi e cataloghi pubblicati dai grandi magazzini già da metà 800 cominciano a influenzare e guidare le pratiche di consumo; i grandi couturier sono il riferimento dell’alta società, ma le riviste di moda e la scelta stessa delle clienti fra i tanti modelli proposti sono ancora più influenti nel determinare le scelte. Poi, nei primi decenni del 900, sono le stesse donne dell’alta società a rinunciare alle tenute più maestose e rappresentative del loro rango sociale: una vita più libera fa desiderare abiti più semplici (e il corsetto viene messo sotto accusa). Una vita sana, attiva e sportiva diviene desiderabile già a partire dai primi del 900. Dove fallisce Amelia Bloomer con i suoi pantaloni larghi a sbuffo e confortevoli, riesce la bicicletta, che richiede pantaloni sportivi per gli uomini e “culottes” per le donne (la più contestata delle rivoluzioni vestimentarie dell’epoca, seguita dall’invenzione del tailleur a tre pezzi). La messa a punto di fibre artificiali amplia ulteriormente la possibilità di acquisto del pubblico. A partire dagli anni ‘20 la moda diventa ancora più democratica. Gli abiti riservati alle donne dell’alta società sono accessibili, a prezzi inferiori, anche alle donne del ceto impiegatizio; la confezione produce abiti fatti con materiali meno costosi, ma con la medesima attenzione ai dettami della moda. Le gonne delle donne si accorciano e scoprono le gambe, i produttori di calze se ne avvantaggiano. La crisi economica del 1929 e il periodo di difficoltà che segue ridimensionano il mercato dell’alta moda e si cercano nuove soluzioni più economiche. Nello stesso tempo continua la tendenza alla semplificazione. La fotografia si impone sul disegno di moda e anche questo permette alle donne della media e piccola borghesia di avere modelli ancora più realistici per realizzare il loro guardaroba. Tra gli anni ‘20 e ’30 Coco Chanel contribuisce a trasformare l’antico concetto di “lusso” (declinazione aristocratica delle pratiche vestimentarie) con quello più moderno di “classe” (che esprime i desideri della borghesia, segmento ormai dominante e in continua lotta all’interno delle sue diverse frazioni); inoltre, getta i primi semi per il modello produttivo e culturale successivo, ossia il pret-à-porter, più giovane e informale. La moda rivoluzionaria di Chanel è rivolta all’alta e medio-alta borghesia. Il suo non è un invito a scendere di livello sociale, ma una manifestazione priva di incertezze della superiorità di classe, la rinuncia a un lusso antiquato. Con la seconda guerra mondiale la Francia subisce il primo scacco sulla scena internazionale della moda. Gli Stati Uniti cominciano a proporre una loro visione della moda, basata sulla comodità e sulla funzionalità, destinata ad avere una notevole influenza sulle pratiche di consumo internazionali (l’uso del jeans è l’esempio più evidente di questa direzione). E proprio in America, già molto avanzata nella produzione di abbigliamento industriale, nasce il “ready to wear”. La Francia tuttavia lo fa proprio e lo trasforma in “pret-à-porter de luxe”, per segnare la differenza tanto dalla produzione americana quanto dal vecchio concetto di confezione; in un primo tempo, legata alla concezione elitaria della moda, sembra solo una versione aggiornata dell’alta moda. Secondo molti autori c’è una relazione tra la prima ondata di pret-à-porter de luxe italiano (anche in Italia ci si rivolge all’alta e media borghesia con linguaggio e codici borghesi) e il successivo sistema degli stilisti che si afferma a metà degli anni ’70; questo è vero da un punto di vista tecnico e distributivo, ma meno da quello culturale (tra di essi c’è una soluzione di continuità che rende i due sistema diversi nella sostanza). MODA COME STILE DI VITA Il passaggio dal modello alta moda e “pret-à-porter de luxe” a quello di pre-à-porter mette in discussione la teoria del trickle down e del consumo vistoso che costituiscono il fulcro della moda borghese: la confezione cessa di imitare l’alta moda, diviene autonoma e nascono gli stilisti. 3- Una fase della flessibilità, in cui si affermano le imprese “rete”, basate sulla rivoluzione delle nuove tecnologie dell’informazione che influiscono trasversalmente su tutte le attività. Quindi, i distretti produttivi sono l’elemento più antico del sistema moda italiano, legati alla storia e alla peculiarità geografica italiana, frutto di una tradizione tessile preindustriale diffusa sul territorio che sussiste, con cambiamenti ed evoluzioni, anche oggi. Ma la formula distrettuale è messa in difficoltà dall’attuale contesto industriale. Gli analisti del Made in Italy individuano una possibile trasformazione della filiera da meramente industriale a filiera di conoscenza e di processi innovativi integrati. Questo porterebbe a un’estensione del concetto di distretto limitato territorialmente a quello di meta-distretto. 3: Esempi di aziende di moda: Le aziende che sono alla base del fenomeno del Made in Italy alla fine degli anni ’70 sono tante e diversificate. Ognuna rappresenta un modello a sé stante, anche se si può trovare un denominatore comune in molti elementi, tra cui la tendenza all’integrazione verticale delle diverse fasi di produzione e la caratterizzazione familiare. Nel settore casual e maglieria un archetipo è costituito da Benetton, fondato nel 1965, che compie due innovazioni fondamentali nella storia del tessile-moda italiano, una produttiva e una distributiva: - In campo produttivo, il cosiddetto “tinto in capo” rispetto al tradizionale tinto in filo rivoluziona, all’epoca, il mercato tradizionale dei maglioni: significa far produrre i maglioni e tingerli successivamente, a capo, finito, potendo così diversificare l’offerta e orientare il campionario a seconda di quanto incontra maggiore successo presso il pubblico. - In campo distributivo (il primo negozio apre a Belluno nel 1968) l’innovazione è l’abolizione del tradizionale bancone di vendita, cade la barriera che separa cliente e venditore; in questo modo si crea un’atmosfera più informale in cui il cliente può toccare direttamente la merce esposta sugli scaffali. Il Gruppo Finanziario Tessile fondato nel 1930 a Torino. È produttore, con tecniche importate dagli Stati Uniti, di un confezionato in serie per donna, Cori, e per uomo, Facis. Ma al GFT si deve soprattutto la stipulazione del primo di una serie di contratti per la produzione di moda firmata da stilisti. Questo contratto segna simbolicamente l’ascesa del pret-à-porter. L’accordo è del 1978 e l’imprenditore è Giorgio Armani. Poi Max Mara, azienda di Reggio Emilia fondata nel 1951 da Achille Maramotti, è esemplare per l’attenzione al prodotto e al consumo finale. Benché si serva di stilisti noti, quest’azienda non lo rende noto, mentre investe sulla valorizzazione del marchio e dei negozi. Uno dei suoi punti di forza è il controllo della distribuzione. Nella pelletteria ricordiamo Fendi che, a partire dagli anni ’70, trasforma un settore elitario e tradizionalista come quello delle pellicce in un prodotto di moda e alla moda. Prada, con la direzione di Miuccia Prada, compie il medesimo passo verso la moda, trasformando l’azienda di famiglia di impronta tradizionale in un marchio di avanguardia stilistica. Ma sono anche singole imprese, come quella di Fiorucci che apre nel 1967, a favorire lo sviluppo di una cultura della moda in Italia. Fiorucci imprime al marchio una dimensione estetica tutta italiana, a partire dalla rielaborazione del jeans. 