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Appunti storia delle dottrine politiche, Appunti di Storia Delle Dottrine Politiche

appunti Prof.ssa Marta Ferronato Storia delle dottrine politiche Università di Padova

Tipologia: Appunti

2015/2016

In vendita dal 08/06/2016

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4.5

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3 documenti

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Scarica Appunti storia delle dottrine politiche e più Appunti in PDF di Storia Delle Dottrine Politiche solo su Docsity! 5 STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE Platone: solo conoscendo l'animo dell'uditorio è possibile che il discorso raggiunga il suo scopo. La parola "dottrina politica" viene introdotta negli anni 30 dell'800 con un preciso significato in Francia a partire dagli autori della Restaurazione: dottrina politica è, secondo tale significato coniato in Francia, la concezione sistematica della politica finalizzata all'attività pratica. La disciplina inizia ad essere insegnata nelle università negli anni 20 del ventesimo secolo (900), con grandi maestri come Gaetano Mosca, Felice Battaglia, Gioele Solari. Tale disciplina nasce quasi simultaneamente alla nascita delle facoltà di Scienze Politiche a Padova, Roma, Modena. Secondo alcuni pensatori la storia delle dottrine politiche è lo "studio del pensiero riflesso riguardante lo stato". Ma lo stato è solamente una forma storica, forse la più evoluta e raffinata, peculiare dell'età moderna di organizzare qualcosa che viene prima dello stesso Stato: il potere politico. Il concetto di Stato verrà trattato quando si introdurrà l'età moderna. Stato moderno nasce nel 1648, trattati di Westfalia. Cos'è la storia delle dottrine politiche? E' la disciplina che assume come problema primario il potere politico ma soprattutto il modo in cui il potere politico è stato considerato, visto, teorizzato, tematizzato, argomentato dai vari uomini politici/pensatori nel corso della storia . Il potere politico è la fonte gerarchica di erogazione degli imperativi sociali a cui si accompagna l'uso della forza. Due definizioni di potere politico: 1 Potere politico è esercizio duraturo in forma istituzionale del comando coercibile da parte di alcuni individui su altri al fine di conseguire l'ordine in una società data. (+ analitica) 2 Potere politico è rapporto istituzionalizzato di dominio da parte di alcuni su altri in vista dell'ordine sociale. (+ breve) Si tratta di due definizioni formali che spiegano qualsiasi forma storica di organizzazione del potere politico stesso. Formali dunque NON contenutistiche. • il potere politico ha a che fare con l'esercizio della forza (rif. coercibile) che ne istituzionalizza e razionalizza l'uso della forza stessa. • conseguimento dell'ordine in una società, questo è lo scopo. Ordine ovvero assenza di conflitti, disposizione di alcuni elementi secondo determinati criteri per evitare contrasti. Il potere politico in una società identifica e dunque distingue tra colui/coloro che esercitano il potere politico, ovvero fonte del comando coercibile (governanti) , e coloro che al potere politico sono sottomessi/sottoposti (governati). Grazie al potere politico la società necessariamente è GERARCHICAMENTE organizzata non c'è possibilità di società paritetica e orizzontale. Inizio della riflessione degli uomini sulla vita politica Si inizia dal 5° a.C dal pensiero greco perché la filosofia nasce in Grecia tra il 6° e il 5° secolo a.C. Si parte dalla Grecia perché la parola "politica", come tante altre, deriva dal greco: polis, forma istituzionalizzata che assunse il potere politico dall'8° secolo in avanti in Grecia, fino al 4°- 3°secolo quando la Polis muore inglobata, trascinata nell'impero di Alessandro il Macedone. La riflessione sistematica/filosofica della politica non nasce con la polis stessa ma un po' più tardi. Non che manchino documenti scritti riguardanti la storia antica ma si tratta di testimonianze che cercano di descrivere la realtà storica dandone una spiegazione di tipo mitico/religioso/etico. A noi interessa INVECE la riflessione ordinata, sistematica sulla vita della polis compiuta dalla RAGIONE. Focus sulla vita nella polis, riflessione condotta dalla ragione. Ci occuperemo della teorizzazione che muove dalla realtà sociale, dalla vita sociale, per elevarsi e darne una ragione ricavando all'esperienza storica concreta dei principi che trascendano l'esperienza e rendano ragione della stessa esperienza. La polis è la precondizione per riflettere sulla politica. Politica: cose relative alla polis. Polis era  la città stato, estensione territoriale ridotta;  raggruppamento ottimale a cui aspirano gli esseri umani, unità per antonomasia della vita sociale; per essere umani si intendeva all'epoca i greci e non i barbari, uomini liberi e non schiavi.  autarchica, autogovernava e autosufficiente sotto tutti i profili, per questo le città erano perfette; ogni polis era indipendente dall’altra, come gli abitanti di una conducevano una vita separata da quelli delle altre polis. Tra gli abitanti della polis la vita in comune era intensa, affettivamente rilevante. I rapporti che si stringevano erano simili a quelli di parentela, ciascuno sentiva gli altri come fossero membri della stessa famiglia, (il destino di uno è interesse, e non di pettegolezzo, per gli altri). La vita era una vita ricca sotto tutti i profili, intellettuale, economico, giuridico, (e ovviamente politico). Nella polis la vita in comune consentiva di sviluppare tutte le potenzialità dell'uomo. All'interno della polis furono diverse le forme organizzative adottate: inizialmente monarchica, poi aristocratica, poi democratica, ecc. La riflessione sistematica e razionale sulla vita politica inizia ad ATENE nel 5° secolo, quando, prima con Cristene poi con Pericle, si introduce la forma di governo democratica. L'assetto democratico consentiva la più ampia partecipazione dei cittadini (sempre intesi come maschi, adulti e liberi) alla vita e all'amministrazione della polis, e con questa sorge anche la riflessione sulla politica. Dunque la democrazia è 5 quell'aspetto istituzionale che, basandosi sulla pratica della libertà e favorendo l'uguaglianza, è connesso alla riflessione sulla politica. Le leggi che vigevano nella polis erano elaborate quasi spontaneamente dai cittadini, i quali ripetendo una serie di comportamenti considerati conformi a giustizia e a bontà, facevano diventare tali comportamenti in una sorta di regole e dunque, da un lato esprimevano il comune sentire di coloro che le praticavano senza necessità di renderle scritte, e dall'altro le rendevano necessarie. Il processo di formazione CONSUETUDINARIO. Le leggi per questo avevano carattere morale intrinseco, e si avvertivano come leggi NECESSARIE, alle quali difficilmente si poteva derogare. La deroga alle leggi era vista come disattendere ad un ordine che faceva male alla propria vita, all'intera Polis, al cosmo. La partecipazione alla vita della polis e il fatto che la tradizione culturale greca non prevedesse distinzione tra natura e leggi (o tra leggi della natura e leggi etiche/giuridiche) fa comprendere come l'uomo greco non potesse pensare a sé stesso in termini individualistici. La percezione di sé come un qualche cosa di diviso rispetto agli altri non era propria della mentalità dell'uomo greco il quale percepiva sé stesso come membro indiviso, ma non riassorbito nella polis. L'uomo greco vede sé come un tutt'uno senza tuttavia essere annullato nella polis. La polis cioè non è solo entità politica, amministrativa, giuridica, economica... La polis ha un carattere eminentemente etico. L'ethos della polis racchiude in sé unitariamente aspetti politici, giuridici, morali, economici. Ogni uomo, ogni cittadino realizza sé stesso in modo pieno all'interno della polis. La polis è capace di soddisfare tutti i bisogni dell'uomo al massimo grado. In essa ciascuno trova la propria felicità. Ciascuno è parte integrante della polis, partecipa pienamente alla vita della Polis, considerandola come fosse casa sua. E' l'habitat naturale dove si svolge la vita di ciascun uomo, e non è avvertita come qualcosa di estraneo a sé stessi. Non si avverte, nella polis, frattura tra vita pubblica e propria individualità. Non esiste uno iato tra pubblico e privato, non c'è separazione, contrapposizione tra sfera privata e sfera pubblica. Non per forzatura, ma per SPONTANEO MODO DI SENTIRE E VEDERE. Le leggi che governano la città, inizialmente prima del quinto secolo, sono sia della natura sia della città, un tutt'uno, senza distinzione. Poi le leggi furono scritte, sistematizzate, ordinate: si iniziò a ordinare un complesso di leggi che già, per consuetudine, venivano rispettate. La visione unitaria della polis entra in crisi a partire dal 5° secolo a.C. Tale secolo è sia apogeo per Atene che riesce a stringere rapporti di pace con gli spartani e persiani, attuare ordinamenti democratici, far emergere opere architettoniche e tragediografe di indubbio valore ma è anche secolo in cui per altri aspetti però si rivelano i germi della decadenza, che porteranno alla fine della polis nel suo complesso (non solo Atene dunque). L'indistinzione tra legge della natura e legge giuridica comincia ad essere posta in dubbio grazie alla pratica di governo democratico che ha luogo in Atene in quel periodo, grazie alla quale i sofisti possono dare la loro visione . La rivoluzione che determina i cambiamenti della Polis si ha a partire dai sofisti. I sofisti sono uomini dotati di cultura. Nella Atene democratica esercitavano la loro attività di insegnamento ai giovani. Tale attività avveniva, come di consueto, pubblicamente ma anche sulla base di una remunerazione pagata loro da coloro che richiedevano l'istruzione per i figli. I sofisti insegnavano l'arte retorica (ne erano ottimi maestri): l'arte della persuasione. La forma di governo democratica che consentiva la partecipazione alle assemblee da parte dei cittadini offriva la possibilità di intervenire, ed essi insegnavano ai giovani a confezionare orazioni, discorsi, tesi con il fine di influenzare le assemblee, convincendole (carattere della persuasione) della bontà dei contenuti dei discorsi stessi. Se il cittadino desidera che la propria tesi venga approvata deve essere un ottimo, abile oratore, deve egli stesso diventare maestro di arte della retorica per far prevalere la propria posizione in assemblea. Egli dovrà far prevalere la giustezza della propria tesi (e non tanto la giustizia). ATTENZIONE PERO' ... L'arte del persuadere non è legata al valore intrinseco di verità ma deve apparire giusta INDIPENDENTEMENTE DAL suo valore. I sofisti in altre parole trasmettevano la capacità di far in modo che una qualsiasi tesi fosse considerata VALIDA, senza un presupposto di VERITA'. L'opinione che prevale diventa vera solo per il fatto di essere stata considerata valida e approvata. I sofisti non hanno cuore il problema della verità, non si chiedono, come facevano i primi filosofi, qual è il principio della realtà ma si chiedono come CONVINCERE I CITTADINI AL DI LA' DELLA VERITA', OLTRE LA VERITA'. Ogni realtà, secondo i sofisti, presenta contemporaneamente due facce opposte, una bianca e una nera. Non si può dire quale sia la faccia autentica. La realtà è antinomica e antilogica, presenta sempre due facce. Ogni opinione può essere buona o cattiva se viene fatta credere buona o cattiva a seconda della capacità dell'oratore. Si iniziano a insinuare nella cultura greca lo SCETTICISMO. Come definire lo scetticismo? Da un lato come posizione teoretica per cui la verità non esiste, dall'altro come scetticismo gnoseologico sulla base del quale si sostiene invece non tanto che la verità non esiste ma che la verità non è conoscibile. La conseguenza pratica, è che solo le capacità dell'oratore faranno giudicare buona o cattiva, giusta o ingiusta una determinata tesi. Non esiste un giudizio veritativo. Il termine "sofista" non differisce molto dal termine "sapiente". Il sofista è l'esperto, "colui che sa" ma nel linguaggio comune tale vocabolo, da Platone in avanti (dunque fin dalla nascita del sofismo stesso), assume accezione negativa. Erano considerati mercenari, che vendevano sapienza – conoscenza a pagamento, venditori di sapienza a buon mercato. L'immagine negativa riguardo i sofisti per certi versi fu corretta nel corso dell'800 quando metodologie di ricerca rivalutarono il ruolo dei sofisti. Non si può non ammettere che i dialoghi di Platone somigliassero a quelli sofisti. Era difficile distinguere tra sofisti e antisofisti. Socrate fu considerato come il maggiore antisofista da Platone, Aristotele e altri. Aristofane e altri invece lo consideravano sofista. Perché questa difficoltà nell'individuare il confine tra l'essere sofista e antisofista? Perché tutti i pensatori, almeno apparentemente, sembravano fare la stessa cosa: parlare, discorrere cercando di convincere gli altri con le proprie tesi. 5 Socrate non giunge ad elaborare una teoria della logica in senso stretto. Le regole della logica saranno sistematizzate daAristotele. Il compito di Socrate è condurre gli allievi, Platone in primis, ad un metodo di studio che tutti possono praticare ma solo i più capaci sanno approfondire. Tale metodo va applicato anche alla politica dato che tutta la vita è vita politica e tutti gli uomini devono conoscere. Sarebbe auspicabile che coloro che governano fossero virtuosi ovvero conoscessero la storia, il presente, l’animo umano, oltre le tecniche per amministrare bene la città. La vita nella polis è possibile solo se la virtù è praticata diffusamente. Non tutti gli uomini sono virtuosi e non sempre quindi è possibile una vita felice. Socrate stesso è "vittima" dell'ignoranza degli uomini. Egli venne infatti condannato a morte in quanto considerato responsabile di corruzione della gioventù e di aver inventano nuovi dei. Fu prima imprigionato e poi condannato a morte (a bere la cicuta). Nell'attesa della morte i suoi allievi tentarono di convincerlo a fuggire. Socrate rifiuta di fuggire dalla prigione raccontando un sogno che aveva fatto: la prosopopea delle leggi. Tali leggi gli dissero che ad esse egli doveva la sua vita. Ora queste leggi, pur intese non conformemente al bene, gli davano la morte. Ma Socrate, per far in modo che venisse affermata l'importanza di tutte le leggi, sostiene che grazie ad esse ha avuto assicurata una vita felice e buona. Ad esse egli si sottomette anche se al momento della condanna gli appaiono INGIUSTE. La sottomissione alle leggi, che dunque fu assoluta, voleva dire sottomissione alla città e riconoscere importanza della polis. Senza le leggi la polis non esiste, siano esse buone o cattive. Esse stesse rendono possibile la vita al loro interno e dunque ad esse SEMPRE CI SI DEVE SOTTOMETTERE. Socrate muore serenamente bevendo cicuta. PLATONE(428/7 – 347 Atene) Proviene da famiglia aristocratica e presto avviato alla carriera politica. Il suo maestro fu Socrate. Platone non era di orientamento democratico. Platone rimane sconvolto dalla morte di Socrate e non riesce ad accettare che la sua città abbia dato morte ad uomo così sapiente. L'entusiasmo dei primi anni gli fece pensare che la vita potesse essere conforme al bene, mai più, dopo la morte del maestro, si impegna nel governo della polis ad Atene. Egli continua a dedicarsi alla politica attiva altrove, in Sicilia, a Siracusa, dove si reca per tre volte. Egli conosceva Dione, cognato di Dionigi il Vecchio, tiranno di Siracusa. Dopo la morte di Socrate, Platone compie un viaggio attorno al Mediterraneo. In quel periodo erano diverse le scuole filosofiche che stavano assumendo identità. A Taranto era attiva la Scuola Pitagorica che avrà qualche eco nella vita di Platone. Siracusa fu una delle città più fiorenti del Mediterraneo e qui, con 3 tentativi, Platone cerca di realizzare la città ideale, facendo quasi da "consigliere del regnante". I tre tentativi non andarono a buon fine. Dopo il primo tentativo Platone viene imprigionato e venduto come schiavo: appena viene liberato, torna in patria. I suoi disegni politici non erano stati considerati accettabili e praticabili dai siracusani. Nel tornare ad Atene fonda l'Accademia: scuola in cui Platone insegna filosofia, nominata così in onore di un eroe greco la cui statua era collocata nelle vicinanze. Sulla base del progetto che egli elabora nella sua opera "La Repubblica" torna una seconda e una terza volta a Siracusa, ma senza alcun successo. Dunque egli prova fuori dalla patria Atene a realizzare un progetto di stato perfetto elaborato nella scuola, senza però riscuotere successo. Ad Atene, Platone rifiuterà sempre non solo di praticare l'attività di Governo ma anche di predisporre una Costituzione per la città. La condanna etica nei confronti della propria città da parte di Platone è stata totale, in ragione della morte data a Socrate. Platone scrive 34 dialoghi, un discorso "Apologia di Socrate" e un corpo di lettere. Le fonti scritte sono molte. Tutte le opere di Platone sono nella forma del dialogo. Perché questa forma? Tra la fine del 5° sec. a.C. e il 4° sec. a.C. in Grecia si passa da una forma di cultura orale a una cultura in cui fa l'ingresso decisivo la scrittura . La scrittura diventa mezzo di comunicazione e di trasmissione del sapere. Ecco la rivoluzione. Fino ad un certo punto la trasmissione della conoscenza avveniva in modo orale: la parola era l'unico veicolo riconosciuto in grado di diffondere il sapere. Nel corso del 6° secolo gli autori avevano iniziato a scrivere le opere presentando il testo, il libro, come farmaco per la memoria . L'utilità dello scritto era di essere sussidio alla memoria che a volte tradisce e inganna, alle facoltà mnemoniche. Solo poi nel corso del tempo, inizia ad avere ruolo diverso. A partire da Platone in avanti il libro non è più solo medicina ma diventa una forma per acquisire il sapere. La fine di questo processo sta nel giungere a far in modo che con il testo scritto si IMPARI qualcosa di nuovo. Il testo, dopo essere stato scritto, acquista vita propria indipendente dall'autore, vita che si ricrea e riparte ogni volta che un lettore intraprende la lettura, determinando una vita diversa per lo stesso testo. Una persona che legge un testo può apprendere nozioni mai conosciute prima e dunque arricchire il proprio bagaglio. I sofisti hanno iniziato ad usare il testo scritto come strumento di apprendimento per fissare nei testi scritti le tecniche che essi stessi impartivano ai discenti in modo orale. Attraverso i sofisti i libri diventano riferimenti/manuali per apprendere. Socrate non scrisse nulla perché a suo parere il testo scritto non avrebbe potuto dare la possibilità di conoscere alcun che: la verità, ovvero il conoscere, è raggiungibile solo con il confronto e il dialogo. Platone, miglior allievo di Socrate, si pone a metà tra i sofisti e il maestro per quanto riguarda l'approcio alla forma scritta. Mentre Socrate non aveva scritto nulla e mentre i sofisti avevano messo nei libri anche le tecniche che i loro discenti dovevano apprendere, Platone non disdegna lo scritto ma cerca di scrivere in modo da rispecchiare la tecnica del maestro, per conoscere e conoscere bene. Ecco il perché dei dialoghi: per evitare il tradimento totale del maestro riconosce che il dialogo è la via attraverso cui giungere a conoscenza ammettendo però che i dialoghi possano esseri scritti e narrati. Con il dialogo si giunge a veicolare la conoscenza, con un avvertimento però. L'avvertimento è espresso da Platone nel Fedro. Platone, nel Fedro scrive che è filosofo solo colui che conosce qualcosa di più rispetto a quello che scrive nei testi. Chi esaurisce tutto il proprio 5 sapere nei testi non è filosofo. Il vero filosofo possiede cose di maggior valore rispetto a quelle che affida al testo scritto. Egli stesso scrive nella lettera settima "delle cose supreme e prime non si può e non si deve scrivere". Di questi principi supremi non si può scrivere nulla perché di essi il maestro parla ai suoi allievi e quando discepoli e maestro insieme parlano di questi temi essi sono in grado di capirsi e di capire a fondo il principio; una volta che il maestro abbia affidato/condiviso con gli allievi la conoscenza dei principi primi, tali allievi mai più dimenticheranno quanto imparato. Ciò che il maestro riesce a insegnare agli allievi riguardo i principi primi resterà inciso in modo indelebile nel loro animo e dunque non è necessario affidare tali principi agli scritti perché lo scritto non ha valore di sussidio. Inoltre Platone ritiene che se si scrivesse delle verità ultime si rischierebbe di banalizzarle. Le verità ultime sono infatti le più semplici e chi le leggesse su un testo scritto rischierebbe da un lato di affermare di averle capite ma con il rischio di travisarne inesorabilmente il significato. Necessariamente queste verrebbero volgarizzare e impoverite. Gli scritti di Platone dunque sono stati composti come dialoghi e sono IMMAGINI DELL'ORALITÀ'. Come ogni immagine hanno un rango inferiore della realtà che vogliono esprimere ma in quanto immagini cercano di riprodurre fedelmente il modello, ovvero la realtà. Essendo opere alla ricerca della verità, sono composte in forma del dialogo proprio perché alla verità vogliono giungere e far giungere. I dialoghi di Platone sono validi anche sotto il profilo letterario ("La Repubblica" è un capolavoro). Le sue opere hanno una ottima valenza drammaturgica, i personaggi sono ben caratterizzati anche sotto il profilo psicologico. Socrate è protagonista di quasi tutti i dialoghi, tranne le leggi. Inizialmente, nei dialoghi della giovinezza, attraverso il personaggio "Socrate", Platone esprime sé stesso esprimendo le proprie convinzioni. Nei dialoghi della maturità invece Platone, attraverso il personaggio di Socrate, esprime la filosofia platonica vera e propria. Dialoghi della vecchiaia: povera vividezza. Nel Fedro, Platone scrive "un buon scrittore di discorsi deve avere tre punti essenziali": 1. conoscere la verità da comunicare = esperto, deve egli stesso avere la conoscenza da trasmettere 2. deve essere esperto del metodo con cui si giunge alla verità (dunque non solo contenuti ma anche il metodo che porta ai contenuti) 3. conoscere l'anima delle persone a cui si rivolge. Lo scrittore deve innanzi tutto conoscere la verità: cos'è la verità? Per Platone conoscere la verità significa conoscere l'essenza stessa delle cose. L'essenza è l'idea. L'idea è quello che fa si che una cosa sia quello che è. Idea è essenza della realtà, è la verità. L'idea, in altre parole, è ciò che rimane identico in tutte le cose che portano lo stesso nome. L'idea è ciò che non muta cambiando una singolarità. In quanto essenza, è qualcosa che non nasce e non muore: non nascendo e non morendo è sempre uguale a sé stessa, non muta, è eterna ed è ciò senza la quale la mente non potrebbe pensare. Ha carattere di unità. Si giunge all'idea se si riesce a unificare la molteplicità delle cose e se al di là delle apparenze si riesce a trovare ciò che è comune a tutto quello che porta lo stesso nome. Nelle opere di Platone ha una grande rilevanza il mito. (La filosofia è un discorso su base razionale, è ricerca dei principi della realtà che si compie mediante ragione). Platone ritiene che alcune verità non siano trasmissibili in forma logica razionale, dunque la forma efficace è un forma alogica (senza logica), ovvero il mito. La vita ha parti non sempre razionali. La mente umana si esprime attraverso le immagini e non solo attraverso concetti. L'artista non ha declinazione esclusivamente logica e razionale. La filosofia nasce proprio segnando il passaggio da una spiegazione mitica della realtà a una spiegazione su base razionale della realtà stessa. Hegel, 19° secolo, nelle sue lezioni di storia della filosofia: il mito si usa quando il pensiero non è ancora completamente autonomo e libero. Nel 900 Heidegger: il mito si usa quando si deve dar ragione non tanto del pensiero ma della vita, non sempre esprimibile in termini razionali. Dato che sostanzialmente l'uomo esprime sé stesso con la ragione ma anche con le immagini in Platone possiamo rinvenire due modalità:di comunicazione e di trasmissione. Platone presenta alcune verità con i miti perché la spiegazione diventa più accessibile, comunicabile, ostensibile. Attraverso un mito Platone descrive il processo conoscitivo nell'uomo. L'idea è l'essenza della realtà: come però conoscere le idee? Qual è la modalità per l'uomo di conoscere? Platone per rispondere si avvale di un mito: il mito della Caverna. E' raccontato nel capolavoro di Platone, "Repubblica". Platone immagina che gli uomini siano rinchiusi in una caverna, nella quale non c'è luce naturale. Questa è scavata nelle profondità della terra e si può uscire solo attraverso uno stretto cunicolo. L'uomo a cui si fa riferimento è uno schiavo in catene, imprigionato assieme ad altri. Tali prigionieri sono incatenati e seduti, con il viso e dunque gli occhi rivolti verso la parete di fondo della stessa caverna. Platone immagina che sia costruita una cortina dietro gli uomini incatenati. Viene acceso un fuoco dietro la cortina stessa e sul muricciolo vengono fatte scorrere delle statuine che riproducono fedelmente la vita che si conduce nella polis, la realtà. Dall'esterno inoltre giungono voci che fanno sentire come scorre la vita all'esterno. Essi ritengono che la realtà esterna sia completamente riconducibili allo scorrere delle ombre. Gli schiavi sono tali dalla nascita e dunque possono solo immaginare. Uno schiavo riesce a liberarsi e, girandosi, vede innanzi tutto le statuine: capisce che le ombre erano solo apparenza della realtà, il vero erano le statuine. Platone suppone inoltre che, con grande fatica, questo schiavo riesca a guadagnare l'uscita dell'altro. La fatica è dovuta al fatto che le sue forze, in quanto schiavizzato, fossero minime, ma anche al fatto che l'uscita fosse raggiungibile solo percorrendo una salita molto erta. Con grande sforzo lo schiavo riesce ad uscire dalla caverna. Platone ipotizza che l'uscita avvenga la notte e che vicino all'uscita dell'antro vi sia un lago. Sullo specchio d'acqua illuminato dalla luna piena si riflettono immagini della natura circostante. La notte consente allo schiavo che si libera di guardare le immagini specchiate e di scorgere gli alberi che crescono lungo la riva. Con il fare del giorno la luce si fa sempre più viva e le immagini che si specchiano sul lago cambiano di continuo. Gli occhi dello schiavo non sono abituati alla luce, perché era stato per molto tempo al buio: Era abituato alla scarsa luminosità, non alla luce. Per un po' di tempo dunque lo schiavo è costretto a tenere gli occhi bassi e solo dopo potrà guardare con i propri occhi il cielo e al mondo. 5 Tutto ciò rappresenta il percorso conoscitivo che l'uomo, non tutti gli uomini, può e potrebbe compiere. Vi sono 4 momenti identificati che rappresentano altrettanti gradi del processo gnoseologico. La prima forma/modalità conoscitiva di cui ciascun uomo si avvale nella vita, facendone esperienza, è la conoscenza di tipo sensoriale. Ogni conoscenza muove necessariamente dalle sensazioni corporee. Il secondo momento è quello legato alla liberazione dello schiavo stesso che si gira e vede le statuine. La conoscenza che ne deriva è la conoscenza delle opinioni fondata su ciò che si dice e su ciò che la gente pensa e ritiene sia vero. E’ la rielaborazione delle sensazioni. Solo con difficoltà e sforzo l'uomo giunge al terzo grado della conoscenza: le immagini della realtà che si specchiano sul lago. Questa immagine del mondo sul lago è rappresentata dalla conoscenza di tipo matematico: per essere conquistata richiede grande fatica. Platone era stato introdotto allo studio della matematica a Taranto nella Scuola Pitagorica. Per i pitagorici il numero è l'essenza della realtà. La conoscenza della matematica è una conoscenza senza dubbio più elevata delle opinioni e sensazioni ma tuttavia non è l'ultima fase del processo conoscitivo. L'apice si ha con la conoscenza delle idee: lo schiavo, definitivamente libero e in grado di alzare gli occhi al cielo, alza lo sguardo alla luce e vede il mondo. In quel momento si realizza la conoscenza delle idee, dell'essenza della realtà. Non tutti gli schiavi riescono a liberarsi. Tra l'altro, tra coloro che si liberano, non tutti riescono a raggiungere l'uscita. Lo schiavo che, avendo guadagnato l'uscita, giunge al quarto gradino, ovvero alla conoscenza delle idee, è colui che nella realtà è il filosofo . Solo il filosofo giunge alla conoscenza delle idee. La conoscenza delle idee è conoscenza intuitiva e non di tipo discorsivo: il filosofo vede le idee e le riconosce ad istinto senza esserne partecipe né riuscire a descriverle pienamente, neanche a sé stesso. Il filosofo che arriva al quarto grado è messo nelle condizioni di conoscere le idee, e le conosce in modo indistinto, unitario, intuitivo (Platone parla a tal proposito di conoscenza noetica basata sul nous, che si contrappone alla conoscenza dianoetica). Il filosofo conosce le idee ma non ne partecipa in maniera piena: diversamente sarebbe egli stesso una idea. Il filosofo non possiede le idee e difficilmente le può comunicare agli altri, se non in maniera parziale e approssimativa. Per quanto approfondita e chiara gli pervenga la conoscenza delle idee, egli non sarà mai capace (nemmeno essendo il più virtuoso di tutti) di rendere partecipi gli altri del contenuto delle idee stesse in modo pieno. Platone non rischia di cadere nel razionalismo: posizione teoretica che ritiene possibile alla ragione umana attingere la verità in modo pieno ed esaustivo. La posizione razionalistica è una posizione dogmatica che presuppone nell'uomo una facoltà razionale perfetta, che permette all’uomo di riconoscere la verità, ma si scontra con la realtà dei fatti e con la constatazione che tanti uomini hanno ciascuno una loro ragione e con il fatto che l'uomo non riesce a pronunciare nessuna parola definitiva sulla verità. Ma la perfezione implica l'immobilità, la ragione dell'uomo per questo non è perfetta, essendo l'uomo mobile e mutabile. Dopo aver conosciuto le idee, il filosofo non si limita a contemplare. Platone racconta che lo schiavo/filosofo deve tornare, dentro alla caverna e svolgere un ruolo pedagogico nei confronti degli altri schiavi (deve renderli partecipi di quanto visto fuori) per far si che anche loro possano liberarsi e guadagnare così nuove tappe del processo conoscitivo. Gli schiavi sono, in sostanza, tutti gli uomini. Alcuni potranno arrivare alla prima fase, altri alla seconda, altri alla terza, e così via: pochi arriveranno alla conoscenza delle idee. Quei pochi dovranno cercare di convincere gli altri. La Repubblica è il dialogo più lungo che Platone abbia mai composto. Rappresenta la sua piena maturità. Fu scritta attorno ai 40 anni. Tale dialogo a livello stilistico è molto raffinato. Platone ritorna più volte nella stesura data la perfezione stilistica dell'opera. Dieci libri. Il primo fu scritto per ultimo e costituisce il proemio/introduzione ai temi trattati. E' un dialogo eminentemente politico. Il titolo è la traduzione del latino "res publica" (cosa pubblica) che traduce il greco "politeia" (tutte le cose che riguardano la vita della polis). Platone, in questa opera, vuole presentare lo stato nella sua interezza e complessità. Egli affronta il tema della giustizia, dell'origine naturale o convenzionale dello stato stesso, dell'organizzazione interna dello stato, dell'educazione dei cittadini e dei governanti. Egli tratta anche della descrizione della degenerazione dello stato individuando le ragioni della decadenza. Primo libro: narrazione e presentazione della scena in cui si svolge il dialogo. Secondo libro: viene introdotto e approfondito il tema della giustizia. Terzo libro: educazione dei custodi. Quarto libro: Platone specifica che lo stato del quale sta parlando è lo stato ideale. Specificando un’analogia fra struttura dello stato e anima dell’uomo. Settimo libro: mito della caverna Ottavo libro: ciclo delle costituzioni La repubblica fu scritta con l'intento di presentare lo stato ideale ma venne composta dopo il fallimento del primo viaggio a Siracusa. Nonostante la delusione della polis siracusana (o forse proprio in ragione di ciò). Personaggi sono Socrate, Trasimaco, Glaucone e Adimanto e figli di Cefalo. Socrate partecipa ad una festa nel porto di Atene, il Pireo, in onore di una dea della Tracia. Insieme con amici egli stava rientrando verso casa. Cefalo invita gli altri a fermarsi a casa sua e lì si svolge il dialogo. Inizia una discussione su che cosa sia la giustizia. Ciascuno presenta la propria concezione in merito, rifacendosi ai luoghi comuni sulla giustizia stessa . Ad un certo punto, durante il dialogo, interviene Trasimaco per il quale la giustizia non è altro che l'utile del più forte. Essa infatti è esclusivamente manifestazione del vantaggio di chi governa,è legata al capriccio di chi governa e semplice manifestazione della volontà di chi governa. La giustizia ha origine,non dunque naturale, ma esclusivamente umana. Concezione formale e non contenutistica, valoriale. Questa concezione viene analizzata da Socrate. Socrate si avvale della metafora dell'arte medica: dire che la giustizia è utile del più forte equivale ad affermare che il medico cerca esclusivamente il proprio utile: sarebbe come dire che per il malato è giusto ciò che conviene ed è utile al medico. Il medico quando guarisce qualcuno acquista indirettamente dei vantaggi in termini di ritorno d’immagine, ma prima di tutto il buon medico cerca la salute del paziente e allo stesso modo anche l'uomo che governa la città deve cercare e promuovere il bene della città stessa. Una azione si può considerare come politica solo se ha come riferimento il bene della polis. L'azione finalizzata all'utile di chi governa non può essere nemmeno definita come azione politica. L'azione politica sarà poi giusta se sarà conforme alle regole dell'arte regia. La politica viene definita da Socrate 5 Questa è l'idea di stato perfetto per Platone. Lo stato per Platone è organismo che vive (concezione organicistica) e infatti anche essendo perfetto, a causa di errori che i custodi reggitori possono compiere nel programmare le nascite, conoscerà la sua decadenza. Lo stato così descritto è aristocratico (aristocrazia non legata al censo ma a virtù). Questa degenera nella timocrazia (governo basato sul desiderio degli onori, compiacimento dell’esercizio delle cariche). Questa degenera poi in oligarchia (chi governa è migliore solo per ricchezza). L'involuzione oligarchica determinerà rivolte popolari che porteranno alla forma di democrazia (dominio del popolo, forma corrotta perché ha dato a morte Socrate e generato la sofistica). Infine si passa alla tirannide, forma peggiore di stato (in cui comanda un individuo solo per il proprio interesse). La classificazione della degenerazione delle forme di governo per Platone nella Repubblica ha un ordine assiologico (deriva da una posizione valoriale, da un valore). Sia aristocrazia, sia oligarchia, sia timocrazia prevedono un numero ristretto, ovvero un'élite, al potere. Da queste forme si differenzia la democrazia. Mentre la Repubblica rappresenta il momento teoretico della riflessione politica di Platone, vi sono altri due momenti "pratici" che emergono da due altri dialoghi: Il Politico e Le Leggi. "Il politico" rappresenta in particolare, il momento eminentemente pratico, rispetto a quello teoretico realizzato nella Repubblica. Scritto durante la vecchiaia. Il politico è dialogo che avrebbe dovuto formare una trilogia assieme al "sofista" e "filosofo". Il sofista fu scritto poco prima del politico, ma Il filosofo non fu mai scritto. Il politico presenta due protagonisti (+ altri minori personaggi): Socrate il giovane e uno straniero non identificato che è la voce principale. L'oggetto del dialogo è il Re filosofo detto in greco Basileus: colui che in concreto è deputato a realizzare lo stato perfetto. Non si parla di monarca. Secondo Platone non conta tanto la forma di governo: qualsiasi essa sia se segue il modello dello stato ideale, è forma retta. Deve essere sapiente per far si che la polis è rivolta al bene, dunque giusta. Diversamente se chi governa non è sapiente, la polis in tempi rapidi si corrompe. Nel Politico Platone tratta della politica come arte regia. Sotto il profilo teorico, la politica prevede la conoscenza di tutto ciò che ha a che fare con l'organizzazione della polis, l’idea di stato da parte di chi svolge funzione di reggitore dello stato, o l'essere filosofi o il diventarlo. Sotto il profilo pratico si fa eminentemente riferimento all'attività di governo vera e propria, in senso stretto, come l'esercizio di un'arte, appunto regia. La politica è arte regia, ed è superiore a qualsiasi altra arte esercitata nello stato. La politica richiede grande competenza da parte di chi la esercita non prevede il dilettantismo: può governare solo colui che conosce la storia, le costituzioni, l'organizzazione dello stato, tutti i segreti dell'arte politica. Platone identifica 3 problemi generali di politica pratica: 1. generalità della scienza politica 2. scopo dell'azione del re filosofo 3. criterio ispiratore che guida l'azione del politico 1.La politica è assimilata all'architettura. Il politico, uomo di governo, ha ruolo simile a quello dell'architetto: così come l'architetto elabora il progetto della casa e controlla la realizzazione senza per altro intervenire nei lavori (architetto organizza le attività degli interventi, ma non svolge l'attività) così deve fare il politico. Il politico è colui che, avendo conosciuto l'idea di stato, il progetto di stato e sottintende a tutte le attività di realizzazione. 2. Il riferimento allo scopo dell'azione del re filosofo, l'analogia è con l'arte del tessitore: per tessere il tessitore deve conoscere bene le regole e le tecniche per comporre sia l'ordito che per la trama. Il re filosofo tesse la tela della società per far si che gli uomini diventino cittadini. La trama è costituita, per Platone, da tutte le attività esercitate nella polis, l'ordito è dato dal filo d'oro della giustizia che compone insieme tutte le attività. La giustizia è parte integrante delle attività che si svolgono nella polis e della società stessa . 3. Il criterio ispiratore dell'arte del politico è quello della giusta misura: ciò che è intermedio tra un eccesso e un difetto. Si tratta di un criterio quantitativo, ovvero evitare sia troppo sia troppo poco, per realizzare qualcosa che ha valore eminentemente qualitativo, ovvero la virtù . Sempre nel Politico, Platone parla del rapporto tra il re filosofo e le leggi. Ci si chiede: chi detiene potere politico è sottomesso alle leggi o è superiore alle leggi stesse? E' vincolato al rispetto delle leggi o superiore ad esse? Ogni polis ha assetto giuridico, una costituzione propria. Ogni costituzione è composta sia da leggi scritte sia da consuetudini. Secondo Platone il Basileus non è vincolato al rispetto delle leggi. L'unico vincolo a cui egli è sottomesso è la ricerca e conoscenza della verità. Il Basileus deve essere un ottimo filosofo, e dunque costantemente deve ricercare la verità, le idee e far si che sia possibile realizzarle. L'unico vincolo normativo a cui il Basileus è sottomesso sono le idee stesse. A tal proposito Platone si avvale di due similitudini: l'arte medica e l'arte nautica. Il medico e il nocchiero (colui che governa la nave, timoniere/traghettatore) sono vincolati al rispetto delle regole dell'arte che esercitano? Si e no al tempo stesso. Sia il medico sia il nocchiero devono ben conoscere il loro ambito: il medico deve conoscere le malattie e le cure, il nocchiero le rotte. Essi però si affidano anche alle proprie capacità personali e alle proprie intuizioni personali purchè servano al raggiungimento dello scopo. Se il medico inventa una nuova terapia deve praticarla o no al paziente? Secondo Platone, se si tratta di una nuova terapia, non perché è nuova e non perché non è conforme ai manuali, non deve praticarla. Il ruolo del medico è fare il modo che il paziente guarisca e quindi se identifica una cura per guarire egli dovrà senz'altro praticarla. Se al nocchiero pare di scoprire una nuova rotta non dovrà seguirla? Si ma lo farà. La novità non deve essere scartata a priori in quanto novità. Non si deve essere legati alla precedente cultura. Ma sia il medico che il nocchiero, ergo anche il re filosofo può anche innovare, restando fedele all'unica cosa verso cui provare fede ovvero la ricerca della verità è inesausta e inesauribile, non termina mai. Così come Socrate fingeva di non sapere per continuare a conoscere e progredire, così dovrà fare il Basileus. Il re filosofo non potrà essere considerato tiranno che si pone sopra le leggi. La costituzione della polis è infatti il portato di tradizione, storia, saggezza, conoscenza che non può essere dimenticata. Non è impossibile che il re filosofo si trasformi in tiranno però questo 5 non deve succedere. Il rischio è che se il re filosofo non è un vero re filosofo può condurre la polis alla corruzione. Nel Politico, Platone fornisce classificazione delle costituzioni imperfette e storiche, raccolte da Socrate e Aristotele,diversa dalla precedente classificazione data. Egli presenta le costituzioni sulla base della conformità maggiore o minore all'idea di stato. Si tratta della classificazione delle costituzioni imperfette. E' la classificazione considerata come tradizionale che verrà cambiata solo da Montesquieu. E' basata sul numero di coloro che esercitano potere politico e fine perseguito. Il potere può essere detenuto -nell'ordine- da uno, pochi, molti. Il fine può essere: bene della polis, interesse di chi governa. Sulla base di tali criteri si distinguono 6 forme costituzionali: 3 forme rette, con fine del bene della polis, e 3 forme corrotte, con il fine di chi governa verso il suo personale utile. Le tre forme rette sono: Quando uno solo governa nell'interesse dello stato: forma costituzionale monarchica; Quando pochi governano per bene dello stato e questi pochi sono i migliori in base alla virtù: forma costituzionale aristocratica; Quando in molti governano e per il bene di tutti: forma costituzionale democratica/Politìa; Le tre forme corrotte sono: Tirannide: degenerazione della monarchia; Oligarchia: degenerazione della aristocrazia; Demagogia/democrazia corrotta: degenerazione della democrazia. Secondo visioni, la democrazia retta dovrebbe chiamarsi politìa, e quella corrotta semplicemente "democrazia". Tra queste 6 forme costituzionali, la tirannide è la forma peggiore. Tra le peggiori invece, la migliore è la democrazia: il potere politico infatti essendo diviso tra molti, è dotato di un freno che impedisce l'eccesso della corruzione. L'oligarchia e l'aristocrazia si distinguono perché nell'oligarchia chi ha potere politico, lo esercita perché detiene più ricchezze a livello economico. E' una delle forme più peggiori perché accentua la differenza ricchi-poveri che è causa della rovina dello stato stesso. Tale classificazione delle costituzioni è teorica e riguarda costituzioni che comunque sono imperfette. Si tratta di una classificazione con riferimento alle costituzioni storiche. “Leggi” è un dialogo scritto nella vecchiaia, caratterizzato da 12 libri, incompiuto e lunghissimo. Scritto nella forma del dialogo ma gli interlocutori dibattono pochissimo tra loro, manca di vividezza, è il protagonista che esprime tutte le sue teorie. I protagonisti sono 3: Clinia (cretese), Megillo (spartano), un ateniese sconosciuto. Mentre nel Politico il re filosofo è al di sopra delle leggi (l'unico limite è l'idea), nelle Leggi Platone presenta un grande realismo. Se il re filosofo non ubbidisce alle leggi ed egli in realtà non fosse un vero re filoso ma solo un presunto re filosofo (in quanto in realtà non ha visto alcuna idea di stato), rischierebbe di spacciare per stato perfetto e per modello conforme all'idea, uno stato che non ha nulla a che vedere con l'idea di stato stesso. Dunque rischierebbe di imporre ai cittadini con la forza un modello di stato non conforme al bene. Il rischio che il re filosofo sia solo un presunto tale, rende necessario per Platone controllare ciò che il re filosofo fa. Il problema è che però i cittadini non essendo filosofi non riescono a controllare il re filosofo. Dunque in quest'ultimo dialogo, Platone recupera il valore delle leggi. Le leggi potrebbero rischiare di essere una emanazione volontaristica del re filosofo stesso, finendo per rappresentare il capriccio di chi detiene potere politico. Però tutelate, invece le leggi esprimono, anzi sono, l'ethos della polis , esprimendo valori insieme etici e giuridici impostisi nel lungo periodo. Sulla base di questi valori gli abitanti hanno organizzato la vita nella città. Nelle Leggi Platone auspica che le leggi siano sempre al di sopra del re filosofo. L'ateniese, che con Clinia e Megillo, è protagonista del dialogo, si stava recando a Cnosso per rendere omaggio a Zeus. Lungo il tragitto i 3 discutono sulle costituzioni, su quella da dare ad una nuova città. I 3 personaggi si chiedono come deve essere guidato uno stato in presenza di un non re filosofo. Primi 6 libri: analisi delle costituzioni di Sparta e Creta, organizzazione interna delle poelis. Ultimi 6 libri: problematiche sull'educazione tanto cara a Platone in quanto tutte le poleis dovevano occuparsi dell'educazione dei cittadini con programmi adeguati. Gli uomini devono essere educati ad agire secondo virtù. Nel dialogo delle Leggi si trova una delle prime, se non la prima concezione sistematica di ordinamento giuridico: le leggi della polis vengono presentate in forma sistematica, organica, minuziosa. I 3 che dialogano pongono in evidenza che lo scopo delle leggi è far in modo che ordine e pace regnino nella polis tra i cittadini. Nelle Leggi, Platone si dimostra molto più realista rispetto ai dialoghi Repubblica e Politico: nelle Leggi egli pensa che la città sia abitata da uomini virtuosi ma non eroi (come invece avviene nella Repubblica), bensì da uomini in carne ed ossa. Egli propone una costituzione che fa rientrare la proprietà privata e la famiglia come istituzioni importanti. Nessuna città era disposta ad accettare il comunismo. Platone si rende conto in tarda età che pochi, o forse nessuno, erano disposti a privarsi di famiglia e proprietà privata. Introduce una proprietà privata però strettamente connessa alla struttura dello stato. Egli prevede una sorta di distribuzione dall'alto delle terre ai cittadini in maniera uguale al singolo. Lo stato distribuisce terra della quale i cittadini diventano proprietari. Non tutte le terre vengono distribuite: una parte rimane accessibile e disponibile per essere acquistata dai cittadini intraprendenti che con la loro laboriosità possono ampliare la proprietà. Dunque la proprietà non viene intesa come originario frutto del lavoro , perché essa viene fornita dallo stato ai cittadini in maniera uguale. Resta comunque il fatto che grazie al lavoro la proprietà stessa può essere accresciuta. Anche nelle Leggi Platone stabilisce un numero ottimale di cittadini che nella Repubblica aveva identificato in 5.250. Anche nelle leggi prevede una politica di tipo demografico, anche se meno invasiva di quella esposta nella Repubblica. In ogni caso ritiene che sia necessario che il potere politico intervenga nel controllo delle nascite per far si che il numero di cittadini sia sempre adeguato alle necessità. Il lavoro manuale spetta agli schiavi e non ad una parte dei cittadini come affermava in Repubblica dove a questa mansione 5 erano addetti i demiurgoi (che erano cittadini). Aspetto interessante della filosofia platonica che emerge sia nella Repubblica sia nelle Leggi, è la parità di genere: le donne non sono considerate sottomesse agli uomini, diversamente da quanto previsto dalla cultura greca e non solo. Secondo le loro attitudini, le donne, come gli uomini, possono svolgere anche funzioni politiche, sia nelle Leggi sia nella Repubblica. Nella Repubblica egli presenta lo stato perfetto. Secondo Platone, lo stato ideale era realizzabile e egli riteneva che se i filosofi fossero stati capaci di educare i cittadini alla virtù, la polis perfetta si sarebbe realizzata. Uno degli elementi dell'utopia è proprio l'irrealizzabilità del progetto utopico che comunque non sembra essere pertinente parlando di Platone (egli crede nella realizzabilità dello stato ideale). Lo stato ideale ha natura etica oltre che organicistica: all'interno dello stato , e solo al suo interno, ciascuno - uomo/donna - può esprimere sé stesso realizzandosi. La politica eugenetica è guidata da una mano invisibile. Lo stato è molto presente nella vita per regolarla altamente. Solo l'errore nella programmazione delle nascite determina la decadenza della città ideale. Errore che fatalmente, in ogni caso, viene compiuto. La Repubblica è lo stato ideale immaginato quando in gioventù Platone prova ad applicarsi all'attività politica. Lettura lettera settima, parte finale. Lo stato perfetto del quale Platone da conto è l'idea di stato, e non lo stato storicamente realizzato. Platone lettera VII [...]Da giovane anch’io feci l’esperienza che molti hanno condiviso. Pensavo, non appena divenuto padrone del mio destino, di volgermi all’attività politica. Avvennero nel frattempo alcuni bruschi mutamenti nella situazione politica della città. Il governo di allora, attaccato da più parti, passò in altre mani, finendo in quelle di cinquantun uomini di cui undici erano in città e dieci al Pireo; ciascuno di questi aveva il compito di presiedere al mercato e aveva incarichi amministrativi. Al di sopra di tutti c’erano però trenta magistrati che erano dotati di pieni poteri. Caso volle che fra questi si trovassero alcuni miei parenti e conoscenti che non esitarono a invitarmi nel governo, ritenendo questa un’esperienza adatta a me. Considerata la mia giovane età, non deve meravigliare il mio stato d’animo: ero convinto che avrebbero portato lo Stato da una condizione di illegalità ad una di giustizia. E così prestai la massima attenzione al loro operato. Mi resi conto, allora, che in breve tempo questi individui riuscirono a far sembrare l’età dell’oro il periodoi precedente, e fra le altre scelleratezze di cui furono responsabili, mandarono, insieme ad altri, il vecchio amico Socrate –una persona che non ho dubbi a definire l’uomo più giusto di allora- a rapire con la forza un certo cittadino al fine di sopprimerlo. E fecero questo con l’intenzione di coinvolgerlo con le buone o con le cattive nelle loro losche imprese. Ma Socrate si guardò bene dall’obbedire, deciso ad esporsi a tutti i rischi, pur di non farsi complimenti delle loro malefatte. A vedere queste cose ed altre simili a queste di non minore gravità, restai davvero disgustato e ritrassi lo sguardo dalle nefandezze di quei tempi. Poco dopo avvenne che il potere dei Trenta crollasse e con esso tutto il loro sistema di governo. Ed ecco di nuovo prendermi quella mia passione per la vita pubblica e politica; questa volta però fu un desiderio più pacato. Anche in quel momento di confusione si verificarono molti episodi vergognosi, ma non fa meraviglia che nelle rivoluzioni anche le vendette sui nemici siano molto più feroci. Tuttavia gli uomini che in quella circostanza tornarono al governo si comportarono con mitezza. Avvenne però che alcuni potentati coinvolgessero in un processo quel nostro amico Socrate, accusandolo del più grave dei reati, e, fra l’altro, di quello che meno di tutti si addiceva ad no come Socrate. Insomma, lo incriminarono per empietà, lo ritennero colpevole e lo uccisero; e pensare che proprio lui si era rifiutato di prender parte all’arresto illegale di uno dei loro amici, quando erano banditi dalla Città e la malasorte li perseguitava. Di fronte a tali episodi, a uomini siffatti che si occupavano di politica, a tali leggi e costumi, quanto più, col passare degli anni, riflettevo, tanto più mi sembrava difficile dedicarmi alla politica mantenendomi onesto. Senza uomini devoti e amici fidati non era possibile combinare nulla e d’altra parte non era per niente facile trovarne di disponibili, dato che ormai il nostro stato non era più retto secondo i costumi e il modo di vivere dei padri ed era impossibile acquisirne di nuovi nell’immediato. Il testo delle leggi, e anche i costumi andavano progressivamente corrompendosi ad un ritmo impressionante, a tal punto che uno come me, all’inizio pieno di entusiasmo per l’impegno nella politica, ora, guardando ad essa e vedendola completamente allo sbando, alla fine fu preso da vertigini. In verità, non cessai mai di tenere sott’occhio la situazione, per vedere se si verificavano miglioramenti o riguardo a questi specifici aspetti oppure nella vita pubblica nel suo complesso, ma prima di impegnarmi concretamente attendevo sempre l’occasione propizia. Ad un certo punto mi feci l’idea che tutte le città soggiacevano a un cattivo governo, in quanto le loro leggi, senza un intervento straordinario e una buona dose di fortuna, si trovavano in condizioni pressoché disperate. In tal modo, a lode della buona filosofia, fui costretto ad ammettere che solo da essa viene il criterio per discernere il giusto nel suo complesso, sia a livello pubblico che privato. I mali, dunque, non avrebbero mai lasciato l’umanità finché una generazione di filosofi veri e sinceri non fosse assurta alle somme cariche dello Stato, oppure finché la classe dominante negli Stati, per un qualche intervento divino, non si fosse essa stessa votata alla filosofia. [...] ARISTOTELE (Stagira 384- Isola di Eubea322) Maggior allievo di Platone. Il padre Nicomaco era medico alla corte del Re di Macedonia Aminta III, padre di Filippo II e dunque nonno di Alessandro Magno. Aristotele rimane orfano in giovane età e viene allevato dal marito di una delle sue sorelle. Attorno al 367 a.C, all'età di 17/18 anni, si reca ad Atene dove inizia a frequentare l'accademia platonica e dove compie studi assidui e di lunga durata. I suoi studi dureranno 20 anni. Già il padre lo aveva iniziato a studi scientifici e filosofici. Con Platone conosce la vera filosofia e inizia a formarsi in maniera piena. Quando muore Platone, Aristotele lascia Atene pare per motivi di non condivisione della linea organizzativa intrapresa in Accademia dopo la morte del suo maestro. Compie un viaggio di 4-5 anni 5 Il fatto che l'uomo sia essere morale, libero di scegliere tra bene e male, dotato di ragione imperfetta, spiega e sconfigge per sempre l'intellettualismo etico caro a Socrate di cui si vedevano tracce in Platone. In quanto l'uomo conosce il bene ma anche il male, e potendo agire liberamente, egli non è necessitato a compiere il bene una volta che l'abbia conosciuto. Il male, o l'errore, quindi non è legato all'ignoranza ma alla libertà dell'uomo. Il problema del bene è un problema tipicamente etico che ha una risonanza politica per Aristotele. L'etica a Nicomaco o Etica Nicomachea. Opera etica, esoterica. Nicomaco era sia il nome del padre sia il nome del figlio. Altre due etiche: etica Eudemia (a Eudemo), grande etica. Ci soffermeremo solo sull'etica Nicomachea. Una prima osservazione è metodologica: Aristotele invita a soffermarsi sulla natura dell'oggetto di cui ci si sta occupando, egli invita i lettori e uditori a non cercare la stessa precisione in tutti i campi del sapere e dell'esperienza. Non ci si può aspettare la stessa precisione e lo stesso rigore dalla matematica e dalla scienza politica o scienza etica. Si tratta di discipline con oggetti diversi e dunque la certezza alla quale i ragionamenti che riguardano tali scienze portano, danno risultati e certezze diverse. Estratto del primo libro dell'Etica a Nicomaco: Dalle note si dice che la politica , che riguarda la polis, ha per oggetto il moralmente bello e il giusto. Per Aristotele, il bene rappresenta il fine di ogni cosa. Come si è detto ieri più volte, la natura è il fine. Per la proprietà transitiva dell'uguaglianza potremmo affermare che la natura e il bene hanno una certa affinità tra loro. La politica ovviamente tende al bene, così come fa ogni cosa, mira ad un bene conseguibile tramite l'azione, alla FELICITA'. Cos'è quindi la felicità ? E' vivere bene, essere felici. La felicità ha la più ampia valenza possibile. Non si può negare che la felicità sia connessa a ciò che è moralmente buono e bello e giusto. Come si ottiene la felicità? Si ottiene facendo in modo che la natura umana possa esprimere al massimo grado tutte le sue potenzialità e quindi facendo in modo che tutte le disposizioni dell'animo dell'uomo siano orientate al bene, raggiungendo il bene. Bene che è conoscibile dalla ragione, la quale è in grado di dire qualcosa sia sul bene sia sul male, ma è anche in grado di far in modo che l'uomo stesso eserciti la propria libertà, orientando il proprio agire al bene e distogliendolo, se vuole, al male. Prima di parlare del quinto libro dell'etica nicomachea, dedicato a quella che Aristotele considera virtù delle virtù: la giustizia, ci vuole un’introduzione sulla concezione aristotelica di virtù. La virtù è quella disposizione dell'animo per cui le azioni si orientano verso il bene che ha conosciuto. Ma come si fa concretamente a sapere se una azione, se un uomo sono virtuosi? Dunque in cosa sta l'essenza della virtù? Secondo Aristotele, la virtù/azione virtuosa si può identificare quando l'uomo discrimina tra eccesso e difetto, quando cioè in base ad una scelta egli evita al tempo stesso, in relazione alla scelta da affrontare, sia l'eccesso sia il difetto. La virtù è quindi medietà tra due estremi . Il coraggio è la virtù che i guerrieri dovevano esercitare. Il coraggio, o azione coraggiosa, non è ne azione temeraria né espressione codarda (o pusillanime). Il coraggio è quindi il punto medio tra la temerarietà e codardia (o pusillanimità). Ma q uesta medietà non è assolutamente valida per tutti e in tutte le circostanze . La medietà in oggetto è relativa all'uomo che deve compiere l'azione coraggiosa. Il coraggio non si manifesta allo stesso modo per tutti gli uomini: si manifesta a seconda delle caratteristiche del singolo uomo. (Esempio: non c'è il bagnino in piscina. Il bravo nuotatore si tuffa e, sapendo di essere un bravo nuotare, cerca di salvare chi si trova in difficoltà. Se però a tuffarsi è qualcuno che non sa nuotare, egli non compie azione coraggiosa ma una sciocchezza. Ci saranno così due persone da salvare, anziché una. Dunque, nel caso in esame, bisogna tener conto delle circostanze). Dunque, la medietà in cui consiste la virtù che sempre, per Aristotele e per tutti i greci, è medietà tra eccesso e difetto, è medietà relativa al singolo che deve compiere l’azione. La virtù è medietà ma non significa che sia una azione di qualità media, tutt'altro. La virtù è l'ottimo, il meglio che si può fare in una determinata situazione (in certe situazioni, come nel caso dell'improvvisato bagnino con scarse abilità di nuoto, il meglio che si può fare è chiamare aiuto). Non esiste l'azione virtuosa in assoluto ma si tratta di un ottimo relativamente al soggetto che deve compierla. Dunque la virtù è il massimo che si può pensare di realizzare, è il bene, è l'ottimo. In latino "in medio stat virtus": non vuol dire che bisogna giungere a compromessi, ma che, bisogna cercare di contemperare le esigenze e scegliere conformemente al bene. Altro esempio di virtù: la generosità che si pone a metà tra avarizia e magnanimità/liberalità/ munificenza. Un'azione può essere generosa in rapposto al soggetto che la compie. Se chi dona 10 euro è un povero è diverso dalla situazione in cui quei 10 euro vengono donati da un miliardario. Il dono, la somma donata, è sintomo di avarizia, generosità a seconda del soggetto. Distinzione tra virtù etiche e dianoetiche. Le VIRTU’ ETICHE sono caratteristiche del carattere o del comportamento. Le virtù etiche si acquisiscono attraverso la ripetizione abituale di azioni virtuose. Le virtù etiche non sono innate nell'uomo. L'uomo può diventare virtuoso, non essendolo. Dunque si può anche diventare coraggiosi pur essendo pusillanime, abituandosi grazie all'educazione e grazie alle scelte, a compiere azioni conformi a virtù. La maestra faceva scrivere 100 volte la parola sbagliata, ad esempio: ciò oltre all'aspetto del castigo, faceva imparare. Ciò per quanto riguarda le virtù etiche, che si distinguono dalle virtù dianoetiche. La giustizia è una virtù etica. Le VIRTU’ DIANOETICHE, da dianoia, sono proprie dell'intelletto e del pensiero. Per praticarle è necessario che intervenga l'insegnamento, dunque è necessario che si venga istruiti. Tra le virtù dianoetiche troviamo la saggezza, arte, scienza, ma in particolare la prudenza. Cos'è la prudenza? La prudenza ha sicuramente a che fare con cautela, circospezione, con il valutare le conseguenze. La prudenza è quella virtù che consente di cogliere qual è il bene di ogni cosa, e quindi che consente di individuare il bene in una determinata situazione e i 5 mezzi per il bene ma anche di applicare i mezzi per giungere al bene. Nel senso originario che i filosofi morali e i giuristi attribuiscono al vocabolo "prudenza", essa si può identificare assimilandola alla sapienza. Non a caso i giuristi sono gli esperti in iuris prudentia, prudenza del diritto. La prudenza è quella virtù, che è arte, in grado di connettere i mezzi ai fini, identificando la scelta pratica da compiere per giungere al bene. Dunque, la prudenza è virtù dianoetica, ma è la chiave necessaria per praticare tutte le virtù etiche. Senza la prudenza non si può essere nemmeno virtuosi sotto il profilo etico, dato che è la prudenza, che ci fa dire che quella azione è virtuosa o no (per noi). E' la prudenza che fa valutare se impegnarsi o no in una situazione, conoscendo le proprie capacità, paure, abilità, evitando di essere codardi ma anche temerari mettendo in pericolo sé e gli altri. Dunque la prudenza è la virtù di passaggio: è ciò senza il quale le virtù non potrebbero essere esercitate. La prudenza, o sapienza, è una delle virtù cardinali. Le virtù cardinali sono: fortezza, sapienza, giustizia, temperanza. In rapporto a Platone, la sapienza è virtù dei reggitori, coraggio (fortezza) dei guerrieri, temperanza dei demiurgoi, giustizia è armonia di tutte queste virtù. Sono virtù cardinali perché sono i fari di tutta la vita etica, morale. Sono le virtù fondamentali, come il nord, sud, est, ovest permettono di orientarsi. Ci sono anche le virtù teologali: fede, speranza, carità. Queste hanno natura diversa rispetto alle cardinali. La differenza tra le due tipologie? Le cardinali sono riferibili all'uomo, le teologali invece necessitano di una grazia particolare per essere esercitate (sono un dono di Dio). Ricapitolando: virtù etiche/dianoetiche, prudenza o sapienza come virtù che è anello di congiunzione, giustizia come virtù etica (del comportamento). La giustizia, virtù etica. Secondo Aristotele si può diventare giusti anche se non lo si è, ripetendo azioni giuste. Riguardo la giustizia, ci si chiede quali siano gli estremi della giustizia, essendo ogni virtù la medietà tra due estremi. Quali sono gli estremi della giustizia? Per identificarli, Aristotele fa riferimento all'ingiustizia, scrivendo che l'agire giustamente significa trovarsi a metà tra il fare ingiustizia e il subirla. L'uomo giusto è colui che non compie ingiustizia né la subisce. Secondo Aristotele, compiere ingiustizia significa avere di più, mentre subirla significa avere di meno. La medietà tra più e meno realizza la giustizia, l'uguale. Ingiustizia per Aristotele significa avere di più perché si sottrae qualcosa a qualcun altro. Se qualcuno subisce l'ingiustizia infatti non ne ha la colpa. Tuttavia non esiste la giustizia se uno subisce ingiustizia. Aristotele distingue queste possibilità. Colui che subisce ingiustizia è in una situazione ingiusta e tuttavia non sempre è uomo ingiusto. Aristotele definisce la giustizia tramite l'ingiustizia. Per questo viene criticato. Definire qualcosa tramite il suo opposto rischia di far avviare un circolo vizioso. Dire che la giustizia è il contrario dell'ingiustizia, non fa guadagnare nulla in termini di conoscere la giustizia. Bisogna capire la differenza tra avere più e avere meno. Il tema dell'uguale ci fa arrivare ad una concezione della giustizia che porta Aristotele alla distinzione di una giustizia generale e una particolare. Infatti l’uguaglianza è il profilo che caratterizza la giustizia che Aristotele chiama particolare. Per contro, esiste una giustizia generale intesa come conformità alle norme dello stato. La giustizia può essere esaminata sotto due aspetti: giustizia in quanto virtù generale/particolare. Profilo generale della giustizia: nella polis è considerato giusto colui che adegua la propria condotta alle norme che regolano la vita nella polis stessa. La legalità dunque rappresenta il profilo generale della giustizia. Legge è quella emanata da chi detiene potere politico ma si riferisce anche alle consuetudini: comportamento che rispetta la legislazione scritta e non della polis. Profilo particolare di giustizia: consiste nell'uguaglianza. Giustizia esercitata secondo misura. La giustizia particolare ovvero l’uguaglianza implica una relazione tra due membri uguali, un rapporto tra uomini, tra i cittadini, tra cittadini e polis. (L'uguaglianza si realizza tra i cittadini e lo stato quando lo stato (ovvero la polis) distribuisca in modo uguale qualcosa tra gli stessi cittadini). Schema virtù: etiche (abitudine) ---> giustizia dianoetiche (istruzione) ---> prudenza Giustizia: v. dell'uomo giusto medietà tra fare (avere di +) e subire (avere di -) = ingiustizia. Nella giustizia particolare possiamo considerare due ampie distinzioni che descriveranno poi 3 partizioni della giustizia. I rapporti che i cittadini possono avere tra loro possono avere natura volontaria o involontaria. I rapporti di natura volontaria realizzano l’uguaglianza. • Tra singoli cittadini che decidono in modo libero di attuare una compravendita e quindi è un rapporto che si instaura nel contesto del diritto privato, quando ad un valore corrisponde un controvalore si realizza un’uguaglianza in senso aritmetico e per questo il rapporto si definisce giusto. (Ad esempio se Tizio vuol comprare da Caio un tavolo, tra Tizio e Caio si istituisce un rapporto secondo criterio della giustizia, o in altre parola sarà un rapporto giusto, se l'esborso di denaro di Tizio corrisponderà al rientro in suo possesso di un oggetto di pari valore. La prestazione è Tizio che compra e paga una cifra a Caio. La controprestazione è Caio che ricevendo la cifra vende il tavolo). Tale tipo di giustizia è detta da Aristotele giustizia commutativa, e riguarda gli scambi (commutare=scambiare). E' la giustizia che identifica e caratterizza i rapporti di diritto privato. • Tra la polis e i cittadini . La Polis realizza la giustizia di tipo particolare quando distribuisce ai cittadini onorificenze, cariche politiche, beni, secondo il criterio di uguaglianza. Però è impossibile applicare un criterio di uguaglianza aritmetica in questo caso e realizzare giustizia. L'uguaglianza che si realizza è definita di tipo geometrico (o proporzionale). Lo stato da ad ogni cittadino in proporzione ai meriti di ognuno affinché si realizzi giustizia nei rapporti tra polis e cittadini stessi. Diversamente ci sarebbe ingiustizia, se lo stato desse a tutti le stesse cose. Questa è la giustizia definita di tipo distributivo. 5 Aristotele non pensa, come tutti i greci, che tutti gli uomini siano uguali tra loro. Vi sono sostanziali differenze tra un uomo/uomo, oltre che tra i greci/barbari, oltre che tra i cittadini/schiavi. La diseguaglianza è un tratto che caratterizza, distingue gli uomini tra loro. La forma maggiore di disuguaglianza è quella che si avverte nel rapporto tra liberi e schiavi. Tale forma di disuguaglianza trova le sue ragioni su vari piani. Egli osserva che, certo vi è una schiavitù con origini legali (prigioniero di guerra). Aristotele ritiene che vi sono uomini schiavi per natura, servi, dipendenti dagli altri. La schiavitù naturale consiste nel fatto che vi sono alcuni uomini che, per diverse circostanze consistenti nella loro incapacità di provvedere a sé stessi, incapaci di pensare al futuro e pianificarlo e sono costretti a dipendere dagli altri. Tale incapacità è per natura: ma tali uomini sono più dotati fisicamente. Pur avendo maggior forza fisica, sono prigionieri del presente e dei loro bisogni e non sono in grado di elevarsi e per forza rientrano in un rapporto di servitù da qualcuno che, a differenza loro, abbia capacità progettuali. Questa è condizione di disuguaglianza naturale tra tutti gli uomini, ed è condizione di disuguaglianza che deve essere rispettata dalla polis nel momento in cui vengano distribuiti i beni tra i cittadini e non cittadini affinché possa realizzarsi giustizia. Fino ad ora abbiamo visto due aspetti della giustizia particolare. L'aspetto della giustizia distributiva, che regola rapporti volontari tra polis e cittadini secondo uguaglianza proporzionale/geometrica. L'aspetto della giustizia commutativo che ugualmente prevede la considerazione dei rapporti di tipo volontario che però si realizza tra cittadini secondo uguaglianza aritmetica. Unità di misura dell’uguaglianza in senso aritmetico riguardo la giustizia commutativa è la moneta. L'ultimo aspetto della giustizia particolare riguarda i rapporti che si realizzano tra i cittadini su base involontaria, per lo meno da parte di una delle due parti in azione: furto, omicidio, adulterio, e tutto ciò che ha a che fare con il diritto penale. Quando tra i cittadini si consuma ingiustizia-diseguaglianza è necessario che intervenga lo stato, polis, governo con una giustizia di tipo correttivo per ripristinare l'uguaglianza spezzata, infranta involontariamente. La giustizia correttiva qui si avvale dell'uguaglianza aritmetica perché se c'è un furto lo stato prende il ladro. Al ladro sarà inflitta la pena IDENTICA al valore di ciò che è stato rubato. Schema: Giustizia generale = conformità alle leggi (legalità) Giustizia particolare = giustizia secondo misura (uguaglianza) Possiamo suddividerla in commutativa, distributiva, correttiva, In particolare, Giustizia distributiva: uguaglianza geometrica/proporzionale Correttiva/rettificatrice e commutativa: uguaglianza aritmetica. <possiamo fare ulteriore schema a seconda dei rapporti volontari (contratto) o involontari> Aristotele, parlando di virtù e giustizia, manifesta sempre la propria propensione per la realtà e il realismo. La classificazione avviene sulla base dell'esperienza. Per un azione virtuosa bisogna sempre riferirsi al soggetto che agisce e alle circostanze. E le decisioni vanno prese sulla base della prudenza. Nel giusto in senso politico dobbiamo distinguere il giusto in senso naturale e giusto in senso legale. Il giusto in senso politico è conformità alla legge: siamo nella giustizia legale (generale). Questo giusto in senso politico si realizza tra i cittadini e quindi tra coloro che sono tra loro liberi ed uguali in quanto tutti soggetti alla legge, all’interno della polis autosufficiente, Aristotele distingue due tipi di giusto politico. Giusto in senso naturale ha dovunque la stessa validità e che non dipende dal fatto che venga o non venga riconosciuto. Identico in ogni tempo e in ogni luogo. Giusto in senso legale è ciò che originariamente è indifferente che sia in un modo piuttosto che in un altro, ma che una volta che sia stato stabilito non è più indifferente. Il giusto legale muta in relazione allo spazio e al tempo, è nato in base ad una convenzione. (Esempio: il riscatto di un prigioniero. Per Aristotele per natura un prigioniero può riscattarsi. Il prezzo del riscatto è originariamente indifferente, non è identificato a priori. Una volta che la legge positiva abbia identificato il valore del riscatto non è più possibile in quel luogo riscattare un prigioniero sulla base di un valore di tipo diverso. E' indifferente che per un reato la durata della pena detentiva ma dopo che il legislatore stabilisce che quel reato va punito con tot anni, per forza il giudice da lì in avanti dovrà applicare tale durata di detenzione). Per spiegare il giusto in senso naturale si serve di un esempio che trae dalla natura in senso fisico. "Così come il fuoco brucia allo stesso modo ovunque, così è anche il giusto naturale che è identico in tutti i luoghi e tempi". Affermare che esista un giusto immutabile per natura che determini uguaglianza tra tutti i luoghi e tempi, viene smentito perché è riferito alla natura in senso fisico e non si riferisce ai rapporti umani. La tipica obiezione contro coloro che credono nell'esistenza del giusto naturale, ovvero del diritto naturale, è che in popoli diversi vi sono usanze diverse che contrastano le une con le altre. Il fatto che il giusto naturale sia a volte criticabile perché non si riesce a riscontrare una stessa disposizione o norma come valida ovunque e in qualsiasi tempo, non esclude per Aristotele che si possa ugualmente parlare di un giusto che è tale per natura, e che per certi versi è superiore al giusto legale. Aristotele dice "si è vero, ci sono norme che possono essere diverse. Però per lo più ci sono uguali norme in diverse culture, generalmente parlando". Il fatto che alcune norme con valore generale e che possano essere considerate naturali quanto a giustizia perché ubbidienti ad un istinto che ciascuno porta in sé. I l giusto naturale non è giusto che sia fisso e immutabile se non nella sostanza . Questo è dovuto proprio alla concezione della natura di Aristotele. Così come la natura è mutevole, allo stesso modo il giusto per natura, essendo legato alla mutevolezza della natura, è esso stesso necessariamente mutevole . 5 In pochi anni Alessandro fa in modo che la fine della civiltà basata sulle poleis si estendesse fino all’ecumene, a dominare tutto il mondo abitato. Aveva richiesto un lungo periodo di gestazione per affermarsi e in dieci anni si estingue. Questo ha prodotto cambiamenti organizzativi, amministrativi, culturali, psicologici e politici. Le dimensioni dei territori, dominati da Filippo prima e Alessandro poi, sono talmente vaste che il cittadino della polis, abituato a vedere sé stesso come membro di una comunità - famiglia allargata, deve modificare il suo rapporto con il potere politico, con la città e aprirsi ad un nuovo modo di intendere sé stesso, come cittadino di un impero. Disagio psicologico del cittadino della polis, abituato a partecipare direttamente alla vita della polis, alle magistrature e assemblee: ora si trova in poco tempo proiettato in una dimensione diversa. Scompare il cittadino protagonista della vita politica diventa un suddito di un impero. Si tratta, per il cittadino di proiettarsi in un nuovissimo orizzonte. Nell'impero egli non ha la possibilità di vedere la sede del potere politico stesso . La sede si trova dove Alessandro è in quel momento si trova. Il cittadino dunque non sa più affermare di conoscere i principi che regolano la polis. L'impero di Alessandro determina il sentirsi spiazzato sotto il profilo del conoscere e del percepirsi. La politica diventa inafferrabile, così come l'organizzazione politica. Bisogna considerare anche l'aspetto religioso. Nel corso dei secoli in Grecia si elaborò una particolare prospettiva religiosa, come religione comune, che poi si declinava nelle singole polis. La religione è il luogo in cui il potere si simbolizza al fine di farlo rispettare. I greci avevano la percezione che gli dei dell'olimpo esercitassero le loro funzioni in riferimento a tutto il territorio della Grecia, anche se ogni città aveva un proprio Dio che presidiava e proteggeva la città stessa. Il compito di rappresentare il nume tutelare della città, e dunque dello stato. Ogni divinità veniva onorata secondo diverse modalità e liturgie che avevano però la stessa medesima funzione: fornire aiuto alla città stessa ingraziando la divinità destinataria del culto . Le divinità sono dunque figure che si iscrivono in un modello di una religione di tipo civile: la divinità esercita la funzione di difesa e rappresentanza simbolica. Riprendendo il discorso di Alessandro e dei cambiamenti rispetto alla polis (da polis a impero), l'aspetto religioso cambia notevolmente. Viene meno il significato della divinità come nume tutelare della città: la città perde la propria autonomia e l'autarchia, diventando una pura autorità di tipo amministrativo. Con l'impero sfuma la rappresentazione sacra del potere politico. Le divinità vengono detronizzate, perdono il loro ruolo. Il cittadino si trova smarrito anche davanti alla religiosità che aveva fortemente caratterizzato la sua esperienza. Le poleis sono solo unità amministrative, provincie, che chiaramente mantengono una organizzazione burocratica interna ma vengono svuotate della loro autarchia, tant'è che le decisioni riguardanti la politica estera e più in generale, le decisioni più importanti vengono assunte da Alessandro o dai suoi successori. In ambito religioso, citiamo un caso: Il caso di Alessandro e dell'inchino. Dopo la conquista dell'Egitto, Alessandro si reca ad Atene e convoca gli ambasciatori (rappresentanti delle varie poleis). Egli, che si era sempre presentato come capo militare, stratega, e sembra rendersi conto dell'avvenuto cambiamento nonché della perdita di funzione del simbolismo religioso tradizionale. Egli infatti chiede agli ambasciatori di inchinarsi/prosternarsi/genuflettersi davanti a lui . Questo atto, sempre stato inoltrato solo nei confronti della divinità, viene richiesto agli ambasciatori davanti al nuovo re (e non dunque ad una divinità). Qualcuno si rifiuta, uno muore. La difficoltà di accogliere tale richiesta va cercata nella difficoltà dei greci di avvertire quell'uomo, che in modo accidentale incarna potere politico, e dunque di venerarlo come un Dio. Alessandro difficilmente poteva essere considerato un Dio dai greci. Egli voleva dimostrare che la sua figura era legata alla divinità: ciò però era estraneo alla mentalità greca. Alessandro aveva mutuato tale ritualità dalle monarchie orientali. La divinizzazione del monarca però era estranea alla storia della Grecia. La politica non è più oggetto di un fare competente, come vedevano Platone e Aristotele, ma bensì amministrazione e sottomissione al sovrano. La polis è solo centro culturale, di affari e entità amministrativa. I cittadini non hanno più possibilità di conoscere tutti gli altri cittadini. Si avvertono come originariamente isolati dagli altri , come se fossero tenuti insieme solo da una forza esteriore, e non, com'erano abituati, dalla natura intrinseca della polis stessa. Questo cambiamento è epocale. E' l'emergere di una forma di individualismo, avviata dai sofisti, che ora si impone nella Grecia. L'uomo non si concepisce più come animale politico per natura, ma come membro dell'impero, individuo tra altri individui, come un atomo, è un singolo, suddito. Questo è uno dei tratti fondamentali dell'ellenismo. L'uomo come individuo ha preoccupazioni nuove, cerca di capire come essere felice nella nuova situazione. Ciascuno interpreta la felicità come sua aspirazione personale, non condivisa e non condivisibile con gli altri. LE NUOVE CORRENTI FILOSOFICHE, a partire dalla morte di Magno, cercano di dare spiegazione alla nuova realtà imperiale, rassicurando gli uomini indicando a ciascuno la via per raggiungere la felicità propria , non più intesa come massima realizzazione delle potenzialità in una comunità della quale si è protagonisti. Emergono due scuole distinte fondate in Atene sul finire del 4 secolo: 1.scuola epicurea 2. scuola stoica (Venne fondata anche la scuola cinica, ma è meno rilevante culturalmente parlando) La scuola epicurea Premessa:a parte una massima manifestazione nella cultura latina nella persona di Lucrezio, non ha conosciuto altri grandi esponenti. Lucrezio scrive il De Rerum Natura che viene presentato anche come fonte necessaria per conoscere l'epicureismo. Fondata da Epicuro (341 - 270 a.C.). Egli si reca ad Atene tra il 310 e il 305 e fonda la “Scuola del giardino” (nome dal luogo dove si trovava, appunto in un giardino) dove raccoglieva i suoi seguaci. Qui egli dispensa i suoi insegnamenti, per conseguire la felicità, non è intesa da tutti gli uomini e nemmeno acquisita da tutti nello stesso modo. Epicuro si rivolge agli uomini saggi (pensando a sé come saggio). Felicità è intesa da loro come atarassia, ovvero assenza di turbamento. 5 Il saggio è colui che non si lascia turbare da alcun che, è imperturbabile. (Più avanti si dirà che è colui che si fa muovere non da impulsi ma da ragione, o comunque controlla i propri impulsi). L'uomo è turbato dalle passioni, ma il saggio non deve farsi toccare dalle paure e sconfiggerle. Le paure ataviche dell'uomo sono: 1. Dei (paura degli dei) 2. Morte (paura della morte) 3. Non riuscire a realizzare il bene 4. Dolore. Epicuro cerca di sconfiggere tali paure ancestrali con dei ragionamenti molto semplici che rinviano ad una maniera particolare di intendere la natura, il mondo. Infatti la realtà, per Epicuro, si caratterizza per essere costituita esclusivamente da atomi, i quali compongono tutti i corpi. Concezione materialistica della realtà. Gli atomi in origine si muovevano tutti parallelamente tra loro, i corpi hanno avuto origine casuale perché in realtà gli atomi, che appunto si muovevano secondo rette parallele, si scontravano con un clinamen, piano inclinato. Grazie al piano inclinato gli atomi hanno potuto accidentalmente unirsi e costituire tutti i corpi. Esiste solo la materia, null'altro. Con questa concezione materialistica della realtà, della physis, Epicuro riesce a sconfiggere le paure ancestrali dimostrando la loro inconsistenza. Vediamo, con lo stesso ordine delle paure ancestrali, l'applicazione della concezione materialistica di Epicuro. 1. Dei Se l'uomo è un corpo formato da atomi, non dovrà aver paura degli Dei dato che essi non si curano degli uomini in quanto vivono in posti chiamati "intramundi" <tra i mondi> . Se si occupassero degli uomini perderebbero la loro imperturbabilità che in quanto dei hanno. Non occupandosi dell'uomo, essi non elargiscono premi e nemmeno castigano gli uomini dopo la morte e durante la vita. Dunque è infondato il timore dell'uomo contro gli dei. 2. Morte La morte stessa non deve essere oggetto di paura. Il corpo dell'uomo è un aggregato di atomi, quella che noi chiamiamo anima è formata da atomi più leggeri rispetto agli altri. Con la morte cambia semplicemente la composizione d'atomi ma avviene quando l’uomo è morto e non ha più consapevolezza e ragione di sé stesso (essendo morto) e non c'è più alcun senso a parlare di paura. Quando c'è la morte non c'è l'uomo, quando c'è l'uomo non c'è la morte. Questa paura sembra dunque svuotata di significato, risultando infondata. 3. Paura di non riuscire a realizzare il bene E' facile fare il bene, non è così difficile. Fare il bene vuol dire seguire pratiche che permettono di raggiungere la felicità intesa come atarassia. Piacere e dolore sono generati da corpi esterni all'uomo. Tali corpi esercitano delle pressioni materiali e fisiche sul corpo umano, da cui originano sensazioni che determinano tutta la conoscenza. 4. Dolore Non ha senso aver paura nemmeno del dolore: se il dolore è acuto dura poco, se il dolore si cronicizza il corpo dell'uomo si abitua, i suoi atomi si abituano e dunque il dolore diventa parte del corpo, e viene in un certo senso metabolizzato. Come porre fine alle paure? La ragione dell'uomo, facoltà deputata alla conoscenza (la conoscenza ha origine a partire dalle sensazioni) è quella facoltà che gli consente di prendere coscienza del fatto che la realtà è atomi, e porre fine a tutte le paure¸ capendo che sono infondate. Per Epicuro la vita è affidata al caso e non ha alcun fine. Questa è una grande differenza tra filosofia epicurea e filosofi classici. Epicuro elabora una teoria relativa ai piaceri indicando quali possono essere dal saggio assecondati per mantenere lo status di "saggio" e per conservare o raggiungere l'atarassia. Epicuro distingue tre categorie di piaceri: 1. Piaceri naturali e necessari: bisogni primari come mangiare, bere, dormire. Vanno assecondati con moderazione, senza eccedere. In riferimento al cibo, il saggio epicureo soddisfa la fame quando non si lascia andare agli eccessi, mangiando cibi semplici. Cotture elaborate possono determinare dei disturbi. Dunque la vita regolare e moderata sotto il profilo dei piaceri, è l'unica via per realizzare felicità, atarassia. 2. Piaceri naturali e non necessari: Tra questi rientrano anche i piaceri legati alle facoltà riproduttive dell'uomo. Il saggio evita di riprodursi se è il caso. 3. Piaceri non naturali e non necessari: In primo luogo troviamo il desiderio degli onori di una vita pubblica in cui si vuole emergere ed essere onorati dagli altri uomini. Il saggio epicureo è colui che cerca di soddisfare esclusivamente i piaceri naturali e necessari, e limitatamente soddisfa i piaceri naturali e non necessari, si tiene lontano dall'accogliere e dunque dall'assecondare i piaceri non naturali e non necessari. Il saggio epicureo, di conseguenza non parteciperà alla vita politica, non aspirerà a cariche politiche e magistrature ma anzi si terrà lontano dalla vita pubblica cercando di vivere insieme con i suoi amici saggi, i quali insieme a lui, perseguono la felicità secondo le vie indicate (inseguendo piacere naturale e necessario). Se egli segue i precetti di Epicureo necessariamente sarà felice: non necessita alcun potere esterno. Il suo motto è "vivi nell'ombra, vivi nascosto. Solo coloro che non sono saggi assecondano e raggiungono i piaceri non naturali e non necessari. Epicuro però constata che non tutti gli uomini sono dei saggi. I non saggi, sono certo uomini, ma hanno un valore simile a quello delle pietre, non valgono nulla. Essi tendono a soddisfare i piaceri naturali e non necessari, e non naturali e non necessari, proprio perché non si rendono conto che facendo così non saranno mai felici. La presenza degli insipienti determina una necessità. Infatti molti uomini non sono sapienti, sono preda della passioni. Essi potrebbero disturbare in modo diretto o indiretto la vita del saggio. Allo scopo di assicurare la pace nella società e di consentire l'ordine della società, saggi e non saggi si accordano per istituire una società (dunque un potere politico), Il potere politico non ha quindi origine naturale ma nasce per convenzione. Tale accordo permette ai saggi di continuare a vivere nella atarassia o di inseguirla, ai non saggi di soddisfare i piaceri nat e non nec e nn nat e nn nec. La legge positiva, emanata dal potere politico, ha lo scopo di rendere innocui gli insipienti in modo che non nuocciano ai saggi. La giustizia, per gli epicurei ha profilo esclusivamente legale, perché essa è intesa come conformità alla legge, in quanto il potere politico è deputato alla conservazione dell'ordine. 