4: Il consumatore italiano: La produzione dei consumatori è più significativa ancora della produzione degli oggetti, nello sviluppo di un’economia capitalista. La diffusione della moda negli anni ’80 in Italia: il Leitmotiv della moda ha accompagnato l’Italia nel passaggio da una mentalità e valori della prima industrializzazione a una cultura orientata al consumo e al desiderio di affermazione individuale, che si accompagnano a una più spiccata attenzione al corpo e all’aspetto fisico. Senza l’innamoramento degli italiani per la moda durante gli anni ’80, il Made in Italy non avrebbe avuto la stessa forza. Infatti, si esportano prodotti, ma anche uno stile di vita, quello italiano, che continua a esercitare una notevole attrattiva a livello internazionale, per ciò che riguarda l’estetica degli oggetti e più in generale una presunta capacità di gustare la vita. Gli stilisti italiani propongono un concetto di lusso accessibile, non perché gli abiti sono a buon mercato, ma perché la moda diviene un bisogno culturale, sorta di nuovo approdo di una classe media frammentata negli stili di vita che vuole rappresentarsi in modo diverso dal passato. Il lusso, che si sposa con il pret-à-porter, è una delle operazioni concettuali effettuate dalla moda italiana e con la “complicità” del consumatore. 5: I concorrenti: L’integrazione verticale, con l’irriproducibilità del distretto, è una delle ragioni del successo della moda italiana. Ce ne sono altri, tuttavia: ad esempio chi disegna e non produce e ha una distribuzione solo in parte diretta (come Ralph Lauren), e soprattutto chi disegna e distribuisce ma non produce, a produzione delocalizzata (come i nuovi gruppi del pronto moda). Il costo dell’integrazione verticale si scontra infatti con la concorrenza da parte dei paesi a più basso costo del lavoro, e l’esempio più eclatante è la concorrenza cinese. Non resta ai distretti che l’innovazione continua e il presidio di una produzione sempre più sofisticata, più difficile da ottenere, da imitare. Le risposte a questi nuovi fenomeni imputabili principalmente alla globalizzazione dell’industria della moda sono molteplici, e il sistema moda italiano, che ha la sua forza proprio nella filiera integrata, sembra essere il più colpito di fronte alle nuove istanze di delocalizzazione o diversificazione delle varie fasi del processo. Il pret-à-porter (finora comunicato come prodotto della creatività pura di persone speciali) si rivela un prodotto di serie che può essere facilmente copiato dal pronto moda, imitato da marchi falsi, svenduto in mercati “paralleli”, messo in pericolo dalle contraffazioni di beni e di marchi, sottoposto a ogni genere di trasformazione. MODA COME PRATICA DI IDENTITA PROVVISORIE Benché il pronto, o moda veloce, esista da anni, è solo recentemente che è diventato un fenomeno di elevata visibilità. Il pronto è stato analizzato quasi esclusivamente sotto l’aspetto economico e commerciale: capi di moda a basso costo, spesso ispirati se non copiati dal pret-à- porter, distribuiti con grande velocità nei punti vendita. Le grandi aziende del pronto acquistano visibilità nei tardi anni ’90, quando la fascinazione per la moda e per il mondo degli stilisti si spegne ovunque, e in particolare in Italia (dove è stata più forte, nel periodo tra la fine degli anni ’80 e la prima metà degli anni ’90). Ma questa sembra una crisi di passaggio che prelude a un cambiamento, più che una stanchezza verso la moda. La moda è entrata nel profondo delle rappresentazioni del sé contemporaneo, nelle sue svariate manifestazioni. Cambiano tuttavia la cultura della moda, la produzione, i discorsi sulla moda e le pratiche di consumo. Ad esempio, la caratteristica principale del comportamento post-moderno in fatto di moda è il cosiddetto mix eclettico degli stili (mischiare vecchio e nuovo, capi griffati e da bancarella) e di frequentare per i suoi acquisti tipi di negozi assai diversi. Gli stili di vita sembrano corrispondere meno alla frammentazione sociale e al multiculturalismo che ci circonda. Il concetto non è più di moda, si è frantumato sull’impossibilità degli operatori di definire target specifici. Questo cambiamento degli stili di vita, che diventano “sempre più eclettici, provvisori, mutevoli, transitori”, è anche oggetto degli studi più recenti sul consumo e sul consumo di moda. Al desiderio, motore di una società definita dagli stili di vita, si sostituisce il capriccio, che richiede soddisfazione immediata, volatile e fine a se stesso. Per Crane “l’abbigliamento come forma di comunicazione è diventato un insieme di dialetti più che un linguaggio universale” (dialetti=identità individuali provvisorie?). “Il consumismo nella sua forma odierna non è fondato sulla regolamentazione (stimolazione) del desiderio, bensì sulla liberazione di capricciose fantasie. Laddove la facilitazione del desiderio era fondata sul raffronto, sulla vanità, sull’invidia e sul bisogno di auto-approvazione, niente sostanzia l’immediatezza del capriccio. L’acquisto è casuale, imprevisto e spontaneo…”. - La moda, finora legata soprattutto alla creazione bi-stagionale, si diversifica e il consumo si frammenta. Tutto contribuisce a rendere lo shopping di abbigliamento più libero. - Il sistema produttivo stesso del pret-à-porter è messo in crisi dalla crescita del pronto moda che propone le tendenze senza soluzione di continuità. - Cambiamenti della tecnologia supportano questo processo. - Il pronto ha un pubblico eterogeneo, poiché non è più solo un modo per spendere poco e da prodotto da bancarella si è evoluto in un sistema organizzato e complesso, pioniere di una formula produttiva e