5 Non vi è una miglior forma di governo poiché se il saggio si mantiene lontano dalla vita politica, gli uomini politici non sono saggi. La scuola stoica Zenone di Cizio fonda, dieci anni dopo Epicuro, una scuola ad Atene, tesa a diffondere un insegnamento contrario rispetto a quello che Epicuro stava trasmettendo. Gli esponenti di spicco della scuola stoica sono, oltre a Zenone: Cleante, Crisippo, Panezio di Rodi. Essi sono i maggiori esponenti dello stoicismo in Grecia. Lo stoicismo, oltre che in Grecia, trovò terreno fertile nella cultura romana e anche a Roma vi furono quindi esponenti come Seneca (Sèneca accento), Epitteto, Marco Aurelio. La scuola fondata da Zenone è detta stoica perché trova la sua ubicazione sotto un portico, che in greco viene detto "stoà". Lo stoicismo non solo si diffonde nei territori dominati da Roma, ma trova accoglimento anche nei primi autori del Cristianesimo. Lo stoicismo viene riscoperto in età moderna a partire dall'umanesimo, e influenza le concezioni del diritto naturale laico, benché tra gli esponenti della scuola del diritto naturale laico, che si diffonde dal diciassettesimo secolo in avanti, la filosofia di Hobbes presenti delle somiglianze più con la scuola epicurea che con la scuola stoica. Anche nel linguaggio comune, parlando di atteggiamento "stoico" ci si riferisce ad un comportamento rigoroso moralmente, che denota coraggio e forza d'animo, adesione intima al dovere da compiere. Diversamente, parlando dell'epicureo, si pensa a chi non si lascia andare al divertimento ed ai piaceri. Non coincide dunque con la filosofia epicurea. La severità etica ha proprio a che fare con il dovere da compiere. Diverse opere degli stoici parlano di dovere già dal titolo d'opera. La scuola stoica esprime principi filosofici anti materialistici e offre una via ascetica per il raggiungimento di una felicità concepita come apatia. Non tanto assenza delle passioni, che comunque vengono provate, ma piuttosto dominio delle passioni. Il mondo non è un tutto composto da atomi casualmente uniti per dare origine ai corpi. Il mondo è cosmos , un tutto ordinato, in maniera univoca, da un principio metaempirico, ordinatore della natura, del mondo stesso, c he essi definiscono come " logos " . Logos, in greco ragione, parola, discorso, è per gli stoici la divinità. Non solo il logos è il principio ordinatore del mondo, ma inoltre si manifesta in modo completo nella natura stessa. (Come capiterà in età moderna con Spinoza, così accade per gli stoici: il logos è intrinseco e immanente nella natura e non trascendente rispetto al mondo stesso,non vi è divaricazione tra principio e mondo stesso). Concezione immanentistica della realtà. Il logos è il principio della realtà ed è presente anche in ciascun uomo come ragione. Lo scopo della vita dell'uomo è conoscere , ricostruire sulla base della ragione, l'ordine proprio del mondo e dell'universo. Ciò è possibile a partire dalle sensazioni che non vengono negate e costituiscono la prima fase della conoscenza, grazie ad esse percepisce originariamente sé stesso e il proprio corpo come qualcosa diviso dal resto del mondo . E' una conoscenza originaria di sé stessi da cui poi parte tutto il processo conoscitivo e l'identità dell'uomo viene percepita attraverso questa sensazione originaria (che in greco si dice oikeiosis: originaria percezione di sé stesso). Non c'è una indistinzione dell'uomo rispetto alla realtà. Ogni uomo è partecipe del logos, è anello della natura (ovvero è partecipe della natura stessa), ma è un anello che si distingue dagli altri. S olo dell'uomo questa facoltà di conoscere la realtà e di poter ricostruire l'ordine del mondo. Immanente=interno Il mondo si articola secondo una gradazione . Il logos permea ("impregna") di sé tutta la natura, uomini e cose e partecipa in modo diverso in tutti gli oggetti e enti. Da un livello più basso ad un livello più elevato. Il mondo è rappresentazione che il logos fa di sé stesso, può essere conosciuto a pieno, solo da ciò che nel mondo stesso si trova in una condizione gerarchicamente attua a tale conoscenza. Il livello più elevato si trova nell'uomo. La ragione dell'uomo è omogenea rispetto al mondo e attraverso la sua ragione l'uomo riesce a costruire l'ordine universale. Per questa sua superiorità ontologica e assiologia l’uomo è al di sopra di tutti gli enti, gli esseri. L'uomo cioè vale più di tutti gli altri esseri nel mondo e dunque all'uomo spetta il dominio sul mondo/natura stesso/a. Tutti gli uomini sono dotati di logos e dunque di ragione, tutti gli uomini sono uguali tra loro. Questa è una novità nella cultura greca: tutti gli uomini sono uguali perché dotati di logos. La conoscenza, che è il massimo compito dell'uomo in quanto essere dotato di ragione, non ha carattere intuitivo: certamente muove dalle sensazioni e dalla percezione originaria del proprio corpo, ma questo è solo un primo passo. Essa (la conoscenza), viene poi rielaborata e condotta/conquistata a livello razione ed è tesa a ricostruire l'ordine del mondo stesso. Lo scopo della conoscenza, per gli stoici, è quello di ricostruire e rappresentare attraverso la ragione l'ordine che è proprio del mondo. Questa conoscenza razionale è conseguibile solo se gli uomini non si lasciano dominare dalle passioni: solo prescindendo dalle passioni è possibile fare astrazione dalla conoscenza delle sensazioni e ricostruire l'ordine del logos. L'ordine del logos/del mondo non solo deve essere rappresentato e individuato dall'uomo, ma l'uomo ha anche il dovere di mantenere tale ordine. Bisogna ammettere che in queste prospettive dell'immanenza sia negata la libertà, dato che ciò che è coincide con ciò che deve essere. Non tutti gli uomini, anche se sono uguali, riescono a ricostruire l’ordine del mondo con il dominio delle passioni. Ecco che anche gli stoici distinguono tra saggi e non saggi. Poiché ciascun uomo è portatore di logos , ciascun uomo è un essere morale e libero ed è titolare di infinita dignità e destinatario di un necessario rispetto, in quanto uomo e portatore del logos. Proprio perché esseri liberi, scelgono di dominare le loro passioni e altri di farsi trasportare. Il dominio delle passioni è raggiungibile tramite un percorso ascetico. L'ascesi prescrive un controllo di sé, una via di dominio e di continenza che è precondizione necessaria al raggiungimento della saggezza. Tutti gli uomini sono dotati di logos, ma poi la saggezza non è un dato naturale per tutti gli uomini: saggezza è un obiettivo da raggiungere, un dovere a cui finalizzare le proprie azioni. Il fatto che tutti gli uomini siano portatori dotati di logos dice che gli uomini sono esseri sociali per natura , perché per natura essi sono affratellati dalla presenza in ciascuno del logos e hanno il fine di costruire una società. (Uguaglianza stoica) 5 ricchezze sufficienti potevano dotarsi di una armatura. Essi erano dunque rappresentati in Senato. Il Senato aveva il compito di selezionare le proposte di legge che poi sarebbero diventate effettive. Tribuni della plebe: incarnano l'elemento democratico. Rappresentano quello che ora noi definiamo potere legislativo, i diritti della plebe, del popolo. Il diritto a Roma si era formato giurisprudenzialmente, n on era sorto come emanazione dal potere politico. Ogni anno il pretore esponeva alcune tavole in cui elencava le leggi che in quell'anno egli avrebbe utilizzato, dunque non tutte. La formazione giurisdizionale del diritto significa che esso prende vita a partire dalla considerazione della realtà, dei rapporti tra persone e delle persone con le cose. Dall'osservazione della realtà gli operatori del diritto (avvocati e giudici) individuavano lo ius, ovvero il diritto, che risiede nella realtà stessa. Rendere giustizia, o dire “diritto", è per i romani "dare a ciascuno il suo": suum cuique tribuere. Nei rapporti tra persone o tra persone e cose, trovare ciò che è proprio di ciascuno - il suo di ogni rapporto e di ogni uomo, avviene attraverso la virtù della prudenza e viene fatta valere nei tribunali. Per tornare a Polibio dunque, la sua grandezza risiede nell'aver individuato nella costituzione mista quell'opera di ingegneria costituzionale che consente allo stato la maggior stabilità possibile nei rapporti di forza che sempre hanno luogo nelle procedure di potere. Anche la costituzione mista è sottomessa alla legge della caducità e ad un certo punto essa cadrà. Polibio individuava nella politica agraria dei Gracchi una delle tappe che avrebbero portato alla degenerazione della repubblica di Roma. I RAPPORTI TRA CRISTIANESIMO E POTERE POLITICO Da circa duemila anni la società europea si è sviluppata ispirandosi alla cultura ebraico- cristiana e a quella greca. La cultura ebraico-cristiana non si manifesta in termini filosofici ma più dal punto di vista sacro per i testi di riferimento per queste due religioni. Pochi accenni questi testi rivolgono al potere politico infatti non troveremo dunque una coerente ed esplicita nonché rigorosa teoria del potere politico, né potremo accennare ad una costituzione migliore. E' indubbio che il cristianesimo ebbe notevole influenza sul pensiero politico. Il pensiero politico moderno è considerato come secolarizzazione del pensiero cristiano. Il pensiero politico moderno non è comprensibile se non alla luce del portato del cristianesimo. I teorici dello stato liberale (Locke), dello stato assoluto (Hobbes), e dello stato democratico (Rousseau), esprimono concezioni che rappresentano una secolarizzazione dell'originario pensiero dalle innegabili radici teologiche. In particolare facciamo riferimento alla predicazione di Gesù di Nazareth (nasce 750 anni dopo la fondazione di Roma, nel 4a.C.) La predicazione di Gesù di Nazareth avviene nell'ambito della tradizione ebraica e si innesta in essa innovandola profondamente . Gli ebrei individuavano una grande differenza della loro prospettiva rispetto a quella dei greci: religione tipicamente monoteista, si caratterizza non solo per la presenza di un solo Dio (nell'Olimpo greco vi era il politeismo), onnisciente ed onnipotente ma, diversamente dalla prospettiva greca in particolare, il Dio degli ebrei crea la realtà. Il Dio ebraico è il Dio che ha creato il mondo, che ha creato la materia e che orienta il mondo e la materia verso un fine ultimo . Dio stato riconosciuto solo dal popolo ebraico con il quale ha stretto una alleanza del tutto particolare. Questa alleanza, nella traduzione latina della Bibbia, si dice "Testamento". Dio stringe una alleanza con il popolo ebraico attraverso i grandi profeti e patriarchi: Abramo, Isacco, Giacobbe (detto Israele), Mosè. Il Dio degli ebrei stringe un patto con gli ebrei, e questo patto vincola il popolo ebraico, mediante diversi riti, al rispetto del patto stesso subordinato all'ubbidienza alle leggi che Dio darà. Tali leggi sono orientate a rendere felice il popolo ebraico. Dio proteggerà il popolo ebraico se il popolo ubbidirà alle leggi date dallo stesso Dio. La storia del popolo ebraico è la storia dei rapporti tra il popolo e Dio . Il popolo viene considerato eletto perché con esso Dio istituisce un rapporto privilegiato. Fino ad un certo punto della sua storia, il popolo ebraico conobbe una organizzazione che prevede la presenza di diverse tribù, senza che fosse presente una forma costituzionale (o di governo, fino all'età moderna forma stato/governo è stessa cosa) e veniva considerato una forma teocratica pura: il re era Dio stesso . Dio non trasmetteva il potere ad un monarca (che lo esercitava in nome e per conto di Dio), ma Dio direttamente governava il popolo ebraico. Dio esercitava il potere attraverso personaggi eminenti come giudici e profeti. I profeti esprimevano il volere di Dio e a volte si opponevano duramente ai costumi del popolo ebraico, che si stava allontanando dalla legge divina. I comandi di Dio sono espressi in due tavole che Dio stesso detta sul monte Sinai a Mosè. In esse sono presenti i 10 comandamenti. La prima tavola raccoglie i comandamenti che Dio impone agli uomini, la seconda elenca la condotta da tenere da parte degli uomini nei confronti dei loro simili. Il rispetto della legge garantisce ed assicura la felicità al popolo ebraico. "Vi do questi comandamenti perché siate felici voi e i figli dei vostri figli...". L'obiettivo è dunque la felicità intesa in senso totalmente terreno. Il tema della felicità è affrontato anche dagli stoici e dagli epicurei, come una felicità che era scopo della vita nella polis, seppur intesa in modo peculiare. L'infrazione delle norme sancite dal patto da parte del popolo ebraico provocava l'ira di Dio e ha determinato tutte le vicissitudini, deportazioni in Egitto, Babilonia, ecc che il popolo ebraico ha conosciuto nel corso dei millenni. Le disavventure storiche, deportazioni, erano e sono sempre lette come una sorta di punizione di Dio verso il popolo che si era allontanato dal rispetto della legge. Attorno al 330 a.C. il popolo ebraico chiede a Dio di avere un re, come tutti gli altri popoli. Dunque chiedono a Dio di rinunciare al dominio diretto sul popolo ebraico. L'ultimo dei giudici, Samuele, viene sostituito dal primo RE : Saul (significa unto da Dio). Dio aveva rifiutato inizialmente di accogliere la richiesta del popolo ebraico, aveva fatto notare tutti gli 5 aspetti negativi che una monarchia poteva comportare per il popolo: i re chiedono di pagare le tasse ai sudditi, i re chiedono i figli delle famiglie per formare gli eserciti, i re possono comandare, condannare a morte, possono far rispettare la propria legge e non quella di Dio. Il popolo ebraico chiede comunque un re. Saul non fu grande re: portò subito gli ebrei in guerra. Il re avrebbe rischiato di sostituirsi a Dio e non avrebbe garantito la felicità del popolo essendo un sostituto divino ma non perfetto come un Dio. Inizialmente, la costituzione monarchica viene considerata nella prospettiva ebraica in termini molto critici e polemici e allontanamento del popolo nei confronti della divinità. Dio(Yahweh, Iavé) ha assicurato al popolo ebraico l'avvento di un messia, che nella storia sarebbe intervenuto instaurando il regno di Dio sulla terra che il popolo ebraico tutt'ora attende. La prospettiva messianica del popolo ebraico non è ultraterrena ma è destinata a realizzarsi sulla terra. Per questo aspetto, si intuisce già una delle differenze che caratterizzerà Cristianesimo rispetto all'Ebraismo. Il Cristianesimo si contraddistingue per la sua prospettiva ultra mondana . Ogni costituzione sarà imperfetta e transeunte (destinata a perire). L'avvento di Cristo e la predicazione che nell'arco di 2/3 anni egli diffonde nella Palestina, si innesta nella cultura ebraica modificandola, inserendo elementi nuovi. La predicazione suscitò diverse reazioni. Per alcuni è Dio, per altri profeta, per altri solo uomo, per altri mai esistito. L'attenzione nei confronti di un mondo ultraterreno nel popolo ebraico era stata introdotta dalla setta degli Esseni. Sembra che Giovanni Battista ne fosse membro. La predicazione sembra agli ebrei tradizionalisti, (farisei, sadducei), predicazione blasfema (costui si proclamava figlio di Dio, non prefigurava l'avvento del regno di Dio in questo mondo), e idolatrica. Parleremo di alcuni passi dei testi sacri del Cristianesimo riguardo il potere politico. La Bibbia è il testo sacro di riferimento. Il messaggio di Cristo si può leggere in alcuni testi inclusi nel Nuovo Testamento. Il primo testamento stipulato tra ebrei e Dio (monoteista) era un patto che prevedeva l'assegnazione agli ebrei di una terra - terra di Canaan - che Abramo avrebbe dovuto raggiungere dopo il suo viaggio sulla base della fiducia nei confronti di Dio. Questo sarebbe stato il primo vantaggio che Abramo avrebbe potuto avere dall'aderire al volere di Dio. L'alleanza si era resa necessaria dopo che gli uomini, o meglio l'uomo, creato ad immagine e somiglianza di Dio, maschio e femmina (l'immagine di Dio si ha con la duplicità dei generi), collocato in un giardino dell'Eden (in cui si vive esenti da dolore, ignoranza, morte e liberi) disubbidisce, nutrendosi di un frutto (non è detto si trattasse di una mela) che Dio aveva vietato. In seguito a questo atto, considerata ribellione a Dio e peccato originale, gli uomini - Adamo ed Eva - sono stati cacciati dall'Eden e introdotti nella loro esistenza, nella morte, nell'ignoranza, nel dolore e il lavoro sulla base del dolore. Si rendeva necessario purificare la natura dell'uomo e propiziare Dio attraverso dei sacrifici con immolazione di animali o riti diversi di purificazione tra gli uomini. Gli uomini dovevano dunque purificarsi per potersi avvicinare al cospetto di Dio. La nuova alleanza è stretta tra Dio e tutti gli uomini, e non solo con un popolo solo. Questa alleanza si realizza sulla base di un sacrificio che non riguarda più gli animali e che non prevede più una serie di riti di purificazione ma è un sacrificio assoluto che prevede l'immolazione da parte del figlio di Dio stesso il quale, grazie alla sua morte, prende sulle sue spalle tutti i peccati degli uomini espiandoli definitivamente. La predicazione di Gesù è leggibile nei 4 vangeli e nelle epistole. Questi testi sacri hanno carattere poco politico ma esprimono comunque alcune teorie del messaggio cristiano che influenzeranno la storia umana europea durante tutto il Medioevo e l'eta moderna. Passo "Date a Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio", Vangeli sinottici (Marco, Matteo, Luca). I farisei rivolgono una domanda a Gesù: è giusto pagare il tributo a Cesare? Gesù chiede che gli venga consegnata una moneta, e poi chiede "di chi è l'immagine sulla moneta?" I farisei rispondono "Di Cesare". Gesù allora dice: "Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio". Da qui si possono elaborare alcune considerazioni riguardanti la concezione del potere politico secondo il Cristianesimo. A quei tempi la Palestina era un protettorato romano e aveva perso la sua dipendenza. I romani erano considerati gli invasori. Pagare un tributo a Cesare non era visto di buon grado. I farisei erano gli ebrei più osservanti e nell'Antico Testamento sono contenute una serie di prescrizioni che gli ebrei devono praticare tutti i giorni, sono circa 400. Se la risposta fosse stata positiva (si è giusto pagare tributo a Cesare), Gesù si sarebbe schierato dalla parte dell'occupazione romana. Se la risposta fosse stata negativa (non è giusto pagare alcun tributo a Cesare), avrebbe potuto essere accusato di andare contro Cesare e il suo potere politico. Teoricamente, qualsiasi fosse stata la risposta, Gesù sarebbe potuto essere accusato o da una parte o dall'altra. La risposta di Gesù da un lato comporta il riconoscere l'esistenza di un potere politico e comporta l'affermazione che il potere politico, in quanto c'è, esiste e si pone come fatto, è un potere legittimo. Non se ne discute l'origine, non ci si chiede perché Cesare comanda. Gesù dice che non esiste solo il potere di Cesare al suo fianco c’è la divinità. A Cesare e alla Divinità si deve rendere ciò che è loro dovuto. Si tratta di una affermazione formale. Dire Cesare infatti è dire il potere politico. Dire"dare a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio ..." non indica cosa si debba dare e a chi. Ciò che dobbiamo presumere è che ciò da dare a ciascuno sia ciò che spetta a ciascuna autorità. Ricordare che il diritto è "dare a ciascuno il suo". Con quella frase di Gesù si vuole dire compiere una atto di giustizia. Se Cesare può pretendere un tributo, la sua autorità è legittimamente costituita e va ubbidita, qualsiasi essa sia la sua origine. Tuttavia non tutto va dato a Cesare, ma solo ciò che a lui spetta. Con questa frase si segnano due ambiti distinti: • ambito del potere politico • ambito dell'aspetto religioso Qui si delimita l'influenza senza tuttavia precisare il conflitto: qualcosa va dato a uno, qualcosa a un altro. Significa distinguere la politica dalla religione, attribuendo all'una e all'altra significato e funzioni distinti. Prima di questa frase, il potere politico avveniva con simboli religiosi. Dunque segna una "spaccatura". 5 Nei Vangeli non si trovano altri approfondimenti, tuttavia nelle epistole di San Paolo possiamo trovare (soprattutto nella Lettera ai romani) una teoria dell'origine del potere politico . Paolo di Tarso è considerato un apostolo anche se egli mai aveva conosciuto Gesù in vita. Egli era un fariseo e combatteva i cristiani. Ricevette una rivelazione privata e da quel momento divenne colui che promosse la diffusione del messaggio di Cristo presso i Gentili. Gentili = non ebrei. Gentili deriva da gentes. L'alleanza che è stata instaurata da Cristo non riguarda più solo il popolo ebraico ma tutti gli uomini. Paolo era dotato di buona cultura classica, conosceva il greco, era cittadino romano. La epistola ai Romani merita particolare interesse. Dalla lettera ai Romani: "Ognuno sia soggetto alle autorità costituite, perché ogni autorità viene per prima. E tutte le autorità che esistono vengono da Dio. Chi si oppone all'autorità si oppone all'ordine stabilito da Dio e attira su di sé la condanna. L'autorità è ministra per il tuo bene e dunque è necessario essere soggetti alle autorità costituite non solo per timore della punizione ma per motivo di coscienza" I cristiani devono rimanere sottomessi alle autorità politiche perché ogni potere viene da Dio. Le autorità, istituite sulla terra, siano esse buone o cattive, devono essere ubbidite perché sono espressione della volontà di Dio. La forma buona di potere è considerata forma di benevolenza da parte di Dio verso il popolo. Il potere malvagio è invece punizione di Dio verso il popolo che si è allontanato dall'osservazione della sua legge. Paolo invita i cristiani ad ubbidire, non solo per convenienza (timore della punizione) ma in coscienza. Paolo non precisa i motivi per cui si debba ubbidire in coscienza. Questo atteggiamento egli lo richiede, in particolare, ai cristiani di Roma. Nell'orto degli ulivi, luogo in cui Gesù viene catturato, quando arrivano i soldati, uno degli apostoli, cercando di opporsi, dice "abbiamo due spade". La risposta di Gesù è “satis”="basta". Cristo invita a riporre la spada. I medievali la interpretano come allusione all'esistenza di due poteri necessari e sufficienti per governare il mondo. Parlare di 2 spade vuol dire preludere alla legittimazione di due distinti poteri: potere regale e autorità sacerdotale. L’invito a non usare la spada è segno della delegittimazione dell’uso della forza, sia nella Chiesa sia al di fuori. Nella prospettiva cristiana il potere politico è legittimo non perché rivolto al bene ma senza motivo, e si impone come potere in quanto tale, imposto come patto: esso va rispettato ed ubbidito.. Dopo la morte di Cristo, il potere nelle comunità attorno agli apostoli che avevano condiviso la vita con Cristo, è un potere che a poco a poco si istituzionalizza. Lo fa attraverso successioni apostoliche ininterrotte (potere che si trasferisce da apostolo a apostolo). Il potere temporale e spirituale sono entrambi considerati come poteri di questo mondo ma in una certa maniera vengono considerati come fossero proiettati in un futuro ultraterreno. Ora il potere degli vescovi hanno la loro origine nelle figure degli apostoli. Al di là dei testi, l'atteggiamento del Cristianesimo nei confronti del potere politico può essere presentato in 3fasi: Primo periodo: dalla morte di Cristo per uccisione Attesa del Regno Messianico. L'atteggiamento dei cristiani è segnato da indifferenza e estraneità. I primi cristiani vivevano nell'attesa della seconda venuta di Cristo, considerata imminente. Essi convogliavano le proprie energie e forze per essere accolti nel regno di Dio all'arrivo di Cristo. Secondo periodo: dal 60-65 d.C. fino al 170. Si assiste ad un mutamento di prospettiva, legato a ragioni storiche. La religione cristiana infatti comincia ad essere osteggiata sempre più dal potere politico romano. Per questo i cristiani sono stati oggetto di persecuzioni. Come conseguenza, i cristiani manifestano un atteggiamento combattuto e ambivalente: da un lato incombe il comando divino di dare a Cesare quel che è di Cesare (a cui si somma l'ammonimento di Paolo che obbligava ad ubbidire in coscienza), dall'altro lato sorge il dubbio che il potere politico malvagio e liberticida non sia proprio di una divinità e votato dunque da Dio, e perciò possa essere in questo caso non ubbidito. Il problema sorge quando l'imperatore chiede che gli venga tributato un atto di culto personale. Così come l'ambasciatore perse la testa perché si era rifiutati di prosternarsi con Alessandro Magno, così i cristiani che si rifiutano di dare il culto all'imperatore vengono condannati. La religione cristiana viene praticata clandestinamente. C'è poi un aspetto che riguarda il rapporto dell'impero romano con le religioni monoteiste, con ebraismo prima e cristianesimo poi. I romani erano noti per la loro tolleranza di tipo religioso, tanto che quando un nuovo territorio veniva sottomesso i romani non cancellavano costumi e pratiche religiose originarie ma anzi includevano le divinità del nuovo territorio sottomesso,il Dio/Dei del popolo acquisito, nel loro Pantheon. Il dio monoteista, il Dio degli ebrei e il Dio dei Cristiani, non poteva entrare nel Pantheon: o lui o tutti gli altri, dato che era unico. I cristiani si sentono legittimati a disubbidire ai comandi dell'imperatore dato che egli chiede atto di culto verso sé stesso: improponibile per i cristiani. L'imperatore è considerato quasi come incarnazione dell'anticristo. Il secondo periodo prevede grande diffidenza verso il potere politico. Terzo periodo: editto di Costantino nel 313. Tale editto rende lecito il culto cristiano nei territori dell'impero. E' di questi tempi il trasferimento della capitale dell'impero da Roma a Costantinopoli. La cosa non è irrilevante. Prima di Costantino bisogna tener conto che già l'imperatore Aureliano aveva cercato di introdurre una qualche forma di monoteismo nell'Impero, "inventando" il culto del Sole Invictus che avrebbe dovuto prevalere su tutte le altre forme praticate nei territori. Il matrimonio tra Cristianesimo e Impero Romano avviene con Teodosio che, con l'editto di Milano nel 380 riconosce il Cristianesimo come religione ufficiale dell'Impero , non più una libera scelta. Infatti se la religione cristiana, cattolica è la ufficiale dell'impero romano, tutti gli abitanti dell'impero solo per il fatto di abitare in quelle terre sono ipso facto cristiani, a prescindere dalle loro preferenze. Con la caduta dell'impero romano, a seguito delle invasioni dei barbari si crea una situazione di vuoto di potere (aggravata dal cambio di capitale a Costantinopoli). Il vuoto di potere viene riempito dalla Chiesa di Roma che approfitta del vuoto. Il vescovo diventa così DEFENSOR CIVITATIS. L'organizzazione consente alla Chiesa di funzionare e darsi una organizzazione burocratica interna consentendo al Vescovo di assumere funzioni sociali e politiche oltre che religiose. La prospettiva cristiana diventa una prospettiva che accoglie positivamente il potere politico (da un certo periodo) ma che non può esaurire la sua portata in una dimensione terrena. L'atteggiamento dei cristiani verso il potere politico è positivo, a tal punto che la Chiesa inizia ad esercitare in proprio il potere. Ma l'attesa della seconda venuta di Cristo, e del compimento del 5 La dimostrazione della socialità però avviene diversamente rispetto ad Aristotele. La comunità che si costituisce naturalmente tra uomini è comunità di esseri che amano, conoscono, desiderano conoscere e amare e che dialogano tra loro. Essi sono in comunicazione tra loro perché tutti avvertono gli stessi desideri e la stessa incapacità (UNIVERSALITA’ DELLA DIVARICAZIONE ONTOLOGICA). Ma questa comunità non consente di superare la divaricazione ontologica, ovvero lo squilibrio desiderio/possibilità di realizzare il desiderio. Dunque, nemmeno tutti insieme gli uomini riescono a colmare la differenza tra sé stessi come soggetto e sé stessi come oggetto . Questa società è caratterizzata dalla universalità che si estende nello spazio e nel tempo. Nello spazio: gli uomini sono uniti tra loro in questa comunità naturale, in qualsiasi luogo si trovino perché tutti stanno in relazione con il principio metafisico e il rapporto che hanno con il principio è lo stesso per tutti. Tutti gli uomini si interrogano sul principio, tant'è che la comunità si estende anche nel tempo. Nel tempo: tutte le risposte che nella storia sono state date ai problemi riguardo l'essere o la divinità interpellano ciascun uomo e sono significative per lui che si interroga e che deve darsi delle risposte. La comunità si estende anche per il futuro perché le risposte date potranno essere valutate da coloro che succederanno. argomentata a partire da un desiderio che ciascuno ha in sé. Il "rientrare in sé stessi" ha certa rilevanza nella filosofia agostiniana. "Dentro l'uomo si trova la verità" dice Agostino. Il ritorno in sé stessi è un consiglio che egli offre per conoscere la verità (egli stesso lo ha fatto, cambiando profondamente la sua vita da giovane). Nel tornare in sé stesso l'uomo riconosce sé stesso in quanto creatura , e in quanto creatura limitata e imperfetta e dipendente non da sé stesso ma da qualcosa che lo trascende. Poiché la ragione da sé stessa è incapace di dar soddisfazione ai desideri più profondi dell'uomo, è una ragione imperfetta. L'uomo è un essere che dipende da altri e non esclusivamente da sé stesso. Ciò fa si che Agostino eviti tanto lo scetticismo tanto il dogmatismo. Dogmatismo che potremo far coincidere con la posizione espressa dalla filosofia stoica secondo cui il principio è l'essere, ovvero il logos, concepito immanentisticamente e attingibile in maniera quasi perfetta dal saggio. Posizione stoica secondo cui la verità esiste ed è conoscibile totalmente da colui che eserciti la ragione secondo le regole proprie della ragione stessa. La ragione, secondo questa filosofia stoica, è in grado di svelare l'ordine del mondo, di comunicarlo agli altri e di fare in modo che il dover essere coincida sempre più con l'essere. Agostino evita anche i rischi dello scetticismo. Questo si esprime negando l'esistenza della verità o riconoscendo l'incapacità di conoscere la verità. Agostino assume dunque una posizione mediana: la ragione è quella facoltà deputata alla conoscenza ma mai può conoscere in maniera perfetta e compiuta la verità, ovvero il principio. A livello gnoseologico, Agostino osserva che l'atteggiamento che deve essere proprio di ciascun uomo per conoscere la verità è un atteggiamento sapienziale: un atteggiamento formale che esprime una consapevolezza che l'uomo è in relazione con la verità che trascende il singolo (verità intesa come principio) e dei limiti della ragione umana. La sapientia dovrebbe caratterizzare ciascun uomo che cerchi la verità. Il contenuto della sapientia è la scientia. La scientia raccoglie tutte le conoscenze che l'uomo può acquisire nella sua vita studiando e ricercando ed è la conoscenza di tutto ciò che è finito e mutevole, transeunte. Scientia è conoscenza orientata al particolare. La conoscenza dell'uomo avviene in questa dinamica che si gioca nel binomio sapientia - scientia: per conoscere l'uomo inizialmente esce da sé stesso: questo è il primo momento della prima fase della conoscenza, definita progressus. Se rimanesse intimamente nel ragionare sul suo desiderio dopo aver identificato le conclusioni già viste, rimarrebbe inappagato. Dunque egli deve fare esperienza, incontrare altri uomini, incontrare le cose, arricchirsi, studiare. L'uomo deve distogliere l'attenzione rivolta a sé, trasferendola verso l'altro, però il principio si manifesta in ogni realtà (e quindi quella attenzione ultima verso il principio si manifesta nell'attenzione verso tutti gli enti). Dopo essersi disperso nell'attività conoscitiva fuori di sé, l'uomo deve infine far ritorno in sé stesso. Il secondo momento che chiude il circolo è il momento del regressus: bisogna tornare in sé perché solo in sé l'uomo può unificare il molteplice, scoprire cosa accomuna le diverse esperienze, passando dal molteplicità all'uno e all'unità. Le due fasi, uscita di sé (progressus) e rientro in sé (regressus) non sono in realtà distinte che si succedono diacronicamente: esse vengono separate nell'analisi ma nei fatti l'uomo congiuntamente conosce attraverso questi due momenti, quasi contemporaneamente. La conoscenza si esprime attraverso due coppie concettuali: sapientia/scientia da un lato, progressus/regressus dall'altro lato. Procedono e dicono aspetti diversi del percorso gnoseologico e che lo illustrano su piani differenti. De Civitate Dei “La città di Dio” è l'opera più rilevante di Agostino, è stata scritta per ribattere l'accusa che ai cristiani era stata mossa dagli ambienti pagani che ancora erano presenti tra i romani, come causa della decadenza dell'impero romano. Inizia ad essere "pensato" quando i visigoti di Alarico misero a fuoco Roma distruggendola, proprio perché questo episodio dimostrava l'inesorabile decadenza di Roma che non era più capitale. Agostino progetta questa opera 20 anni prima della sua morte, a partire dal Sacco di Roma (410d.C.). Opera significativa perché è di un uomo molto colto: è la prima sintesi tra filosofia classica e cristianesimo, cerca di metterne insieme le istanze. Cristianesimo che ancora non presentava una teologia propria. La morale cristiana viene indagata sotto il profilo della ragione . Agostino mette alla prova la ragione e la confronta con la fede. Indagheremo l'antropologia: com'è l'uomo secondo Agostino? Senza una adeguata concezione dell'uomo non è possibile capire la ragione e i suoi poteri. Le correnti filosofiche con cui Agostino si confronta, sono orientate verso un indirizzo "stoicheggiante", oppure verso concezioni scettiche. I rilievi che possono essere mossi allo scetticismo, egli gioca con la ragione, mettendola in discussione fino in fondo. Agostino osserva che la ragione, in posizione scettica, contraddice sé stessa. Ugualmente la ragione contraddice sé stessa quanto più pretende di conoscere la verità in maniera completa. La ragione infatti finirebbe il suo compito. Agostino si interroga sui motivi della decadenza di Roma. Nessuna determinazione del principio, e così nessuna società o impero, per Agostino sono eterni. Ogni cosa è 5 sottomessa alla caducità e alla decadenza, proprio in ragione del fatto che solo il principio è eterno. L'analisi che Agostino fa identifica tra le cause della decadenza dell'impero romano: il degenerare della pratica della virtù tipica della romanità che si era avuta nel tempo. Anche l'impero romano è definibile per Agostino, come qualsiasi altra civitas. (Civitas rappresenta la traduzione prediletta da Agostino del greco polis, che è stata tradotta in latino da Cicerone anche come "res publica", cosa pubblica). Egli ritiene che civitas sia una definizione più ampia rispetto a res publica e consente di comprendere al meglio tutte le realtà politiche. Civitas è moltitudine concorde di uomini: "Concors hominum multitudo", è moltitudine di uomini concordi. Definizione volutamente formale in quanto consente di includere al suo interno tutte le possibili forme storiche che il potere politico assume a livello organizzativo. Concordi nel senso che stanno insieme per un fine condiviso, determinato e identificato ma non precisato, che raggiungono insieme. Cicerone, aderente alla filosofia stoica stoicismo (secondo cui esiste una legge naturale che deve sempre essere ubbidita e che esprime valori e non manifestazioni di forza) viene criticato da Agostino in quanto include la giustizia come elemento essenziale tra i fini che gli uomini perseguono nello stare insieme a livello politico. E' necessario, per parlare di res publica, per Cicerone, che vi sia un consenso intorno alla giustizia da parte degli uomini che politicamente si uniscono. La giustizia, secondo Agostino, inserendola tra i fini che lo stato deve perseguire, si rischierebbe di non poter includere tra gli stati quelli che non fossero orientati al raggiungimento della giustizia (ex: tirannide), i cui scopi sono diversi, a meno che la giustizia non venga identificata, come diceva Trasimaco, con l’utile del più forte e dunque con la forza. Agostino invece vuole raccogliere nella sua definizione tutte le forme di organizzazione del potere politico assunte dalla società (ovvero tutte le manifestazioni possibili della politicità), comprese quelle non orientate alla giustizia. Dunque secondo Agostino, la giustizia non è elemento indispensabile per definire una aggregazioni di uomini come uno stato. Secondo Agostino, quella dimensione universale della socialità che raduna tutti gli uomini in una società eterna (in spazio e eterno) si può esprimere correttamente nella definizione di civitas data Potremmo per certi versi dire che questa definizione, "Concors hominum multitudo", costituisce il principio metafisico della socialità che conosce una serie infinita di determinazioni empiriche storiche che sono i vari stati, regni, imperi, repubbliche, eccetera. Ogni uomo come membro della società universale estende la sua vita oltre la morte, la propria morte, proprio perché questa società travalica l'individuo stesso mentre, al di là del principio della socialità, oltre questa società universale, tutte le altre forme organizzative sono passeggere, transeunti, destinate ad esaurirsi. Anche la civiltà romana, in quanto determinazione del principio della socialità, è una determinazione limitata nel tempo e nello spazio e dunque è una civiltà destinata prima o poi a concludere il suo tragitto storico. Nessuna determinazione del principio della socialità è la determinazione perfetta. Quindi lo stato perfetto non esiste, non è esistito e non esisterà per Agostino. Ricordiamo, è importante il desiderio di amare che è in ciascun uomo rivolgendolo a sé stessi. L'amore non solo è importante a livello antropologico, ma anche a livello sociale. Egli scrive che due amori fecero due città: "Amores duo fecerunt civitates duas". Distinguiamo gli amori: 1. Il primo amore è l'amore di Dio fino al disprezzo di sé stessi: amor Dei usque ad contemptum sui. 2. L'altro amore è l'amore di sé che giunge fino al disprezzo di Dio: amor sui usque ad contemptum Dei. e le città: 1. La città che nasce dall'amore di Dio che giunge fino al disprezzo di sé stessi è quella che Agostino definisce "Civitas Dei": Città di Dio (detta anche Civitas Celestis – città celeste). 2. La città che nasce dall'amore di sé che giunge fino al disprezzo di Dio, è la città terrena. Di queste due città si scrive molto. Alcuni identificano la città di Dio con la Chiesa, e la città terrena con lo Stato. In realtà si tratta di una corrispondenza non rinvenibile nei testi di Agostino. Infatti la città di Dio e la città terrena raccolgono innanzi tutto gli uomini: città di Dio raccoglie coloro che amano Dio fino a disprezzare sé stessi, città terrena raccoglie coloro che amano sé stessi fino a disprezzare Dio. Ciascuna civitas nasce dall'amore. L'amore per Agostino è il moto della volontà. Questi due atteggiamenti in realtà non sono che due poli dialettici che nella pratica difficilmente si riscontrano. Com'è possibile identificare in pratica ed empiricamente i confini di queste due città? Non è possibile in pratica. L'amare sé stessi fino a disprezzare Dio implica divinizzare sé stessi e dunque assolutizzare sé stessi. E' difficile assolutizzare qualcosa che non è assoluto. L'assolutizzazione di sé stessi è indebita e dunque contraddittoria sotto il profilo razionale in quanto ciascun uomo assolutizzando sé stesso fa una cosa irrazionale e irragionevole dato che prima o poi ciascuno termina la propria vicenda su questa terra. Mentre per converso per certi limiti può essere accettabile assolutizzare qualcosa che è assoluto (se il principio esiste è trascendente rispetto all'uomo ed è quindi assoluto e unico), ma in realtà gli atteggiamenti che si riscontrano negli uomini difficilmente possono raggiungere questi due poli estremi. A parte il caso di qualche Santo. Non si può tracciare dunque un confine netto tra chi appartenga ad una e chi appartenga all'altra. Tra questi due atteggiamenti antinomici si vive concretamente tutta la realtà. Questa definizione riesce a far guadagnare la possibilità di inserire in essa tutte le possibili manifestazioni di tutta l'esperienza umana: ciascuno vive nella sua esperienza in momenti diversi o anche nello stesso momento, l'amore rivolto a sé stesso e l'amore rivolto verso Dio. Ci si può avvicinare ad uno o all'altro estremo ma rimangono estremi irraggiungibili. In realtà il confine delle due città passa all'interno delle coscienze, della coscienza di ciascun uomo. Le due città sono reali, esistenti ma sono mistiche, misteriose. La scelta di ciascuno di amare può essere indirizzata verso uno o l'altro polo. La città celeste identifica il principio metafisico della socialità in maniera assoluta, dunque l'amore di Dio al massimo grado. La città terrena rappresenta non un altro principio metafisico. Se lo identificasse, avremo due principi della socialità, uno positivo uno negativo. Bensì la città terrena costituisce un rovesciamento dialettico del principio. La città terrena non ha consistenza ontologica, così come per Agostino, non ha consistenza ontologica il male. 5 Il principio della civitas è la civitas dei è il principio metafisico che si realizzerà alla fine dei tempi mentre la civitas terrena è destinata a soccombere inevitabilmente. Potremo dire che coloro che appartengono alla città di Dio sono coloro che nella loro esperienza di vita manifestano un atteggiamento sapienziale, non assolutizzano la scientia e con progressus e regressus conoscono sé stessi. Tra civitas Celestis e civitas terrena, due poli dialettici verso cui tendere o allontanarsi a seconda, vi sono le città di questo mondo, tutti i regni, stati, organizzazioni politiche che hanno come fine la pace. Alcuni di questi sono orientati al bene e alla giustizia, altri perseguono finalità diverse. (Città terrena è rovesciamento dialettico della città celeste. Se la città celeste è principio della socialità, l'altra è un polo dialettico contrario ed esiste in quanto il male c'è ma, per Agostino, non si può intendere il male come avente una propria consistenza ontologica dato che se il male fosse uno dei due principi assieme all'altro, cioè il bene, avremo due principi e non un unico principio della realtà). In concreto tutte le città e gli stati sono commistione della città celeste e della città terrena. Ciascuna esperienza di socialità, città di questo mondo, stato, rischia di essere assolutizzata. L'assolutizzazione di un forma statuale storica rappresenta per Agostino un fraintendimento dell'esperienza sociale. L'uomo può credere che la sua esperienza storica sia la migliore, assoluta, perfetta ma così non è. Agostino vuole avvertire criticamente l'uomo. L'uomo non deve assolutizzare la sua esperienza storica, i suoi valori, il progetto di società da costruire, con la società perfetta. Invita a guardare con sospetto ogni progetto di società perfetta. In realtà, tenendo in considerazione la definizione di civitas in quanto moltitudine di uomini concordi, dovremmo includere in questa definizione anche una organizzazione della socialità dell'uomo che escluda rapporti gerarchici tra gli uomini. A rigore, anche una organizzazione sociale improntata sulla uguaglianza tra tutti gli uomini è accoglibile nella definizione di civitas data. L'anarchia, cioè, si può includere nella definizione di civitas, senza che ciò implichi giudizio di valore su una o l'altra delle società/stati. Agostino non si chiede quale sia lo stato migliore. Se lo fa, contestualizza la risposta (la società migliore per quel tempo, per quel popolo, con quelle premesse è ...). Non da una risposta assoluta. Qualsiasi forma di utopia, tenendo presente che il vocabolo utopia ancora non esisteva, viene guardata con sospetto da Agostino. I regni di questo mondo perseguono l'ordine, la pace tra gli uomini, le quali come insegnerà più tardi Dante, sono condizioni per conoscere e amare. Pace come unione nell’ordine, disposizione che assegna ogni cosa al suo posto. Questa disposizione trova la sua legittimità in Dio, nella sua legge. Nella seconda parte del De Civitate Dei, Agostino costruisce una grandiosa sintesi di tutta la religione cristiana delle civiltà sorte dopo la predicazione di Cristo, con la cultura classica. L’oggetto di riflessione è la legge tanto in quanto essa consente agli uomini riuniti in società, di disciplinare i rapporti reciproci. Se egli nell'ultima parte della sua vita, esprime una concezione spesso pessimistica riguardo la natura dell'uomo e la sua capacità di elevarsi dal peccato egli rimane fedele ad una concezione naturalistica della legge, riprendendo per certi versi la concezione stoica. Stoicismo particolarmente affine al cristianesimo, per il fatto che il logos non è concetto estraneo al cristianesimo. Il logos per i cristiani: logos in latino è "verbo". E' la seconda persona della trinità, il verbo. Gesù Cristo. Si legge anche nell'incipit del Vangelo secondo Giovanni. Il principio era il verbo. C'è quindi identità terminologica che dallo stoicismo passa al Cristianesimo, attraverso i testi giovannei (composti verso la fine del primo secolo, attorno al 90. Giovanni fu amico particolare di Cristo). Tornando alla definizione di legge, possiamo trovarla nell'opera Contro il manicheo Fausto: "Lex vero aeterna est ratio divina vel voluntas Dei, ordinem naturalem perturbari vetans, conservari iubens". Definizione della legge generale per eccellenza,eterna, è la legge in base alla quale Dio crea il mondo e il mondo si regge. Possiamo trovare i due filoni che, a partire dall'XI secolo, si diffonderanno in Europa relativamente alla concezione della legge stessa. Traduzione: La legge eterna è ragione divina o (vel) volontà divina. Il vel ha un significato di un "oppure" morbido, e dunque non esclude una delle due possibilità. Egli unifica ciò che, a partire dall'undicesimo secolo, sarà separato in maniera decisa a partire dalle riflessioni degli ambienti francescani e domenicani che identificano due modalità differenti di intendere la legge, come espressione della razionalità (o intelletto) o come manifestazione della volontà. Legge intesa come razionalità invece aggancia la legge ad un sostrato (un sostegno che esiste in se') che la precede e che la giustifica. Il contenuto della legge eterna comanda di conservare l'ordine della natura e vieta di rovinarlo-distruggerlo. Un ordine che sarebbe insito proprio della natura stessa. Anche qui, prestando attenzione, possiamo trovare la somiglianza rispetto a tematiche di tipo stoico. Ordine che dice rapporto tra cose/enti della natura secondo un certo criterio. Lo scopo della vita dell'uomo, per Agostino, è orientato alla felicità. Si tratta tuttavia di una felicità che ha una caratterizzazione particolare: in ogni uomo è presente desiderio di felicità (che si esprime nei due desideri a livello antropologico, conoscere e amare se stessi). Desiderio in latino si dice appetitus. Ogni uomo reca in sé stesso un appetitus rivolto alla felicità = appetitus beatitudinis (desiderio della felicità). Il desiderio della beatitudine/felicità è desiderio naturale (riguardo alla facoltà del desiderare), ma è soprannaturale (riguardo alla possibilità di conseguirlo). La felicità/beatitudine, che consiste nella visione di Dio, è raggiungibile solo per dono gratuito da parte di Dio, e cioè per grazia. Grazia necessaria non solo per comportarsi virtuosamente, per sottrarsi al dominio del peccato, ma necessaria allo scopo di raggiungere la beatitudine eterna. Il desiderio di beatitudine è quindi desiderio paradossale, proprio perché desiderio che naturalmente ciascuno porta e avverte in sé stesso ma che nessuno è in grado di soddisfare. Contra Faustum Manicheum "Lex vero aeterna est ratio divina vel voluntas Dei, ordinem naturalem, conservari iubens, perturbari vetans". Definizione di legge eterna che si può rintracciare nell'opera "Contro il manicheo Fausto", che costituirà la fonte/parametro a cui rapportare le definizioni di Tommaso D'Aquino. 5 giustificato il potere temporale della Chiesa. Non solo i feudi erano diventati ereditari, ma anche iniziano ad essere legati alle figure religiose. Dal XII secolo nascono fermenti all'interno della Chiesa, con l'obiettivo di rinnovarla e farla tornare alle origini e dunque alla purezza del messaggio evangelico. Emergono dunque grandi figure - santi - che istituiscono nuovi ordini religiosi in opposizione alla chiesa e alle ricchezze di cui essa era diventata titolare. Per questo, e con un po' di polemica, vengono definiti ( e comunque si autodefiniscono) ordini mendicanti. Ricordiamo Francesco d'Assisi e Domenico di Guzman. Essi istituirono due ordini religiosi: francescani e domenicani. I domenicani ritenevano che si dovesse aumentare, diffondere, la fede e la conoscenza, per consolidare i dogmi della chiesa adottando come strumento la predicazione. L'ordine dei domenicani è detto infatti "ordo predicatorum". La predicazione fa riferimento alla facoltà umana dell’intelletto - oratio. L'intelletto presiede alla fede. Il fondatore dei francescani aveva praticato una povertà assoluta. I francescani, come conseguenza naturale di ciò, avevano immaginato un ritorno della chiesa alle sue origini, intensificando la pratica della carità. Queste due attività – povertà e carità - fanno riferimento alla facoltà umana della volontà. La carità coincide con l'amore: caritas est amor - amore verso Dio, vero il prossimo, verso la natura. La volontà in ambiente francescano è la potentia che si riferisce alla caritas e che nell'uomo ha la supremazia. Si ama per un atto di volontà, ci si spoglia dal dominio e dal legame con i beni terreni solo grazie ad un atto di libera volontà dell'uomo. L'atto di volontà è atto eminentemente libero, in grado di condurre l'uomo, e anche la Chiesa, sulla retta via. (contrapposizione: francescani domenicani: intelletto volontà) Francesco consiglia ai suoi di non dedicarsi alla filosofia, nonostante egli stesso fosse uomo di lettura e di cultura. Questo consiglio è praticamente da subito disatteso: molti francescani praticano la filosofia dandole un contributo decisamente rilevante. Si ricorda tra questi Guglielmo di Ockham. A partire dalle riflessioni di quest'ultimo, alcuni interpreti ritengono che si possano rintracciare i fondamenti del diritto soggettivo così come è stato inteso dall'età moderna. I francescani hanno incentrato la loro azione e la loro riflessione sul primato della volontà rispetto all'intelletto, affermando l'importanza della volontà singolo uomo a livello sociale. Per contro i domenicani, ritengono prevalente l'intelletto rispetto alla volontà. Intelletto è la facoltà più importante, gerarchicamente superiore ad ogni altra, a cui anche la volontà è sottomessa. Nell'ottica francescana, affermare che che l'intelletto è legato ad un precedente atto di volontà, ha a che fare con l'accentuare l'onnipotenza e l'onniscienza divina: se Dio è onnisciente e onnipotente, allora ogni suo atto libero di volontà fonda ogni azione, giustizia, ordine e dunque fonda il mondo. Nell’ottica domenicana diversamente, affermare che la volontà è legata ad un ordine conosciuto dall’intelletto, ciò sembrava , per i francescani, limitare l'onnipotenza divina, essendo essa ancorata alla ragione e ad un ordine che le è superiore. Per contro i domenicani ritengono che l'intelletto sia superiore alla volontà, essendo in grado di conoscere il mondo, ricostruire l'ordine che Dio ha dato al mondo ma del quale egli stesso è partecipe, e sottomettendo qualsiasi atto di volontà ai contenuti della ragione stessa. Ciò condurrà ad identificare una natura precisa in capo alla concezione della legge. Nell'ottica francescana, ottica eminentemente volontaristica, la legge è atto di libera volontà, disancorata da qualsiasi legame con la ragione o ordine preesistente. Diversamente, nella prospettiva domenicana, la legge è atto che proviene dalla ragione e che esprime l'ordine della ragione. Le due prospettive opposte, volontari sta (francescani) e intellettualista (domenicani) animeranno e attraverseranno il Medioevo e si trasformeranno nelle teorie politiche/giuridiche dell'età moderna. Ci soffermiamo, per l'età medievale, sul pensiero di Tommaso D'Aquino, espressione eminente della filosofia scolastica, e su quello di Marsilio da Padova (prospettiva opposta a Tommaso). Tommaso D'Aquino:Esprime nuova grandiosa sintesi tra filosofia classica, aristotelica in particolare, e Cristianesimo. Marsilio da Padova: In Defensor Pacis (difensore della pace) esprime l'organizzazione tipica del Comune. 124 TOMMASO D’AQUINO (1224/25Roccasecca-1274) Vive nel XIII secolo, nasce a Roccasecca, da una buona famiglia che lo aveva inserito come chierico in un monastero senza tuttavia auspicare per lui una carriera ecclesiastica, auspicando una carriera da avvocato (come era tradizione di famiglia). Egli invece decide di prendere i voti, opponendosi alla famiglia. Era persona molto riservata, di corporatura imponente e per questi due tratti era chiamato dai confratelli "bue muto". Ha studiato nell'ordine domenicano, fondato nel secolo precedente. Tommaso fu allievo di Alberto il Grande - Alberto Magno (il più grande filosofo e teologo tedesco del medioevo per la sua grande erudizione e impegno a livello logico-filosofico nel conciliare fede e ragione), studiò a Parigi, dove tra l'altro insegnò. Nel compiere numerosi viaggi a piedi per l'Europa, si ammala e rapidamente in pochi giorni muore. Lascia come atto di volontà, che non sarà rispettato, quello di distruggere l'opera che stava scrivendo. Questa opera è intitolata Somma Teologica. Parleremo di due opere di Tommaso: 1. Somma Teologica - Summa Theologiae : alcune questiones (temi), in particolare il tema della legge. 2. De Regimine Principum (detto anche De Regno) venne scritta su commissione per il Re di Cipro e fu ultimata da Tolomeo da Lucca. Nel 1300, secolo che viene considerato di rinascenza culturale, filosofica, artistica, in Europa viene reintrodotto lo studio di Aristotele. Nel medioevo le sue opere erano rimaste sconosciute nel contesto europeo mentre avevano continuato a circolare presso gli arabi, si erano studiate solo le sue opere di logica, ed erano circolate per lo più le opere di Platone. Le opere di Aristotele tornano in Europa attraverso il contatto tra Spagna e cultura araba. Dal 1200 (fine 1100) le opere di Aristotele vengono reintrodotte e tradotte dal greco al latino. Tra le opere tradotte, va ricordata La Politica, la cui traduzione fu promossa e auspicata proprio da Tommaso D'Aquino che riuscì a farla tradurre da Guglielmo di Moerbeke (m, o chiusa, lieve e + r b i c). 5 Il fatto che sia stato reintrodotto lo studio di Aristotele provoca un grande terremoto culturale. La cultura veniva condotta nelle scuole dove si impartivano le arti del trivio e del quadrivio secondo uno schema di attività che è rimasto codificato e istituzionalizzato. Lo schema prevedeva la lectio - pronuncia lezio - ovvero lettura e poi il commento - disputatio, e successivamente si passava alle questiones - dibattiti in cui si esprimevano argomenti favorevoli e contrari. La ripresa dello studio di Aristotele costringe filosofi e teologi a ripensare i rapporti tra fede e ragione. Fino a quel momento la fede sembrava costituire l'aspetto più importante, tanto che si era cercato di valutarla sotto l'aspetto razionale. Da quel momento i rapporti ragione-fede vengono messi in gioco proprio a causa della riscoperta della filosofia di Aristotele. Ai grandi filosofi medievali, Alberto il Grande, Tommaso D'Aquino in primis, la riscoperta di Aristotele impose un grande problema. Se ne comprese la grandezza ma il problema era uno: Aristotele non aveva conosciuto Cristo (era vissuto nel 300 a.C.). Poiché il suo sistema filosofico appariva ben costruito, ci si pose il problema dei rapporti non solo tra fede e ragione, ma anche ci si interrogò su capacità e limiti della ragione stessa. La grandezza e la profondità della filosofia aristotelica stimolò Tommaso che ritenne necessario rendere compatibile la filosofia aristotelica con il cristianesimo e si propone come obiettivo quello di cristianizzare Aristotele. Ulteriori problemi: • Tommaso non solo era credente bensì un religioso. • Il cristianesimo che presuppone da un atto di fede apparentemente considerabile come sottratto al dominio della ragione. • La filosofia aristotelica presenta il vertice della cultura classica è espressione della più alta fiducia nella ragione dell'uomo. Fiducia che è realistica, perché Aristotele ritiene che la ragione abbia capacità conoscitive limitate. Proprio per il fatto che l'uomo è essere razionale, per ciò stesso egli uomo è animale politico e morale per natura. La riscoperta di Aristotele comporta conseguenze "interessanti". Lo scontro che oppone Tommaso e i domenicani alla scuola francescana verte proprio su ciò: è più importante la fede rispetto alla ragione? Per Tommaso, cristiano convinto (tant'è che è addirittura onorato dalla Chiesa cattolica come santo) è indubitabile che la fede sia rilevante per la vita del singolo uomo e che non solo la fede in generale sia importante bensì la fede in Cristo, fede in una verità rivelata. Nessuno è in grado di dire se Aristotele e gli altri filosofi della sua età avrebbero o meno accolto la rivelazione, aderendo alla prospettiva di fede del Cristianesimo. Tommaso dice: ragione e fede non sono estranee l'una all'altra, non sono in un rapporto conflittuale ma si deve cercare di organizzare fede e ragione sul piano del coordinamento, e non dell’opposizione, tra le due sfere. Per certi versi non potremo affermare né che egli, Tommaso, ritenga la fede prevalente sulla ragione, né che egli consideri la ragione come superiore alla fede. In realtà Tommaso cerca di coordinare le due sfere. A suo parere, la grazia, dono di Dio, non cancella la natura ma la perfeziona. La ragione fa parte della natura dell'uomo (qui Tommaso condivide la teoria aristotelica). La ragione è l'espressione più alta della natura dell'uomo: è quella facoltà che gli permette di entrare in relazione con i suoi simili, di fare scelte e di agire (vedi Aristotele). Per Tommaso comunque, la politicità non è dimensione ultima e più importante in cui l'uomo può realizzare completamente sé stesso, perché la beatitudine è il compimento a cui l'uomo tende non si esaurisce nel mondo terreno, nella vita politica, nella società, ma si apre ad una dimensione altra rispetto alla politica (qui si vede il suo essere conforme al dualismo introdotto da Gesù Cristo). L'uomo per Aristotele è essere razionale ma in quanto essere razionale è, come già avevano osservato gli stoici, per Tommaso è un animale sociale e non animale politico per natura. Dunque necessariamente l'uomo non è nato chiuso in sé stesso, ma è aperto all'alterità strutturalmente, proprio per il suo essere soggetto razionale. Secondo Tommaso, la bontà della ragione che viene ripresa da Aristotele, sarebbe confermata dalla rivelazione. L'uomo perché dovrebbe aver paura della ragione se è stato Dio a mettere nell'uomo la ragione stessa? Ovvero, perché dovrebbe esserci conflitto tra fede e ragione se Dio, che ha creato l'uomo, lo ha creato come essere razionale? Dunque la diffidenza nei confronti della razionalità viene meno a partire da Tommaso: coltivando la ragione l'uomo non fa altro che mettere a frutto un dono elargitogli dalla divinità . In questa prospettiva, Tommaso innova profondamente rispetto alla cultura del suo tempo, pur nel rispetto nei confronti della tradizione cristiana. Tommaso reintroduce a livello culturale la dimensione della fiducia nelle capacità della ragione umana, che era sempre stata posta in secondo piano fino a quel momento lungo tutto il corso del Medioevo. Anche se Agostino si era comunque messo in gioco come filosofo, oltre che come teologo, portando alle sue estreme conseguenze la possibilità di usare la ragione (in riferimento al De Trinitate). Tuttavia, era emersa successivamente una sorta di sfiducia e pessimismo nelle capacità della ragione umana perché se la ragione fosse autonoma si rischierebbe di cancellare Dio e ciò non si voleva. Ecco dunque perché Tommaso, con la ragione ritiene di poter dimostrare anche perfino l'esistenza di Dio. Questo può essere considerato un aiuto alla fede, anche se la dimostrazione razionale dell'esistenza di Dio non prelude poi ad una adesione alla fede e alla rivelazione ma ecco che questa dimostrazione razionale non è contraria ma supporto alla fede. Per Tommaso, dopo la venuta di Cristo e dopo la rivelazione, è più facile aderire alla fede ma non è semplicissimo e la scelta è comunque libera . Ci sono dei limiti: la ragione stessa è caratterizzata strutturalmente per la presenza al suo interno di limiti che non può mai valicare. La ragione umana cioè non è mai perfetta, se fosse stata perfetta allora Adamo ed Eva non avrebbero compiuto il peccato originario, non ci sarebbe stata dunque l'uscita dell'uomo e donna dal paradiso terrestre. La ragione con le proprie forze, non è mai in grado di dominare la verità in modo pieno e assoluto: la fede soccorre la ragione proprio perché la ragione è capacità limitata . Essendo le capacità della ragione limitate, è stato necessario che Cristo venisse nel mondo per dar modo all'uomo di comprendere ciò che da solo non è in grado di capire. Il limite dell'uomo viene colmato dalla divinità. 5 Vi sono aspetti che, se Dio non li avesse comunicati direttamente all'uomo, l'uomo non sarebbe in grado di intendere. Tra facoltà di credere e quella di ragionare, per Tommaso, non esiste contraddizione anzi le due facoltà - credere e ragionare - cooperano insieme per consentire all'uomo di raggiungere il fine supremo che nell'ottica di Tommaso è la salvezza eterna (salvezza eterna che consiste nella visione beatifica di Dio). Per sua natura l'uomo è in grado, con gli strumenti della ragione di raggiungere i fini terreni propri della sua natura umana in quanto tale, ma l'uomo è condotto alla salvezza ultraterrena grazie alla fede. La ragione è in grado di elaborare norme morali, strategie di comportamenti, che permettono all'uomo di condurre una vita buona e secondo virtù (ordinata politicamente, confortevole sul piano pratico, vita agiata e pacifica). A questi fini la ragione sa guidare l'uomo ma la fede è in grado di condurre l'uomo alla visione diretta di Dio. Le due facoltà si coordinano in modo che l'uomo possa raggiungere entrambi i fini ai quali è strutturalmente ordinato. A partire dalla riflessione di San Tommaso, fede e ragione non saranno più considerate nemiche e confliggenti ma saranno tese a cooperare affinché l'uomo possa perseguire i due fini a cui è votato (quello naturale terreno, quello soprannaturale ultraterreno). La dimensione sociale/politica è dimensione essenziale per l'uomo, la quale ha una sua autonomia rispetto alla dimensione religiosa. L'esperienza sociale e politica soggiacciono al dominio della ragione, la quale in certi limiti funziona in maniera autonoma rispetto alla fede in Dio. Per Tommaso la socialità è dunque dimensione naturale, si esprime come già detto per Aristotele primariamente nella famiglia, e poi nelle dimensioni allargate della famiglia stessa - parentela - villaggio - civitas - stato anche se lo stato non esaurisce tutti i fini a cui l’uomo tende. Somma Teologica Viene affrontato il tema della legge in maniera ampia e approfondita. La dimensione della fede e della razionalità insieme consentono di spiegare dandone ragione alla molteplicità delle leggi che concernono la vita in società dell'uomo. Somma Teologica è composta da 3 partes - parti in latino (è composta in latino). La prima parte della Somma tratta di Dio, dell'essenza e della natura dell'uomo. La seconda parte è a sua volta divisa in due partes: vizi/virtù dell'uomo e legge, atti umani. All'interno parla dei problemi della legge, giustizia, potere politico. La terza parte parla degli aiuti soprannaturali di Dio per raggiungere la beatitudine. Questa parte è incompleta. Cos'è la summa ? In quell'epoca si scrivevano molte opere contenenti questo vocabolo. E' una sorta di riassunto in cui Tommaso cerca di ricostruire tutto ciò che egli stesso conosce su un determinato argomento. Questa summa ha ad oggetto la teologia, ma in realtà riguarda tutto il sapere. E' un grande affresco che comprende molti aspetti del sapere. La differenza rispetto alla enciclopedia è che l'ordine delle voci enciclopediche è alfabetico mentre le voci della summa (di Tommaso) sono disposte in un ordine che ripercorre l'uscita di tutta la realtà creata da Dio la quale poi è destinata a ritornare a Dio. E' costruito attorno ad una unica idea guida. A inizio del ventesimo secolo, uno studioso francese di Tommaso, Chenu, ritenuto di individuare uno schema che soggiace alla struttura della summa. La composizione della summa, secondo Chenu è questa: la realtà viene creata da Dio, ed è come se uscisse da Dio; vi è poi il ritorno di tutta la realtà creata e di tutto il mondo a Dio, per la redenzione. La parte finale non conclusa riguarda infatti i sacramenti, grazia che Dio elargisce all'uomo. La cosa interessante è che il punto di snodo tra uscita della realtà da Dio - exitus - e il ritorno della realtà a Dio - reditus - ovvero il punto di passaggio da uno all'altro (da uscita a ritorno) è collocato nel capitolo relativo alla legge. Non fare confusione exitus/reditus (Chenu su Tommaso) – progressus/regressus (gnoseologia di Agostino). Dio ci istruisce attraverso la legge, ma ci salva attraverso la grazia: "Deus nos instruit per legem et iuvat per gratiam". La legge è fonte di conoscenza per l'uomo, fonte attraverso la quale l'uomo viene istruito ma la salvezza non viene dalla legge. La salvezza deriva dalla grazia elargita gratuitamente (grazia deriva da gratis, dunque è per forza gratuita) da Dio. La benevolenza divina fa si che l'uomo possa salvarsi, nonostante la limitatezza della sua ragione e nonostante il peccato originale abbia macchiato indelebilmente tutti gli uomini. Definizione della legge in generale, che Tommaso fornisce all'inizio della Questio 90 Prima Secundae. E' un ordine della ragione orientato al bene comune, promulgato da colui che ha cura della comunità. La legge è un ordine della ragione. La legge proviene dalla ragione. C'è quindi una opposizione nei confronti delle dottrine provenienti dalla scuola francescana. Analizziamo il vocabolo ordine. Ordinatio significa sia comando/imperativo ma anche disposizione di alcuni elementi secondo un determinato criterio che funge come criterio di classificazione e ordine. Si può osservare sia che la legge è imperativo, inteso come comando proveniente dalla ragione, ma anche affermare che l'ordine è intrinseco alla ragione (ordine della ragione) e quindi che la ragione stessa è portatrice di un determinato ordine (inteso come rapporto di elementi secondo un criterio). Ordine del quale è partecipe la ragione assieme con lo stesso universo. L'universo è un tutto ordinato, per Tommaso (così come diceva già Aristotele). Per molti aspetti Tommaso riprende Aristotele. La natura, cioè il mondo, è un tutto finalisticamente orientato e la ragione, in quanto facente parte della natura, è essa stessa manifestazione e portatrice di quell'ordine. Essendo la natura limitata anche la ragione, ancora una volta, è limitata. La ragione consente la comprensione della natura perché (in quanto organo della conoscenza) è portatrice dello stesso ordine che pervade la natura stessa. Si tratta di un ordine che tuttavia, come visto con Aristotele, non è statico ma dinamico e finalistico. Per Tommaso oltretutto questo ordine è manifestazione di qualcosa di sovrabbondante rispetto alla natura stessa, che è il principio teologico. Lo scopo per cui la legge viene stabilità è il bene comune. Il bene comune viene identificato in via generale nella beatitudine, fine ultimo dell’uomo. Riguardo a ciò, Tommaso riprende l'argomentazione riguardo la beatitudine di Agostino: beatitudine è desiderio naturale di cui ciascun uomo (e in generale ogni elemento della natura) è portatore ma che non può essere mai raggiunto. Naturale quanto a desiderare, soprannaturale quanto alla possibilità di conseguire il desiderio stesso. Colui che ha cura della comunità è il legislatore, il quale promulga la legge. Egli con l'atto di promulgazione fa conoscere agli uomini o ai destinatari i contenuti della legge stessa. La 5 Così, l'uomo è orientato a perseguire il suo proprio bene, mettendo in gioco la sua intelligenza e sua libertà, a contemperare il bene al quale aspira con il bene della comunità di cui fa parte. Il legislatore in quanto uomo (i giuristi) deve cercare il giusto, che sta nella relazione tra le cose stesse e dall'osservazione delle cose, della realtà deve dedurre la legge, che questa volta sarà legge umana. Legge humana Legata alla promulgazione di un legislatore umano per realizzare i fini propri della società politica (ordine e pace) , destinata necessariamente a organizzare le comunità politiche che si istituiscono via via nella storia. Esprime ciò che il legislatore ha conosciuto essere bene. La legge umana è quella gerarchicamente inferiore rispetto a tutte le altre. Essa è considerata una legge se, come le altre tipologie, è orientata al bene comune, se i suoi contenuti sono conformi ai contenuti delle leggi gerarchicamente superiori. Qualora la legge umana contraddica nei suoi contenuti le altre tipologie di legge, essa non è da considerarsi una legge, è una legge ingiusta, e dunque non è nemmeno da dirsi "legge" per Tommaso. "Lex iniusta non est lex, sed legis corruptio": la legge ingiusta non è una legge ma è corruzione della legge. Una legge umana è ingiusta quando va contro le leggi di grado superiore. Alla legge umana, Tommaso dedica 5 questiones nella Summa, diversamente, alle altre leggi dedica una questio ciascuna. La legge umana deriva dalla legge naturale secondo due modalità, per Tommaso: 1.La legge umana è in relazione con la legge naturale perché la determina/precisa secondo alcuni aspetti che non sono precisati nel contenuto generale della legge eterna. oppure 2.La legge umana è legata alla legge naturale in quanto può essere considerata come una conclusione di un sillogismo, e dunque in quanto essa mette in gioco la ragione teoretica dell'uomo la quale poggia sulla legge naturale. Vi sono dunque due modalità: 1. La legge umana è in relazione con quella naturale "per modum determinationis" quando ci si regola secondo i procedimenti tipici dell'arte. Così come un muratore nel costruire una casa si riferisce ad un progetto della casa stessa e l'architetto per elaborare quel progetto singolo tiene presente alcuni aspetti necessari (ovvero le fondamenta, mura, tetto) ma poi per realizzare quella casa singola è necessario che ci sia un progetto che dica quanto profonde devono essere le fondamenta, la disposizione dei muri, eccetera. Il muratore poi realizza concretamente il progetto. Il procedimento per via di determinazione avviene allo stesso modo: applicare la forma generica al caso specifico, così come quando si fa una torta basandosi sulla ricetta precedente. La legge naturale prescrive, ad esempio, che chi trasgredisce una legge umana venga punito: questo è un principio generale. Ma lo stabilire la forma e le modalità della punizione, non è incluso nel contenuto della legge naturale: è un contenuto tipico della legge umana, e che viene pensato dal legislatore umano con un certo margine di arbitrio, sulla base di considerazioni che egli di volta in volta può fare. 2. Per il "modum conclusionis", esso è analogo al procedimento della scienza. La legge umana è la conclusione del sillogismo del contenuto della legge naturale. Esempio: il non fare il male ad alcuno implica come sua conseguenza il non uccidere o il non portare lesioni corporali agli altri uomini. La premessa maggiore è "non fare il male" e dunque la conclusione del non uccidere è legata ad una modalità di ragionamento di tipo teoretico, e non pratico come si addice al "modum determinationis". Il campo più tipico del diritto/giurisprudenza è proprio quello relativo alla seconda modalità, dato che per certi versi la modalità teoretica tende a riproporre e riprodurre nella legge umana i contenuti della legge naturale (o divina) in maniera quasi quasi più paritaria. Il terreno proprio della legge umana, la sua peculiarità, riguarda il precisare alcune procedure e modalità e l'applicazione del criterio della " ragion pratica " ai casi umani, volta a contemperare il bene conosciuto (universale) con il caso particolare. Lex divina Vi è certezza che una legge non sia da considerarsi tale se il suo contenuto è contrario alla legge divina, al decalogo. La legge divina è infatti legge gerarchicamente superiore alla legge umana. Il contenuto della legge divina è un contenuto certo e univocamente determinato da Dio il quale l'ha comunicata agli uomini, dettando a Mosè le due tavole della legge. Si tratta di una legge con carattere positivo: può essere letta dagli uomini. Non si può dichiarare di non conoscerla, essendo essa scritta. Legge divina che è espressione della ragione divina, e non manifesta semplicemente un atto di volontà divina. La legge divina, per Tommaso, è immediatamente obbligante per l'uomo, in ogni tempo e in ogni luogo, anche dopo la venuta di Gesù Cristo e dunque anche dopo il suo sacrificio, secondo Tommaso, la legge divina è obbligante: non ha perso validità perché è stato introdotto lo stato di grazia in ragione del sacrificio di Gesù Cristo. La legge divina ha il compito di illuminare la coscienza morale dell'uomo, e anche la coscienza giuridica dell'uomo: è sempre possibile che la ragione dell'uomo venga offuscata o dalle passioni o da traviamenti culturali. Se la ragione è offuscata è necessario tornare a leggere i testi della legge divina, della cui necessità si potrebbe per certi limiti dubitare. Si può dubitare della legge divina perché il suo contenuto per certi versi è analogo a quello della legge naturale. Dunque potrebbe sembrare che la legge divina si presenti come doppione della legge naturale in riferimento al principio primo della legge naturale "bisogna fare il bene e evitare il male" e agli altri che si possono dedurre sulla base delle tre tendenze citate, si può giungere a esprimere alcuni contenuti della legge eterna che coincidono con i dettami del decalogo. Non uccidere, non rubare, non commettere adulterio sono legati al "non fare il male ma bensì cercare di fare il bene" e alle istanze/istinti di cui l'uomo (in generale gli animali) è dotato. Sembrerebbe dunque che la legge divina sia un qualcosa in più: la sua utilità è legata proprio all'offuscamento della coscienza, alla possibilità che i contenuti della legge naturale vengano cancellati dalla ragione e dalla coscienza dell'uomo. In soccorso dell'uomo c'è sempre la legge divina. La legge divina, per Tommaso, è assolutamente necessaria per raggiungere il fine soprannaturale al quale ogni uomo è destinato. Mentre essa è necessaria solo sotto il profilo morale per la vita dell'uomo e per il raggiungimento dei suoi fini temporali , completa la legge umana, la integra in quanto supplisce alle inevitabili imperfezioni riguardanti la legge 5 umana e che sono legate alla debolezza del giudizio umano. La legge divina ha una funzione pratica. La perfezione morale dell'uomo e la sua felicità temporale si possono conseguire solo rispettando il decalogo, ovvero la legge divina, in maniera piena. La disobbedienza a legge divina comporta sempre sanzione o direttamente da parte di Dio o indirettamente nelle conseguenze pratiche. Tommaso, riprendendo Aristotele nel '200, e facendolo in modo originale tentando di "battezzarlo", fa un'opera che rappresenta una innovazione nella cultura medievale, dato che di Aristotele era circolate solo ed esclusivamente opere di logica. Dunque la metafisica e l'etica, la politica, erano rimaste sconosciute ai più. Tommaso incontra molti ostacoli nel far cogliere le proprie concezioni, sulla base di un Aristotele "aggiornato" da lui alla luce del Cristianesimo (che Aristotele, per motivi cronologici, non aveva conosciuto). Non solo Tommaso si trova a dover controbattere a obiezioni provenienti dai francescani (si parlava prima di pasqua: francescani privilegiano la volontà, i domenicani puntano l'attenzione sull'intelletto), ma anche a dover partecipare a dispute vere e proprie che si tenevano per lo più a Parigi (dove i monaci lavoravano o si spostavano in viaggio). I francescani sono molto critici con Tommaso: essi si basavano su principi platonico-agostiniani e non ritenevano accettabile la prospettiva aristotelica battezzata e rinnovata da Tommaso. Anche da parte della chiesa le dottrine di Tommaso vengono ostacolate. Se una legge umana rispetta pienamente nei suoi contenuti la legge divina e naturale, allora quella legge trae la propria obbligatorietà, in ultima analisi, dalla legge eterna. Quando le leggi umane sono giuste (e quindi il loro contenuto è conforme a quello delle leggi divine o naturali) allora esse obbligano in coscienza. Se invece sono ingiuste, allora Tommaso distingue: 1. Se le norme umane sono in contrasto con la legge divina (il decalogo, dunque i testi sacri) allora esse non obbligano per nulla. 2. Se invece le norme umane sono contrarie al bene umano (ad esempio quando una legge persegue il bene di un singolo invece che il bene della comunità; quando le tasse non sono equamente distribuite) esse non sempre obbligano in coscienza ma per un bene maggiore esse possono essere ubbidite. Il bene più grande corrisponde con l'ordine della società. Infatti, nel caso in cui la legge venga disubbidita si ha la ribellione nei confronti del principe/legislatore, si ha il caso della resistenza nei confronti della legge ingiusta, implica disordine all'interno della società: se si disubbidisce a tutte le leggi che non sono perfettamente coerenti con il bene umano, allora si genererebbe grande disordine. Questo secondo Tommaso è un male. Per evitare scandali o turbamenti dell'ordine sociale, in certi casi, benché le leggi non siano nella loro totalità giuste, è preferibile l'ubbidienza che la destabilizzazione dell'ordine della società. Ricapitolando, riguardo la legge ingiusta: se è contraria alla legge divina = non obbliga in coscienza, e va disubbidita; se l'ingiustizia è di grado minore (ovvero se la contrarietà alla legge divina non è così evidente) = per evitare scandali e che l'ordine sociale venga distrutto, è preferibile ubbidire. Il legislatore che emana leggi esplicitamente contrarie al decalogo, è un legislatore/principe definito tiranno. Secondo Bartolo di Sassoferrato si può distinguere tra una tirannide legata all'esercizio del potere politico non conforme al bene comune (tirannide ex exercitio o quad exercitium) e una tirannide relativamente all'illegittimità del titolo con cui si pretende di esercitare il potere politico stesso. Quest'ultimo andrà senz'altro rimosso e i suoi comandi possono essere sempre disubbiditi dal popolo. Per quanto riguarda la tirannide ex exercitio (potere politico non orientato al bene comune), Tommaso distingue una tirannide moderata da un eccesso di tirannide. Si ha eccesso di tirannide quando tutti gli atti di governo non sono protesi al bene della civitas stessa, ma ad esempio tendono all'utile del principe. Questo è un eccesso di tirannide. In quel caso è possibile e lecito resistere a quel tiranno, sulla base dell'unità del popolo che può ribellarsi grazie a qualche eminente personaggio che se ne fa portatore per destituire il tiranno. Riguardo invece la tirannide moderata , si tratta di quel grado minimo di ingiustizia che inerisce quasi sempre all'esercizio del potere politico. Un minimo di ingiustizia, contrarietà al bene, ci si può aspettare dagli atti di governo. Questa deve essere accettata dal popolo, perché il legislatore ha sempre il problema, attraverso la prudenza, di connettere universale e particolare e non sempre la scelta è univoca, non sempre la scelta è definibile o discriminabile in modo perentorio tra scelta opportuna o inopportuna, buona o non buona. E’ necessario sopportare un minimo di tirannide che è insita nell'esercizio del potere politico. E questo avviene proprio a causa della ragione dell'uomo. La ragione dell'uomo è debolezza sia riguardo chi esercita sia riguardo chi ubbidisce. Questa è una considerazione realistica e tiene lontano Tommaso da qualsiasi forma di utopismo: non esiste il governo perfetto. Bisogna accettare un minimo di male, conseguente alla ragione dell'uomo, limitata. Tirannide "ordinata" ma nella sostanza la gestione del potere è comunque ordinato al bene della comunità. Il principe/legislatore/tiranno ordinato è un ministro di Dio. Tommaso, in questo, riprende la teoria paolina: ogni potere viene da Dio. Tommaso riflette sull'origine del potere politico. La sua teoria politica include 4 parti: una teoria delle leggi, teoria del potere, teoria della miglior forma di governo, teoria della resistenza al tiranno. Quanto all'origine del potere politico, si è già accennato che nasce necessariamente nella società, allo scopo di ordinare la società stessa, che altrimenti rimarrebbe allo stato di "moltitudine" e difficilmente i conflitti che necessariamente sorgono tra gli uomini riescono ad essere ricomposti. Il potere politico dunque ha carattere di naturalità e razionalità al tempo stesso. E' naturale riguardo alla realizzazione dei fini della società stessa: del potere politico c'è bisogno perché, come nel corpo c'è bisogno di un capo, c'è bisogno di un "capo" anche nel corpo politico. E’ istituzione che a livello concreto deriva "a iure umano", da diritto umano. La moltitudine che esprime le sue preferenze e diventa popolo, trasformandosi da moltitudine, proprio nel momento in cui esprime il potere politico e esprime un capo. Tuttavia, riguardo l'origine a livello teorico del potere politico, Tommaso riprende la concezione politica espressa da Paolo di Tarso: ogni potere viene da Dio. Il potere è connaturato alla società perché l'uomo è socievole per natura e perché non saprebbe darsi ordine senza intervento di un soggetto gerarchicamente superiore che operi per il bene. 5 In ogni caso Tommaso ritiene che tra re/principe e popolo intervenga un patto, vincolo che li lega reciprocamente e che può essere o esplicito (reso pubblico, trascritto) o tacito. Il patto vincola popolo e governante: anche se il patto è latente, in ogni caso prevede che il popolo si impegni ad ubbidire, e per contro colui che governa lo faccia in vista del bene del popolo stesso, definito come "bene comune". Il bene comune rappresenta il fine eminente del potere politico, l'ordine e vincola l'esercizio del potere politico alla giustizia. Concezione giustizia per Tommaso: nella prima secunde, Somma Teologica. Ricalca l'Etica nicomachea, riprendendo la concezione dell'equità e introducendola in maniera ampia nel sistema giuridico. Da sapere comunque: Tommaso riprende la distinzione tra giustizia generale, particolare, commutativa, distributiva. Il potere ha fini eminentemente etici, come detto da Aristotele, precisa e riprende la teoria della duplicità dei fini, che Aristotele né aveva elaborato né potuto conoscere. L'uomo dunque è portato ad un fine naturale e il fine soprannaturale che ha natura spirituale.. La duplicità di fini implica la presenza di due autorità distinte, deputate a far si che i due fini si realizzino nel loro campo. Per quanto riguarda il fine naturale, ordine, fine temporale, pace, giustizia, ecc l'autorità si concretizza nella civitas, ovvero lo stato. Per quanto riguarda il fine soprannaturale e spirituale, ad esso conduce invece la Chiesa. I due fini sono compresenti benché si possa dire che il fine soprannaturale sia superiore a quello naturale. Il compito dello stato/civitas in questa duplicità è accompagnare i suoi membri fino alla soglia della virtù , limitando a questo la sua azione. Il re, perché il popolo e quindi la civitas raggiungano il bene, deve essere un uomo virtuoso. De Regno – De Regimine Principum Un’opera rimasta incompiuta, commissionata dal re di Cipro che aveva domandato conformemente ad un uso dell'epoca medievale, come un principe cristiano avrebbe dovuto comandare, volendo essere un buon principe. Ultimata da Bartolomeo da Lucca, Tommaso riprende la tradizione dell'età medievale della Specula Principum. Gli Specula Principum erano operette che venivano composte su commissione allo scopo di identificare la figura dell'ottimo re e ottimo principe, segnalando i comportamenti da seguire. Il modello del buon principe era quello del Principe Santo, un principe capace di esercitare al massimo grado le virtù. Il Re di Francia Luigi 9° ne è un esempio: egli è stato proclamato santo e consiglia al figlio, che diventerà suo successore, delle modalità di condotta conformi alla legge morale e ai principi del Cristianesimo. Il buon principe è un principe votato alla santità. Gli Specula Principum recavano alcune effigi nei loro frontespizi che riprendevano temi biblici che raffiguravano il re di cui l'opera parlava. Un certo grado di innovazione si va comunque istituendo a partire dall'11° secolo, dal momento in cui nascono le città. Iniziano a istituirsi germi di realismo: si un re santo ma un re attento alle condizioni del suo regno in terra. Tommaso nello scrivere "De Regimine Principum", avendolo fatto su commissione, manifesta la preferenza per una forma di governo monarchica, perché la figura del monarca è simile all'unità di comando che si da nel corpo umano. L'unicità del capo corrisponderebbe all'unità di comando che si consuma in capo al monarca che, certo deve essere virtuoso, uomo retto e praticare la prudentia, cercare il meglio per il suo popolo nelle situazioni contingenti, sa gestire l’amministrazione dello stato (notevole innovazione moderna). L’arte politica , che come per Aristotele anche per Tommaso è una scienza architettonica che non prevede competenze specifiche ma di coordinamento di tutte le attività che si svolgono nella civitas, e orientandole al bene. Tommaso sembra prediligere la forma di governo monarchica. Leggendo la Summa però la sua preferenza ricade su un Governo misto. Tommaso non aveva letto Polibio (colui che ha elaborato la teoria del governo misto) e dunque egli elabora una teoria del governo misto in particolare nella situazione storica in cui vive. La sua preferenza per il governo misto, che contemperasse la conpresenza del principio democratico/aristocratico/monarchico, si basava sull'esperienza politica, medievale e feudale E che pareva la migliore possibile in quelle circostanze. Nell'esperienza del tempo l'aspetto monarchico si incarnava nella figura dell'imperatore, ma l'imperatore era eletto dalla dieta imperiale (la successione non era dinastica) e dunque vi era una sorta di elemento democratico, che raccoglieva non solo i principi dei vari territori ma anche i rappresentanti dei ceti (i ceti sono una dimensione tipica del medioevo). Non possiamo parlare di "rappresentanza" e di "principio di rappresentanza" ma comunque vi era espressione di una certa forma democratica. Vi era poi l'elemento aristocratico, che si ritrova nei feudatari. Anche per Tommaso, senza aver letto Polibio, ma forse appoggiandosi ancora una volta ai testi della politica di Aristotele, il governo misto è quel governo che ha la possibilità maggiore di durare nel tempo e di evitare quegli eccessi che rischierebbero di far degenerare il potere politico stesso. E dunque, la presenza dei vari elementi, richiede la pratica della virtù da ciascun elemento e quindi una più lenta degenerazione del potere politico stesso. MARSILIO DA PADOVA (1275-1343) Anch'egli presenta alcuni elementi di modernità, soprattutto riguardo la concezione della legge positiva. Proviene dalla famiglia Mainardini, notai e giuristi. Egli non segue la tradizione familiare e si iscrive alla Facoltà delle Arti. Arti vanno intese come tutte le discipline fuorché la giurisprudenza. Consegue la qualifica di "Magister Artium". Si sposta a Parigi, per dissidi con il Comune di Padova, e proprio a Parigi, egli diviene rettore. Viene coinvolto in alcune vicende importanti, riguardanti i rapporti tra il sommo pontefice e l'imperatore. L'imperatore del tempo, Arrigo VII (in realtà Enrico VII di Lussemburgo. Dante lo chiama Arrigo). morì improvvisamente nel 1313. La decisione sulla successione ad Arrigo VII, secondo gli usi dell'epoca, sarebbe dovuta spettare alla dieta imperiale. Da tener presente è che dal 1305 la sede papale era stata spostata da Roma ad Avignone. Si tratta del periodo che qualche poeta ha definito "cattività avignonese". Avignone era comunque un territorio soggetto al dominio pontificio: non era territorio francese in senso stretto. Tutto sommato il papa rimaneva nel suo territorio. Uno degli atti simbolici della rivoluzione francese fu proprio quello di annettere il territorio avignonese, come uno dei primi atti compiuti. In quel periodo quasi tutti i papi, se non tutti, erano cardinali e provenivano dalla gerarchia ecclesiastica di Francia. Era papa a quel tempo Clemente V. A lui succedette poi Giovanni XXII. Sia Clemente V sia Giovanni XXII si trovarono coinvolti in vicende che 5 considerata come Comune o come Regno, è invece il benessere: benessere innanzi tutto di tipo materiale. Il benessere materiale non era estraneo alla concezione di Aristotele: secondo Aristotele questo non esauriva la totalità dei bisogni dell'uomo. In questo aspetto Dante Alighieri è molto più vicino ad Aristotele, di quanto non lo sia Marsilio che dichiara esplicitamente di voler essere colui che prosegue la riflessione politica aristotelica. Marsilio presenta una particolare concezione della legge e del governo. La Pars Principans, ovvero il governo (organo avente potere esecutivo e giudiziario) non è concepita da Marsilio come lo stato nella sua interezza (novità). Il governo non è lo stato, è solo una sua parte. Marsilio equipara il governo al cuore pulsante dell'uomo. Così come, anche inconsciamente, il cuore pulsa costantemente, ugualmente accade per il governo, che esercita costantemente la propria funzione. Se la funzione governativa venisse interrotta, così come l'uomo muore se il cuore cessa di pulsare, anche lo stato cesserebbe di vivere. Il governo ha una funzione notevolmente più importante. L'attività di governo è attività che si avvale dell'uso della forza. Il governo raggiunge i suoi fini (ovvero governare lo stato nella sua complessità e interezza) emanando una fitta serie di comandi la cui obbedienza è garantita dalla minaccia dell'uso della forza. I cittadini ubbidiscono anche per paura della punizione (non solo, ma comunque anche). Senza l'uso della forza, per Marsilio, la pace e l'ordine, condizioni necessarie per il benessere materiale dei cittadini , non sarebbero possibili. Se i cittadini fossero lasciati a sé stessi e dunque se non intervenisse come evoluzione della socialità la politia restando fermi alla vicinia, essi cittadini si sbranerebbero tra loro, tendenzialmente. La tranquillità è assicurata proprio dall'uso della forza da parte della pars principans. La forza della quale si avvale il governo per esercitare la propria funzione, da quale fonte proviene? Secondo Marsilio la forza non può essere altro che quella che proviene da quanti appartengono all'organismo politico: la forza dello stato è formata dalla forza stessa dei cittadini che lo compongono. Il problema è come si possa trasformare la forza dei singoli (la forza di cui ciascun uomo membro dello stato è dotato) in forza della Pars Principans. Questo è un problema che appassiona gli studiosi di Marsilio. L'uso della forza, per Marsilio, riguarda qualsiasi attività umana, non solo la milizia, ovvero i soldati che materialmente difendono lo stato e mantengono l'ordine, ma chiunque svolga una qualche attività. Anche il contadino lavorando il suo campo esercita forza. Così per le altre attività, chi più chi meno. Il problema teorico è capire come passare dalla titolarità della forza in capo al singolo alla titolarità dell'uso della forza in capo al governo. Il problema/questione che si apre è delicata. Marsilio, che ricordiamo riprende le teorie aristoteliche, potrebbe essere considerato come uno che introduce fermenti di tipo contrattualistico dell'esperienza politica e una concezione dell'origine del potere politico che invece presenta un carattere di naturalità, in base alla dottrina aristotelica. Secondo Marsilio l'uomo accede alla vita politica gradualmente/lentamente, non da un momento all'altro, così come è stata lenta la formazione storica che ha portato all'affermarsi della politia. Lo stato, quando nasce lentamente ma comunque naturalmente, riceve dai consociati la forza necessaria per funzionare, senza la quale il governo non potrebbe adempiere alla funzione che gli è riservata. I cittadini conferiscono naturalmente, senza alcuna necessità che intervenga patto tra loro o tra loro e governo, la forza necessaria. Così come si potrebbe dire che non è necessario un contratto genitori-figli affinché i genitori educhino e allevino i figli, allo stesso modo i cittadini affidano allo stato l'esercizio/l'uso della forza per una via che potremo, secondo questa ottica, definire naturale, e non pattizia o convenzionale. Si diceva che per svolgere ciascuna attività pratica è richiesto l'uso di una certa quantità di forza. Ogni uomo ha una certa quantità di forza fisica: tratterrà per sé quella forza fisica che gli è necessaria per compiere le attività legate al suo ruolo sociale, e riserverà ovvero "passerà" allo stato tutta la forza restante (che gli resta dopo aver praticato le sue attività). Il cittadino non può