distributiva completamente nuova. I tempi di reazione all’individuazione di un trend moda sono rapidissimi, il concept è tradotto in modelli e, quindi, portato in produzione e realizzato industrialmente in 15 giorni. Il pronto moda è quindi una nuova modalità di vestire “leggero”, competente, a basso costo psicologico, prima che economico. I marchi favoriscono pratiche di consumo veloci, cangianti, contradditorie e frammentate. Una molteplicità di offerta: tendenze “à la carte”, senza soluzione di continuità e senza stagioni, con una minimizzazione del rischio, per rispondere ai capricci del consumatore che, se sbaglia un acquisto, ha comunque speso poco. Un eccesso di produzione può infatti portare a difficoltà di scelta, a uno stordimento da eccesso di offerta e al conseguente senso di inadeguatezza rispetto alla capacità di cogliere al volo le opportunità che il mondo dei consumi offre. Nella Parigi dell’800, le Tuileries o il Bois de Boulogne sono i luoghi dove la vita metropolitana si mette in mostra con il contributo fondamentale della moda. Parigi come regno dell’alta moda e dei grandi couturier è la città della moda per antonomasia, il cui ruolo Milano oserà sfidare a metà degli anni ’70 con il suo sistema di pret-à-porter e di stilisti imprenditori. Parigi è anche la città che negli anni ’80 alimenta un’importante rivoluzione all’interno del pret-à- porter, divenuto milanese per definizione, quella che parte appunto dalle passerelle parigine con la celebre sfilata di Comme des Garçons. È come se Parigi, estrosa e trasgressiva, non volesse piegarsi alle esigenze del mercato ormai guidato dall’ammiraglia della moda italiana, ma rilanciasse la creatività pura che la contraddistingue, ospitando sulle passerelle del Louvre la risposta giapponese ai volumi, ai colori, alle proporzioni, alle idee occidentali sulla moda. Alla portabilità italiana, Parigi risponde comunque negli stessi anni con un ritorno alla sartorialità perfetta e sensuale con il lavoro di Lacroix e di Gaultier (entrambi parigini nell’ispirazione, sono tuttavia diversi nell’immaginario cui attingono e che propongono: Lacroix riprende la tradizione alto-borghese del salone di moda, mentre Gaultier trae ispirazione dalla cultura popolare della città). Rivalità culturale è invece quella, di più lunga data, tra Parigi e Londra. È come se Parigi e Londra rappresentassero le due facce della metropoli moderna, sorta dopo la Rivoluzione francese e quella industriale: Parigi quella femminile e orientata al piacere e Londra quella maschile improntata al lavoro e agli affari. LONDRA: Ma anche la moda a Londra ha due anime: - quella sartoriale, serie, maschile che la contrappone alla femminilità di Parigi; - e quella trasgressiva, giovane, eccentrica dei Beatles e della minigonna. La prima ha il suo centro in Bond Street Row, dove da metà 800 prende forma l’icona del “gentleman” e del “business man” inglese. La seconda nasce con la Chelsea girl Mary Quant nella swinging London di Carnaby Street e la boutique Biba a Kensington e continua con un’ininterrotta produzione di miti giovanili, musica, look trasgressivi e icone femminili controcorrente, da Twiggy a Kate Moss. Entrambe, trasgressione e sartorialità, contribuiscono alla costruzione di Londra come città della moda. Dalla metà degli anni ’80 il progetto “Cool Britannia” mira a valorizzare l’industria culturale in Inghilterra, e la moda è parte integrante di questo progetto. Dagli anni ’90 una nuova ondata di moda, design e arte coinvolge la città e viene valorizzato il nuovo ruolo del fashion designer che si diploma nelle celebri scuole di moda londinesi. L’intento è quello di promuovere una moda tipicamente inglese, che sia diversa tanto da quelle delle grandi maison europee, quanto da quelle delle subculture giovanili e dalla moda della strada. Tra gli stilisti che caratterizzano questo periodo vi sono John Galliano, Alexander McQueen e Hussein Chalayan. Eccentricità e sartorialità sono quindi le caratteristiche della moda londinese, città capace di creare stili di strada che poi si ritrovano in passarella. Figura di sintesi dei tanti aspetti che caratterizzano la cultura della moda di questa città è la stilista Westwood, nota per le citazioni di codici stilisti del passato, come la crinolina, reinventati e riproposti in una personale idea di sartorialità. È nota anche per la sua capacità di rappresentare con la sua moda la ribellione dei movimenti giovanili e musicali. Anche Paul Smith utilizza i riferimenti inglesi, i colori, la bandiera, l’attitudine britannica per proporre una moda ironica, provocatoria, nell’uso dei colori e dei tessuti. Ciò che tuttavia manca all’Inghilterra è la rete di industrie tessili in grado di coniugare creatività e produzione (una delle conseguenze è la difficoltà dei giovani diplomati di trovare poi una collocazione adeguata nel mercato del lavoro e la minore possibilità, per Londra, di rappresentare il centro di un sistema moda completo e competitivo). NEW YORK: La sudditanza stilistica da Parigi continua fino a tutti gli anni ’20, ma in seguito, tra le due guerre, il contesto culturale e industriale americano muta e New York si appresta non solo a divenire autonoma dalla moda francese ed europea, ma a esprimere la sua specialità, la moda facile e portabile per lo stile di vita moderno, attivo e metropolitano di cui la città diventa portavoce. La stilista Stella McCardell rappresenta già la risposta newyorkese al New Look parigino, con le linee semplici e funzionali dei suoi abiti pensati per essere indossati all’aria aperta in contesti dinamici in cui si esprime la femminilità americana giovane e fresca. Negli anni ’40, Mainbocher propone abiti da sera semplici e facili da portare. Dalla fine degli anni ’40 in avanti la moda americana, con l’invenzione del ready to wear, imprime una direzione industriale alla moda internazionale e un impulso ulteriore verso lo stile informale americano che, a partire dagli anni ’60, diventa sempre più significativo per la creazione di quello stile casual adottato poi in tutto il mondo. Ma è con la metà degli anni ’60 che inizia la caratterizzazione più propriamente newyorkese della moda, con gli stilisti dei grandi marchi e del grande marketing: - Ralph Lauren è l’interprete della cultura WASP (white anglo saxon protestants) e si rifà, nell’ambientazione del suo prodotto, alla tradizione aristocratica inglese. - Calvin Klein e Donna Karan sono invece strettamente associati alla cultura di Manhattan. Calvin Klein, che si dichiara contrario alle sfilate-spettacolo in quanto antitetiche alla sua idea di semplicità nella moda, deve il successo allo stile definito “sportswear-sartoriale” e a una grande sapienza pubblicitaria e di marketing, e l’evocazione di un immaginario erotico è una specialità in cui eccelle. Anche per Donna Karan l’ispirazione è il dinamismo metropolitano; la stilista incarna i valori della donna newyorkese degli anni ’80, attiva e in carriera, che rappresenta vestita con capi essenziali e funzionali. La pubblicità ha spesso come sfondo la città di New York e lo spirito di Manhattan in particolare. La moda newyorkese è competitiva soprattutto nella realizzazione di quelle che si chiamano seconde linee o linee-diffusione, in cui le caratteristiche sono qualità, semplicità, durata, al punto che, secondo Breward, quella di New York può essere considerata una moda anti-stilistica, cioè rivolta alla riduzione del “contenuto moda” a favore di una penetrazione nel mercato di massa. Ma è New York stessa a essere un prodotto di moda: lo stereotipo vuole che questa sia la metropoli per eccellenza, il luogo dove tutto si realizza prima che altrove, crocevia internazionale e città delle grandi opportunità, e in questo contesto si inserisce anche la cultura della moda volta alla realizzazione di grandi volumi di vendita. MILANO: Quando nel 1972 (trent’anni dopo la sfilata di Firenze del 1951) alcuni creatori di moda tra cui Albini e Ken Scott decidono di lasciare le passerelle di Firenze per sfilare a Milano, il capoluogo lombardo è già sede di molti scambi commerciali nel settore della moda. “Milanovendemoda” è attiva dal 1969, con l’obiettivo di intensificare i rapporti con i molti compratori già presenti nella città di Milano. La caratterizzazione di Milano quale città del pret-à-porter internazionale si compie in un lasso di tempo molto breve, tra il 1970 (apertura negozio Fiorucci) e il 1978 una serie di eventi determina una nuova struttura dell’industria italiana dell’abbigliamento, e Milano diviene il centro del nascente sistema. In questo periodo si formano le associazioni tessili e i futuri stilisti cominciano a confluire a Milano: - Giorgio Armani, che già dagli anni ’60 lavora a Milano al reparto moda del grande magazzino La Rinascente, nel 1976 fonda la “Giorgio Armani” e così il suo successo diventa internazionale. - Gianni Versace nel 1972 viene chiamato da alcune aziende milanesi con cui inizia la sua attività di stilista e dal 1973 si trasferisce definitivamente a Milano. Entrambi, spesso indicati come i due volti del pret-à-porter milanese, saranno rappresentati sulla copertina di “Time” (Armani nel 1982 e Versace nel 1995). - Coveri nel 1975 lascia Firenze e presenta la sua collezione a Milano. - Cinzia Ruggeri crea una propria linea nel 1977 con sede a Milano. - Krizia sfila nel 1977 alla Permanente e nel 1978 alla prima edizione del Modit (opera di Beppe Modenese), che definisce Milano capitale del pret-à-porter italiano. Le sfilate più importanti ormai si tengono a Milano, gli show-room sono a Milano, così come la stampa di settore, le agenzie di pubblicità e gli studi dei fotografi. “Quadrilatero della moda”: via Montenapoleone, via Manzoni, via Senato e corso Venezia; vi si concentra un numero elevato di boutique del pret-à-porter. - Il boom della moda a Milano, che cade in un periodo buio per la città, i cosiddetti “anni di piombo” (1969-1981), nel tempo si dimostra in grado di ricomporre la frattura tra cura dell’aspetto e valori contestativi degli anni ’60 (operazione già effettuata da Fiorucci su diversa scala). - Dalla metà degli anni ’80 si aggiunge una nuova generazione di stilisti tipici della produzione milanese; la moda del quadrilatero si estende ad altre zone della città, con l’apertura di nuovi negozi e nuovi show-room. Negli anni ’80 “La moda è la cosa più di Le difficoltà per l’obiettivo di Shangai sono la scarsa notorietà degli stilisti cinesi, una sorta di sudditanza dalle altre capitali della moda per ciò che concerne il riconoscimento del talento stilistico. Talvolta sono le stesse aziende cinesi a cercare stilisti stranieri, in particolare italiani, per rafforzare le loro linee sul mercato interno ed esterno, non giudicando sufficienti le competenze dei giovani stilisti diplomati. Secondo l’analisi di Skov, uno stilista orientale prima di essere riconosciuto come tale deve de-orientalizzarsi per poi ri-orientalizzarsi, come è accaduto ai giapponesi degli anni ’80 e come hanno fatto gli stilisti di Hong Kong. Ma la strada che eventualmente porterà Shangai a divenire una capitale della moda potrebbe anche essere diversa dal modello di Tokyo di vent’anni fa, non solo per la velocità con cui il processo oggi si compie e per la potenza dell’accelerazione della crescita cinese, quanto per il mutato contesto dell’industria culturale della moda. I cinesi, abilissimi a metabolizzare efficacemente e velocemente quanto è nell’aria, stanno lavorando nella direzione di un rafforzamento dell’immagine dei loro marchi che ancora manca o è debole, ma posseggono la forza e la potenza di un’industria tessile in continua evoluzione già in grado di competere con l’Occidente. Quindi, potrebbe essere la visione della moda cinese, veloce e globale, a essere più coerente con la nuova industria e cultura della moda. ANVERSA: Teatro di tendenze stilistiche molto significative nell’ambito della sperimentazione delle forme e dei tessuti. Nell’Accademia delle Belle Arti di Anversa, fondata nel 1663, vengono inseriti negli anni ’60 una serie di nuovi dipartimenti tra cui quello dedicato alla moda. All’inizio degli anni ’80 il governo belga vara una serie di progetti e un piano di investimenti per supportare l’industria tessile, e viene incoraggiato lo scambio tra il mondo della moda e quello del design. Il premio “Golden Spooll” consente ai giovani diplomati di iniziare una collaborazione con l’industria per la produzione delle collezioni e di godere di notevole visibilità nel contesto della moda europea egemone. Il riconoscimento della moda come disciplina paragonabile a qualsiasi altra disciplina artistica e il legame con l’industria tessile costituiscono il terreno per la crescita della moda belga. Il primo riconoscimento internazionale di uno stile belga avviene nel corso della sfilata di Londra del 1988, dove un gruppo di giovani talenti presenta a un pubblico internazionale la propria visione della moda; l’evento londinese porta alla ribalta la scuola belga in cui vengono proposte forme, proporzioni, volumi innovativi e sperimentali e l’abolizione del concetto di occasione d’uso per una