cedere tutta la propria forza allo stato, dato che altrimenti non potrebbe praticare tutte quelle attività che invece sono necessarie all'esistenza dello stato stesso. Fatta in forma algebrica la somma della forza che ciascuno tiene per sé e quella che ciascuno "passa" allo stato, non resta nulla. Questa circostanza, cioè la confluenza di tutta la forza in capo allo stato, Pars Principans, che ha lo scopo di consentire il benessere di tutti i cittadini, una vita diffusamente agiata, segnala che non rimane altra forza da nessuna parte. Questo è un aspetto importante: poiché tutta la forza residua (tutta la porzione eccedente a quella necessaria per svolgere la propria attività da parte dei cittadini) va in capo alla pars principans, nessun altro potere è possibile che esista nello stato. Tenendo conto dei rapporti chiesa-impero che caratterizzavano quell'epoca storica, questa tesi originale stabilisce inevitabilmente il primato del potere temporale su quello detto potere spirituale. Vi è poi un'altra questione: lo stato, composto di 6 parti, è dotato comunque di un carattere unitario. Lo stato, regno, comune, in ogni caso la politia, è dotato di una personalità propria: ha personalità giuridica (la teoria della persona giuridica era già a quell'epoca tutta costruita, essendo stata elaborata da Innocenzo IV). Il momento unitario dello stato, per Marsilio, sta non tanto nella funzione di governo, ma piuttosto nel momento legislativo (momento di approvazione della legge), perché la legge è emanata dal popolo nella sua interezza. Tutte le parti che formano lo stato concorrono a formare la noma giuridica. Questa è una sorta di propensione democratica. Marsilio parla indifferentemente di Universitas Civium e della sua Valentior Pars (o Savior Pars, da savio=saggio). Entrambe le ipotesi sono considerate accettabili da Marsilio. La giustificazione di questa affermazione in punto teorico è legata ancora una volta alla conoscenza della realtà politica medievale da parte di Marsilio, ovvero la pratica politica tipica dell'età di mezzo tipica dei Comuni. È chiaro che non è la stessa cosa parlare dell'Universitas Civium o affermare che le leggi sono approvate dalla sua parte più saggia/sapiente/importante (Valentior Pars). Marsilio tra l'altro non specifica chi dovrebbe far parte della Valentior Pars, e dunque non dice chi sono i più saggi. A questo riguardo bisogna far riferimento all'esperienza politica comunale che conosceva delle pratiche deliberative di tipo democratico. Si trattava nei comuni più piccoli e di campagna, di forme di democrazia diretta. Quindi in questo caso l'Universitas Civium concorreva a formare le leggi. ma nelle realtà politiche più ampie, i comuni più grandi e complessi attivavano procedure che non esprimevano forme di democrazia diretta. Queste procedure sono state riprese in forma spontanea da tecniche organizzative che si praticavano nelle abbazie o nei grandi conventi. In questo caso le attività organizzative del comune, in particolare l'attività legislativa, si basavano sulla volontà della maggioranza dei 5 cittadini e non dell'Universitas Civium. Infatti nei conventi e nelle abbazie succedeva che il priore o l'abate, quando doveva assumere qualche decisione, radunava i propri confratelli e dialogava con loro. Infine assumeva la decisione condivisa dalla maggioranza dei convenuti. Questa pratica di considerare propria, di tutto il convento/abbazia, la scelta condivisa dalla maggioranza (e non la totalità) viene spontaneamente ripresa all'interno dei comuni. Dunque nei comuni vi erano organi con valore rappresentativo, modernamente rappresentativo potremmo dire. Diciamo, d'accordo con la verità e l'opinione di Aristotele nella Politica, Libro 3°, Capitolo 6°, che “il legislatore, o la causa prima ed efficiente della legge è il popolo - o l'intero corpo dei cittadini o la sua parte prevalente, mediante la sua scelta/volontà espressa con le parole nell'assemblea generale dei cittadini , che comanda che qualcosa sia fatto o non fatto nei riguardi degli atti civili umani sotto la minaccia di una pena o punizione temporale . <questo è tratto da Defensor Pacis, capitolo 12°, numero> Con il termine "parte prevalente" intendo prendere in considerazione non solo la quantità ma anche la qualità delle persone in quella comunità per la quale viene istituita una legge. L'assemblea generale dei cittadini, o la sua Pars Valentior, mediante la sua scelta o volontà comanda che qualcosa sia fatto o non fatto sotto minaccia di una pena o punizione temporale. Non si poteva raccogliere l'intera Universitas Civium nelle decisioni, i cittadini erano troppi. In certi casi nei conventi le decisioni erano prese dal priore/abate in rappresentanza di tutti. Quindi il complesso dei frati - universitas dei frati - era concepito come un tutto unico, come una persona ficta - finta in latino - e in nome di questa unità dei frati, l'abate poteva assumere le decisioni. Dunque le decisioni che il capo assume, sono assunte in ragione del fatto che il capo, colui che è vertice, rappresenta l'unità nel suo complesso. Per cui il numero dei componenti della Pars Valentior non è rilevante: possono essere tanti, pochi, uno solo. Se anche la Valentior Pars fosse composta da un solo uomo, egli rappresenta in ogni caso l'Universitas Civium, e dunque agirebbe in nome dell'unità dell'intero del quale è capo. Marsilio fa anche una interessante notazione riguardo alla capacità dei singoli cittadini di giudicare una legge come buona o meno, e dunque per esteso alla capacità di essere legislatori. Egli scrive: "Di fronte alla questione se la maggior parte degli uomini può arrivare alla conoscenza del vero, bisogna distinguere l'individuo dalla collettività". Bisogna capire perché l'universitas civium, o la sua valentior pars, può approvare una legge. Riprende "ma dire che il singolo è in grado di aver perfetta conoscenza è falso: a fatica vi riescono uno o pochi". Come dice Seneca l'uomo buono e perfetto è come la fenice che rinasce ogni 500 anni. Ma se vogliamo risolvere la questione in senso collettivo, diremo che nella maggior parte degli uomini insieme riuniti la filosofia diventa perfetta scienza e tutti pervengono collettivamente alla verità, perché l'uno ne ha una parte e l'uno ne ha un'altra, e così via. L'inclinazione naturale alla verità non è mai inattiva nella specie umana". Dunque il legislatore può emanare la legge in quanto è il capo e dunque rappresenta l'unità, e quindi ha conoscenza superiore agli altri in quanto prevalente rispetto ai singoli, ma i singoli nel loro complesso, i quali svolgono varie attività (commercianti, mercanti, finanzieri, artigiani...) che competenze hanno per votare la legge? Le dottrine anti democratiche ritengono che non tutti gli uomini siano dotati della capacità necessaria di distinguere il buono dal meno buono e di essere capaci di votare le leggi. Per Marsilio ciò è possibile da parte dell'universitas civium (o valentior pars) perché gli uomini sono in grado di conoscere la verità molto meglio insieme che non da soli. Gli uni assieme agli altri possono pervenire all'identificazione di ciò che è bene. Tuttavia, il fatto che il legislatore che rappresenta il momento unitario dello stato possa essere costituito da tutti i cittadini o dalla parte più rilevante, ha a che fare con la considerazione che secondo Marsilio (e gli uomini dell'età di mezzo), ciò che riguarda tutti deve essere approvato da tutti e che le norme devono essere tese alla realizzazione del benessere di tutti i consociati e dunque hanno come oggetto la vita di tutti i cittadini. Questi cittadini devono essere variamente coinvolti nell'approvazione della legge, anche perché la legge sarà meglio identificata se insieme ci si confronta e si decide (anche se non tutti sono a decidere, ma i più saggi). Anche questo è un chiaro riflesso alla realtà politica del tempo. Da segnalare è questo: anche nell'età di mezzo le norme approvate dal consiglio, dalle assemblee o da colui che rappresenta l'universitas civium, avevano per lo più un carattere di tipo consuetudinario. La legislazione positiva emanata direttamente dal consiglio o da tutto il popolo era parte residuale delle normative. La legge la cui fonte è stata la consuetudine, veniva riconosciuta autorevolmente come legge e difficilmente si dubitava della sua bontà. L'attività di normazione vera e propria era attività svolta solo sporadicamente, solo quando cioè le circostanze rendevano necessario un intervento integrativo del complesso di norme consuetudinarie che già disciplinavano i rapporti tra cittadini. Le leggi dunque erano poche. Per questo, quando le si doveva approvare esse venivano approvate dopo essere state preventivamente preparate da un gruppo ristretto. Anche quando legiferava il popolo nella sua interezza, benché il popolo nella sua interezza sia in grado di giungere alla verità in maniera più sicura rispetto al singolo, se tutti i membri del popolo avessero dovuto discutere su quale legge considerare migliore, il tempo che sarebbe stato richiesto loro non sarebbe stato funzionale alla vita dello stato. In questi casi vi è una sorta di organismo intermedio, piccoli consigli, che istruisce la pratica, identifica le varie leggi, preparandole. Nel caso in cui debba votare poi tutta la collettività ovvero tutti i cittadini, vota e può essere considerata il legislatore, senza che venga turbato l'andamento dello stato, perché essi si esprimono nelle proposte di legge preventivamente preparate da altri. Dopo che alcuni prudentes (uomini prudenti), <la prudenza caratterizza tutta la Politica di Aristotele> hanno preparato le proposte di legge, queste leggi possono essere sottoposte al vaglio del popolo. Questa possibilità appena citata viene ripresa da Marsilio non tanto sulla base della vita del tempo ma piuttosto considerando la pratica repubblicana romana, dove i comizi popolari venivano convocati per approvare le leggi che il Senato aveva identificato e preparato per poi sottoporle ad approvazione. Certo, sempre per Marsilio il momento più importante della funzione legislativa è esercitato direttamente dal popolo. Dopo che la legge è stata approvata, e dunque considerata come buona, è necessario che sia ubbidita dal cittadino: aspetto della effettività della legge. Non basta che una norma sia validamente posta (approvata secondo le procedure previste). La norma deve essere anche efficace. Se la norma è stata posta ma non viene rispettata essa non ha valore, non riuscendo a intervenire nella vita dei consociati. 5 Se la legge è stata approvata secondo le modalità tipiche, secondo Marsilio la legge molto facilmente diventa efficace: infatti se essa è stata emanata nelle forme opportune secondo il principio democratico, la legge ha una efficacia di tipo psicologico. In altre parole coloro che debbono ubbidire alla legge sono gli stessi che hanno contribuito ad approvarla: dunque psicologicamente sono portati a rispettare la legge, proprio perché essi stessi sono stati coinvolti nel meccanismo di formazione della legge stessa. La legge è un comando coattivo garantito dalla forza, per Marsilio. Atto di volontà che si impone con la forza. A questo atto di volontà può o meno corrispondere anche un atto della razionalità che individui come buona o giusta una determinata disposizione. Il problema della giustizia o meno della legge è un problema quasi insussistente nella teoria giuridica di Marsilio, è quasi un problema di poco conto per certi versi. Il fatto che Marsilio individui le procedure democratiche per approvare una legge , assicura che il popolo ubbidirà alla legge stessa, e assicura che il popolo dunque considererà giuste quelle leggi, ovvero atti di volontà che saranno fatti valere mediante l'uso della forza. Il disubbidire alla norma, alla approvazione della quale si è contribuito secondo modalità di tipo consuetudinario per la Polis o in modalità deliberative, significa disubbidire a sé stessi. Così, in questo modo si ha garanzia dell'efficacia e dell'effettività delle norme, che saranno ubbidite dai cittadini senza che essi si preoccupino di esprimere giudizio di giustizia o ingiustizia inerente al contenuto delle norma stesse. Mentre il legislatore è il corpo sociale nel suo complesso e nella sua unità, il potere politico e il potere giudiziario vengono esercitati dalla pars principans. In questa epoca inizia a diffondersi il principio per cui la funzione legislativa e la funzione esecutiva vadano distinte . Dunque sono necessari due poteri distinti, due organi distinti, in modo che le funzioni rimangano divise. Il potere legislativo spetta al popolo che lo esercita secondo le modalità previste, nella forma della democrazia diretta o rappresentativa. Il potere esecutivo e quello giudiziario in senso lato, viene conferito ad un organo diverso: la pars principans. Esaurita l'approvazione delle leggi il popolo torna alle proprie funzioni (che riconducono alle famose 6 parti necessarie dello stato). Dopo che la legge è stata approvata è necessario che la stessa sia applicata: l'applicazione della legge è simile a quanto accade nell'uomo con il cuore. Secondo Marsilio si tratta di una soluzione, quella della divisione delle funzioni (che ancora non è la divisione dei poteri), legata al buon senso. L'attività legislativa può e deve essere svolta solo in momenti ben identificati nel corso dell'anno, previa convocazione dell'assemblea che raccoglie i cittadini (o tutti o in numero rappresentativo). Poi, dopo l'approvazione l'assemblea si scioglie. Non potrebbe essere diversamente: se colui che legifera dovesse anche applicare la legge, se lo stesso dunque esercitasse potere legislativo ed esecutivo, lo stato collasserebbe. Se il legislatore, da universitas civium, detenesse anche il potere esecutivo lo stato non potrebbe mantenere la sua vita perché le partes non potrebbero più svolgere il proprio ruolo. Solo poche dunque saranno le norme, solo raramente si riunisce l'assemblea dei cittadini e poi ciascuno torna alla propria occupazione ma lo stato stesso può funzionare solo se la legge viene fatta rispettare costantemente. Questo "costantemente" rende necessario il fatto che l'organo di governo agisca durevolmente, per tutto l'anno e per tutti i giorni dell'anno. Secondo Marsilio quasi sicuramente il potere esecutivo tende ad applicare la legge senza distorcere la volontà del legislatore: questo perché il potere esecutivo, anche esso, è di elezione popolare. Il vertice del governo/la pars principans/ il vertice della pars principans può essere ricoperto da una o più persone che, secondo certe modalità, sono espressione della volontà popolare. La pars principans rimane sotto il controllo del popolo. Nel senso che se il governo/pars principans si discostasse dall'eseguire fedelmente le leggi approvate, il popolo ha il potere di revocare i suoi governanti. Anche qui le giustificazioni sono legate all'esperienza comunale, dove il potere esecutivo era esercitato per delega da parte del popolo. Era dunque un potere, quello esecutivo, che era caratterizzato da una sorta di investitura popolare ma non solo l'esperienza comunale giustifica queste considerazioni. Anche l'elezione dell'imperatore va citata in merito. L'elezione dell'imperatore è dovuta alla dieta, che riunisce i principi (o esponenti della nobiltà) i quali individuano il soggetto che dovrà ricoprire il ruolo imperiale. I principi elettori, nobili laici o ecclesiastici, da Marsilio sono interpretati come rappresentanti naturali della volontà popolare. La concezione del ruolo della nobiltà feudale di quel tempo era che la nobiltà fosse espressione della volontà popolare. Il ceto nobiliare è considerato ceto che svolge funzione di mediazione tra popolo e il vertice dello stato (in questo caso vertice dell'impero). C'è una sorta di slittamento nella politica di Marsilio, tra una concezione di tipo democratico (di cui abbiamo parlato fino ad ora) ad una che prelude a posizioni di tipo assolutistico, dove la figura dell'imperatore viene per così dire assolutizzata. L'imperatore diventa una sorta di sommo magistrato, che regola le sorti del mondo sulla base di una elezione che, secondo tali teorie, ha la sua fonte ultima nel popolo (magari il popolo non sa nemmeno chi sia l'imperatore). L'imperatore acquisisce ruolo sempre più importante nell'ottica di Marsilio. L'imperatore esercita la forza e quindi in quanto colui che rappresenta il potere esecutivo, deve accertare se una certa norma è stata trasgredita e quindi se una sanzione debba essere combinata. Egli inoltre deve stabilire quale sanzione debba essere erogata. Questa attenzione/accento sulla figura dell'imperatore, è contrastante per certi versi con altri elementi della sua teoria politica, caratterizzata da elementi democratici che più coerentemente riprendevano la pratica della rotazione delle cariche tipica dell'età medievale (pensa a Dante, priore di Firenze). La durata delle cariche era circa 1 anno. Questo consentiva al potere di non assolutizzarsi. Diversamente, l'accento posto sulla figura dell'imperatore che, dopo essere stato eletto mantiene a vita il suo incarico, implica uno scivolamento verso posizioni di tipo assolutistico. Nella seconda dictio, ovvero nel secondo discorso, Marsilio si occupa del ruolo della chiesa nello stato. Egli esamina i rapporti tra chiesa e impero. Come già anticipato, secondo Marsilio, esercitare il potere significa esercitare un comando munito di sanzione e dunque sancito dalla forza/pena. Esercizio del potere richiede necessariamente l'uso della forza. Ma se, come detto prima, dopo che la forza è stata distribuita non ne rimane più, non si può pensare che la Chiesa sia depositaria di un qualche uso della forza. Dunque la Chiesa non detiene alcun potere. Ciò significa che il pontefice non può scomunicare l'imperatore e che l'imperatore ha possibilità di intervenire nella vita della chiesa. A questo riguardo è necessario far riferimento alla ecclesiologia di Marsilio. Secondo Marsilio, la Chiesa, ovvero la ecclesia, è l'assemblea dei fedeli ovvero uomini che condividono la stessa fede. All'interno della Chiesa, i sacerdoti svolgono un ruolo di mediazione tra il popolo (i singoli) 5 moderno può essere anticipata sino al Medioevo (l'unità del territorio francese già nell'epoca di mezzo era presente), per l'Italia si deve attendere qualche secolo (1861). Ciò di cui parliamo dunque sono linee di tendenza che esprimono un atteggiamento del livello politico e organizzativo. A livello politico distinguiamo una prima modernità da una seconda modernità detta piena . La vera e propria modernità in ambito filosofico-politicogiuridico si conosce a partire dal 600 in avanti. Dal 600 in avanti si manifestano i tratti caratteristici del pensiero politico giuridico moderno. A livello storico, la nascita dello stato moderno costituisce una novità e rappresenta l'evoluzione di altre fonti istituzionali. Il passaggio dal feudalesimo alle organizzazioni comunali, signorie, ecc. fino ai regni o monarchie assolute è lento. Nei vari territori, o in un determinato territorio, si impone il potere unitario di un singolo principe, il quale assorbe in sé tutti i poteri inferiori e tendenzialmente cerca di svincolarsi rispetto ai gradini superiori della piramide gerarchica - politica o ecclesiastica - medievale, affermando la propria autonomia. I cambiamenti dell'età moderna riguardano innanzi tutto il passaggio tendenziale da una forma di organizzazione del potere politico che per certi versi era duale nel Medioevo (i vertici del potere politico erano rappresentati da imperatore e pontefice - essi intervenivano quando richiesto per risolvere controversie, chiamati da uno o dall'altro feudatario, signore e via seguitando) ad un nuovo "modello". Lo stato moderno conosce le sue prime modalità organizzative nella forma della monarchia assoluta. L'avvento dello stato moderno avviene attraverso due distinti movimenti: movimento a carattere centrifugo movimento a carattere centripeto Questi, variamente composti e combinati, fanno instaurare lo stato moderno. Lo stato moderno nasce quando, nella scala gerarchica medievale, uno dei gradini intermedi della piramide gerarchica decide autonomamente di assumere in proprio una serie di poteri, riesce ad esercitare un potere autonomo nei confronti di pontefice o imperatore e pretende di esercitare dominio assoluto su un determinato territorio, ricomprendendo in sé tutte le autorità di livello inferiore. L'unità politica rappresentata dallo stato moderno, viene guadagnata annullando l'unità più ampia dell'impero e assumendo tutte quelle varietà di poteri intermedi presenti nell'età medievale. Questi poteri intermedi permettevano nei vari territori ampie libertà di fare. Accade una sorta di taglio orizzontale della piramide gerarchica. Movimento a carattere centrifugo: lo stato nasce, figurativamente, tagliando il cordone ombelicale che lega il principe/gran feudatario all'imperatore/pontefice , sulla falsa riga del detto latino "Rex in regno suo est imperator" ovvero "il re è imperatore nel suo regno" e dunque che egli non è sottomesso ad alcun potere di grado superiore. Prima era ad esempio un feudatario e il potere che egli esercitava (come derivazione del potere imperiale), diventa un potere originario. Egli riceve la sua legittimazione direttamente dalla divinità: così come il potere imperiale in età medievale, era considerato potere che derivava direttamente da Dio, il re si pone come depositario di un potere originario che ha la sua fonte ultima in Dio stesso. L’unico potere sovrastante a quello del re è quello di Dio. Movimento a carattere centripeto: Il territorio, quello che poi diventerà dello stato, era formato da una quantità e molteplicità di piccoli o grandi feudi, ciascuno dei quali era autonomo rispetto all'altro e in relazione direttamente con l'imperatore. Questi poteri inferiori vengono decapitati simbolicamente dal re che fonda lo stato moderno e vengono assorbiti da quello che tra i feudatari/ principi decide di compiere questo atto nei confronti degli altri, per la supremazia nel territorio. La nobiltà viene privata del potere politico che esercitava, giocando sull'alleanza tra potere della borghesia urbana e il sovrano, e grazie anche alle circostanze favorevoli che si sono verificate in seguito alla scoperta dell'America (1492). La scoperta dell'America ha implicato l'importazione di grandi quantità di materiali preziosi, aumentando prezzi e inflazione, decapitando quindi le rendite fondiarie dei proprietari fondiari. Vi fu un nefasto effetto su tutta la nobiltà agricola. Queste circostanze/conseguenza economiche consigliano i nobili di accettare il dominio di un re sopra di loro. Il movimento centripeto comporta la rarefazione delle libertà di fatto che venivano esercitate in epoca medievale. Con la nascita dello stato moderno si registra il tentativo di dar vita ad uno stato che tende a monopolizzare il potere politico. Il re infatti non riconosce più l'autonomia dei poteri inferiori, accentrando a sé tutte le prerogative che precedentemente erano esercitate da altri poteri (questi poteri inferiori). Il re esercita e organizza il potere politico in forma unitaria e accentrata. Questi poteri vengono decapitati dal re che fonda lo stato moderno. Il re, oltre ad essere imperator in regno suo, è anche colui che "superiorem non recognoscens" non riconosce alcuno superiore a lui, né nello stato, né fuori dallo stato stesso: il suo è l'unico potere esercitato. La sovranità dunque è potere che nasce come originario ed è indivisibile. Se vi siano forme che possono sembrare di potere inferiore, si tratta di poteri delegati e non autonomi. Sono funzioni esercitate da funzionari del re e non hanno un potere sovrano. La frantumazione dell'unità politica che prende avvio con l'età moderna, per l'instaurazione dello stato moderno, che non intrattiene più legami con il vertice del potere - imperatore, si accompagna anche alla fine dell'unità di tipo religioso: a partire dall'inizio del XVI secolo, nei territori dell'attuale Germania comincia a diffondersi la Riforma protestante. Tale Riforma vanifica, a livello europeo, l'unità del potere spirituale. La Cristianità europea non si riconosce più nella figura che unitariamente la rappresenta, ovvero nel pontefice. La diffusione della riforma protestante implica la creazione/nascita di una pluralità di chiese di diversa ispirazione, che continuano ad avere un referente unitario nella figura di Gesù Cristo, anche se ne interpretano il messaggio in maniere diverse. Sulla base di questa diversa interpretazione del messaggio evangelico, si danno organizzazioni differenti, e non intendono più essere sottomesse al sommo pontefice. Per certi versi, le chiese, diversificate e in polemica l'una contro l'altra, attuano a livello religioso ciò che il processo di nascita dello stato moderno realizza a livello politico: frantumazione dell’unità del continente europeo. La tendenza all'accentramento si ha, a livello politico, con il re che si dichiara sovrano assoluto e cerca di assommare in sé tutto il potere politico, ma per certi versi il vertice del 5 potere, che è potere su un determinato territorio del monarca assoluto, non è potere diviso al suo interno. Potenzialmente il monarca dispone di grande quantità di forza, molta più di quanta vista in precedenza. Potere è ab solutus dai poteri superiori. Il re ritiene sé stesso come sciolto da qualsiasi legame verso l'imperatore (ab solutus = sciolto da) ma egli si ritiene anche legibus solutus: sciolto dalle leggi, non più sottomesso al potere delle leggi. Ciò non accadeva praticamente mai in età medievale. La legge rimaneva sopra l'imperatore, a parte alcuni scivolamenti riscontrati in Marsilio (Seconda Dictio Defensor Pacis; Defensor Minor). Il re detiene anche il potere di monopolizzare la produzione del diritto. Fino all'epoca medievale, il rapporto tra diritto e legge (soprattutto tra sovrano e legge), che si può configurare variamente, prevedeva la superiorità della legge rispetto al sovrano (a parte alcuni casi citati in Marsilio). Dall'età moderna in avanti, la produzione del diritto, e dunque della legge, viene assunta di fatto dal monarca. Non solo egli è al di sopra della legge, ma ne è fonte. Diminuisce, tendenzialmente, la rilevanza di tutte le norme consuetudinarie che avevano disciplinato la vita sociale in età medievale. Il sovrano è la bocca della legge, il sovrano dice la legge stessa. Si va affermando sempre più il paradigma volontaristico che ha le sue origini nella riflessione dei francescani. Il fatto che il re diventi il legislatore, l'unico legislatore, è finalizzato ad assicurare l' uniformità giuridica nel territorio in cui il re/principe esercita il proprio potere politico. L'organizzazione politica medievale prevedeva un particolarismo giuridico in base al quale ogni comune si dava il proprio statuto e ovviamente gli abitanti di ciascun comune/signoria/regno si attenevano alle norme che erano in vigore. Salvaguardare il particolarismo avrebbe significato non riuscire ad avere il controllo totale nei confronti del territorio e dei cittadini. Dunque affermare che il re produce la legge/il diritto, significa consentirgli di esercitare un potere ancora più forte e di avere un territorio giuridicamente omogeneo da governare. Ordinamento giuridico che viene emanato conformemente alla volontà del sovrano. Si tratta di linea tendenziale, e non è detto non esistano eccezioni. Sovrano assoluto e Stato assoluto sono considerati tali in quanto essi affermano, e ciò accade per la prima volta nella storia, che il sovrano raccoglie nelle sue mani la totalità del potere. Questo significa che tendenzialmente il re detiene anche il potere religioso e spirituale, assommando in sé anche prerogative che erano di competenza dell'autorità religiosa. Questo accade, certo non in tempi brevi e non in maniera totalmente pacifica, senza grossi conflitti tra stato e chiesa. Per capire come tendenzialmente si sia giunti quasi, in certi casi, all'identificazione del vertice del potere politico con il vertice del potere religioso, o in certi casi all'annullamento della gerarchia religiosa, bisogna introdurre Martin Lutero. MARTIN LUTERO (1483-1546) È monaco agostiniano, con un carattere particolare e pessimista. È "afflitto" da una preoccupazione: come salvarsi? La preoccupazione che dovrebbe essere d'ogni cristiano è quella di giungere alla salvezza eterna. Egli, considerando la pochezza della natura umana, e considerando il fatto che il peccato originale macchia indelebilmente la natura umana, si domanda come sia possibile salvarsi. Chi si salverà? La salvezza sembrava lontana dalle capacità dell'uomo. Lutero legge i testi sacri e giunge all'intuizione. Questa gli giunge dalla lettura dell'epistola ai Romani di San Paolo, dove Paolo riporta un passo del profeta Habacuc. "Il giusto vivrà per la fede". Le opere dell'uomo, le buone azioni e il rispetto dei comandamenti, la pratica di alcune opere di misericordia, non sono mai sufficienti a raggiungere la salvezza , che è esclusivamente dono gratuito di Dio. Colui che è gradito a Dio, il giusto, si salverà grazie alla sua fede. Come osserva Baldini, questa concezione luterana è in un certo modo il ritorno della supremazia di Dio. Nella dottrina cattolica tradizionale la salvezza, che in ultima analisi è sempre dono gratuito di Dio, si ottiene anche mediante l'attività dell'uomo: ubbidienza al decalogo, amore verso Dio e il prossimo, pratiche caritatevoli costituiscono un piccolo patrimonio che ciascun uomo può costruire e che, unito alla grazia di Dio, consentirà la Visio Dei nella vita ultraterrena. La prospettiva luterana nega invece alcun ruolo alle opere. L'ubbidienza alla legge di Dio dunque non salva l'uomo, non è sufficiente, anzi per certi versi potrebbe anche non essere necessaria. Tuttavia ciò equivale a sottrarre all'uomo alcun ruolo in ordine alla possibilità di salvarsi. Lutero, negando qualsiasi importanza alle opere buone, nega l'importanza e l'esistenza del libero arbitrio, come fa notare Erasmo da Rotterdam. L'esercizio della libertà da parte dell'uomo che si concretizza nel rispetto della legge divina/naturale (ed eventualmente della legge umana), contribuisce a far si che l'uomo sia orientato alla salvezza nella visione cattolica. Negare l'importanza delle opere significa, per contro, riaffermare l'onnipotenza divina: è Dio che decide tutto. Erasmo da Rotterdam dunque fa osservare a Lutero che la sua dottrina nega il libero arbitrio dell'uomo. Lutero riconosce questa "critica" di Erasmo. Cancellare il libero arbitrio ha molte conseguenze a livello di vita umana, non solo individuale, ma anche sociale e in quanto sociale, in ultima analisi, anche politica. Una delle conseguenze estreme della teoria luterana sarà la concezione/teoria della predestinazione che verrà approfondita da Calvino. Quest'ultimo ritiene che, nella sua onniscienza e onnipotenza, Dio abbia predestinato ciascun uomo o alla salvezza o alla dannazione eterna. La dottrina della predestinazione prevede che Dio conosca già il destino ultimo di ciascun uomo. In questa teoria "estrema" vi sono due concezioni distinte: in base a quella più mite, si ritiene che Dio conosca il destino ultimo dell'uomo (se sarà dannato o diventerà beato) dopo aver considerato le opere che l'uomo compirà nella sua vita [Predestinazione post previsa mevita]; in base a quella meno mite, si ritiene che Dio conosca il destino ultimo delle persone indipendentemente dalle opere dell'uomo, e dunque l'uomo è predestinato prima ancora di compiere opere [Predestinazione ante previsa mevita]. Lutero è celebre perché nel 1517 affigge alla porta del duomo di Wittenberg le famose 95 tesi sulle quali prende avvio poi l'intera riforma religiosa. Lutero ha riassunto la sua prospettiva sulla fede in 95 tesi, criticando in particolare la pratica delle indulgenze e sferrando dunque un esplicito attacco, non solo alla dottrina cattolica tradizionale ma soprattutto alla Chiesa cattolica. La critica alle indulgenze è un riflesso della nuova prospettiva teologica inaugurata da Lutero, riguardo i rapporti tra opere e fede. Certo è biasimevole la vendita delle indulgenze, ma lo è ancor di più perché le indulgenze non servono ad alcun che. La pratica di pellegrinaggi per 5 acquistare meriti riguardo la purificazione dell'anima deve essere condannata, perché non vale a nulla, così come è da deprecarsi la simonia delle cariche ecclesiastiche, tanto più che secondo Lutero nessuna carica ecclesiastica ha alcun significato. Egli nega il ruolo della gerarchia ecclesiastica, in relazione al fatto che proclama la dottrina del sacerdozio universale. In seguito al battesimo, ciascun uomo diventa sacerdote, oltre che re e profeta (attributi propri di Cristo, che secondo Lutero appartengono anche a tutti i battezzati). Poiché ciascuno è sacerdote, non è più necessario che si preveda una presenza istituzionalizzata di un mediatore tra Dio e l'uomo, ovvero di qualcuno che si occupi esclusivamente delle cose sacre. Viene negata la rilevanza del Clero in quanto corpo rivolto al culto. Ciascuno può leggere direttamente la parola di Dio dai testi sacri e l'interpretazione che ciascuno vorrà dare ai testi sacri sarà tanto valida quanto quella di un sacerdote o teologo. Le conseguenze che si sono verificate sono legate a un fenomeno particolare che caratterizza la Germania del tempo: la guerra dei libelli. A quel tempo era appena stata inventata la stampa. Le dottrine luterane sono state diffuse anche tra il popolo grazie alla possibilità di stampare più copie degli scritti e quindi queste teorie si diffusero molto rapidamente, e non esclusivamente tra la cerchia dei teologi e colti. Siamo nei primi decenni del XVI secolo. Spesso venivano composti libelli scritti in pochi fogli che contribuivano a divulgare questa "conoscenza": la pubblicazione avveniva da più parti/fonti. La reazione di Roma non tardò ad arrivare. Tra il 1520 e il 1521, Lutero viene condannato, mediante emanazione della bolla "Exsurge Domine" in cui si condannano le dottrine luterane. Si chiede a Lutero di ritirare le sue tesi, pena la scomunica. Com'è noto, Lutero non accetta. Una serie di vicissitudini successive fanno in modo che Lutero venga salvato da un principe tedesco. Le dottrine luterane, e dunque Lutero, trovano immediato accoglimento da parte dei principi tedeschi. L'odio verso Roma, a quei tempi e luoghi, era ampiamente presente. Le critiche esplicite alla teleologia, gerarchia e chiesa di Roma, non potevano non essere accolte dai principi tedeschi i quali, considerando gli esiti anche organizzativi che la diffusione delle dottrine luterane aveva avuto, supportarono da subito la dottrina stessa per accrescere il proprio potere nei confronti dell'imperatore e del pontefice. In Germania, sulla base delle sue dottrine, vengono secolarizzati tutti i domini del territorio ecclesiastico, dopo che tutti gli ordini religiosi vengono sciolti. Lutero mantiene solo due tra i sacramenti: battesimo e eucarestia. Tuttavia l'eucarestia non è intesa come transustanziazione della dottrina cattolica ma è intesa da Lutero come consustanziazione (sono presenti cioè entrambe le sostanze, non solo il corpo di Cristo ma anche il pane). Tutto il pensiero politico moderno è una secolarizzazione della dottrina cristiana. Inizialmente Lutero non era interessato a temi politici. Il suo era problema religioso, personale: desiderio di salvarsi e di capire come fare per salvarsi. Però le circostanze storiche lo spinsero a trattare anche temi politici e tra le sue opere possiamo trattare anche temi politici, dotate di carattere squisitamente politico. Opere di Lutero, a carattere politico 1. Commento all'epistola San Paolo 2. Riflessioni sulla autorità secolare Inoltre, a spingere Lutero ad occuparsi di temi politici sono le lotte/ribellioni dei contadini dicendo di agire coerentemente alle nuove dottrine che Lutero stesso andava predicando ma non le approvò mai. Anzi, egli ammonì di soffocarle nel sangue. Perché reagisce così? Perché le lotte dei contadini (1524-25) esprimevano una ribellione nei confronti del principe ma Lutero a partire dalla lettura di San Paolo riprende: ogni potere deriva da Dio e dunque qualsiasi potere è manifestazione divina, e dunque l'uomo non ha alcun diritto o potere di ribellarsi a Dio. La rivolta nei confronti del principe è rivolta verso la divinità, della quale il principe è la mano. L'autorità del principe è manifestazione della autorità divina che gli trasmette Dio. Dio infatti, per Lutero, governa il mondo direttamente con le sue due mani: con la mano destra governa i buoni cristiani, con la sinistra tutti gli altri. I buoni cristiani sono coloro che, grazie alla fede, agiscono conformemente e senza costrizione secondo i principi evangelici. Essi per vivere pacificamente, e consentire lo svolgimento ordinato della vita sociale, di null'altro hanno bisogno se non di continuare di assecondare la loro natura, seguendo le norme della religione cristiana. Tutti gli altri invece hanno la necessità di essere sottomessi dal potere politico e di essere guidati dal potere politico grazie all'uso della spada, ovvero forza. Tenendo presente che, secondo Lutero, a stento si può trovare un buon cristiano su mille uomini. Dio governa il mondo con le sue due mani. Si parla, in realtà, di Dio in termini antropomorfici. Le mani di Dio, sono identificate da Lutero, con coloro che detengono il potere. Con le due mani si realizzano due regni contrapposti. Lutero non prevede la possibilità della resistenza al potere politico. Il potere del re è legato all’affermazione della volontà di Dio. Il principe ha anche diritto di muovere guerra, reprimere nel sangue le rivolte e le ribellioni. Per Lutero, se il popolo si ribella deve essere annientato.. Non ci si deve ribellare. Non esiste il problema principe buono o principe cattivo. Non che qualcuno non possa sognarsi di ribellarsi. Lo può fare, ma non ne ha alcun diritto. Non mai possibile ribellarsi all'autorità costituita, anche quando essa sia manifestamente malvagia e il re sia tiranno. Anche il potere malvagio è espressione della volontà di Dio. È sempre Dio che istituisce l'autorità. Il potere malvagio è destinato a punire gli uomini cattivi e mai ci si può ribellare a Dio. Mentre il popolo non può resistere al principe (nessuno, nemmeno i più qualificati, all'interno del popolo può resistere), il principe invece può opporsi nei confronti dell'imperatore, nel caso l'imperatore voglia imporre il suo credo religioso ai principi. La teoria della resistenza di Lutero dunque si pone su due piani: popolo nei confronti del principe: resistenza non consentita principi nei confronti dell'imperatore: resistenza consentita La resistenza principi vs imperatore in effetti avvenne in quell'epoca storica. I principi poi impongono l'adesione alla religione anche ai sudditi e cittadini che non avrebbero gradito aderire a quella religione. Inizialmente, Lutero non riteneva possibile neppure per i principi resistere all'imperatore. Poi però, in seguito agli eventi in cui è stato coinvolto, tentativi di Carlo V di ripristinare religioso quando egli non consente di aderire ai principi della riforma. La riforma prese piede in Germania, e terminando l'affermazione del celebre detto "Cuius regio, eius religio" (la religione sia di colui del quale è la regione): ogni cittadino era tenuto ad aderire alla confessione del suo principe. 5 Sempre, il principe deve rimanere fedele alla verità effettuale della cosa. Questa considerazione, necessaria per Machiavelli, impone al principe di compiere sempre delle scelte per giungere all'obiettivo stato/conservare potere/accrescere potere. Il principe agisce compiendo delle scelte. Le scelte del principe intervengono sulla realtà, che preesiste rispetto alla azione del principe. La realtà deve essere ben nota al principe stesso. Il principe interviene in una realtà "socio-storico-politica" la quale viene modificata dall'azione del principe stesso, poi questa realtà modificata, rende necessaria l'assunzione di ulteriori scelte. Per certi versi dunque, le scelte che il principe compie sono necessitate dalla realtà che preesiste, e diventano necessitanti (o condizionanti) nei confronti delle sue azioni successive. La dialettica che si pone tra scelte e la realtà storico-politica è dinamica: il principe, con i suoi interventi, modifica sempre la realtà. Il principe deve mantenere e salvaguardare l'unità dello stato. Per farlo deve praticare regole proprie dell’azione politica e non deve ubbidire alle regole della morale, le quali sono distinte, non necessariamente conflittuali, rispetto alle regole dell'etica. L'agire politico ha sue proprie autonome regole. Machiavelli istituisce la rottura tra morale e politica . Machiavelli è noto per essere colui che introduce una innovazione rispetto alla precedente visione/pensiero/tradizione, in quanto traccia i confini della scienza politica, separandola nettamente rispetto ad altre discipline, come la morale, che sempre erano state considerate congiuntamente alla stessa politica. C'è sempre stato, negli autori visti fino ad ora, un rinvio reciproco tra etica e politica. Senz'altro etica e politica non erano separabili per Platone, il quale aveva presentato il suo concetto di stato ideale come "stato etico", il cui scopo è il bene. Aristotele ritiene che la politica sia una parte dell'etica, tant'è che abbiamo parlato di virtù e giustizia in quanto virtù. Anche gli stoici, Agostino e Tommaso consideravano inscindibili politica ed etica. Per quanto riguarda gli epicurei, vi sono delle differenze. Stesso discorso per Marsilio (egli non disconosce che si dia un rapporto tra politica ed etica, anche se il fine dello stato è, per Marsilio, il benessere e non il bene in senso ampio di aristotelica memoria). Gli specula principum (tra questi viene iscritto anche il Principe di Machiavelli, in quanto tratteggia quali modalità di comportamento deve assumere il principe) vengono innovati particolarmente, con l'apporto di Machiavelli. Già su questi scritti aveva innovato Tommaso D'Aquino, prima di Machiavelli, si auspica che il principe sia un buon principe, in quanto, nell'esercitare il suo potere, egli rispetta la legge morale. Non rispecchia la realtà, la verità effettuale della cosa. Infatti, se si studia la storia, non si può non notare che re e principi non sempre hanno aderito alle norme morali nell'esercitare il potere. Anzi, spesso si sono discostati dal rispetto delle leggi morali. In politica, se si intende applicare le regole morali, si fallisce sempre. Il giudizio morale (assiologico) nei confronti dell’azione del principe non pertiene alla sfera politica. La domanda pertinente da farsi, per Machiavelli non è se un’azione sia o meno buona, è piuttosto: se le azioni del principe sono opportune o inopportune, in relazione al fine dello stato? Se senz'altro Machiavelli non ha scritto "il fine giustifica i mezzi", è per altro vero che la sua scelta dei mezzi di cui avvalersi nella sua azione, tiene conto dei fini. Machiavelli non esclude che il principe possa essere buono o che possa agire conformemente al bene. Egli consiglia al principe che è necessario essere buono oppure non buono. Ma questo deve stare attento, data la posizione superiore e privilegiata del principe, egli stesso viene guardato dai suoi sudditi. Egli dunque è biasimato o lodato in relazione a come si comporta. Dunque non è indifferente il comportamento del principe rispetto al popolo che gli è sottomesso. Il popolo è sensibile alle scelte che il principe pone in essere. Egli sa bene che la politica di liberalità è pericolosa per le casse dello stato, e se è vero che Firenze si abbellisce grazie al fatto che i principi che l'hanno governata avevano senso dell'arte, è anche vero che così facendo si hanno grosse spese per lo stato. Se le casse dello stato diventano povere, poi è necessario ricorrere ad aumenti delle tasse: questo va fatto con cautela, rischiando di far inimicare il popolo. Machiavelli, dal capitolo 15 in poi, identifica precetti ai quali il principe deve/può attenersi discrezionalmente, ai quali egli può/ deve conformare la sua azione: pietà, umanità, fedeltà, integrità, fede Il principe deve governare gli uomini sapendo come sono fatti, ma anche con le leggi e con la forza. Il governo attraverso le leggi è quello "più proprio" degli uomini. Il governo attraverso la forza invece, caratterizza le bestie. Non sempre il governo attraverso le leggi è sufficiente. Talvolta il principe deve saper avvalersi dell'uso della forza, essere insieme/al tempo stesso bestia e uomo. Machiavelli osserva successivamente che una senza l’altra non consentono al principe di conservare a lungo il suo potere. Forza e leggi vanno usate dal principe a seconda delle circostanze. Per quanto riguarda la forza, Machiavelli osserva che tra le bestie se ne devono scegliere due: GOLPE (volpe) e LIONE (leone). Questi due animali sono i modelli che il principe deve assumere. Il leone non si difende dai cosiddetti "lacci", non è abbastanza furbo da intervenire davanti ad avversari astuti. La volpe a sua volta è furba ma non è così forte come il lupo. La conclusione, e sintesi, dei due animali è: bisogna essere golpe a riconoscere i "lacci" e lione a sbigottire i lupi. I principi che sono o l'una o l'altro, non svolgono adeguatamente il loro ruolo. Il principe deve occuparsi sempre di quanto i sudditi pensano di lui. Per questo Machiavelli sviluppa a fondo la seguente argomentazione: il principe deve essere un gran simulatore e un gran dissimulatore. Gli uomini ubbidiscono di buon grado se stimano il principe, e ritengono che sia partecipe del loro stesso destino, e che condivida le stesse modalità d'azione ritenute buone dal popolo. Il popolo desidera che il principe abbia pietà, umanità, fedeltà, integrità, fede ma non è necessario che il principe abbia le qualità richieste dal popolo, è importante che sembri al popolo che egli le abbia. Il principe sta in alto rispetto al popolo. Il popolo solo dal basso vede il principe, e deve ricavarsene necessariamente una buona immagine. Essendo il principe lontano dal popolo, il popolo mai può conoscere la vera natura del principe. All'epoca si riteneva che si potesse avere una vera conoscenza delle cose, e dunque anche degli uomini, solo se si potevano toccare con mano. Il popolo deve credere che il suo principe sia pietoso, religioso, integro moralmente, rispettoso dei patti. Quindi, quanto alla separazione morale/politica, il principe certo, nel compiere scelte politiche deve rispettare le regole proprie della politica (che gli consentono di perseguire il fine 5 proprio del suo ruolo), ma non può fare assolutamente come se morale e religione non fossero rilevanti. Il principe deve quindi simulare o dissimulare la sua natura, All'occorrenza, deve dissimulare quelle qualità che rischiano di danneggiare la sua posizione. E’ buon politico colui che raggiunge il fine. Il popolo deve comunque rispettare il principe, e temerlo. Il principe deve fare in modo che il popolo lo stimi: senza la stima del popolo, il principe difficilmente avrà successo. Il principe sarà un buon principe quando, grazie alla sua azione, riuscirà a conservare/mantenere/ rafforzare il potere dello stato. Il principe deve rispettare i patti che stipula con gli altri stati? Si, se è conveniente. No, se alla lunga ciò dovesse indebolire e danneggiare il principe e il suo potere. Pacta Sunt Servanda : i patti devono essere osservati, è legato, anche qui, all'obiettivo: non è sempre necessario che il principe mantenga le promesse, anche se è necessario che egli di fronte al popolo appaia come colui che mantiene la parola data. Tuttavia, Machiavelli osserva che la storia umana è determinata per metà dalla fortuna e per metà dalla virtù. Tutti gli avvenimenti umani sono influenzati per metà dalla fortuna e per metà dalla virtù. Fortuna e virtù, cosa sono? Fortuna e virtù sono arbitri delle nostre azioni, dice Machiavelli. Fortuna: Fortuna ha significato che gli viene dal latino. Ha poco a che fare con ciò a cui ci riferiamo noi oggi, pensando al vocabolo. La fortuna ha una valenza semantica neutra. Equivale al latino "sors", sorte, ovvero caso. La fortuna è la sorte dunque, il caso. Caso che può essere sia positivo sia negativo. Virtù: Virtù deriva da "vir", per Machiavelli. Vir è la determinazione, la costanza nel perseguire un determinato fine. In altre parole, essere protesi verso uno scopo e orientare tutte le proprie azioni verso quel fine che ci si è posti. Virtù è costanza di volere un fine. Machiavelli si avvale di una nota metafora, per rappresentare i rapporti tra virtù e fortuna: la fortuna è come un fiume in piena. Machiavelli immagina una città attraversata da un fiume: Firenze. Il principe è un buon principe se, considerando la natura del territorio, sa e fa costruire argini alti per fronteggiare le piene, impedendo allo stesso tempo che si costruiscano edifici a ridosso del fiume. I fiumi, per natura, ogni tanto, straripano: fenomeno naturale, non è cosa straordinaria. Sarebbe irragionevole costruire edifici a ridosso del fiume. E può sempre verificarsi l'evento eccezionale che genera il crollo degli argini, ed eventualmente della città. Ciò significa che il principe non sia stato virtuoso? No. Egli ha fatto tutto il possibile, mettendo in campo tutte le proprie capacità. Il principe in questo caso deve chinare il capo di fronte alla sorte avversa. Anche in questo, il principe dimostra d'essere all'altezza del suo ruolo, nel sapere chinare il capo di fronte alla sorte avversa. Il Duca Valentino L'esempio storico che Machiavelli ha in mente è il Duca Valentino. Quest'ultimo, aveva agito conformemente ai principi che poi Machiavelli ha scritto. Egli, aveva saputo sfruttare la situazione favorevole in cui si trovava, ovvero essere il figlio di Alessandro 6° Borgia - il Papa. Egli, avendo una protezione di elevato grado, aveva saputo accrescere il suo potere e dunque quello del suo principato. Tuttavia, il padre muore prematuramente. Viene eletto Giulio Della Rovere, proveniente da una delle famiglie nemiche dei Borgia, che ostacola la politica del duca Valentino. Il duca Valentino ha accettato la situazione, null'altro poteva. Il principe virtuoso governa al tempo stesso con le leggi e con la forza, forza intesa come forza razionalizzata. Il potere politico si avvale necessariamente della forza. Necessariamente il comando espresso nella legge è comando coattivo ma, la coazione presa per sé stessa, immotivata , eccessiva, non consente di ottenere lo scopo , ma anzi ne allontana il conseguimento. Il principe non può non avvalersi di buone leggi per governare lo stato, e l'uso della forza è un uso razionale della stessa, commisurata agli obiettivi. Il potere politico viene considerato per certi versi come un fatto razionale, ma esso non si pone assolutamente esclusivamente come un fatto. Nel potere politico è sempre presente la ragione. Il principe non ha però la forza per governare/controllare completamente gli eventi naturali. Non è in grado di dominare le credenze del popolo in materia di morale e religione. Sorta di contraddizione: da una parte il principe che non è mai talmente forte e virtuoso da dominare le credenze popolari in materia religiosa e morale, anzi il principe deve essere rispettoso di esse. Questo sembra contrastare con il Machiavelli presentato come colui che auspica il governo tirannico e una politica scissa dalla morale. Ciò ha a che fare con la natura dell'uomo e della società. Machiavelli non indaga il fondamento della religione o morale. Ci sono e dunque il principe deve tenerne conto perché l'azione del principe interviene dopo che gli uomini si sono già uniti in società. Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio Qui si spiega perché è necessario che il principe simuli e dissimuli, a seconda dei casi. Nei Discorsi, egli osserva che i principi sulla base dei quali la società umana si fonda, sono proprio principi di natura religiosa e morale. Per questo motivo il principe deve far attenzione a disattendere le norme morali/religiose. Il principe deve partecipare al culto, anche se non ci crede. I Discorsi sono un'opera che ha al tempo stesso carattere storico e politico. L'oggetto dei Discorsi è la storia romana, e in particolare la repubblica romana. Nei discorsi, Machiavelli esibisce la sua vera aspirazione: esprime cioè il suo animo repubblicano. Guardando alla storia di Firenze, conclude che l'organizzazione istituzionale repubblicana non è organizzazione istituzionale buona, in quanto l'esperienza di Firenze dimostra che solo per brevi periodi il popolo fiorentino era in grado di mantenersi in una istituzione repubblicana. Nel giro di pochi anni si rendeva necessario il ritorno alla forma del Principato. Questa conclusione, non può essere fatta se si studia a fondo la storia romana. Grazie allo studio della storia romana, Machiavelli può concludere che, sotto certi profili, la repubblica è da preferire rispetto al Principato. Machiavelli osserva che mentre nella repubblica fiorentina, i dissidi tra ricchi e poveri - ottimati e plebei - rischiano sempre di distruggere le istituzioni repubblicane e rendono necessario l'intervento (la "mano forte") del principe, a Roma per contro, i conflitti patrizi-plebei non ostacolano l'istituzione repubblicana. Anzi, a Roma questi conflitti patrizi-plebei, vengono ricomposti e assorbiti nella Costituzione repubblicana stessa, assicurando la lunga durata della costituzione repubblicana e grande potenza a Roma stessa. La risposta alla domanda che ci si è posta sta nelle opere di Polibio. Polibio aveva già osservato che i conflitti aristocratici-plebei venivano riassorbiti nella costituzione repubblicana romana, ed erano risolti in modo virtuoso permettendo il rafforzamento di Roma. La Costituzione 5 repubblicana, in realtà, era manifestazione di quella che Polibio aveva identificato come costituzione mista, (comprendeva al suo interno i tre principi delle costituzioni rette - principio monarchico/aristocratico/democratico). Dunque, a Roma le buone leggi erano frutto del buon funzionamento degli organi istituzionali legati ai 3 principi: consoli, senato, tribuni. Tuttavia l’ordine sociale (e quindi la composizione dei conflitti patrizi-plebei) non si ottiene solamente grazie alle buone leggi . Per ottenere ordine sociale è necessario che siano presenti in tutto il popolo i cosiddetti boni more, buoni costumi e tradizioni. Il popolo di Firenze non aveva questi boni mores, non aveva buone tradizioni. Questi boni mores potremo dire che sia la spontanea ubbidienza alle leggi dello stato. Punto fondamentale: i cittadini <fossero plebei o aristocratici>, a Roma, ubbidivano spontaneamente. È proprio questa ubbidienza spontanea, naturale quasi, che consente il permanere delle istituzioni repubblicane nel lungo periodo. Il popolo romano è popolo/diventa popolo dal momento in cui si sottomette alle leggi e ubbidisce ad esse spontaneamente (=senza essere costretto a farlo). Questa è una sorta di norma formale fondamentale che rende un aggregato di uomini un popolo. A Firenze non sono possibili istituzioni repubblicane perché manca il popolo, ma c'è semplicemente un volgo, il quale non ubbidisce alle leggi dello stato. Quando il popolo non c'è, allora è necessario che intervenga il principe. Il volgo a Firenze è diviso al suo interno ma diviso innanzi tutto sotto il profilo morale e all’ubbidienza delle leggi. Il popolo ubbidisce spontaneamente alle leggi dello stato? Machiavelli, nei Discorsi, risponde dicendo che il popolo ubbidisce alle leggi dello stato perché ritiene che, così facendo, ubbidisce alla divinità. Il popolo ritiene che il legislatore, nel momento in cui emana le leggi, adempia ad un compito che equivale a fare la volontà divina. Ubbidienza è rivolta alla divinità. Si tratta di una religiosità pagana, come si sa, ma sempre religiosità è. Per Machiavelli, al fondamento dello stato e degli ordinamenti repubblicani sta la religiosità del popolo. Dove manca il timore di Dio è necessario far intervenire il timore nei confronti del principe. Per questo, il principe deve essere temuto e rispettato: perché si riversa nel principe ciò che invece nell'esperienza repubblicana - e dunque nel popolo (e non volgo) - sarebbe rivolto alla divinità. Timore che non è paura, il timore implica il rispetto. Anche per Machiavelli, la religione (religiosità pagana) dice e fa l'unità dello stato. È miopia politica non tenerne conto. A Machiavelli non interessa l'aspetto teologico, la religione e la verità della religione ma importa l'unità e il mantenimento dello stato. In ultima analisi, quindi il popolo è libero solo grazie alla religiosità. Il modello repubblicano romano non è esportabile. L’istituzione repubblicana è possibile e realizzabile solamente dove sia presente un popolo (e dunque dove i cittadini abbiano attitudine spontanea all'ubbidienza e non siano cioè volgo). Dove non c'è è possibile solo il principato. I conflitti che intervengono tra le classi sociali, soprattutto tra ricchi e poveri, non vengono cancellati nella repubblica, permangono. Semplicemente essi vengono ricomposti consentendo alle diverse classi di esprimere le proprie istanze nei luoghi adatti. Dunque le contese che ineriscono alla vita sociale, benché gli uomini abbiano acconsentito di unirsi in un unico organo politico disperdendo gli egoismi, non sono eliminabili (le contese), ma vengono composte e incanalate in uno sfogo istituzione. Il conflitto non è eliminabile dalla vita sociale secondo Machiavelli Va tenuto presente che però nel Principe, spesso Machiavelli consiglia al principe di evitare di far scivolare il timore che il popolo deve nutrire nei suoi confronti, in disprezzo. Il timore non deve essere esasperato, e il principe non deve infierire nel popolo, perché se il popolo temesse esageratamente il principe e dunque giungesse a non rispettarlo, il disprezzo necessariamente porterebbe alla caduta del principe e dunque al fallimento del suo obiettivo (mantenere potere). Soltanto per timore di Dio il popolo ubbidisce alle leggi E' studiando la storia che Machiavelli afferma che la repubblica è un'ottima forma organizzativa , la quale però si ancora su valori che non sono strettamente politici, anche sulla presenza nel popolo che si da ordinamenti repubblicani di valori morali/etici e di valori religiosi. Dunque, è vero che Machiavelli è colui che separa politica da morale e religione, è vero che è colui che ritiene che la politica debba essere esercitata con regole proprie, ma è altrettanto vero che i confini che egli traccia non escludono morale e religione dall'ambito politico. Tanto che se il principe non crede nella stessa fede del popolo, deve fingere di credere. La religione è intesa da Machiavelli, nei Discorsi ma anche tra le righe del Principe, come fondamento di uno stato libero. Si tratta certo di una religione civile, o comunque di certo non è religione dai risvolti teologici. In fondo, si potrebbe quasi affermare che la divinità risulta essere lo stesso stato, dato che la religione pagana indicava nel lume tutelare dello stato il simbolo dello stato stesso. Potremmo dunque quasi dire che il lume tutelare dello stato è un tutt'uno con lo stato stesso. Sulla base di queste condizione, per Machiavelli, le istituzioni repubblicane possono durare per sempre, ma non dovunque e ovunque. Quando mancano i costumi del popolo, che si esprimono nelle leggi dello stato e si manifestano negli ordini dello stato stesso, la costituzione repubblicana non è possibile come costituzione duratura (si veda l'esperienza fiorentina). La storia dell'Italia, dal 1300 in poi, è tale da giustificare l'assenza dei costumi repubblicani nella cultura popolare dell'Italia stessa. Il volgo italiano, in particolare quello fiorentino, per Machiavelli, è stato allontanato dalla possibilità di darsi buoni costumi, per due fattori collegati tra loro: 1. Circostanza (considerata in forma dubitativa, possibilità): alcuni caratteri peculiari (intrinseci) della religione cristiana che a partire dalla fine del 4° secolo in avanti la religione cristiana era diventata quella ufficiale dell'impero romano. 2. Presenza in Italia dell'istituzione del Papato - (questa non è circostanza ma è un fattore affermato con sicurezza). Machiavelli disapprova due elementi della religiosità cristiana: 1. Innanzi tutto non approva il momento trascendente. La presenza di questa divinità trascendente proietta il cittadino in una dimensione che lo distoglie dalle cose di questo 5 Dialogo avvenuto ad Anversa, nella casa di un amico di Moore chiamato Peter Giles. Il personaggio principale è un navigatore che racconta di esser stato al seguito di Vespucci nelle esplorazioni. In questi viaggi sarebbe stata scoperta una nuova isola, il cui nome è Utopia. Il navigatore si chiama Raffaello Itlodeo. Il vocabolo itlodeo ha particolare significato e significa narratore di frottole, ovvero bugiardo. Nell’isola regna la perfezione assoluta. Far narrare il viaggio ad un personaggio il cui nome rinvia al suo essere bugiardo, fa capire che Moore è dotato di ironia, oltre che di cultura. Utopia ha un significato particolare. Nel linguaggio corrente utopia rinvia ad un valore ideale. Componenti di irrealizzabilità. Etimologia: Utopia ha a che fare con il greco. Topos è "luogo" il greco. La parola utopia ha due significati: • La u iniziale può essere considerata come contrazione di eu, e l'eu in greco indica qualcosa di perfetto. Si parlerebbe quindi di eutopia, "luogo perfetto", in cui regna la perfezione. Ottimo luogo. • Tuttavia la u può essere anche intesa diversamente, come traslitterazione dell'alfa privativo dei greci. Si parlerebbe di atopos, ovvero "senza luogo/nessun luogo". Nessun luogo. Congiungendo i due significati si giunge ad una rilevante considerazione: l'ottimo luogo sta in nessun luogo. Il luogo perfetto non esiste. C'è un certo compiacimento letterario da parte di Moore nel coniare questi neologismi. Questa circostanza fa capire il suo modo di intendere la perfezione. Moore avverte i lettori che lo stato perfetto, del quale fornisce descrizione, in realtà non esiste. Moore, che pure afferma di tener presente la lezione platonica in ordine allo stato perfetto (Platone dice che lo stato perfetto esiste in quanto lo stato perfetto è l'idea di stato) da subito - fin dal titolo -, afferma di non credere all'esistenza del modello di stato che si appresta a descrivere, e non crede dunque allo stato perfetto. Moore, nell'esplicitare questa sua consapevolezza (ottimo stato è in nessun luogo) e nel dire che questo ottimo/miglior/perfetto stato si trova lontano nello spazio dalle terre civili e conosciute, dice anche che questo stato non c'è. Dice anche che, qualora si tentasse di realizzarlo, non si potrebbe più chiamarlo UTOPIA ma chiamarlo TOPIA, ovvero stato che in realtà c'è. Moore è l'inventore, per lo meno quanto al termine, di quel genere politico conosciuto come genere utopico. Questo genere politico viene praticato fin dall'antichità. Dall'età moderna trova un nuovo impulso. Si potrebbe dire che la descrizione dello stato perfetto è opera riconducibile a quella che oggi noi chiamiamo "fantapolitica". La sua opera potrebbe diventare il prototipo di qualsiasi opera utopica. L'opera utopica infatti, intesa come modello, prevede proprio la narrazione di un viaggio. Frequentemente gli autori utopisti, pensatori politici utopisti, descrivono lo stato perfetto collocandolo lontano nello spazio, non solo, altre volte anche lontano nel tempo (Ucronia). Per indicare la distanza che si da tra realtà politica attuale, in cui vivono, e il mondo perfetto. E dice che lo stato nel quale si vive è lontano dalla perfezione. Descrivere lo stato perfetto è in realtà una critica allo stato "reale" in cui si vive, tanto lontano dalla perfezione. Colui che scrive di utopia identifica i mali che affliggono la società in cui vive. Nel capovolgere disvalori sui quali lo stato in cui vive è basato, li fa diventare i valori sui quali invece è organizzato lo stato perfetto. La capitale di Utopia è Amauroto. Amauroto significa città avvolta nella nebbia/città invisibile (Londra). Essa è attraversata dal fiume Anidro (senza acqua) (Tamgi). Il magistrato supremo è Ademo (= senza popolo). Questi sono altri indicatori della irrealtà dello stato perfetto. Ci si chiede perchè Moore, uomo di successo politico, abbia avuto bisogno di descrivere questa società perfetta ricorrendo a questi "accorgimenti" (parole inventate, ecc). Che funzione riveste l'opera? • Per alcuni, Moore descrive lo stato perfetto in questo modo per evitare di finire sotto il boia. Egli critica di nascosto lo stato inglese, ma lo fa con fantasia per evitare di essere condannato a morte. • Per altri, l'opera è espressione di mentalità riformatrice: Moore, scrivendo la sua opera (ma in genere tutti coloro che scrivono di utopia), non ha in mente di realizzare lo stato perfetto ma di proporre una politica di riforme nella vita sociale, per migliorare la situazione esistente. Contrapponendo ai caratteri negativi di della realtà esistente un modello immaginario fondato e organizzato su valori positivi che incarnerebbe il bene (contrapposto al male che si da nella società "reale" e "corrente"). Obiettivo di Moore: cambiare l'Inghilterra del suo tempo. Ci si può chiedere: e perchè non lo fa "a viso aperto" ma con un romanzo "fantastico"? In realtà, non si capisce quale sia il confine del suo intento riformatore. Nel progetto che egli descrive in Utopia, noi non sappiamo quali siano le innovazioni che egli a quel tempo voleva introdurre. ll genere letterario utopico ha avuto diverse letture/interpretazioni che hanno una loro legittimità e che presentano diversi aspetti del pensiero politico utopico, i quali possono essere tutti accolti. L'utopia è stata intesa anche come "messaggio nella bottiglia": ammonimento per i posteri. Moore, che ritiene che gnoseologicamente la perfezione sia attingibile, ritiene che sul piano pratico però non sia praticabile. Dunque: si può fare questo esercizio conoscitivo, che approda alla descrizione della perfezione di uno stato perfetto, il quale tuttavia realmente non esiste. Ciò porta alla contraddizione quando si volessero introdurre modelli organizzativi per realizzare lo stato perfetto, chi venisse coinvolto nell'elaborarli e nel realizzarli, non realizzerà mai lo stato perfetto. La perfezione non è realizzabile. Nel genere politico utopico si comprendono anche opere che in realtà dovrebbero essere definite diversamente. La distopia è un genere praticato spesso nel Novecento e tratta il peggiore stato possibile, la peggiore società. Opere distopiche: 1984, Fahrenheit 451. La differenza tra opere utopiche e distopiche che solitamente le opere utopiche collocano il luogo perfetto lontano nello spazio o nel tempo (ucronia); le opere distopiche collocano il peggiore stato non tanto lontano ma dentro al mondo stesso. Tra le opere politiche distopiche bisogna ricordare quella del Marchese de Sade. UTOPIA, composta da 2 libri: 5 • Primo libro: ripresi alcuni aspetti della politica dell'Inghilterra che Itlodeo, quindi Moore, critica. Si criticano alcuni aspetti particolari della vita recente dell'Inghilterra. Tra i mali che affliggono la società politica inglese, la critica è verso la politica fiscale troppo esosa e verso l'estrema severità del diritto penale, politica economica poco attenta alle classi più svantaggiate. • Secondo libro: positiva descrizione dell'isola di Utopia. La narrazione inizia dal sistema penale inglese. A quel tempo, fine '400-inizio '500, in Inghilterra, per volere di Enrico 8° fu introdotta una pena particolarmente aspra per il reato del furto con la condanna a morte. L'inasprimento della condanna fu indotto dall'aumento notevole dei furti compiuti a quel tempo. Si dice che a quel tempo le esecuzioni fossero di 7000 uomini/anno. 20 persone per volta. Anche il vagabondaggio era punito con la morte. Sulla base di questa considerazione, si apre una discussione nella casa di Peter Giles. Alcuni convenuti, durante la discussione, apprezzano questa severità che pareva tesa a reprimere qualsiasi forma di reato. Tutti i presenti comunque sono stupiti per il fatto che, diversamente da quanto ci si potrebbe aspettare, i reati di furto e vagabondaggio non erano diminuiti ma bensì aumentati. Ad un certo punto interviene Itlodeo (Moore). Egli osserva che questa pratica era ingiusta e anche dannosa per la società. Ingiusta perchè decisamente sproporzionata rispetto al reato compiuto. Dannosa perchè colui che ha compiuto un furto, avendo comunque come prospettiva penale la pena capitale, è portato a compiere altri reati successivamente. Dopo aver derubato il malcapitato, spesso lo si uccideva perchè tanto la pena era la stessa. L’effetto paradossale conseguenza della pensa così dura Itlodeo (Moore) identifica come causa dell'aumento dei reati proprio la pratica penale. Egli si dedica ad esaminare le ragioni di questa circostanza. Si inizia il ragionamento attorno alla crescita dei reati contro il patrimonio. Per Moore questo aumento è generato dall'introduzione della pratica delle enclosures (recinzioni), riqualificazione" alla pastorizia, che causa inevitabilmente l’impoverimento delle masse popolari. Queste terre recintate vengono destinate non tanto alla agricoltura ma alla pastorizia. Questo è particolarmente grave. La pastorizia si sfruttava, perchè le pecore venivano tosate e poi la loro lana veniva esportata all'estero per la produzione di tessuti da importare successivamente. I nobili tendevano ad esportare la lana e non generavano un meccanismo positivo di arricchimento nella società inglese. Dunque, Moore auspica l'introduzione di meccanismi economici capaci di essere positivi per tutta la società. Ovviamente, nel criticare gli aspetti della politica inglese, si criticavano le tradizionali classi improduttive, ovvero non solo la nobiltà-aristocrazia, ma anche il clero. Per Moore sarebbe necessario avviare laboratori per lavorare la lana entro i confini inglesi. La povertà andrebbe combattuta sviluppando la lavorazione artigianale della lana ma anche poi una economia mercantilistica rivolta al commercio dei prodotti lavorati. Il male che genera i furti è la distribuzione iniqua della proprietà privata. Il rimedio a questo male è la cancellazione della proprietà privata stessa. Nello stato perfetto, l'organizzazione economica è di tipo comunistico: la proprietà privata ha come sua conseguenza la tesaurizzazione di beni in capo all'individuo sottraendoli a chi ne potrebbe avere bisogno. L'abolizione della proprietà privata viene proposta risentendo dell'influenza, ancora una volta, della dottrina platonica e anche delle pratiche diffuse tra le prime comunità cristiane. Questa uguaglianza economica, tuttavia, non elimina la diseguaglianza politica. La gerarchia sociale, culturale, non è eliminabile, secondo Moore. Visione innovativa per quel tempo. Secondo libro: organizzazione della vita in Utopia. Essa originariamente era collegata, grazie ad un istmo, alla terra ferma. Questo istmo è stato tagliato dal fondatore di Utopia. Ecco perchè Utopia è diventata isola a tutti gli effetti. Topograficamente, sembra il calco dell'isola d'Inghilterra: ha la stessa forma. E la sua descrizione rappresenta il calco opposto della dell'Inghilterra del tempo. Avendo identificato i mali della società inglese tra fine '400 e primi ‘500, Moore propone dunque un assetto contrario a quello di quell'epoca . Utopia raccoglie 54 città, tra loro pressoché identiche, sotto ogni aspetto (urbanistico, organizzativo, politico). Ogni città è divisa in 4 quartieri, e al centro d'ognuno v'è una piazza dove si collocano i magazzini (nei quali si raccolgono i prodotti dell'attività economica della città stessa). Attività economica che si svolge sia dentro la città ma anche nel vicino contado. Vicino ai magazzini c'è il tempio. In ogni quartiere ci sono circa 30 famiglie (30 famiglie una sifograntia). Queste ultime sono composte da 20 membri ciascuna. La famiglia è per Moore la pietra sociale su cui è costituita la città (e in generale le città di Utopia). In questo, Moore si differenzia, consapevolmente ed esplicitamente, da Platone (che prevedeva l'abolizione della famiglia per i custodi). La famiglia è intesa come famiglia monogamica, fondata sul matrimonio. È intesa come famiglia allargata: nello stesso stabile abitano i nonni, abitano i figli con famiglie, e i nipoti, oltre ai servi. I due coniugi contraggono il matrimonio dopo un periodo di fidanzamento e necessariamente dopo esserci mostrati reciprocamente nelle loro nudità. L'uomo può sposarsi dopo i 22 anni, le donne dopo i 18. Bisogna arrivare casti al matrimonio. Il divorzio è vietato (ammesso solo in caso di gravissima incompatibilità di carattere tra i due coniugi oppure nel caso di adulterio e nel caso l'adulterio sia reiterato). Uno dei pochi reati elencati nel sistema penale di Utopia è proprio l'adulterio. L'adulterio mette a repentaglio la vita stessa della società, in quanto comporta lo scioglimento della famiglia. La famiglia, cellula fondamentale attorno al quale tutto il sistema economico e politico ruota, è congiunta con l'assenza della previsione della proprietà privata, come già anticipato. La famiglia vive in grandi palazzi, ed è deputata alla trasmissione dell'educazione, cultura, usi e costumi tipici di Utopia. Istituzione fondamentale perchè assume questi ruoli. L'educazione, <mettere in relazione con Platone> non è affidata allo stato ma alla famiglia (anziani). L'educazione pervasiva onnipresente, l'abitudine all'obbedienza a cui i bambini sono educati fin dalla più tenera infanzia, fa in modo che la pratica della virtù sia diffusa e dunque che le leggi non abbiano un valore imperativo ma piuttosto dichiarativo. Ogni cittadino di Utopia deve praticare un lavoro manuale per non più di 6 ore al giorno. Per almeno due anni, a rotazione, bisogna dedicarsi all'agricoltura. Mentre in Inghilterra i nobili privilegiavano la pastorizia. Dato che ognuno lavora solo 6 ore al giorno, il lavoro è disponibile per tutti, e non ci sono disoccupati ad Utopia. Sulla base delle 6 ore al giorno da dedicare a 5 lavoro manuale, in Utopia si producono tutti i beni e servizi necessari alla vita di ogni cittadino. Ciò e possibile perchè la vita degli utopiani è legata al soddisfacimento dei bisogni fondamentali (a cui si accompagna il soddisfacimento dei bisogni culturali e della vita sociale), quindi i bisogni sono pochi. Si tratta di una compagine sociale organizzata alla maniera in cui Epicuro aveva detto fosse utile organizzare i rapporti dei saggi tra loro. Gli utopiani non prestano particolare attenzione a moda, vestiti, gioielli, ecc. Hanno tutti circa lo stesso vestito che cambia solo in base alle stagioni. Essendo abituati ad indossare grezze tuniche, sarà possibile prepararle in poco tempo e con poco lavoro. I gioielli, e le pietre preziose, il denaro non hanno alcun valore. I bambini giocano con le pietre preziose e ne fanno delle biglie. Con l'oro si costruiscono delle catene per legare i carcerati. Questo spiega il disprezzo che caratterizza gli utopiani verso tutto ciò che invece appassiona i "mortali". Ciascuna famiglia produce al suo interno alcuni beni , che vengono poi portati nei magazzini per essere distribuiti tra le famiglie , secondo i bisogni di ciascuna famiglia. Moore considera molto importante la cura della salute. La malattia ha una connotazione negativa. Ogni quartiere ha un ospedale, ma l'ospedale è al di fuori del quartiere stesso, all'esterno delle vie cittadine. Il malato assume, a ben guardare, uno statuto diverso rispetto a tutti gli altri cittadini. Il malato è destinato a luogo a parte. Non è incluso nella comunità, ma escluso e allontanato da essa. La religione praticata in Utopia è una sorta di religione naturale che si ispira ad un monoteismo vicino a quello Cattolico. Tuttavia, è una religione con pochi principi. A questi è possibile accedere (a questi principi) grazie all'uso della ragione. Religione molto semplice, che prevede l'immortalità dell'animo. Questa religione viene amministrata da 13 sacerdoti per ogni città. Anche le donne possono diventare sacerdoti: solo dopo una certa età e solo dopo la vedovanza. Ha funzione etica e deve plasmare usi, costumi, morale dei cittadini. Gli utopiani hanno pian piano conosciuto stranieri e sono entrati in contatto con la religione cristiana. Molti utopiani si convertono perchè i principi della religione cristiana sono considerati affini a quelli di Utopia. Tolleranza religiosa, ateismo colpito da discredito morale e proibito, considerato atto contro ragione. L ateo è escluso dalla possibilità di accedere alle caricheʼ politiche. Sotto il profilo economico, uomini e donne sono uguali ma le famiglie non consumano i pasti insieme. Il pasto è momento di scambio tra famiglie. La tavola è uno dei luoghi che Thomas Moore ritiene più adeguati per la trasmissione della conoscenza tra anziani e giovani. Le donne non mangiano assieme agli uomini: servono a tavola ma mangiano separatamente e cucinano per lo più. L’educazione pervasiva fa che le leggi siano poche e servano piuttosto a rammentare a ciascun utopiano tutti i suoi doveri, che in realtà già ciascuno sa o dovrebbe sapere. Difficilmente esiste un dubbio legato all'interpretazione del testo legislativo, se si dovesse presentare un dubbio un gruppo di cittadini si riunisce per cercare di capire che cosa il legislatore intendesse. Per altro, badare, non è precisato a chi spetti il potere legislativo, ovvero da quale organo debba venire esercitato. Non si ammettono assolutamente avvocati che trattino cause con astuzia o discutano cavillosamente di leggi. Pensano infatti che sia utile che ognuno tratti la sua causa da sé e dica al giudice le stesse cose che voleva dire al suo difensore. Tra le altre cose, le questioni relative alla giustizia più lievi, sono risolte già all'interno della famiglia, dal capofamiglia. Ognuno è esperto di legge. La cosa più ovvia di tutte è la più giusta. Organizzazione politica di Utopia. Ogni sifogranzia elegge un magistrato che si chiama filarco, il quale ha lo scopo di controllare le attività economiche e professionali, che siano svolte secondo criteri di efficienza (Si lavora 6 ore al giorno manualmente e così gli utopiani hanno anche il tempo libero per dedicarsi ad attività culturali e spirituali. Simile alla visione di Aristotele, per il quale la vita contemplativa nella polis era il fine ultimo dell'uomo). Vi sono 200 filarchi, i quali eleggono il Magistrato Supremo (Ademo) è eletto a vita. Viene eletto tra 4 candidati che sono stabiliti/identificati dal popolo. Ogni 10 filarchi, viene eletto un protofilarco. Il protofilarco entra a far parte del Senato che raccoglie 20 protofilarchi, il magistrato supremo (Ademo) e due filarchi che si avvicendano ogni anno all'interno del Senato. Il Senato si riunisce ogni 3 giorni, risolve le controversie, pratica la giurisdizione in materia penale (ieri si diceva che pochi sono i reati e uno dei più gravi è l adulterio). Il Senato ha valoreʼ giudiziario anche se non esiste discriminazione tra i diversi compiti in capo a ciascun organo. Infatti, il Senato discute anche tutti i problemi pubblici. Nel caso emergano questioni di particolare importanza, vengono convocati anche degli esperti che espongono ai senatori i termini della questione e poi questi senatori risolveranno la questione. Nel caso non riescano a risolverla verrà convocata addirittura l'assemblea che raccoglie tutto il popolo. Ogni anno, 3 rappresentanti per ogni città si recano ad Amauroto, la capitale, e discutono, insieme con i loro colleghi, le due questioni considerate più importanti: si occupano cioè della politica demografica e della politica estera. La spiegazione sull'organizzazione del potere politico di Utopia è espressione di una profonda diffidenza nei confronti del potere politico stesso. Perchè egli sostiene che il potere politico è spesso connesso alla finzione e alla superbia, i quali vizi tendono ad essere distruttivi per i rapporti umani e per la società stessa. L'elettività delle cariche e la rotazione anche delle cariche stesse, è proprio tesa a fare in modo che gli utopiani non aspirino alle cariche politiche e che esse cariche politiche non diventino cariche a vita, a parte quella del Magistrato Supremo, in modo che possano mantenersi virtuosi e puri, potendo quindi esercitare il potere nell'ottica del bene della società. Potere che, per altro, dev'essere esercitato dai filarchi secondo uno stile paterno: in quanto tale deve intervenire con benevolenza per il bene dei cittadini, come un padre guiderebbe nella retta via il proprio figlio. Per quanto riguarda altri aspetti della vita di Utopia, il fondatore Utopo ha condotto un'opera della quale Tommaso Moro dice che è opera “quasi di un mortale”. Fu Utopo che fece tagliare l istmo tra Utopia e la terra ferma. Egli ʼ è quasi un Dio ed ha avuto il merito di far trasformare delle popolazioni grezze, rozze e prive di buona educazione, in un popolo che è quasi un popolo di dei. Dunque Moro, ancora una volta, manifesta così esplicitamente il dubbio che questo stato perfetto possa esistere davvero. 5 alla socialità, in quanto la ragione si identifica anche nel darsi da parte dell'uomo dei determinati fini che convogliano nella divinità. La prima espressione della socialità e quindi anche della razionalità potremmo dire, che Bodin incontra è, come per Aristotele, è la famiglia; successivamente queste famiglie si radunano nel clan gentilizio, oppure nella tribù. Quindi anche Bodin, come Aristotele, intende la socialità come un qualcosa che si dispiega e che si amplifica nella storia. E quindi, così come si passa da un uomo concepito come essere “bruto” ad un uomo razionale, così la socialità si amplifica nel corso della storia. Tuttavia, neppure Bodin si limita alla polis ma ovviamente prevede il passaggio alla fondazione dello stato che è il portatore di una forza comune su un determinato territorio. Lo Stato è quella forma istituzionale organizzativa che è in grado di comporre i conflitti tra le famiglie, tra i vari gruppi sociali sotto il dominio del diritto. Grazie al diritto lo stato risolve i conflitti inter-familiari. Attraverso la legge, che viene fatta valere in un determinato territorio, i residui di violenza che erano rimasti vengono stemperati. Da tenere presente è anche un altro aspetto: qui Bodin e Aristotele si differenziano. Lo Stato non è l'approdo ultimo della socialità, dello sviluppo, dunque dell'espansione della socialità; Bodin infatti teorizza una sorta di Res Publica mondana , uno stato i cui confini sono quelli del mondo intero, potremmo dire. Questo stato è dotato di una sovranità sovra statuale ed è volto a risolvere i conflitti che ci sono tra i vari stati. Perchè la natura istintuale e violenta dell uomo diminuisceʼ sempre di più, sottomettendosi alla ragione, ma un residuo di istintualità rimane sempre dato che di essa si ha testimonianza anche per quanto riguarda i rapporti tra gli stati stessi. I sei libri sullo stato Nei Sei libri sullo stato, Bodin riprende queste argomentazioni, già trattate nel Methodus. Inoltre, fornisce, nel primo dei sei libri, una definizione che è celeberrima di stato: “lo stato è il governo giusto che si esercita con potere sovrano, sopra diverse famiglie e su ciò che esse hanno in comune.” Adesso si procederà ad esaminare questa che è una delle prime definizioni teoriche di stato elaborate in età moderna, in forma generale. Nel dire che si tratta di una delle prime definizioni che vengono elaborate in età moderna, s intende dire che, ʼ durante il Medioevo, quando ci si riferiva allo stato, in realtà gli scrittori politici non fornivano una definizione esplicita dello stato stesso, ma generalmente si dedicavano a descrivere un elenco di competenze che facevano capo allo stato, ovvero tutti i poteri che allo stato spettavano. Quasi mai era stata elaborata una definizione comprensibile. Le caratteristiche essenziali dello stato sono, per Bodin, 4: 1. il governo giusto 2. la sovranità, il potere sovrano 3. la pluralità delle famiglie 4. l'esistenza di qualcosa in comune tra le diverse famiglie È senz'altro vero che l'elemento saliente è costituito dalla sovranità e che Bodin è noto per essere il teorico della sovranità e della sovranità assoluta; ma anche gli altri elementi sono senz altro essenziali. Gli ultimi due caratteri, pluralità delle famiglie (3) e il darsi di un qualcosa inʼ comune alle famiglie stesse (4), vanno sempre di pari passo. Ovviamente, vanno di pari passo anche il governo giusto (1) e la sovranità (2): non c'è sovranità senza governo giusto e non c èʼ governo giusto che non sia un potere sovrano. La pluralità delle famiglie è intesa da Bodin come elemento costitutivo dello stato e ciò è significativo perchè ci fa ricordare che ci troviamo ancora nella prima modernità e Bodin non identifica l'individuo come costitutivo della società, ma ravvisa nella famiglia la prima pietra dell'edificio sociale. Il popolo non è quindi una somma di individui, ma il popolo è costituito da una pluralità di famiglie. L'elemento soggettivo dello stato è la società famigliare e non è l'individuo. Qui Bodin riprende la tesi della naturale politicità dell'uomo di Aristotele. Questa affermazione ha a che fare con una serie di preoccupazioni proprie di Bodin in relazione alla situazione politica del suo tempo: se lo stato è costituito da una pluralità di famiglie, lo stato non può essere dissolto dai conflitti interindividuali. Se è la famiglia la prima pietra dell'edificio sociale, altri gruppi associativi, costituiti invece da una somma di individui, non avranno lo stesso peso nella costituzione dello stato stesso. La monarchia francese che si è imposta sulla società feudale francese rischiava di essere dissolta dalle guerre di religione. Le guerre di religione poggiano sull assunto che lo statoʼ debba consentire che al suo interno possa essere praticato qualsiasi credo religioso. Questo significa disancorare l'individuo singolo dalle relazioni che naturalmente egli intrattiene con la sua famiglia, secondo Bodin, ma significa anche allontanarsi sempre più dalla concezione medioevale in cui ciascun uomo aveva un ruolo se concepito nei rapporti con coloro che appartenevano allo stesso ceto, allo stesso status. Quindi una concezione antropologica che veda la socievolezza naturale dell'uomo avvalorata e praticata in età medioevale dalla quale ci si era allontanati per istituire la monarchia moderna rischia di mettere in pericolo lo stesso stato moderno, esponendolo ai fermenti di tipo individualistico da cui si tentava di scappare. Bodin cerca di prendere le distanze dai fermenti individualistici che si andavano diffondendo per sottrarre la stabilità dello stato agli istinti di ciascuno e alle idee, ai valori di ciascun uomo. Anche perchè il diffondersi della cultura calvinista, della cultura protestante, aveva avvalorato il ruolo del singolo nei confronti della comunità, non solo di quella religiosa ma anche della comunità civile. E se in età medioevale il potere del sovrano era legato ad un patto che egli stringeva, in quanto sovrano, con il popolo e che quindi limitava il potere del sovrano stesso (popolo inteso come unità di famiglie), il disancorare da questo consenso lo stato e il sovrano (il patto che il popolo e il sovrano stringono), rischiava di minare sempre più la stabilità e l'unità dello stato stesso, quell'unità faticosamente conseguita. L'idea della sovranità popolare come fonte di legittimità del potere sovrano, è un'idea che è connessa con il principio contrattualistico e individualistico. Se la sovranità del popolo è il frutto di un contratto che gli individui stringono fra loro allo scopo di costituire il popolo stesso che prima di questo contratto non esisterebbe, allora gli individui rimarrebbero superiori nei rapporti 5 dello stato e, ritirando l'appoggio al monarca, ne minerebbero in quanto individui e non in quanto popolo, i fondamenti del suo potere. Ora, se consideriamo gli uomini singolarmente considerati, secondo Bodin non si può pensare all'esistenza di un potere politico, sono preda degli istinti e non sono sottomessi gli uni agli altri. Il potere non è giustificabile in una condizione di isolamento. Di potere politico invece si può parlare solo dopo che l uomo si è ʼ spontaneamente aggregato con gli altri suoi simili nella prima manifestazione della socialità che è la famiglia. Quindi, l'obiettivo di Bodin è: sottrarre il fondamento dello stato agli individui per evitare che i conflitti fra gli individui dissolvano lo stato stesso a causa delle guerre di religione in cui ciascuno esprime la propria fede religiosa, che diventa anche fede politica. Bodin è uno dei grandi autori dell età moderna, costituisce uno spunto di riflessione attorno allo stato moderno,ʼ costituisce uno snodo teorico fondamentale perché i suoi scritti sul tema dello stato e sul tema della sovranità sono una “conditio sine qua non” per poter conoscere il pensiero moderno. Il suo tentativo è quello di costruire una teoria che consenta allo stato moderno di giustificarsi e di sottrarsi ai rischi che rischiano di farlo dissolvere, benché giovane. Lo stato si pone come una linea di continuità rispetto alla modalità relazionale che si instaura all interno della famigliaʼ . Così come il padre, il marito, detiene un certo potere nei confronti della moglie, i genitori nei confronti dei figli e il capofamiglia nei confronti degli schiavi, si realizza già nella famiglia un complesso di relazioni di tipo potestativo e dunque lʼesperienza del potere inerisce alla famiglia stessa, e poi si proietta in forma proporzionalmente più ampia all interno dello statoʼ . Il potere che è caratteristico dello stato (def.) implica quindi fin dal suo primo momento porsi la relazione tra gli uomini. Potere del capofamiglia che, secondo Bodin, ha un carattere naturale. È nell ordine delle cose che il potere spetti al padre in quanto capofamiglia perchè ʼ è da lui che la famiglia in realtà prende origine. E così come è naturale che nello stato il potere sia esercitato dal sovrano. Il fondare uno stato sulla famiglia, implica negare che lo stato stesso si fondi sul consenso degli individui in quanto singoli e questo comporta come conseguenza la negazione del potere che si potrebbe riconoscere in capo ai singoli uomini di ribellarsi nei confronti del sovrano, nel caso egli diventi tiranno o per difetto di