visione legata al capo d’abbigliamento come oggetto in sé. Lo stilista più noto è Martin Margiela, per la sperimentazione dei tagli e dei materiali, spesso riciclati e riusati, i luoghi scelti per le sfilate, assenza di etichetta sui capi. Stilisti giapponesi e stilisti belgi costituiscono parte della “radical fashion”. A PROPOSITO DI MODA E ARTE Il tema del rapporto tra moda e arte suscita molte riflessioni anche recenti. Crane sostiene che l’arte sia una vera e propria strategia di mercato, cui ricorrono gli stilisti che non riescono a imporsi per motivi legati alla debolezza dell’industria tessile da cui dipendono. Crane fa il caso dell’Inghilterra e degli stilisti inglesi, che paragonano la loro posizione a quella degli esponenti del mondo dell’arte d’avanguardia. Qui la moda è intesa come parte della “popular culture”, come caduta della barriera tra cultura alta e cultura bassa, tra arte e processo artistico contemporaneo. Crane distingue il caso inglese da quello francese dei primi del 900, in cui è invece la vicinanza con l’arte istituzionale a essere evocata dai couturier, in un rapporto di specifico sconfinamento tra due ambiti che rimangono tuttavia separati. In entrambi i casi l’arte nobilita, eleva la moda. I casi recenti di grandi musei che ospitano mostre di stilisti affermano la posizione che la moda pretende di avere nei confronti dell’arte, come le mostre presentate alla Fondazione Prada di Milano (in generale il marchio Prada si propone come arte, intesa, al pari della moda, quale linguaggio del contemporaneo). L’ibridazione tra i due campi, moda e arte, è quindi più frequente, specialmente nel caso della fotografia, dove i confini tra foto d’arte e di moda sono più labili. Tuttavia, i pronto-modisti, i fautori della moda veloce, probabilmente non si considererebbero artisti, per ora almeno. Ma un caso interessante è quello della Maison Margiela, acquistata nel 2002 da Renzo Rosso, ideatore e presidente di Diesel; Diesel è sicuramente più vicino alla moda veloce che non al pret-à-porter, per quanto sia in grado di mescolare il linguaggio di entrambe le culture e di passare da una all’altra con notevole efficacia. Diesel, marchio dei grandi volumi e della comunicazione globale, si apparenta con Margiela, marchio di nicchia, del sottovoce, del gesto di moda comunicato come gesto d’arte. Non ci sono ribellione, nobilitazione, né reciprocità, ma si tratta di comunicazione o di sperimentazione di altri confini, “significa spalancare la creatività estetica a tutte quelle forme di attività socio-comunicative. Il sistema dell’Arte appare allora metabolizzare in sé sempre più quei sistemi (come moda, musica, cosmesi) nei quali creatività e complessità organizzativa si strutturano in modo più evidente intorno a un “essere per il consumo”, anzi a un essere “per il presente del consumo”. Nel caso dei couturier del 900 moda e arte sono due sistemi che si scrutano, talvolta dialogano, ma restano separati. Una nobilitazione della moda attraverso l’arte e successivamente una diffusione dell’arte attraverso i codici della moda è caratteristica del secondo caso, quello della cultura del pret-à-porter. Un’assenza di riferimenti dai quali partire, uno “spiazzamento” nei codici utilizzati e ibridazione costante appartiene al terzo caso, quello della moda veloce in cui la dimensione comunicativa è fusa con quella estetica. E se per molti la moda non è arte, è tuttavia innegabile che “oggi più che in passato, non esiste un modo univoco per affrontare il rapporto tra moda e arte, un rapporto che si è fatto mobile, in continua evoluzione, sensibile al variare delle stesse articolazioni culturali che tenta di porre a confronto”. CAPITOLO 4. IL “FASHION MARKETING” DEFINIZIONE E SPECIFICITA DEL “FASHION MARKETING” Marketing: è un processo del management rivolto ad anticipare e soddisfare i bisogni del consumatore per raggiungere obiettivi aziendale di lungo termine. Il passaggio dal punto di vista del produttore a quello del consumatore rappresenta una componente essenziale. Tuttavia, è noto che anche i migliori piani e attività di marketing possono essere messi in discussione dai cambiamenti dell’economia, del sociale o dalle azioni dei concorrenti, che non sempre possono essere anticipati. Nel caso della moda, il ruolo della fortuna e una sorta di casualità nel successo imprenditoriale non possono non essere considerati. L’industria della moda si caratterizza per l’elevata percentuale di fallimento di nuove imprese commerciali e per le riduzioni di prezzo effettuate sulle linee che non sono state vendute. C’è sicuramente un marketing della moda, ma occorre distinguerlo da quello di altri comparti di consumo. La natura stessa della moda, dove appunto la nozione di mutamento è strutturale, comporta peculiarità in tutte le attività di marketing. Inoltre, la difficoltà di definire e generalizzare un marketing della moda deriva dall’eterogeneità delle imprese coinvolte nel settore, a partire dalle dimensioni, per arrivare al tipo di prodotto e agli stili. Ci sono due approcci differenti delle aziende di moda: - ci sono aziende in cui l’enfasi è sul design, cioè sugli aspetti stilistici e creativi (le aziende vendono ciò che sono in grado di produrre, tutto ruota intorno allo stile e l’imprenditore si basa sul suo intuito nel processo di “decision marketing”), - e altre in cui l’enfasi è sulla vendita, cioè sugli aspetti commerciali (prevede di subordinare la scelta dello stile e del prodotto a un’attività di ricerca di mercato e la produzione è subordinata alla capacità di vendere). La specificità e l’utilità del marketing della moda consisterebbe quindi nel riuscire a mediare questi due aspetti, minimizzando i rischi ed enfatizzando la peculiarità di stile e design. Ma anche solo uno sguardo a quello straordinario fenomeno culturale prima ancora che finanziario che è stato il pret-à-porter italiano a partire dalla seconda metà degli anni ’70 porta a una diversa considerazione del concetto di marketing della moda. Se appunto marketing significa rivolgersi al consumatore finale e anticipare i suoi desideri, è evidente che la moda ha applicato il marketing più sofisticato e avanzato. In particolare il prodotto italiano ha conosciuto una larga diffusione e non certo a scapito della sua desiderabilità. Ne dobbiamo dedurre che uno specifico marketing della moda esiste, e che il caso ne costituisce un esempio eccellente. Design, creatività, stile sono attributi della moda, di cui il marketing deve tener conto, e, anzi, la definiscono in quanto senza di essi non ci