titolo o per l esercizio del potere contrarioʼ alla legge. La previsione del tirannicidio, che viene elaborata sulla base di una concezione antropologica di tipo individualistico fondata sulla teologia luterana e riformata, deve essere scalfita secondo Bodin fin dalle sue fondamenta, e quindi: se lo stato non si fonda sugli individui, essi singoli non hanno più il potere di uccidere il re se lo ritengono un tiranno. L azione di chiunque uccida ilʼ re in quanto uomo singolo, è unʼazione illegittima perché non è l individuo che fonda loʼ stato ma la famiglia. (individuo per Bodin non è soggetto politico) Nemmeno le famiglie però possono uccidere il sovrano: esistono regole strutturali all interno della sovranità che impongono unʼ rispetto di una serie di leggi che vietano ciò. L obiettivo è sempre quello di ʼ mantenere saldo il potere del sovrano e di sottrarlo alla disponibilità dei singoli. Se una famiglia decidesse di uccidere il sovrano, la famiglia contraddirebbe anche sé stessa, perchè il sovrano promana (“proviene”) dalla famiglia. Il potere del sovrano scaturisce dalla società, ovvero dall insieme delle famiglie. Lo stato che siʼ fonda sulla famiglia in realtà poi esercita il proprio potere su ciò che le famiglie hanno in comune. Affermare che le famiglie hanno qualcosa in comune significa per contro, dialetticamente, sostenere invece che ciascuna famiglia ha qualcosa che la differenzia e che quindi non è in comune con le altre. Su questo concetto in realtà si fonda la distinzione moderna fra beni privati e beni pubblici. In cosa consistono questi beni pubblici? Le mura delle città, le strade, i fiumi, i palazzi nei quali il potere viene esercitato. Su questa distinzione concettuale fra beni privati e beni pubblici si innesta anche la distinzione fra diritto privato e diritto pubblico. Qui emerge l ottimaʼ conoscenza giuridica di Bodin. Dunque, non si può parlare di beni pubblici se prima non si sia identificato ciò che pubblico non è, ciò che è di proprietà della singola famiglia. Questo pone Bodin in totale dissenso con le teorie di stampo comunistico, perché esiste un qualche cosa che è comune a tutti in tanto in quanto è distinguibile da qualcosa che in comune non è. Questa distinzione fra patrimonio pubblico e patrimonio privato ha una grande rilevanza in ordine alla costituzione dello stato moderno. Ed ha un significato particolare, ancora una volta connesso con il problema che affliggeva la Francia, la conflittualità di opinioni in materia religiosa. Ma l opinione religiosa è qualche cosa che ha a che fare con la ʼ coscienza. La coscienza è una facoltà che inerisce al singolo uomo e che ha una rilevanza esclusivamente e squisitamente privata. Le scelte compiute in coscienza non hanno una rilevanza pubblica, non hanno una rilevanza politica perchè il potere politico, il potere sovrano si esercita solo su ciò che è pubblico. La coscienza individuale è un aspetto che caratterizza ciascun uomo, è libera , presiede alle scelte morali del singolo, ma non ha una rilevanza di tipo politico. E dunque Bodin lascia alla coscienza del singolo la libertà di aderire a questo o a quel credo religioso, ma la pace civile è assicurata e si può raggiungere solo se le opinioni dei singoli sono neutralizzate sotto il profilo politico. La religione cioè, in questo modo, diventa materia politicamente irrilevante. Le verità di fede non sono irrilevanti per il singolo, lo sono però per lo stato. La stessa argomentazione, sotto il profilo logico, vale in ordine al diritto di proprietà. Il diritto di proprietà si configura come un potere di fare ciò che si vuole delle cose delle quali si è proprietari, escludendo al tempo stesso gli altri dal godimento di esse, la proprietà privata è ciò su cui si basa la vita della famiglia. Sulla proprietà privata lo stato non può dire la sua. La sovranità è il potere assoluto che non riconosce alcun altro potere sopra sé stesso se non quello di Dio. Sovranità e governo giusto sono due concetti che secondo Bodin si implicano reciprocamente e dunque né si può parlare di sovranità se il governo non è concepito come giusto, e né il governo giusto può essere tale se non è sovrano. Dunque la sovranità è intesa immediatamente da Bodin come potere. La sovranità è il cardine, il centro unificatore dello stato. La sovranità è un potere assoluto (ab solutus = sciolto da). In che cosa consiste l'assolutezza del potere sovrano? Bodin presenta due profili relativi all'assolutezza del potere sovrano. La sovranità è assoluta quanto all'origine ed è assoluta quanto ai propri contenuti. Il potere deriva da se stesso in quanto tale ed è indipendente e libero da ogni altro potere come fosse una divinità. La forma razionale che assume la volontà del sovrano è il diritto . Qualsiasi manifestazione della sovranità è una espressione della razionalità. È questo un aspetto 5 strutturale relativo al potere politico stesso; e dunque la legge, il diritto, sono espressioni tipiche del potere politico in quanto potere assoluto. Necessariamente quindi, il potere sovrano è un potere che dispone dell'uso della forza e che attraverso l'uso di questa riesce a far valere i propri atti di volontà libera. La constatazione dell’esistenza del potere assoluto che dispone dell’uso della forza significa al tempo stesso il riconoscimento della sua legittimità. Le conseguenze dell'identità tra esistenza e legittimità del potere sovrano comportano che non ci si possa opporre al potere sovrano stesso. Il potere sovrano in quanto c'è, è legittimo e dispone dell'uso della forza necessaria per far valere la propria volontà libera e razionale che si esprime necessariamente attraverso la legge. Il principe, cioè il re, dunque sovrano è sempre “legibus solutus” ovvero non è mai sottomesso alle leggi, e proprio in questo consiste la sua assolutezza. Le sue manifestazioni di volontà non sono mai giudicabili né dai cittadini né dai magistrati intermedi, i quali devono necessariamente fermarsi e tenersi nel giudicare, senza revocare in dubbio la giustizia nei confronti del sovrano. Ciò che comanda il sovrano è necessariamente giusto; non esiste il problema della legge ingiusta (vedi Tommaso d'Aquino) perchè la sovranità e il governo giusto sono legati vicendevolmente. La forza della quale il potere sovrano si avvale per far valere la sua volontà libera, non è una forza intesa come violenza, ma è una forza che si autodisciplina, si tratta di una forza razionalizzata. In effetti, se si ricordano le riflessioni che Bodin aveva già sviluppato nella Methodus, se si ripensa all'origine della socialità, non si può dimenticare che essa interveniva dopo che i rapporti tra gli uomini riuscivano ad essere sottratti alle relazioni di pura forza e di pura violenza. Lo stato dunque interviene per disciplinare i residui di violenza che sono rimasti nei rapporti fra i singoli, fra le famiglie per consentire la vita pacifica tra le famiglie stesse. Nel caso ci si opponga al potere sovrano si compie un atto di “lesa maestà”. Bodin approva la dottrina dell'ubbidienza al potere politico in coscienza di paolina memoria e ritiene appunto che non ci si possa mai legittimamente opporre al potere sovrano. La libertà dei contenuti della volontà del potere sovrano, e l'assolutezza della legge in cui questa libera volontà si esprime, non hanno mai il significato di arbitrarietà nella dottrina di Bodin. Un potere assoluto non è un potere arbitrario. Limiti dell’assolutezza del potere sovrano. Quindi il sovrano nel legiferare, nell'esprimere liberamente la propria volontà in ordine al bene della società che deve disciplinare, non è mai tanto libero da poter disattendere la legge divina 1, la legge naturale 2, la proprietà privata 3: questi sono i limiti necessari e strutturali all'assolutezza del potere sovrano. Limiti intrinseci e strutturali al potere assoluto . Il principe non è sottomesso ad altri, se non alla divinità. La divinità, dunque, rappresenta un limite intrinseco, in quanto strutturale, relativo all'esistenza del potere politico in quanto potere sovrano. La proprietà privata è un limite della assolutezza del potere sovrano: del resto, proprio la distinzione tra proprietà privata e patrimonio pubblico è uno degli elementi che portano alla nascita della sovranità e del potere dello stato, come avente un proprio patrimonio. Bodin ritiene che si possa ipotizzare che il sovrano non legiferi in maniera contrastante rispetto alla legge naturale. Tuttavia egli obietta che la legge naturale è di difficile interpretazione, che non necessariamente se ne conosce un unica declinazione, un unicaʼ ʼ manifestazione. E dunque mai ci si può appellare al fatto che il re non obbedisca alla legge naturale, per ribellarsi di fronte al re stesso. Ad essi si aggiungono altri limiti, che sono: • la legge salica 4: vale a dire la concezione dinastica del potere politico che si trasmette per via ereditaria e per via maschile. Questa legge non può essere disattesa all'interno dello stato. • consuetudini 5: il sovrano, nel legiferare, non può neppure evitare di considerare le consuetudini dello stato, della comunità su cui esercita forte potere. • territorio dello stato inalienabile 6: infine è negato al sovrano il diritto di alienare il territorio dello stato. Ciò che differenzia potere assoluto dal potere arbitrario è proprio la presenza nel potere assoluto di limiti intrinseci e strutturali che non riguardano l origine del potere stessoʼ . Potremmo dire che è nella natura del potere assoluto essere limitato dalla legge divina, dalla legge naturale, dalla proprietà privata, dalla legge salica, dal divieto di alienare i beni dello stato e dalle consuetudini dello stato stesso. Al di fuori di questi limiti, non esiste alcun potere assoluto nella concezione di Bodin. La sovranità, oltre che assoluta, essendo analoga alla divinità è imprescrittibile: ciò significa che la sovranità non si può mai estinguere. Non esiste la possibilità che, perché il re non eserciti il potere sovrano, la sovranità del re possa finire. Se la sovranità del re dovesse interrompersi bisogna riconoscere che quel potere non era in realtà un potere sovrano, era qualcos altro, era un potere derivato e dunque non un potere sovrano. ʼ Oltre ad essere assoluta ed imprescrittibile, la sovranità è inalienabile: non può essere ceduta; non si può cedere ad altri soggetti la sovranità. Ed oltre ad essere inalienabile, essa è anche indivisibile. Lʼunitarietà della sovranità, questa sua indivisibilità, implica che qualsiasi magistratura intermedia non sia mai dotata del potere sovrano. I poteri dei magistrati intermedi, delle magistrature più basse, delle cariche organizzative intermedie, derivano la loro legittimità dal potere del sovrano che non trasferisce alcuna caratteristica della sua sovranità nei suoi sottoposti. Il sovrano, se è assoluto, non permette che i suoi collaboratori (funzionari, i consigli dei ceti o delle corporazioni) abbiano un potere in proprio (in quanto solo a lui spetta quel potere e a nessun altro). Egli si avvale di loro appunto come collaboratori: si serve di loro ma mai essi dispongono di un potere di resistenza nei confronti del sovrano o di deroga rispetto ai poteri del sovrano stesso. È impossibile che si possa derogare rispetto alla volontà del sovrano, secondo Bodin. L assolutezza del potere sovrano implica un ʼ necessario accentramento nelle mani di questo, di ogni forma di potere. Qualsiasi potere inferiore è assorbito dal potere sovrano. Può esserci uno stato misto? In realtà, quanto ad una costituzione di tipo misto che era auspicata da Machiavelli nei tempi più vicini a Bodin, Bodin ritiene che in realtà possa esserci una costituzione che prevede una pluralità di organi; ma in realtà tra questi organi solo uno è il depositario e il titolare del potere sovrano, e solo uno è il potere assoluto. Questo potere è il potere di fare le leggi, di emanarle, di modificarle e di abrogarle. L assolutezza del potere sovrano ʼ dunque si manifesta innanzitutto nellʼattività legislativa che è eminentemente libera se non strutturalmente limitata nelle modalità sopra elencate. Il sovrano è “legibus solutus”, cioè è sciolto dall ubbidienza alle leggi che egli stesso ha emanato. ʼ 5 tra 600 e 700, bensì ci si riferisce a quellʻ ʻ ʼatteggiamento, o a quella posizione teoretica, in base alla quale la ragione dell uomo è considerata in grado diʼ conoscere la verità in maniera esaustiva . Siamo nel massimo fiorire del razionalismo e la verità sta di fronte alla ragione dell uomoʼ come l oggetto sta di fronte al soggetto che può possedere completamente l oggetto che gli sta diʼ ʼ fronte. Oltre al razionalismo, gli altri caratteri fondamentali del pensiero politico moderno sono individualismo e secolarizzazione. INDIVIDUALISMO Cosa si intende per individualismo quanto appunto si fa riferimento alla teoria politica moderna? Si intende quella concezione che per certi versi è alternativa rispetto all antropologia aristotelico-ʼ tomista. L uomo non è un essere socievole o sociale per natura, ma ciascun uomo è unʼ individuum (traduce il greco atomos), atomo. E all origine dello stato, o ʼ il primo passo storico a fondamento dello stato, non è come aveva sostenuto Aristotele e ribadito in tempi più recenti Bodin, la famiglia. Il primo elemento dello stato è invece l uomo singolo, l individuoʼ ʼ . Gli individui fondano lo stato liberamente e per decisione autonoma e si associano tra loro tramite un contratto. Prima del contratto sociale, lo stato/la società civile non esiste e non può esistere se non sulla base di questo patto che viene stretto tra gli individui. Dunque, la società è una creazione dell uomoʼ , la socialità non è un tratto caratteristico dell antropologiaʼ . Dunque si può intendere lʼetà moderna se ci si riferisce ad essa come unʼetà antropocentrica, il cui fulcro è l uomo e l uomo in quanto individuo. Questo, di contro allʼ ʼ ʼetà medioevale che invece si può definire, teocentrica, con Dio al centro del mondo. Si può osservare che c è un ʼ problema logico che rende per certi versi più fragile l affermazione di una cultura antropocentricaʼ , rispetto ad una cultura teocentrica. Questo perché quando si parla di cultura antropocentrica, significa affermare che al centro stanno gli uomini perchè non esiste un uomo solo. A livello matematico, a livello logico, se noi pensassimo ad un cerchio, in età medioevale questo cerchio avrebbe come centro Dio, in età moderna si sostituisce Dio al posto del quale si pongono gli uomini. Ma Dio, in quanto uno, sotto il profilo logico, può essere assoluto. Essendo molti, gli uomini sono tutti considerati come uguali fra di loro e quindi, sempre sotto il profilo logico, bisognerebbe ammettere che ciascun uomo è/sia un assoluto. Però proprio lʼimpossibilità logica di pensare alla presenza simultanea di più assoluti, rende fragile, come vedremo, la concezione dello stato di natura teorizzata da Hobbes che più si avvicina, a livello teorico, ad una concezione dell uomo come assoluto.ʼ Infine la secolarizzazione: cos è? Ci soffermiamo più sull aspetto teoretico piuttosto che sullaʼ ʼ perdita di potere dell istituzione religiosa che già appunto era avvenuta.ʼ SECOLARIZZAZIONE Intanto il termine secolarizzazione, viene anticipato quando vengono sciolti tutti gli ordini religiosi e i principi incamerano il patrimonio degli ordini religiosi, ma il termine secolarizzazione è un vocabolo che ha un significato giuridico che viene citato nei trattati di Westfalia (1648). Noi intendiamo la secolarizzazione a livello teorico, culturale, come lo spossessamento dellʼoriginario significato teologico di alcuni termini e di alcuni concetti, per assumerne un altro che è lontano dallʼoriginario valore semantico religioso, e dunque la secolarizzazione è un processo che conduce lentamente alla laicizzazione. Laicizzazione è vocabolo che deriva da “laico”. Il significato originario di “laico” è un significato che appunto trae origine in ambito religioso. Infatti nella Chiesa si distinguono i laici dai chierici. Chierici che sono le persone consacrate o addirittura chi diventa sacerdote o vescovo, ma anche i religiosi; tutti gli altri sono i laici, dunque coloro che allʼinterno della Chiesa cattolica non sono consacrati. Questo è l originario significato del termine laico che perʼ altro deriva da laos che significa popolo. La secolarizzazione può avvenire secondo due percorsi: • per separazione da parte religiosa: si propone di separare quanto appartiene alla religione da quanto invece religione non è, allo scopo di salvaguardare quanto attiene alla religione; • per separazione da parte laica: per proclamare l identità della sfera laica, cioè non sacra,ʼ profana, rispetto a tutto ciò che è religioso. Non cambia molto, che si tratti di una o dell altra. Qualora si ponga un muro, un confine, èʼ irrilevante quale parte lo ponga: in ogni caso vi è spaccatura, rottura, confine, separazione. La secolarizzazione per trasformazione per certi versi è quella più rilevante perché essa indica proprio lo spossessamento in alcuni termini, in alcuni concetti, in alcune locuzioni dell originarioʼ significato teologico, e l assunzioneʼ da parte degli stessi concetti, da parte degli stessi vocaboli di un valore semantico che prescinde da alcun riferimento alla religione, al soprannaturale. La cultura moderna è leggibile, è interpretabile proprio alla luce di una progressiva secolarizzazione di tutta una serie di concetti che assumono poi un valore esclusivamente politico prescindendo dal contesto originario di riferimento. Altro vocabolo che ha avuto origine e aveva un significato religioso è il termine “propaganda” che forse è stato un po smarrito come termine. La propaganda, che appunto indicava una serieʼ di attività legate alla diffusione di una determinata ideologia o alla promozione di un determinato candidato rispetto ad altri, veniva legata alla congregazione “Propaganda Fidei” che era stata istituita alla fine del 500, inizi del 600ʻ ʻ , proprio allo scopo di diffondere in ambito cattolico la dottrina ortodossa in risposta a tutti i cambiamenti che erano avvenuti. Successivamente, il suo esser nato in ambito cattolico è stato totalmente smarrito tanto che la prima allusione che veniva in mente, quando si parlava di propaganda, era l aspetto politico della stessa e non invece il suoʼ essere connessa ad un fine eminentemente di diffusione della fede. Per quanto riguarda la nozione “stato di natura”, essa, che designa la premessa dalla quale i giusnaturalisti moderni muovono per costruire la loro teoria politica, è leggibile come secolarizzazione di una concezione medioevale della teoria degli status. Teoria che ha la sua nascita in contesto teologico e che vale a descrivere la storia della salvezza, la cosiddetta “historia salutis”, che riguarda ovviamente tutta l umanità.ʼ Essa procede da uno stadio iniziale 5 che viene definito “ status naturae integrae” e prosegue attraverso uno “ status naturae lapsae ” per finire poi con uno “ status gratiae ”. Ovviamente della condizione originaria/dell età dell oro originaria si era parlato già nella Greciaʼ ʼ classica e nella cultura ebraica. Per quanto riguarda la descrizione della storia della salvezza, la concezione lineare del tempo tipica “nostra” proviene dal cristianesimo, mentre invece la cultura greca classica conosceva una concezione circolare del tempo legata all osservazione della natura,ʼ dall avvicendarsi delle stagioni e via seguitando. ʼ La concezione lineare del tempo si basa proprio sulla descrizione di questa “historia salutis” che promana, che ha un momento di inizio e che identifica altri momenti decisamente rilevanti nella storia dell umanità che conferiscono una svolta all umanità, alla storia stessa. ʼ ʼ LO STATO DI NATURA INTEGRA (STATUS NATURAE INTEGRAE) E’ la condizione degli uomini prima del peccato originale (gli uomini erano Adamo ed Eva). Si tratta di una condizione, di uno stato, e così com è tutta la historia salutis, che ʼ ha un carattere storico, non ha un carattere ipotetico, non ha un valore puramente ermeneutico metodologico, ma si tratta della descrizione di alcuni passaggi della storia, perché tutta la storia dell umanità èʼ storia della salvezza dell umanitàʼ , che ha come suo inizio questo status naturae integrae in cui Adamo ed Eva sono stati creati e collocati nel Paradiso terrestre. Quali erano i tratti che caratterizzavano lo status naturae integrae? La natura era integra in quanto gli uomini sono stati creati esenti dalla morte, dal peccato, dall ignoranza e dal dolore.ʼ Questi elementi erano totalmente assenti nella condizione originaria dell uomo, nella condizioneʼ edenica (propria dell Eden, paradisiaca). ʼ Tuttavia questo stato ha avuto la sua conclusione, ed è cessato in ragione del peccato originale. Peccato originale il quale ha determinato la caduta dell uomo e il suo ingresso nelloʼ “status naturae lapsae”, stato di natura decaduta. LO STATO DI NATURA DECADUTA (STATUS NATURAE LAPSAE) La caduta/decadenza dell uomo è conseguente al ʼ peccato originale, che è un atto libero compiuto da Adamo ed Eva contro il comandamento divino che vietava appunto di mangiare dall albero della conoscenza del bene e del male. La caduta determina lʼ ʼingresso del dolore, dell ignoranza,ʼ della morte e del peccato nella vita di ciascun uomo, non solo nella vita di Adamo ed Eva, ma anche nella vita dei loro discendenti, e dunque di tutti gli uomini. Dopo lo stato di natura integra, si parla di uno stato di natura decaduta, in cui l uomo appuntoʼ conosce i disagi del dolore, “partorirai con dolore”, “guadagnerai il pane con il sudore della tua fronte” (vedremo poi come questi temi ritornino anche nella filosofia di Locke). L uomo poiʼ conosce inoltre l ignoranza e la morte. ʼ La morte è una conseguenza del peccato. Questa condizione, periodo in cui lʼuomo conosce la decadenza e in cui è preda del peccato, si conclude con il sacrificio di Cristo, con la morte e risurrezione di Cristo che introduce la terza fase, lo “status gratiae”, lo stato di grazia. LO STATO DI GRAZIA (STATUS GRATIAE) Inizia con sacrificio di Cristo, ovvero con la sua morte e risurrezione. In realtà, a partire dall incarnazione di Cristo e dalla sua morte e risurrezione, si ʼ inaugura lo stato di grazia ma non cessa di essere presente lo stato di natura lapsae, per cui dall anno 0 in avanti (o anno 33).ʼ Stato di natura decaduta e stato di grazia convivono insieme: peccato, ignoranza, morte e dolore che convivono tuttavia con lʼintervento da parte di Dio che appunto con la sua grazia aiuta gli uomini a raggiungere la salvezza. STATO DI NATURA COME SECOLARIZZAZIONE PER TRASFORMAZIONE Lo stato di natura, concepito come punto iniziale della storia, momento della storia in cui ancora non c erano gli errori perchè la storia non esisteva ancoraʼ , consente di edificare dalle origini la società. La metodologia che viene introdotta innanzitutto a livello giuridico e poi in campo politico dai giusnaturalisti moderni, è una metodologia che prevede progressivamente la scomparsa del metodo interpretativo in ambito giuridico. Tale metodologia prevede, lʼedificazione in maniera scientifica del diritto e della politica a patto di non tener più presente l ammonimentoʼ che Aristotele aveva rivolto ai suoi lettori all inizio dell etica nicomacheaʼ ʼ : “non si può chiedere una dimostrazione rigorosa ai re e, nellʼambito della conoscenza pratica, della conoscenza delle azioni dell uomo, bisogna accontentarsi solo di una ʼ conoscenza di tipo probabile e non mai di una conoscenza certa o vera. Non si può applicare alle azioni umane il metodo matematico, il metodo proprio della geometria e della matematica”. Ciò, invece, questi autori giusnaturalismi moderni - e Hobbes in particolare - tendono, anzi pretendono di compiere. Infatti: A partire dall inizio del 600 i filosofi ritengono necessarioʼ ʻ avvalersi del metodo matematico, del metodo geometrico per lo studio del diritto e della politica, compiendo quello che Aristotele avrebbe definito un “grave errore metodologico.” Ma appunto, a partire da quest età, ʼ politica e diritto vengono costruiti sulla base del modello tipico delle scienze teoretiche, e non quello che fino ad allora aveva caratterizzato le scienze pratiche. Ciò che si vuol costruire è una conoscenza del diritto e della politica, ma anche della morale, che solo a partire dal 600ʻ in avanti cominciano ad essere concepite come scienze separate, mentre fino a quel momento venivano concepite come un tutt uno. ʼ Il metodo relativo al sapere scientifico, il quale si intende quello proprio delle scienze matematiche e delle scienze fisiche, viene catapultato in altre sfere. Il primo autore che si muove in quest ottica e colui che lo fa per la prima volta in manieraʼ decisamente consapevole, che estende questo metodo allo studio dell uomo nella sua totalità èʼ proprio Thomas Hobbes, di cui abbiamo accennato prima. THOMAS HOBBES (1588-1679) Vissuto in Inghilterra, si fa interprete delle dottrine assolutistiche ma è considerato autore della piena modernità. Machiavelli non era pensatore del tutto moderno. Stesso discorso per Bodin. Hobbes invece è autore pienamente moderno ed è il primo grande esponente di quella 5 che è nota come scuola del diritto naturale laico. Una vita molto lunga, 91 anni, che gli consente di attraversare varie fasi della storia inglese . Hobbes è profondamente segnato dalla storia inglese del 600. ʻ Hobbes scrive di essere nato con una sorella gemella, che è la paura. Infatti, egli era nato anzitempo in quanto in Inghilterra giungevano notizie non particolarmente rassicuranti in merito ai rapporti che la flotta inglese intratteneva con quella spagnola. C era il rischio che la flotta ingleseʼ soccombesse di fronte appunto alle capacità di quella spagnola, ma invece nel 1588 lʼArmada Invencible spagnola viene sconfitta. La cosa può sembrare un dato biografico strano, però questo ha un significato particolare perchè vedremo che per Hobbes lʼuomo è segnato dalla paura e vedremo che ruolo ha il tratto psicologico della paura nella costruzione politica hobbesiana. Hobbes lasciò l Inghilterraʼ agli esordi di quella che dagli storici è stata variamente definita come guerra civile, come rivoluzione puritana. Questo periodo della storia inglese che va dagli anni 30 agli anni 50 del 600. Egli a fine degli anni 30 lasciò l Inghilterra ʼ ʼ ʻ ʼ al seguito di una famiglia aristocratica e viaggiò lungo l Europaʼ dove ebbe modo di incontrare vari personaggi eminenti. Pare anche che abbia incontrato Galilei quando venne in Italia, stette per lungo tempo a Parigi ed ebbe modo di conoscere la cultura europea ed ebbe modo di approfondire i suoi studi. Egli comincia a pubblicare molto tardi le sue opere principali, infatti gli “Elementi di legge naturale e politica” risalgono al 1640 quando egli aveva già 52 anni. Nel 1642 viene pubblicata una delle opere più importanti sotto il profilo politico di Hobbes: il “De cive” (sul/il cittadino). De cive, insieme con De corpore (il corpo) e De homine (l uomo) che sono i titoliʼ delle altre due opere di Hobbes pubblicate tuttavia molto più tardi, costituiscono appunto la visione antropologica completa di Hobbes. In realtà questa trilogia avrebbe dovuto essere composta secondo un ordine diverso: “de corpore”, “de homine” e “de cive”. Tuttavia già nel “De cive” i tratti fondamentali del sistema filosofico di Hobbes sono pienamente descritti e le opere che egli ha pubblicato successivamente non sono altro che approfondimenti relativi ad un sistema che appunto era già stato dato fin dal suo inizio. Il leviatano L opera per la quale egli è universalmente noto viene pubblicata nel ʼ 1651. Obiettivo esplicito di Hobbes è quello di costruire, di edificare una conoscenza della politica intesa come scienza. A suo modo di vedere è possibile trasporre il metodo geometrico-matematico, allo studio del comportamento degli uomini e all analisi del ʼ comportamento degli uomini in società. E dunque è possibile elaborare una conoscenza scientifica della politica, sulla base dell utilizzo delʼ metodo proprio delle scienze geometriche e matematiche. Come è possibile questo? Che era stato invece negato da Aristotele. Ciò è possibile in ragione della concezione antropologica che viene presentata ed elaborata da Hobbes che espone descrivendo lo stato di natura: ogni uomo è un corpo e null’altro come tutti gli altri enti in natura. Egli presenta dunque una concezione meccanicistica dell uomoʼ . L uomo è un corpoʼ come tutti gli altri corpi che esistono in natura. Lʼattributo fondamentale del corpo è il movimento. Ogni corpo si muove. Egli ritiene di aver individuato anche le leggi del movimento di quel corpo che è l uomo. ʼ Il movimento dell uomo dunque è un ʼ movimento libero e volontario e viene posto sulla base di due leggi: il desiderio e lʼavversione. L uomo tende ad ʼ avvicinarsi agli oggetti che desidera e tende invece ad allontanarsi dagli oggetti o dalle situazioni verso le quali prova avversione. Dunque la legge del movimento è legata a questa duplice declinazione, inteso come desiderio verso ciò che sembra desiderabile, verso ciò che sembra piacevole per l uomo e inveceʼ l allontanamento da ciò che appare come non desiderabile, non piacevole. (Attenzione: il temaʼ del desiderio ritorna ma è declinato in maniera diversa in Hobbes rispetto a quanto avevamo visto in Tommaso o Agostino). Egli si muove liberamente fin tanto che non incontra ostacoli esterni al movimento. Ecco che emerge cosa intende Hobbes per libertà: assenza di intralci al movimento, mancanza di ostacoli al movimento stesso del corpo. Ogni uomo è un corpo e Hobbes sostiene che tutti gli uomini in quanto corpi siano pressoché uguali tra di loro. Le differenze nel corpo (fisiche) e nella mente sono pressoché nulle o comunque annullabili grazie ad alcune strategie o macchinazioni delle quali parla Hobbes, perché appunto, il più debole può uccidere il più forte grazie a qualche escamotage, raggirandolo, usando la furbizia; e ugualmente le capacità della mente sono tutte più o meno uguali tra gli uomini. D altra parte, gli uomini pensano tutti di essere tanto intelligenti e tanto saggi, cioèʼ difficilmente un uomo pensa di non essere intelligente o di non essere saggio, e quindi vuol dire che possiede quel tanto di saggezza e quel tanto di intelligenza che gli basta per essere considerata da lui adeguata, anche se ciascuno di noi non giudica altrettanto saggio o altrettanto intelligente tutti gli altri propri simili. Hobbes ritiene che non si possa aver prova migliore della uguale distribuzione di una cosa che è quella che ciascuno sia appagato di quello che ha. Il fatto che ciascuno si senta intelligente, che si senta capace, che si senta di giudicare gli altri meno intelligenti o meno capaci di lui, significa appunto che è appagato di quel tanto che ha. Questa condizione dell uomo però permane anche con i passaggi successiviʼ : la struttura antropologica rimane la stessa anche quando avviene il passaggio alla società civile. Il movimento di ogni corpo è legato alla legge dell avversione e del desiderioʼ ed è un movimento finalizzato a quel fatto o esperienza che noi definiamo come conoscenza. Questo movimento, che è finalizzato alla conoscenza, ha origine dalla sensazione. Il 1° capitolo del Leviatano parla proprio della sensazione che è la modificazione che il corpo dell uomo subisceʼ , sulla base del movimento o della presenza di un altro corpo che è esterno a lui. La sensazione produce una modificazione del corpo, a causa del fatto che poi tutti i corpi si muovono e non solo quello dell uomoʼ . La sensazione permane nel corpo dell uomo nella forma del ʼ senso illanguidito che è una forma attenuata della sensazione originaria dovuta principalmente al contatto più o meno ravvicinato con un altro corpo. Da questo senso illanguidito, si producono nel corpo e nella mente dell uomo delleʼ immagini. Cioè: l uomo conosce dopo che, avendo provato una sensazione ed essendo modificato dallaʼ sensazione stessa, ne porta un senso illanguidito e sulla base di questo senso illanguidito gli 5 IL CONTRATTO SOCIALE - (Pactum Unionis) Ci stiamo avvicinando al contratto sociale. Stiamo introducendo lʼuscita dallo stato di natura che avviene a partire dalla sottomissione dell uomoʼ , la cui ragione calcola benefici e svantaggi dello stato di natura e si sottomette alla legge di natura e, dopo la sottomissione alla legge di natura, si avvia l istituzione del pattoʼ sociale. Il patto sociale avviene attraverso la rinuncia da parte dei soggetti che decidano liberamente di farlo, di esercitare il proprio diritto sopra tutte le cose, a patto che anche tutti gli altri facciano altrettanto . Prima cosa: non tutti sono necessitati a compiere questa scelta, qualcuno se vuole può rimanere nello stato di natura. Per gli altri, affinché il contratto sociale abbia valore e affinché il contratto sociale venga rispettato, (tutti si sono sottomessi al pacta sunt servanda e quindi ci si può aspettare che mantengano il patto che hanno stipulato), Hobbes descrive un meccanismo. Il meccanismo porta alla costituzione della società civile e quindi all uscite dalla condizioneʼ dello stato di natura. Il contratto sociale in realtà è la sommatoria di tanti contratti bilaterali quanti sono gli uomini che stipulano il contratto stesso, cioè quanti sono gli uomini che intendono entrare nella società civile. A due a due, gli uomini, rinunciano reciprocamente ad esercitare il proprio diritto su tutte le cose, a patto che l altro faccia altrettantoʼ , e nello stesso tempo consentono che il sovrano continui ad esercitare il diritto sopra tutte le cose. Rinunciare allo ius in omnia, equivale alla rinuncia della libertà di cui ciascuno era dotato. Si acconsente che un terzo possa continuare ad esercitare il diritto assoluto su tutte le cose; questo terzo è il sovrano. Norberto Bobbio ritiene che il contratto sociale di Hobbes sia configurabile come un contratto a favore di terzo, in cui il sovrano sarebbe effettivamente estraneo al patto e dunque non vincolato al patto stesso. Qual è lo scopo di questo contratto? Perchè cioè gli uomini hanno acconsentito a sottomettersi alla legge di natura? Lo scopo è lʼautoconservazione, aver salva la vita. Lʼunico profilo del diritto su tutte le cose che viene mantenuto da ciascun uomo è proprio il diritto alla vita . A questa non si rinuncia. E in questo consiste lʼunico limite al potere del sovrano, che è un sovrano assoluto in tanto in quanto è svincolato da qualsiasi obbligo che non sia quello di fare in modo che i cittadini possano mantenersi in vita . Hobbes parla di questo contratto sociale come di un “Pactum Unionis” di un patto di unione attraverso il quale gli uomini si costituiscono in una società civile. Si tratta di un patto di unione, al quale di li a poco succederà un patto di assoggettamento, detto “factum subiectionis”. Il patto di assoggettamento implica la sottomissione al sovrano. Dal contratto sociale nascono lo stato e nasce il sovrano. Di stato e sovrano non c era traccia nello stato diʼ natura. Lo stato nasce e viene identificato da Hobbes anch esso ʼ come una sorta di macchina. Dice che per capire bene il suo funzionamento bisogna conoscere prima di tutto le parti che la compongono. Questo sta ad indicare la concezione di Hobbes che riconosce il primato delle parti sull’intero, (smentendo l’idea aristotetitelica). Le parti che compongo lo stato sono tutti i membri che hanno sottoscritto il patto sociale. Anche lo stato tende ad auto conservarsi, ed anche lo stato, per certi versi, è aggressivo e pauroso. I rapporti internazionali tra gli stati, secondo Hobbes, avvengono analogamente a quanto avveniva nei rapporti tra gli uomini nello stato di natura, rapporti di forza. Lo stato di natura non è dunque una condizione ipotetica o un presupposto logico, ma ha anche un valore storico. Nello stato di natura si trovano i sovrani, avvengono i rapporti tra gli stati, ci sono anche coloro che non vogliono entrare nello stato. Lʼautorizzazione da parte di ciascun uomo al sovrano di esercitare il diritto naturale prevede anche che ciascuno assicuri che non opporrà resistenza all esercizio da parte del sovrano del diritto sopra tutte le coseʼ . Sovrano può essere sia un assemblea, sia un piccolo gruppo aristocratico, sia un monarca. ʼ Lʼindividuazione del sovrano è uno degli elementi che costituiscono il contratto sociale: cioè gli individui designano il sovrano già nel momento in cui stipulano il contratto. Il sovrano è colui che incarna lo stato. Tutti gli altri sono definiti da Hobbes “sudditi”, ed essi garantiscono, assicurano al sovrano ubbidienza, affinché egli protegga la loro vita. Lo stato dunque è un uomo artificiale e al suo interno sono presenti delle parti che sono analoghe a quelle che compongono la struttura dell uomo naturale. ʼ Il sovrano rimane estraneo al patto sociale, il quale non assume alcun altro compito se non quello di assicurare la salvezza della vita degli individui. Dopo che lo si è generato gli si assicurerà ubbidienza e fedeltà. La sovranità, frutto di questo atto di rinuncia irrevocabile, (pacta sunt servanda), è dotata dei caratteri dell’irrevocabilità, dellʼassolutezza, ed è indivisibile. Sono gli stessi tratti della sovranità nella filosofia di Bodin. Irrevocabilità: la rinuncia alla propria libertà non è rescindibile, dunque non può essere ritirata: dopo che si è rinunciato al proprio diritto naturale su tutte le cose e si è riconosciuto invece al sovrano la possibilità di continuare ad esercitare tale diritto, questa rinuncia diventa irrevocabile. Per questo motivo, non si può, nell ottica di Hobbes, ʼ dar vita ad uno stato per poi pensare di distruggerlo. Assolutezza: il sovrano resta l’unico titolare dei diritti assoluti, ed è un sovrano legibus solutus perché egli non ha sottoscritto il patto. La libertà nella società civile è residuale ed è definita da ciò che la legge positiva non vieta. La sua assolutezza è data anche dalla sua irresistibilità, i sudditi hanno ceduto il loro diritto e non hanno la forza di resistergli. Non limitato nemmeno dalle legge divine. Indivisibilità del potere. Il sovrano rappresenta lo stato ed è una persona artificiale che detiene il potere statale e che ha come suo compito quello di emettere degli atti di volontà i quali sono dei comandi rivolti ai sudditi. Allo scopo della formazione della volontà del sovrano che si forma autonomamente e liberamente, che egli coincida con un unica persona è la cosa miglioreʼ in quanto più semplice rispetto ad una volontà scaturita da una assemblea. Dunque alcun diritto di resistenza è ammesso al potere del sovrano . Vi è un unico dubbio che si insinua a questo riguardo: poiché ciascuno rinuncia ad esercitare il suo diritto naturale su tutte le cose e avviene una sorta di identificazione della propria volontà con quella del sovrano dato che al sovrano si riconosce l esercizio del diritto, ʼ Hobbes si chiede se il sovrano possa lecitamente e legittimamente condannare a morte un suo suddito . Si tratta di un punto problematico perchè la ragione per cui lo stato è sorto è proprio l aver salva la vita e ilʼ proprio corpo. 5 Dunque in linea di principio si dà una contraddizione nel caso il sovrano decida di condannare a morte i sudditi. In linea di principio, Hobbes dovrebbe vietare al sovrano di condannare a morte i sudditi che si siano macchiati di reati ritenuti talmente gravi, ma ciò contrasta con 1) lʼassolutezza del potere sovrano e con il fatto che, poiché il sovrano detiene il diritto su tutte le cose, egli ha anche il diritto sul corpo degli uomini che gli riconoscono la possibilità di esercitarlo, e nello stesso tempo 2) i codici penali (definibili ante litteram, dato che non era ancora stata avviata la codificazione) che prevedevano ampiamente nel 600 la pratica della pena di morte.ʻ Come possano essere contemperate le due esigenze, quella dellʼindividuo di aver salva la pelle e quella del sovrano il cui potere assoluto si dovrebbe esercitare anche sul corpo di tutti i sudditi, per salvare il quale però il sovrano è stato istituito. In questa circostanza, Hobbes diciamo fa un passo indietro rispetto alle argomentazioni che sostiene: infatti egli non giunge alla conclusione di impedire al sovrano di condannare a morte il suddito e né consente al suddito di ribellarsi al sovrano cosa che era impossibile in ipotesi. Lʼidentificazione tra la volontà del suddito e quella del sovrano che avviene grazie all artificio del contratto sociale, ʼ non contempla il fatto che il suddito possa volere la propria morte. La questione della pena di morte viene così risolta: che, per quanto attiene ai rapporti tra il sovrano e il suddito che venga ritenuto responsabile di un reato talmente grave da meritare la pena capitale, si ritorni a quella dinamica dei rapporti che era tipica dello stato di natura. Questo perchè si trovano di fronte due prerogative entrambe legittime: quella del singolo di aver salva la vita e quella del sovrano di avere il diritto su tutte le cose, compreso il corpo dei sudditi. La logica dei rapporti propria dello stato di natura è la logica della forza e dunque il sovrano ha maggior forza e molto probabilmente il suddito soccombe. La pratica scientifica della gestione del potere e della politica è possibile grazie alla presenza di un potere di tipo monarchico. Perché se il sovrano fosse incarnato da un assemblea, egli dovrebbe necessariamente assumere decisioni sulla base di unaʼ maggioranza che si venga a creare tra i membri dell assemblea stessa, dato che lʼ ʼunanimità è praticamente impossibile, osserva Hobbes. In linea di principio si può ammettere che una forma di stato democratica sia ammissibile, e dunque che il sovrano possa essere di tipo democratico, tuttavia è preferibile, proprio allo scopo della formazione della volontà del sovrano, che coincida con un unica persona la cui volontà appunto si forma autonomamente e liberamente inʼ ordine ai fini che il sovrano intende raggiungere. E quindi la formazione della volontà è più semplice. Questa pratica scientifica della politica prevede che il re debba circondarsi di consiglieri, egli deve avere l accortezza di non convocare ʼ mai il consiglio in quanto corpo, in quanto assemblea, ma di convocare ciascuno dei consiglieri che compongono il Consiglio stesso . Ciò per evitare che il consiglio pretenda di assumere un potere autonomo o un potere privilegiato nei confronti del sovrano. Le decisioni del sovrano saranno sempre e comunque insindacabili da parte di chiunque. Hobbes cioè tende sempre ad identificare dei meccanismi che valgano ad assicurare la massima libertà di azione del sovrano, la cui volontà devʼessere sempre ubbidita, rispettata dai cittadini. Ogni cittadino ha quei diritti che il sovrano ritenga di affidargli (non di riconoscergli perchè nn c è alcun diritto da riconoscere). Ogniʼ diritto viene creato dal sovrano e se il sovrano riterrà opportuno per i fini noti, assicurare, dare o assegnare qualche diritto ai sudditi, allora lo farà. Diversamente, nessun diritto ai singoli sarà riconosciuto. Il diritto nello stato assoluto, nato dal patto sociale, è un diritto che è esclusivamente positivo. Ogni diritto è tale perchè espressione della volontà del sovrano. Cioè, attraverso il giusnaturalismo, Hobbes in realtà giustifica e fonda il giuspositivismo. Non necessariamente ogni legge dev essere scritta; una legge è una proposizione che, ʼ oralmente o per iscritto, esprime la volontà puntuale del sovrano in ordine ad un determinato problema. Non esiste più alcun diritto naturale se non quello del sovrano. Nella società civile ogni diritto è diritto positivo, il quale è e dà il contenuto della giustizia. Ciò che vuole il sovrano è per definizione giusto ed è il criterio della giustizia. Mentre la rinuncia degli individui è irrevocabile, gli atti di volontà del sovrano sono invece revocabili da egli stesso. Il suo potere sovrano si manifesta innanzitutto nel potere legislativo che si esprime nelle leggi, alle quali ovviamente, il re non è sottomesso,e che egli discrezionalmente, può derogare o abrogare a suo piacimento. La legge è, per sua natura, una proposizione che ha una natura eminentemente pubblica in quanto deve essere nota ai destinatari i quali sono tenuti tutti ad ubbidire. La legge diventa dunque una delle armi delle quali Hobbes si avvale, per eliminare l arbitrio dalla vita politica. Perché la legge è comunque unʼ atto insindacabile al quale ci si deve attenere. LA PROPRIETÀ PRIVATA Attraverso la legge il sovrano, tra le altre materie, regolamenterà la proprietà privata, la quale esisteva nello stato di natura solo in via provvisoria perché ciascuno possiede alcune cose fin tanto che ha la forza di trattenerle e nessun altro è interessato ad esse. In linea di principio, nello stato assoluto, di tutte le cose è padrone lo stato. Se il sovrano lo ritenga, può riconoscere ai sudditi che mantengano quella proprietà provvisoria di cui disponevano nel momento in cui hanno stipulato il contratto sociale, ma in ogni caso padrone di tutto è lo stato e se il sovrano lo decide, riconoscerà la proprietà privata . In ogni caso, diversamente da Bodin, poiché di tutto è proprietario lo stato che ha diritto su tutte le cose, in Hobbes non è presente la distinzione fra il patrimonio pubblico e la proprietà privata e questo ha la funzione di ovviare ad un altro gravissimo problema che affliggeva lo stato moderno e che aveva soprattutto afflitto le organizzazioni politiche medioevali, che è la capacità impositiva dello stato stesso, cioè la capacità di imporre e di esigere tasse e tributi. Nel corso del medioevo, affinché una tassa potesse essere imposta, doveva superare l approvazione da parte dei ceti o delle corporazioniʼ , perchè la proprietà privata era considerata intangibile e lo stesso accadeva nella concezione bodiniana che prevedeva la netta separazione tra pubblico e privato. In tanto in quanto nella riflessione hobbesiana è assente questa distinzione, si riconosce al sovrano il diritto di imporre le tasse che egli ritenga necessario al fine di agevolare la vita dello stato stesso . E dunque la monarchia assoluta di Hobbes è ancora una volta molto più forte, molto più solida rispetto alla teoria della sovranità elaborata da Bodin. 