sarebbe nemmeno la moda. Esiste certo una distinzione tra creatività, intuito da un lato, e organizzazione, strategia dall’altro; ma questi due aspetti, più che essere mediati dall’attività di marketing, convivono e si amalgamano per assicurare il successo di un’idea imprenditoriale in questo settore. Ha approfondito il tema Bucci, per cui l’intuizione dell’imprenditore, la centralità del design e dell’estetica sono alla base di un marketing altamente innovativo e molto più adatto a soddisfare le esigenze del consumatore della post-modernità. D’altro canto, a favore del valore della pubblicità di moda c’è la considerazione che la pubblicità è solo un elemento della comunicazione della moda e pertanto non si piò valutarne l’efficacia in sé, ma solo nell’insieme di tutte le azioni comunicazionali effettuate. Un’altra considerazione è l’incompatibilità di moda e pubblicità, che fa sì che i relativi codici non possano essere “prestati” l’uno all’altro; McCracken individua proprio nella moda e nella pubblicità due sistemi differenti a sé stanti di trasmissione dei valori culturali e attribuisce una priorità al sistema moda nel sintetizzare e convogliare le nuove tendenze presenti nella società. Altre obiezioni rispondono puntualmente alle accuse di indifferenziazione: occorre distinguere all’interno del genere “fotografia + nome dello stilista” per i diversi livelli qualitativi presenti in questa formula, solo all’apparenza omogenea. Quando ben riusciti, i messaggi si sono dimostrati non solo efficaci, ma anche anticipatori di tendenze estetiche e socio-culturali. Analisi di tipo socio-semiotico all’interno di questa apparente “marmellata” o “Supernulla” hanno individuato dei filoni specifici che supportano la tesi di una possibile alterità della moda come prodotto e quindi anche della sua pubblicità, nonché l’esistenza di modelli comunicativi diversificati all’interno di ciò che appare omogeneo solo a un occhio inesperto. Inoltre, il “Supernulla”, supposto che sia tale, riguarda solo il segmento del pret-à-porter. La pubblicità del segmento “giovane”, cioè sportswear, casual, e del segmento intimo, è spesso realizzata dai pubblicitari e il risultato è quindi assimilabile ai prodotti del cosiddetto largo consumo. Tuttavia, occorre aggiungere che anche in questi casi la comunicazione di moda conserva una buona dose di specificità. I MEZZI PUBBLICITARI - La stampa: è il mezzo più utilizzato dalle marche di moda. Riviste e moda sono legate da un’esigenza comune, tra marche di moda e stampa si realizza ciò che può essere definito una relazione d’empatia. I tempi di esposizione dell’annuncio stampa sono più estesi e perlomeno idealmente scelti e non imposti. Inoltre, il sistema dei redazionali aggiunge una relazione di tipo finanziario alla relazione di empatia che lega stampa e moda. - L’affissione: generalmente utilizzata dal largo consumo, è stata impiegata creativamente anche dalla moda. È un mezzo potente, molto visibile e che consente grandi coperture. Generalmente il binomio stampa-affissione serve anche a segmentare le diverse linee di una stessa azienda, la prima linea comunica a mezzo stampa, le seconde linee o i profumi a mezzo affissione. Tuttavia, alcune aziende rifiutano questa regola; un esempio è Prada, che usa la stampa sia per Prada che per l’altro suo marchio Miu Miu per annullare l’effetto gerarchico tra prima e seconda scelta. - La televisione: è ancora poco utilizzata dal settore moda, è un mezzo molto costoso e affollato. La presenza di merceologie poco “nobili” ha contribuito alla latitanza della moda che non vuole essere confusa con essi. È usata in certi periodi e per certi prodotti. - Il cinema: è prossimo alla moda, più della tv, per il pubblico giovane e di cultura metropolitana che lo frequenta. Un modo recente di usare il cinema e la televisione è quello di inserire i prodotti direttamente all’interno di film e serie televisive; agenzie specializzate si occupano di proporre il giusto incontro tra prodotto moda e prodotto televisivo e cinematografico. - Lo star system: costituisce un altro interessante mezzo di pubblicità che funziona per affinità. - Gli eventi: non meno importante è l’organizzazione di “eventi”, da quelli tradizionali agli happening dove gli stilisti più trasgressivi mirano a sorprendere il pubblico con i loro show. - La sfilata: resta comunque l’evento più significativo, in termini di comunicazione, per la moda del settore alto di gamma e rappresenta il simbolo stesso del pret-à-porter. Due o quattro volte l’anno viene presentata la sintesi della creatività degli stilisti. Sotto il termine unico “sfilata” ci sono poi diversi modi e stili di presentazione, da quelle classiche a quelle spettacolari. - Internet: permette una comunicazione in tempo reale, a buoni costi, ma è ancora poco usato come mezzo di comunicazione in sé. È utilizzato invece come amplificatore di altre iniziative di promozione della marca nell’ottica della filiera comunicazionale. Da qualche anno le sfilate sono in rete in simultanea con l’evento sui siti di alcuni magazine. LA DISTRIBUZIONE E LA VENDITA DI MODA Il fattore distributivo è un elemento chiave per la moda. La distribuzione di moda può essere generalista o specializzata, sia dal punto di vista della merceologia che dal target. All’interno delle due categorie ci sono diverse tipologie distributive: - i department stores, ossia grandi magazzini, dove convivono “private label” e prodotti marca (La Rinascente); - le grandi superfici specializzate con assortimenti concentrati su poche categorie merceologiche come intimo e sport (Decathlon); - i magazzini popolari ad ampio assortimento ma poco profondo (Oviesse); - gli stocchisti; - gli outlet aziendali; - le cittadelle della moda, nate per lo smaltimento delle collezioni passate e ora veri e propri centri moda; - i mercati ambulanti; - il self-standing store; - lo shop in shop, collocato all’interno di un’insegna commerciale; - il corner, una superficie delimitata all’interno di un negozio; - il duty free degli aeroporti; - la vendita online; - il catalogo per corrispondenza (poco sviluppato in Italia). Inoltre, i negozi possono essere classificati come: - indipendenti (negozi individuali con dimensioni variabili), - a proprietà centralizzata (catene di proprietà, come Max & Co del gruppo Max Mara), - o in franchising (Benetton, Prénatal). Dal punto di vista strutturale la tendenza della distribuzione è la concentrazione, a scapito dei negozi tradizionali, e l’abbassamento dei prezzi legato alla globalizzazione degli acquisti. Sempre più importanti diventano alcune marche-insegna che dispongono delle risorse necessarie per uno sviluppo internazionale rapido e la cui offerta concilia moda e prezzi moderati. L’Europa si caratterizza per una grande eterogeneità della distribuzione di moda: l’Inghilterra ha il più alto tasso di concentrazione, seguita da Francia e Germania; la Spagna è arrivata recentemente, rompendo così lo schema tradizionale che vedeva un’opposizione tra Nord e Sud, e distaccandosi dall’Italia. L’Italia infatti, che si è sempre caratterizzata per un’elevata frammentazione della distribuzione nel confronto con gli altri paesi occidentali, sta adeguandosi più lentamente al resto d’Europa e del mondo, dove domina la grande distribuzione organizzata. Negli anni ’80 la polverizzazione distributiva, caratteristica del sistema moda italiano, ha contribuito alla socializzazione con la moda. Il servizio garantito dalla boutique del centro ha favorito un’attenzione al vestire che la grande distribuzione europea e americana non era in grado di fornire. Ora questo sistema sta cambiando con l’ingresso delle grandi insegne straniere e con l’orientamento verso una maggiore organizzazione che meglio garantisce la marca, ma la cura del singolo negozio rimane uno dei punti di forza del fashion marketing. Nell’alto di gamma, e generalmente del lusso, l’orientamento delle aziende è quello di aumentare il numero di negozi di proprietà rispetto a quelli in franchising e di limitare il più possibile la distribuzione dei propri prodotti nei negozi multimarca non di proprietà. Tra i negozi monomarca del lusso si possono distinguere i cosiddetti “flagship store”, cioè i negozi- bandiera che sono veri e propri “templi della marca”, in cui il prodotto e i valori fondativi sono rappresentati nel modo più enfatico e potente. Generalmente questi negozi sono “pezzi unici”, cui poi si affiancano gli altri negozi. I flagship store possono essere progettati da grandi architetti. Un tipo di negozio che ha conosciuto molto successo nella moda è il cosiddetto “concept store”. Esso si caratterizza per l’atmosfera intensa e di elevato contenuto di intrattenimento in cui ogni singolo elemento è inteso a far provare emozioni al consumatore. Obiettivo del concept store non è la vendita immediata, “ma il transito e la fidelizzazione di gruppi di consumatori alla ricerca di una dimensione emozionale e/o informativa aggiuntiva rispetto al puro atto di acquisto”. Sia nel caso del “flagship store” che nel caso del “concept store” il punto fondamentale è quello di trasmettere non tanto il lusso quanto l’unicità che lo sostanzia, e riuscire a intrattenere e a stupire il consumatore, provocare delle rotture nel sistema delle attese che il consumo di moda necessita più di ogni altro settore. Un esempio recente di “spiazzamento” è quello dei “guerrilla store” del marchio giapponese Comme des Garçons, aperti a Berlino e Barcellona. Alla grandeur architettonica dei flagship store, essi oppongono precarietà e non-progettualità; situati in spazi qualunque, lasciati allo stato originario, hanno lo scopo di far comunicare solo il prodotto. Essi sono attivi per un anno soltanto, alla fine del quale, a prescindere dal risultato commerciale, vengono chiusi. LE AZIENDE DI MODA: DALLA PIRAMIDE ALLA CLESSIDRA Una classificazione tradizionale delle aziende del settore tessile-abbigliamento è quella basata sul prodotto definito per fasce di prezzo e per volumi di vendita. Sul versante aziendale vi sono diversi livelli di falso: la contraffazione in senso stretto e la violazione delle regole di corretta distribuzione dei prodotti di alta gamma. All’interno del commercio di prodotti contraffatti, bisogna distinguere se si tratta di un prodotto autentico importato parallelamente da un paese comunitario o extracomunitario, oppure se si tratta di un “vero falso” contraffatto da qualcuno privo di licenza, compreso il “terzista infedele”. In Italia, ad esempio, a causa della presenza di sistemi decentrati, possibilità di contraffazione si verificano in diversi punti della mappa di questi sistemi decentrati. A volte l’azienda imitata, se non riesce a rendere evidente le differenze di prodotto, può intervenire sull’etichetta, come hanno fatto gli stilisti Dolce & Gabbana con il logo-ologramma. Il tema del falso è trattato dalla legislazione attraverso gli Intellectual Property Rights (IPR), cioè i diritti sulla proprietà industriale e intellettuale. Dal punto di vista del consumatore, invece, il falso mette in gioco elementi psicologici e sociologici. Il fenomeno della marca e della sua contraffazione non è solo un problema commerciale, ma comunicazionale e semiotico. Che cosa spinge il consumatore ad acquistare imitazioni, contraffazioni e marchi falsi? C’è un cambiamento nelle motivazioni recente: mentre, in un primo tempo, il consumatore ambiva ad impossessarsi di un prodotto di una marca di moda, ora tende direttamente a rivolgere il suo desiderio alla marca, di cui l’oggetto è solo un tramite. Se comunque il pret-à-porter è fatto in serie, allora non solo può essere imitato, ma in un certo qual modo consiste di imitazioni di un modello (secondo la distinzione tra modello e serie di Baudrillard). Il fatto che l’abbigliamento, e non solo quello di alta gamma, tenda attualmente a produrre appositamente il difetto o la piccola irregolarità su capi altrimenti identici fra loro, per comunicarli come unici, dimostra come la marca, il marchio, la serie, l’imitazione, la contraffazione, il falso siano parte di un unico modello produttivo e culturale: il pret-à-porter (in via di trasformazione, nel contenuto, nell’immagine e nella commercializzazione). CAPITOLO 5. FARE MODA OGGI PREMESSA Gli anni recenti sono stati un periodo di intensa trasformazione per la cultura e l’economia della moda. Il sistema del tessile e dell’abbigliamento si è radicalmente modificato. La globalizzazione (intesa come influenza tra le culture sia come estensione delle relazioni economiche): - da un lato ha impresso cambiamenti nei ritmi della produzione di moda, - dall’altro ha reso meno credibile/possibile il primato europeo e occidentale sulla moda. La moda è divenuta un’industria transnazionale, che coinvolge diversi paesi e diversi modi di produrre gli abiti, gli accessori e le immagini. I prodotti circolano oltre il paese in cui sono stati concepiti e realizzati, veicolati dal sistema della moda globale. Nuove modalità di consumo e di comunicazione contribuiscono a mettere in crisi i modelli del secolo scorso, definito come il “secolo della moda” (meglio dire della moda europea?). Il punto, per chi lavora nella moda e per chi la studia, è comprendere come si relazionino le diverse tendenze con quanto l’eredità del passato ha sedimentato nelle idee e nelle pratiche e con ciò che comporta il contesto più ampio in cui sono attualmente inserite. LA “DESTAGIONALIZZAZIONE” DELLA MODA: “FAST FASHION” E “SLOW FASHION” Il “fast fashion” ha messo in crisi la programmazione stagionale della moda su cui era incentrato il sistema del pret-à-porter. Il “fast fashion”, talvolta confuso con il fenomeno del cosiddetto “low cost” (cioè con il desiderio generalizzato di risparmiare), va invece ben oltre il contesto contingente e deve essere trattato come un sistema produttivo e culturale a sé. In particolare, il pronto-moda italiano è diventato un comparto di grande vitalità anche nell’attuale periodo di crisi dei grandi marchi del lusso. Lo “slow fashion” si caratterizza per l’attenzione, la cura, nella realizzazione del capo finito e dei materiali, secondo canoni e regole rispettosi dell’ambiente e delle persone. Non è del tutto opposto al fast fashion poiché il prezzo basso del fast fashion è visto da molti come una tendenza “etica” rispetto ai comportamenti di consumo degli scorsi decenni che oggi appaiono come spreco. Nella slow fashion entrano in gioco le capacità e le competenze artigianali, dalle piccole realtà artigiane ad aziende vere e proprie interessate a ripercorrere con nuovi metodi gli antichi saperi. L’Italia, anche in questo caso, non fa eccezione: una nuova moda italiana sta infatti emergendo, tra “low cost” e neo-artigianato, le cui caratteristiche identitarie e culturali si vanno delineando in un contesto affatto diverso da quello degli anni ’80 (in cui si è affermato il concetto del Made in Italy). IL TRAMONTO DELLA PROSPETTIVA EUROCENTRICA Il nuovo secolo si apre con il tramonto della prospettiva eurocentrica sulla moda e con l’intensificarsi degli scambi internazionali e globalizzati. La moda è ora identificata e riconosciuta in molte parti del mondo, e l’esclusione della moda da altre culture e altre economie non è dunque più data per scontata. Oggi la moda viene interpretata come il prodotto di varie contaminazioni e stratificazioni. Questo aspetto “riabilitativo” della moda non riguarda solo il presente, ma assume una valenza storica retrospettiva che porta a rivedere molti assunti sul senso e il significato di ciò che può essere o non essere definito “moda”. Allo stesso modo è sottoposta a critica l’idea che il costume e le abitudini vestimentarie di altri paesi non siano paragonabili a quella della moda europea o occidentale in genere. Quindi, cade la contrapposizione tra moda e costume; ogni forma di abito “tradizionale” evolve in modo diverso, a seconda del contesto culturale in cui si trova; kimono, sari, ao-dai, qipao sono abiti della “tradizione”, ma non appena si entra in contatto con la loro storia e con la storia dei paesi cui si riferiscono ci si rende conto che sono stati e sono sempre in cambiamento. Inoltre, molta della storia degli orientalismi è storia di come l’Occidente abbia preso a prestito forme e tessuti trasformandoli in mode esotiche, spesso negando ai paesi da cui le ispirazioni provenivano non solo la “paternità” di tali forme, ma anche la capacità creativa. Se l’Asia è per molti versi “colonizzata” dai grandi marchi del lusso, d’altro canto essa è anche il luogo da cui provengono novità e sperimentazioni. Quindi, questi mercati non sono costituiti da consumatori passivi, ma spesso sono proprio i luoghi da cui provengono nuove e interessanti suggestioni che la moda metabolizza e fa proprie restituendole sotto forma di tendenze. POST-DECOLONIZZAZIONE E DELOCALIZZAZIONE PRODUTTIVA Nella moda contemporanea sono in gioco due fenomeni distinti anche se correlati che possono essere considerati all’origine di molti dei più recenti cambiamenti nella moda. Si tratta della “post- decolonizzazione” e della “delocalizzazione produttiva”. La post-decolonizzazione costituisce una sorta di contesto discorsivo in cui le nuove culture emergenti propongono le loro identità attraverso scelte anche estetiche e specifici modelli produttivi e di consumo, oltreché far propri e servirsi di quelli “occidentali”. Il modo di vestire ha in effetti accompagnato molte pratiche di decolonizzazione, ambivalenze e ricerca di identità nuove. Il caso dei “sapeur”: sono dandy africani che vestono alla parigina, in omaggio colonialista, cioè secondo quel processo mimetico che nel loro caso si manifesta in una spesa esagerata, anche a costo di sacrifici e indebitamenti, per acquistare abiti europei costosi ed eleganti. I sapeur mettevano in scena sia la loro travagliata ricerca d’identità post-coloniale, che quella più semplice ma altrettanto drammatica di essere senza lavoro e senza prospettive. Decolonizzazione quindi non significa soltanto, per gli ex colonizzati, liberarsi del gioco di una potenza straniera, ma anche gestire un periodo più o meno lungo di riaggiustamento culturale, cioè di considerazione dell’identità in cui le scelte vestimentarie hanno un ruolo tutt’altro che secondario. Possiamo dire che: mentre il periodo subito successivo al dominio culturale si è generalmente caratterizzato dall’accettazione del vestire occidentale come segno di modernizzazione che si accompagnava a un processo di laicizzazione, nel periodo successivo aumenta la consapevolezza della specificità della propria cultura, espressa anche con il modo di vestire. Troviamo il recupero delle radici, la ricerca di un’identità che non sia imitativa, ma nemmeno del tutto oppositiva, e il suo intrecciarsi con le traiettorie della moda globalizzata fatta di marche internazionali. L’emergere di una specifica moda islamica è forse l’esempio più evidente di ricerca di identità attraverso l’abito di moda. Le differenze nelle partiche coloniali e post-coloniali in Francia e Inghilterra, centralismo da un lato e multiculturalismo dall’altro, hanno impresso direzioni diverse alla moda islamica: - in Francia si è deciso per la proibizione del velo nei posti pubblici; - in Inghilterra il “vestire modesto” ha uno specifico mercato molto segmentato fatto di marche, negozi, riviste dedicati. Mentre le ragioni del velo sono riconducibili a tre filoni diversi, ossia tradizionalismo, crescita del ceto borghese e fondamentalismo, la moda islamica è una conseguenza in modo particolare del secondo, cioè dell’emergere di un ceto medio-alto che vuole trovare specifici segni di rappresentazione.
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