5 LA LIBERTÀ Nello stato di natura consisteva nella possibilità di muoversi verso gli oggetti del desiderio o di allontanarsi da quanto invece fosse causa di avversione, ed era tale quando il movimento potesse avvenire senza ostacoli esterni. La libertà, anche nello stato civile, continua ad essere vista come assenza di ostacoli esterni. Problema: il suddito è libero o non è libero? La presenza del sovrano è pensabile o no come un ostacolo nei confronti dell azione libera di ciascun cittadino? Nella nostra ottica si. Ma nell otticaʼ ʼ di Hobbes, questo è più difficilmente argomentabile; infatti nel passare allo stato politico, alla società civile, il suddito rinuncia alla propria volontà e la identifica con quella del sovrano. Quindi, avvenendo questa identificazione della volontà del suddito con quella del sovrano, bisognerebbe ammettere che il cittadino è libero. Ma è libero, per definizione, ma anche per finzione perché è evidente che la finzione sta nell identificazione della volontà del suddito con laʼ volontà del sovrano. Se noi consideriamo il suddito in quanto uomo, potremmo dire che il corpo dell uomo rimaneʼ libero di muoversi verso gli oggetti del desiderio. Dunque potremmo dire che la libertà dellʼuomo nello stato assoluto teorizzato da Hobbes, è una libertà residuale che si estende nei campi che il sovrano abbia deciso di non disciplinare. Un uomo è libero fino a quanto la legge non gli vieta di fare qualcosa. Alcuni lettori di Hobbes, hanno ritenuto di poter intendere nella riflessione di Hobbes in questi termini, un aspetto di protoliberalismo. Ma bisogna tener conto che egli non si preoccupava di essere liberale o meno, prima di tutto perchè non c era ancora la teoria politica liberaleʼ inventata da John Locke, ma anche perchè la sua preoccupazione era quella di avere uno stato forte che impedisse le guerre civili, che impedisse ai singoli e alle sette religiose o ai gruppi politici di combattersi lʼun lʼaltro e di distruggere, di conseguenza, lo stato. Potremmo dire che la libertà che rimane è la libertà di pensiero, ma a livello esteriore, il singolo uomo deve attenersi completamente alle disposizioni che il sovrano emana. RAPPORTI STATO - CHIESA / POLITICA – RELIGIONE L ultimo aspetto che riguarda laʼ filosofia di Hobbes e il suo Leviatano, è il rapporto tra Stato e Chiesa, o per meglio dire tra religione e politica. Il Leviatano è composto di 4 sezioni. La prima parte si intitola “L uomoʼ ” e raccoglie 16 capitoli, la seconda dal cap. 17 al cap. 31, si intitola “Lo stato”, la terza e la quarta parte che abbiamo identificato in una, trattano la prima dello stato cristiano, e la quarta del regno delle tenebre e dunque il rapporto fra politica e religione nell opera di Hobbes, è un rapporto estremamenteʼ importante e non potrebbe non essere così all alba del 600. ʼ ʻ Egli, nelle ultime due parti manifesta, rivela tutta la sua conoscenza della Sacra Scrittura, delle varie interpretazioni, della storia sacra ecc, e ne tiene conto x la giustificazione di uno stato cristiano e per osservare che, in ogni caso un regno delle Tenebre, cioè un regno del diavolo frutto del peccato, è sempre presente anche attualmente. In ogni caso che rapporto cʼè tra politica e religione nello stato assoluto? La copertina del libro riprende il frontespizio dell editio princeps del “ʼ Il Leviatano” (1651) raffigura il sovrano, cioè lo stato. Il sovrano, quell uomo artificialeʼ , è composto al suo interno da tanti piccoli "omini", i quali compongono il corpo dello stato. Ciò dimostra che ciascun individuo rinuncia a sé stesso e viene assorbito nello stato, identificandosi in esso. Il sovrano domina la campagna, domina le città e quindi il territorio dello stato e tiene nella sua mano destra la spada e nella mano sinistra il pastorale. La spada è l insegna del ʼ potere politico, il pastorale è l insegna del ʼ potere religioso, il potere del vescovo. Lʼautorità del sovrano si esercita sia a livello religioso sia a livello politico. Non esiste nello stato alcuna altra autorità, egli è anche il capo della Chiesa. Nello stato di natura, la libertà dei singoli prevedeva anche, tra le altre, la libertà di professare la religione che ritenessero essere la più adeguata per loro. Nello stato assoluto invece, ciascun suddito deve appartenere alla Chiesa di stato: deve partecipare al culto pubblico regolato dallo stato, disciplinato dal sovrano, il quale esercita al tempo stesso la sua giurisdizione in materia civile e in materia penale, ma anche in materia religiosa. Così come avveniva nell ottica diʼ Marsilio da Padova, in cui la Chiesa era una parte essenziale dello Stato, ma non c era alcunʼ potere religioso perchè anche la convocazione dei Concili era sottomessa al sovrano. Secondo il materialista e giuspositivista Hobbes, è impossibile negare l esistenza diʼ Dio: essere materialisti non significa essere atei. Nello stato assoluto è necessario che vi sia uniformità sotto il profilo religioso. D altra parte non poteva essere diversamente in un autore che era fuggitoʼ dall Inghilterra all alba del 1641, quanto i conflitti tra il Parlamento e la Corona, facevanoʼ ʼ presagire grossi problemi. JOHN LOCKE (1632-1704) La sua famiglia appartiene alla borghesia medio-piccola. Inizialmente egli comincia la sua formazione finalizzata all accesso alla carriera ecclesiasticaʼ . Si trattava, la sua, di una famiglia puritana. Insegna greco, retorica, filosofia morale. Compie degli studi di medicina senza tuttavia conseguire la laurea. Locke è considerato colui che fonda la teoria politica liberale o stato liberale. Da un certo momento in avanti egli diventa consigliere personale, oltre che medico, di Lord Ashley, futuro conte di Shaftesbury. Locke diventerà cancelliere di Giacomo II, carica che tuttavia deterrà per poco tempo. A seguito di Lord Ashley, egli diventerà, per così dire, partecipe della vita politica inglese nelle cui pratiche era addentro, proprio svolgendo questo ruolo di consigliere. Vita politica che in Inghilterra a quel tempo si svolgeva in Parlamento oltre che nell ambiente della Coronaʼ , dove si fronteggiavano i partiti dei Whigs e Tories, i quali rappresentavano l uno l ala più liberale, l altro quella conservatrice del panorama politico. E leʼ ʼ ʼ denominazioni dei due partiti erano in realtà degli epiteti ingiuriosi che si scambiavano l unoʼ contro l altra. Locke appartiene, assieme a Lord Ashley, al ʼ partito più vicino agli ideali riformati. Ci soffermeremo nello studio di un opera che viene pubblicata negli anni 90 circa, ʼ ʼ dopo che in Inghilterra nell 89 si era consumata laʼ “gloriosa o incruenta rivoluzione” (senza sangue - bloodless)”, ad opera di Guglielmo d Orangeʼ insieme con Maria sua moglie, che dall Olandaʼ erano giunti in 5 Locke manifesta una concezione progrediente della storia, la quale si evolve da una condizione originaria, e che appunto determina il conseguimento di sempre nuove modalità di rapporto e di relazione tra gli uomini. Gli uomini anche nello stato di natura possono stringere accordi fra di loro , perchè anche nel momento in cui barattavano facevano dei patti tra di loro e la dinamica dell accordoʼ diventa caratterizzante i rapporti nello stato di natura sulla base del fatto che gli uomini già nello stato di natura sanno mantenere la parola data, diversamente da quanto invece accadeva nello stato di natura di Hobbes. La condizione che è stata descritta in principio, per lo meno prima dell introduzione dellaʼ moneta aura, era una condizione che sembrava di pace, desiderabilissima in quanto tutti gli uomini sono dotati di ragione, sono liberi, sono uguali, hanno di che mangiare bere ecc. perché lavorano la terra e ogni famiglia dispone dei beni che gli sono necessari, non si capisce come mai ad un certo punto questo stato di natura si sarebbe concluso. Sulla base di queste considerazioni, Locke non giunge a conclusioni di tipo anarchico perchè è un razionalista. Il suo pensiero è di tipo razionalista, ma la sua cultura è pregna anche di empirismo e quindi non prevede la presenza di idee innate nell uomoʼ . È vero, lo stato di natura è uno stato di perfetta libertà entro i limiti della legge naturale ma, poiché non vi sono idee innate, nessun uomo conosce in maniera perfetta la legge di natura. La legge di natura viene appresa dagli uomini, i quali la debbono imparare, ma quand anche tutti la conoscessero,ʼ non tutti la applicherebbero. Perchè gli uomini, è vero, sono dotati di ragione, ma anche sono soggetti alle passioni e spesso l applicazione della legge naturale è subordinata o èʼ inquinata dalle passioni dell uomoʼ . Secondo Locke, quindi lʼignoranza della legge di natura genera alcuni problemi nello stato di natura stessa. Quindi, in astratto gli uomini sono liberi ed eguali, ma poi in concreto questa libertà e questa uguaglianza non sempre sono semplici da esercitare. 3 TIPOLOGIE DI DIRITTI NATURALI Sulla base dell originario diritto di proprietàʼ si possono tematizzare 3 tipologie di diritti naturali. Questi 3 diritti possono essere letti come triplice espressione della forma originale della proprietà. 1. diritto alla vita, che in ultima istanza è il diritto sul proprio corpo e alla conservazione del proprio corpo. 2. diritto alla libertà, il quale è invece il corrispettivo di quella libera manifestazione del proprio corpo. 3. diritto di proprietà in senso stretto nei confronti dei beni, delle cose. Vita, libertà e proprietà sono i tre diritti fondamentali di cui ciascun uomo gode secondo Locke. Essi si presentano come specificazione dell originario diritto di proprietàʼ di cui abbiamo parlato: proprietà su sé stessi (vita), la proprietà sulle proprie azioni (libertà) e la proprietà sui beni esterni (proprietà). Questi sono definiti da Norberto Bobbio come diritti naturali primari. Nello stato di natura, lʼuomo ha non solo questa proprietà originaria che si manifesta nella sua vita, sulle proprie azioni e sui beni esterni, ma dispone anche del potere esecutivo della legge naturale. Quella legge naturale, entro i limiti della quale si svolgono le dinamiche dei rapporti tra gli uomini nello stato di natura e che tutti dovrebbero conoscere, può essere applicata e fatta valere da ciascun uomo dello stato di natura. Questa sorta di potere esecutivo della legge naturale si manifesta in due profili, secondo due direzioni: nella possibilità di farsi giustizia da sé, dato che non esiste nessun giudice superiore agli altri e nella possibilità di punire nel caso qualcuno commetta una qualche azione contraria alla legge di natura. Questi due profili, diritto rappresentano quelli che sempre Norberto Bobbio definisce diritti naturali secondari. Ciascun uomo, quando appunto vengano poste in essere delle azioni contrastanti rispetto alla legge di natura, azioni che ledano i diritti di natura di un soggetto, chi viene danneggiato può punire chi ha commesso l azione contro la legge diʼ natura, ma può anche esigere il risarcimento per l azione, per il danno che ha ricevuto, cercareʼ di riappropriarsi del bene. Dunque quando nello stato di natura sorge una controversia, ciascuno è giudice in causa propria. E proprio in relazione a questo potere esecutivo della legge naturale, proprio in relazione al fatto che non sempre è possibile né ottenere la repressione dell attoʼ appunto contrastante con legge naturale, dell uomo che ha compiuto quell atto ʼ ʼ né punirlo in maniera adeguata, che questa condizione, che sembra desiderabilissima, presenta alcuni inconvenienti, tanto che: gli uomini ad un certo punto decidono di allontanarsi dallo stato di natura, decidono di lasciare lo stato di natura, di abbandonarlo e di istituire la società civile . Nello stato di natura gli uomini vivono in relazione gli uni con gli altri (Locke parla della famiglia patriarcale) e tuttavia le relazioni tra gli uomini sono connotate dallʼ insicurezza che è connotata la possibilità di far eseguire la legge naturale, tanto che gli uomini si accordano tra di loro e decidono di stipulare un contratto sociale grazie al quale si uniscono in una società civile e si sottomettono ad un autorità.ʼ Ragione e passione compresenti nello stato di natura, rendono preferibile allontanarsi dallo stato di natura, che è uno stato di insicurezza. Lʼobiettivo è quello di fare in modo che i diritti di cui ciascuno gode fin dallo stato di natura, vengano tutelati con maggiore sicurezza in una condizione in cui qualcuno detenga lʼautorità necessaria per far valere e per proteggere i diritti stessi. Quindi secondo Locke lo scopo del contratto sociale è quello di tutelare in maniera più certa i diritti naturali (vita-libertà-proprietà). A questo scopo viene istituita unʼautorità alla quale gli individui conferiscono il potere esecutivo della legge naturale di cui ciascuno è titolare. Il meccanismo del contratto sociale per Locke dunque è questo: ciascun uomo continua a conservare i propri diritti naturali primari, mentre cede al potere politico che viene istituito con il patto i diritti naturali secondari. La logica liberale è quella in base alla quale lo stato sorge per proteggere, garantire, tutelare i diritti. I diritti precedono lo stato, l autorità statuale, ed è per questo che il compitoʼ dell autorità politica è quello di preservare, di garantire i diritti stessi. E ciò costituisce il ʼ limite all azione del potere politicoʼ , detentore dei diritti naturali secondari finalizzato alla garanzia dei diritti naturali primari. Questo potere si articola al suo interno in modo che possano essere svolte diverse funzioni. Funzione di tipo legislativo che dev essere ʼ svolta all interno dello statoʼ , funzione legislativa che mai può prescindere ovviamente dal riconoscimento dei diritti naturali primari, ma che eventualmente è volta a disciplinarli, riconoscendoli, garantendoli e introducendo tutti quei meccanismi a questo fine. 5 Funzione di tipo esecuzione legata all’esecuzione della legislazione stessa. Del resto, non potrebbe essere che Locke non contempli la presenza di un potere esecutivo, dato che ciascuno aveva trasmesso al potere politico il potere esecutivo rispetto alla legge naturale del quale era titolare. Nel potere esecutivo Locke fa confluire anche il potere giurisdizionale, proprio per il fatto che questo potere si origina dai diritti naturali secondati. Questi due poteri, sono affidati ad organi diversi. Potere legislativo è una funzione che si svolge sulla base di un metodo che, sulla base delle riflessioni metodologiche di fine 800, può essere ʻ definito “generalizzante”. La legge è indirizzata alla totalità degli associati e viene praticata solo quando è necessario che una legge venga emanata e poi dopo che il Parlamento è stato convocato ed ha approvato la legge, si riaggiorna in una sessione ulteriore. Potere esecutivo invece ha una funzione individualizzante perchè la legge deve sempre essere praticata, sempre essere fatta valere. Il potere esecutivo, che la fa valere in tutti i momenti, deve funzionare sempre, tutti i giorni e non può essere come il potere legislativo che funziona ad intermittenza. Quindi necessariamente potere legislativo ed esecutivo devono essere affidati ad autorità distinte. I tre inconvenienti che, seppur lievi, ineriscono allo stato di natura sono: La scarsa conoscenza dei contenuti della legge naturale e quindi il difficile rispetto letterale della legge naturale stessa e quindi indeterminatezza del diritto di natura legato a questa scarsa conoscenza della legge di natura; Lʼassenza di un giudice imparziale che intervenga in caso di controversie che comunque possono sempre sorgere tra gli uomini nello stato di natura. La difficoltà di far eseguire eventualmente le decisioni che emergano e far rispettare eventuali sanzioni che vengono comminate. La necessità della tutela dei diritti naturali. Mancando appunto un autorità superiore questoʼ stato sperabilmente deve essere superato, dev essere abbandonato per dare maggiore certezzaʼ ai diritti, maggiore certezza alla legge naturale, e dunque per farla valere. Il problema è di far valere con la forza i diritti di natura. Ed allora ecco sgorgare dalla volontà dei singoli, degli uomini che vivono in questo stato di natura che ha un carattere per certi versi storico, per altri ipotetico nella riflessione di Locke, la necessità del contratto sociale che prevede due momenti: 1.unione tra i contraenti e quindi costituzione della società civile 2.assoggettamento all autorità politicaʼ , successivamente all unione (successivo a livelloʼ logico). NASCITA POTERE POLITICO Contratto sociale che è legato alla necessità di tutelare e di garantire i diritti di natura. L istituzione del ʼ potere politico è la prima conseguenza del contratto sociale, oltre alla nascita della società in senso stretto. Potere politico che si articola in due distinti poteri indicati da Locke. Si tratta di due poteri proprio perchè confluiscono nel contratto sociale due aspetti distinti. Il potere deriva da due atti che sono unione e assoggettamento. Quindi, dalla costituzione della società per la necessità di far valere e proteggere i diritti di natura, nasce il potere legislativo. Il potere legislativo ha infatti il compito di emanare le leggi, le quali hanno lo scopo di regolamentare i diritti di natura. Successivamente, dal fatto che gli uomini cedono il loro potere esecutivo , rispetto alla legge naturale, sorge il potere esecutivo in senso stretto; potere esecutivo che prevede al suo interno anche il potere giurisdizionale. Il potere esecutivo è titolare anche di quella che Locke definisce “prerogativa” ovvero la possibilità di deroga rispetto alle leggi. Prerogativa che spetta unicamente al potere esecutivo ed è finalizzata ovviamente sempre alla salvaguardia dei diritti stessi e dello stato. Il potere esecutivo, in certi casi, può derogare dalla applicazione della legge in senso stretto, ma lo può fare entro determinati limiti dato che mai possono essere conculcati i diritti naturali primari, se non in condizioni eccezionali, per salvaguardare gli stessi. Il potere legislativo emana leggi che hanno per materia i diritti naturali primari. Questi non possono essere mutati, soppressi, conculcati. I diritti naturali primari devono solamente essere regolamentati. All interno del potere esecutivo, Locke ʼ prevede un ulteriore funzione che per la verità ad alcuni interpreti sembra configurare in certi casi un potere autonomo rispetto agli altri due. Si tratta di un potere che viene definito potere federativo. L oggetto è laʼ regolamentazione dei rapporti internazionali e quindi dei rapporti con gli altri stati. La stipula dei trattati internazionali (di pace, o mantenimento delle relazioni con gli altri stati). Lo stato dunque che sorge dal contratto sociale lockiano, è uno stato debole, dotato di poteri limitati perchè il suo scopo preciso è quello di proteggere, di salvaguardare, di garantire i diritti naturali primari. Ha quasi il ruolo del poliziotto che deve salvaguardare l ordineʼ . Il diritto naturale continua a valere anche nella situazione nuova, nella condizione che nasce con il contratto sociale (dunque la condizione della società civile) e continua a vincolare le funzioni dello stato stesso. Dunque lo stato, per Locke, è debole e così deve rimanere. Il sovrano, o il legislatore, è sempre sottomesso alla legge di natura e al diritto di natura che non possono essere trasgrediti. Il diritto positivo è un diritto che ha uno scopo legato alla regolamentazione dei rapporti che già esistono per natura. È chiaro che l organizzazione che prevede Locke ʼ non impedisce che il potere politico possa degenerare o eccedere nei limiti entro i quali dovrebbe mantenersi. Locke si concentra anche sulla possibilità che il potere politico degeneri o ecceda i limiti del suo esercizio e quindi si chiede che cosa possa accadere nei rapporto tra i cittadini e il sovrano, quanto appunto il potere politico viene esercitato con degenerazione o oltre i limiti. Il problema è questo: i conflitti e le controversie tra i cittadini vengono regolate dallo stato, dopo il contratto sociale; ma nel caso invece sorgano dei conflitti tra lo stato e il cittadino, come si procede? Nello stato di natura in caso di lite vince il più forte quando non ci si riesce ad accordare, perchè manca una figura terza esterna e superiore che riesca a far prevalere la legge naturale. Ma se ci troviamo in una condizione di stato il problema è capire se si possa identificare una terza autorità che possa prevalere sia sullo stato che sul cittadino. L autorità terza superiore allo stato e ai cittadini èʼ Dio. Il terzo per Locke c è e c è sempre edʼ ʼ è Dio. Infatti, nel caso intervengano delle circostanze che rendono necessario lo scontro tra il potere politico e i cittadini, la soluzione viene rintracciata appellandosi a Dio. Locke identifica un diritto, definito come diritto di appello al cielo il quale è un diritto naturale che tuttavia non veniva esercitato nel periodo in cui gli uomini vivevano nello stato di natura (perchè può essere 5 invocato solo in caso di contrasto tra cittadini e stato, e dunque è necessaria l esistenza delloʼ stato). Locke identifica 4 casi in cui o i cittadini o lo stato possono appellarsi al cielo : 1. la tirannide, cioè lʼabuso di potere da parte dello stato o lʼesercizio illegittimo del potere da parte dello stato non conforme ai limiti prescritti dal contratto sociale 2. oppure il caso dellʼusurpazione del titolo di sovrano da parte di qualcuno che non ne ha titolo, potrebbe darsi che un suddito o un terzo usurpi il titolo del sovrano e si metta ad esercitare il potere politico 3. aggressione da parte di uno stato nemico 4. dissoluzione dello stato Il diritto di appellarsi al cielo che diventa, a ben guardare, se lo si considera dal punto di vista dei cittadini, diventa un diritto alla rivoluzione. Se invece lo si guarda dal punto di vista del sovrano, diventa un diritto alla repressione. Quando ci si appella al cielo in realtà tra i cittadini e lo stato si apre un conflitto, e colui che lo vince sarà colui che gode dell appoggio di Dioʼ . Si ha dunque una re-introduzione della soluzione dei conflitti sulla base del criterio della forza . Il cittadino ha il diritto di resistere al sovrano nel caso questo sia eccessivamente debole o nel caso non protegga in maniera adeguata i diritti naturali primari o nel caso appunto la debolezza dello stato sia tale da comportare la dissoluzione dello stato stesso o lʼinvasione del territorio da parte di uno stato straniero. Allo stesso modo, il sovrano si può opporre lecitamente ai cittadini che si ribellano nei suoi confronti. Chi ha la meglio in questa contrapposizione, sarà colui/coloro che godrà della protezione di Dio. Se la rivoluzione è avvenuta, se il popolo se i cittadini sono stati abbastanza forti da riuscire a destituire il sovrano, la rivoluzione avrà successo e il nuovo sovrano sarà un sovrano legittimo. La rivoluzione può essere cruenta o meno, come nel caso di Guglielmo d Orange eʼ Mary Stuart. Il fatto compiuto in questo caso diventa fonte del diritto. Per Locke un ateo non ha il diritto di essere tollerato nello stato, proprio perchè egli, non riconoscendo l esistenza di Dio fa un atto contro ragioneʼ e non può stipulare il contratto sociale, perchè non ha nessuno che garantisce per lui che sarà un bravo cittadino non ha su cui prestare giuramento. Lo stato ammette la possibilità che si possano seguire varie confessioni religiose, che si possano praticare diversi culti, a patto che se ne pratichi uno e si creda in Dio. Se non si crede in Dio non si può stipulare il contratto sociale e quindi lʼateo è fuori dalla società. Locke ritiene che nello stato liberale non possano essere tollerati i cattolici. Questo perchè essi sono divisi nella loro fedeltà al Papa e al sovrano. Infatti per i cattolici, in questo caso, Locke si avvale dellʼepiteto di “papisti”. Essi cattolici, certo possono stipulare il contratto sociale perché credono in Dio e quindi Dio può garantire per loro. In linea di principio si potrebbe anche ammettere che essi mantengano la loro fiducia nei confronti del sovrano, tuttavia nel caso il Papa dia degli ordini non conformi con quelli del sovrano, i cattolici potrebbero rimanere fedeli al Papa disubbidendo al sovrano. I cattolici hanno una riserva interiore nei confronti del papa, che li porta a rispettare la sua parola, anche se contraria a quella del sovrano. Ecco perchè, in ultima analisi, un cattolico potrebbe non essere un buon cittadino/suddito. Quindi qualsiasi culto è ammesso dallo stato, qualsiasi professione di fede purché ce ne sia una, ma non quello cattolica. E ovviamente ciò impedisce agli atei di essere parte dello stato. MONTESQUIEU (1689-1755) Famiglia nobile. Magistrato nel Parlamento di Bordeaux. Nel corso della sua vita decide di intraprendere un viaggio in Europa: 3 anni, dal 1728 al 1731. Questo viaggio lo conduce in Italia e in altri paesi europei, ma soprattutto in Inghilterra. In Inghilterra sta per un anno e mezzo. Qui ha modo di conoscere in prima persona le pratiche politiche inglesi che tanto segnano la sua riflessione politico-filosofica. Montesquieu compone diverse opere tra cui: lettere persiane '21 spirito delle leggi '48 (suo capolavoro). Altre opere minori: le considerazioni sull'origine della grandezza dei romani. Lettere persiane Prima grande opera, romanzata in forma epistolare. Espediente del romanzo epistolare per descrivere la realtà politica, economica, sociale francese dei primi anni del Settecento (età di crisi e grandi cambiamenti economici, politici e sociali) proponendola da un punto di vista esterno. Non che quella del romanzo epistolare sia una invenzione, ma Montesquieu riesce a spingere fino in fondo le potenzialità di questo genere letterario. Le lettere persiane si intitolano così perchè sono composte da 3 personaggi provenienti dallo stato più dispotico allora immaginabile, ovvero la Persia. Questi tre personaggi provengono ciascuno da una propria esperienza personale (uno dei 3 aveva una serie di mogli che faceva vivere in paura tra loro). Romanzo piccante dagli aspetti erotici. Montesquieu descrive in modo privo di pudori tutti i problemi che affliggono la sua Francia, evidenziando contraddizioni/decadenza. Le istituzioni politiche non sono degne di fiducia e la politica non è in grado di elevare l'uomo. Di fronte alla desolazione del panorama sociale economico politico del paese francese, l'unica via di uscita è, per Montesquieu, il suicidio. Non ci sono modalità per riformare il sistema politico e la società: solo attraverso un rifiuto della società e del mondo è possibile sollevarsi. Questa, che è in realtà un allontanamento dalle proprie responsabilità, non viene più presa in considerazione nelle opere successive in quanto evidentemente Montesquieu matura, a livello umano e intellettivo, una prospettiva diversa. Considerazioni sulle cause della grandezza dei romani Montesquieu esprime il suo stupore di fronte alla grandezza del popolo romano che è riuscito a darsi istituzioni libere (già viste con Polibio, Machiavelli, ecc). Montesquieu giunge alla conclusione secondo cui la decadenza che l'impero romano ha conosciuto con la caduta della sua parte occidentale prima, e con la caduta definitiva nel 1453, è stata causata in quanto le istituzioni libere sono possibili solo in uno stato con contenute dimensioni territoriali. 5 attuale degli uomini da tutto ciò che vi è di artificiale. Il ritorno alla natura serve per capire la realtà. Bisogna lasciar da parte i fatti, scrive Rousseau, perchè i fatti non ineriscono/centrano con la questione. Bisogna considerare l uomo prima che la storia iniziasseʼ , perchè la storia, per Rousseau, è causa di decadenza. Le istituzioni impoveriscono gli uomini perchè li rendono più fiacchi, li fanno smarrire la loro purezza, la loro identità originaria. Grazie allo stato di natura, grazie a questa ipotesi è possibile identificare i tratti che caratterizzano gli uomini, quindi è possibile ricostruire una sorta di antropologia. Rousseau scrive che bisogna capire come mai ci siano le disuguaglianze e capire se chi comanda sia più o meno importante di chi ubbidisce. Bisogna capire anche per quale motivo si comanda e si ubbidisce. La società è un frutto della storia, e quindi anche la società viene cancellata dallo stato di natura. L’uomo vive isolato ma è autosufficiente, ha pochi bisogni e per questo può mantenersi in questa condizione di isolamento. Non conosce la dimensione della socialità, ma da solo può soddisfare tutti i propri bisogni. E dunque la differenza rispetto a Locke e Hobbes è abbastanza chiara ed evidente: per Hobbes gli uomini, pur non avendo relazioni stabili tra di loro, per lo meno si scontravano; e per Locke gli uomini che stavano insieme sotto la legge di natura erano comunque in grado di vivere insieme. Gli uomini si incontrano solo accidentalmente e l uomo ʼ è quasi un tutt uno con la naturaʼ , inizialmente. Ed è talmente un tutt uno con la natura ʼ che non pensa perchè pensare è un atto contro natura. La ragione c è, non c è, non si sa, in ogni caso ʼ ʼ non viene usata. Non viene usata perchè è una facoltà dotata di capacità analitiche che consente di connettere le cose tra di loro, e non viene senz altro esercitata.ʼ Quando l uomo comincia a pensareʼ , potremmo dire, si crea tutta una serie di altri bisogni che comporterà tutta una serie di degenerazioni nello stato di natura che allontanerà gli uomini dalla purezza originaria. L uomo non differisce rispetto agli altri animali e non vi sono cospicueʼ differenze tra gli uomini in una condizione di uguaglianza, che quasi sono simili alla natura, indistinti rispetto ad essa. Tuttavia, una qualche differenza tra l uomoʼ e il resto della natura, e gli altri animali c è, sennòʼ non si spiegherebbe come poi sia avvenuta l evoluzione storica ʼ e quindi Rousseau deve precisare che qualche motivo di distinzione in realtà c èʼ . Perché l uomo, oltre ad essere ugualeʼ a tutti gli altri, è un essere libero. Ma la libertà è intesa da Rousseau nel senso di indipendenza, scegliere come soddisfare i pochi bisogni che ha. L uomo è libero in quanto è indipendente ʼ rispetto ai suoi simili ovvero è autosufficiente. Se per esempio l uomo ha fame, può scegliere se nutrirsi di un frutto oʼ di un animale. Il fatto che l uomo sia ʼ onnivoro, lo rende libero rispetto agli altri animali, perchè nel caso abbia fame può nutrirsi di vari alimenti, mentre invece l animale erbivoro se ha di fronteʼ a sé un pezzo di carne muore di fame (così succede per il carnivoro con le erbe). Questa è una delle possibilità in più che l uomo ha in più rispetto agli animali. ʼ Poi l uomo, diversamente dagli altri animali, è un ʼ essere perfettibile. Dunque l uomo nonʼ permane sempre nella stessa situazione, ma può perfezionarsi. Essendo libero e perfettibile, può imparare dagli atti che compie. E quindi egli si adatta alle circostanze, si adatta alle situazioni, grazie a questa perfettibilità che lo contraddistingue. L uomo è un essere che ʼ assomiglia ad un selvaggio. Alcuni lettori di Rousseau identificano la posizione dell uomo nello stato di natura come la ʼ posizione del buon selvaggio, rifacendosi appunto ai resoconti che provenivano dalle terre d oltreoceanoʼ . L uomo è in una ʼ condizione di innocenza, forse, non avendo la cognizione del bene e del male. In realtà i suoi atti non sono regolati dalla ragione. Lʼuomo per altro è dotato, come avevano già osservato Locke e Hobbes, dellʼistinto all autoʼ conservazione. Questo istinto si esprime in quello che Rousseau definisce “amore di sé”, che è appunto l amore nei confronti di sé stesso, ovvero il desiderio di conservarsi, di conservare séʼ stesso in quanto uomo e uomo vivo. Insieme con l amore di sé, ʼ ciascun uomo prova quel sentimento che Rousseau definisce “pietà naturale”. La pietà naturale è quella capacità che ha l uomo di soffrire quando vede qualcunʼ altro, sia uomo o animale, soffrire. Solo l uomo, e non gli animali, soffre quando vede gli altriʼ soffrire. Questo non è un aspetto altruistico nell uomo. Infatti, Rousseau ritiene che quandoʼ l uomo piange, perchè vede piangere i suoi simili, ʼ piange perchè pensa a come si sentirebbe lui se gli capitasse quella disgrazia che è accorsa invece ad un altro che sta soffrendo. Ecco perchè, per Rousseau, non è un compatire, un soffrire insieme con gli altri, bensì l uomo piangeʼ su sé stesso pensando a cosa potrebbe accadergli. Quindi amore di sé e pietà naturale devono essere comprese in questʼottica di tipo narcisistico. Si è detto che lo stato di natura è un ipotesi di tipo logico che ha una funzione pratica diʼ comprendere il mondo in cui si vive attualmente. Poi, dopo aver presentato questi tratti descritti, Rousseau inizia a raccontare la vita dell uomo nello stato di naturaʼ . Quindi comincia a raccontare la storia di una ipotesi. Allora, ciò che si dirà da qui in avanti è una sorta di storia ipotetica dell uomoʼ che narra il progressivo allontanamento dell uomo da questa condizioneʼ originaria alla società civile. Racconta che l uomo nella natura la ʼ mattina si sveglia e prende il giaciglio sul quale aveva dormito, va al mercato, vende il suo giaciglio e poi la sera, quando vuole dormire, piange perchè non ha un letto su cui dormire. Questo perché lʼassenza dell uso della ragioneʼ , comporta lʼincapacità di prevedere il futuro, lʼimpossibilità di connettere causa ed effetto e di ricordare. Quando l uomo vende il suo giaciglio non ricorda che poi gli verrà sonno di nuovo,ʼ lui ha dei bisogni ma non sa poi far memoria di quello che gli è capitato. Ad un certo punto, non si sa perché, l uomo comincia a ʼ intrattenere man mano dei rapporti con i suoi simili e lo fa in vista della caccia e della pesca e accidentalmente gli uomini capiscono che insieme riescono molto più facilmente ad uccidere un animale anche di grossa taglia. Ma dopo che essi hanno esaurito lo scopo per cui sono stati insieme, ciascuno ritorna alle proprie cose, torna a fare la vita a sé stante. Però cominciano, di tanto in tanto, a trovarsi insieme. Ovviamente, cacciare o pescare insieme contempla la necessità di avere un minimo di regole per cacciare , capire come si deve fare e quali azioni debbano essere messe in atto per colpire la preda più facilmente e nel frattempo occorre anche che gli uomini comincino ad 5 elaborare i primi rudimenti del linguaggio per comunicare tra di loro . Prima non comunicavano tra di loro (non pensavano nemmeno, come fanno a comunicare). Inizialmente l uomo si avvale di ʼ suoni onomatopeici, poi vengono introdotti i nomi propri, e solo in una situazione più evoluta i verbi e tutto quanto il resto. L introduzione della caccia e della pesca quindi, prevedono già una ʼ progressiva uscita dallo stato di natura perché l uomo comincia man mano ad introdurre delle piccole ʼ regole, a comunicare con i suoi simili, anche se la società ancora non viene istituita. Un grandissimo progresso (Rousseau a questo riguardo parla addirittura di rivoluzione), si ha quando gli uomini accidentalmente riescono ad introdurre la metallurgia e l agricolturaʼ . Per introdurre la metallurgia, Rousseau ipotizza che accidentalmente gli uomini abbiano visto un vulcano che con la sua lava abbia fuso il metallo che ha incontrato sulla sua strada verso la discesa della montagna e che appunto poi lʼuomo abbia potuto lavorare questo metallo fuso, caldo, e che da questo abbia appreso la lavorazione. Solo dopo l introduzione della metallurgia è stata possibileʼ lʼintroduzione dell agricolturaʼ perchè per lavorare il terreno servono degli strumenti metallici. Oltretutto la pratica dell agricolturaʼ comporta un ulteriore progresso dello stato di natura perchè ovviamente, ʼ mentre la caccia e la pesca o eventualmente la pastorizia si adattano ad una vita di tipo nomadico , qual era la condizione di vita degli uomini, lʼagricoltura richiede di stabilirsi in un posto almeno per un certo periodo di tempo (stanzialità). Lʼagricoltura comporta la capacità non solo di essere consapevoli dei propri bisogni e di prevedere quelli futuri, ma anche di saper risparmiare qualcosa per il futuro, perchè non tutti i semi devono essere mangiati, ma bisogna tenerne un poco da parte per usarli, per seminarli Come fa l uomo a "scoprire" l agricolturaʼ ʼ ? Si è accorto che una volta aveva avanzato dei semini e li ha sparsi. Dopo un po si è ricordato (collegando causa-effetto) che avevaʼ gettato li dei semi e poi erano nate delle piante e quindi si è attivato l uso della ragioneʼ , che si genera per cause misteriose; come sia possibile non si sa (non c è neppure l introduzioneʼ ʼ della religione come avevano argomentato Machiavelli, Bodin o addirittura Hobbes). Dunque l agricoltura implica la sedentarietà la quale implica una serie di ʼ conseguenze nefaste perchè gli uomini quando sono sedentari cominciano ad abitare in capanne e cominciano a metter su famiglia. Il problema è che vivendo sedentari gli uomini, i giovani soprattutto, cominciano a perdere l autonomia originariaʼ e la perdita di autonomia consiste nel cominciare a dipendere dagli altri e soprattutto a dipendere dal giudizio altrui. Perchè la vita stanziale prevede il fatto che gli uomini appunto comincino tutte le pratiche del corteggiamento e che a loro, agli uomini, cominci ad importare molto più come appaiono rispetto invece a quanto non siano, vivendo sulla base delle apparenze, sulla base di quanto gli altri li stimino, li apprezzino ecc, non tanto per quanto valgono. A curarsi più dell apparire che non dell essereʼ ʼ determina una degenerazione dei costumi, determina un impoverimento dei costumi morali e la pratica della virtù diventa man mano sempre più estranea all uomo, il quale non vive più per sé stesso, ma vive per gli altriʼ . Scrive Rousseau che “il selvaggio vive per sé stesso, mentre l uomo socievole vive solo al di fuori di séʼ ”, sa vivere soltanto nell opinione degli altri ed è per così dire soltanto dal loro giudizio che egli traeʼ il sentimento della propria esistenza. Nella vita comune, nelle attività che caratterizzano la vita nei villaggi, gli uomini smarriscono sempre più le loro qualità naturali e smarriscono non solo lʼindipendenza e la libertà, ma degenerano in loro anche quei sentimenti di pietà naturale e amor di sé, degenerano in amor proprio, un amore assolutamente egoistico. LA PROPRIETÀ Rousseau scrive, sempre in questo secondo discorso, che la terra è di nessuno e i frutti sono di tutti, e ciò polemicamente nei confronti di Locke, il quale sosteneva che la terra fosse di tutti. Anche Rousseau deve fare i conti con questʼassenza di proprietà che caratterizza la fase iniziale dello stato di natura e poi con l osservazione della realtà storica in cui invece i rapporti diʼ proprietà sono i tipici della maggior parte delle società. Lʼistituzione della proprietà privata introduce una delle rivoluzioni più importanti dell ipotetico stato di naturaʼ . L agricoltura di per sé non comporta necessariamente l istituzioneʼ ʼ della proprietà privata. Non esiste, secondo Rousseau, un collegamento fra lavoro manuale e appropriazione dell appezzamento di terra, tutt altro. ʼ ʼ La proprietà non è un elemento naturale, anzi in natura non esiste: tutti sono proprietari dei frutti, ma essendo essi proprietari di qualcosa che deperisce, nessuno è di fatto proprietario di nulla. La proprietà in realtà non è se non un furto. Come si attua questo furto e perché non viene contrastato/punito/represso? Rousseau scrive “quel giorno in cui un uomo piantò un palo per recintare un terreno e disse «questo è mio», e tutti gli altri furono così ingenui, così sempliciotti, da non dire «cosa stai facendo?», quell uomo è stato il fondatore della società civileʼ ”: ha compiuto un furto, ha recintato, ma nessuno ha pensato di apporvi resistenza facendogli presente che non esiste -né mio, né tuo- nello stato di natura. Da allora la proprietà privata ha contraddistinto la storia dell’umanità. Molti sono stati favorevoli e nessuno si è opposto. L istituzione della proprietà privata comporta l istituzione conseguente della ʼ ʼ società civile, ma ha anche implicato il sorgere di molti mali. Rousseau mai si sogna di proporre l abolizioneʼ della proprietà, nonostante egli abbia scritto che la proprietà è un furto. Il fondatore della proprietà privata ha escogitato questo trucco (recinzione), e questo trucco è stato imitato. Tuttavia, la proprietà così istituita si presta facilmente al rischio della contestazione, una proprietà incerta. Non c'è alcuna autorità che possa far valere o far rispettare questa proprietà illecitamente istituita. Nessuno può far valere alcun diritto di proprietà nei confronti di qualcun'altro. E dunque, a causa di quest'incertezza a cui è legata l'istituzione della proprietà, i proprietari <più ingegnosi rispetto agli altri> propongono s'inventano d'istituire un patto che fondi la società civile. Patto che comporta l'unione in società di tutti gli uomini dello stato di natura, proprietari e non proprietari (poiché non tutti sono stati in grado di recintare i terreni propri) e tra costoro si istituisce questo patto, il quale viene definito da Rousseau, Patto Leonino. IL PATTO LEONINO Patto leonino è un patto per definizione ingiusto. È quel contratto in cui il rapporto fra le parti è decisamente squilibrato e quindi non realizza la giustizia. In sostanza, nel patto leonino vi è una parte che, stipulando il contratto, trae esclusivamente vantaggi, mentre la controparte ricava solo svantaggi dal sottoscrivere questo patto, e tuttavia lo sottoscrive. Le due parti sono proprietari e non proprietari. 5 Questo contratto è volto all'obiettivo di individuare ed istituire un'autorità superiore che ha il compito di proteggere le proprietà. Ora dopo il patto, coloro che disponevano di una proprietà “attaccabile” e provvisoria, diventano titolari di un diritto di proprietà sul terreno di cui si erano impossessati. Gli altri che accidentalmente non erano riusciti ad impossessarsi di alcun terreno, si trovano nullatenenti non solo di fatto (com'era nello stato di natura), ma anche di diritto. Quindi la situazione provvisoria dello stato di natura diventa una cristallizzazione poiché si congelano i rapporti di proprietà. Questo è un patto che, sulla base di quanto detto, istituzionalizza la disuguaglianza. “Mentre l'uomo nasce libero, ovunque si trova in catene” (Primo capitolo, primo libro del Contratto sociale). L'assenza di libertà è connessa alla profonda disuguaglianza che è intervenuta fra gli uomini, tra l'altro ineliminabile, grazie alla stipula del contratto sociale. L intervento del contratto sociale ha introdotto una ʼ ulteriore disuguaglianza, che fino ad allora era assente: grazie allʼistituzione del potere politico infatti abbiamo la ulteriore differenza tra uomini: tra governanti e governati. A questo punto, lo stato di natura è stato rovesciato completamente: l'uomo non è più né libero né indipendente, ma ovunque è in catene, sottomesso. Le disuguaglianze di origine non naturale sono istituzionalizzate, sancite dal patto, perentorie e perpetuano una condizione di disuguaglianza, protraendola all'infinito: vi sono alcuni schiavi e altri padroni, ma a ben guardare tutti sono schiavi nella situazione in cui si trovano. Rousseau si chiede come e se sia possibile per l'uomo riacquistare la sua libertà. Tornare indietro non è possibile, tra l'altro non si può cancellare la storia e il cammino di civilizzazione. Nessuno è disposto a rifiutare la tecnologia e l'innovazione. Però il processo storico (visto negativamente da Rousseau a differenza degli illuministi che hanno sete di progresso), la socializzazione non hanno portato a un progresso ma una degenerazione basata sulla disuguaglianza. Contratto sociale 1762 Per cancellare l'ingiustizia, ma non si può tornare alle origini per cambiare la storia. Si può invece rescindere il contratto e stipularne un altro ed è ciò che ipotizza Rousseau in Contratto sociale”. Ciò che egli pubblica è una parte di ciò che è riuscito a comporre di una sua formulazione più ampia. Il primo libro parla del contratto sociale, il secondo della legge e del sovrano, il terzo del governo e l'ultimo del mantenimento dello stato. Il problema è capire come sia possibile cambiare la situazione ed istituire un nuovo contratto sociale. Lo scopo è di cancellare l'ingiustizia, pensare di costruire un “uomo nuovo” che non sia più in catene, schiavo, ma che sia libero e che sia uguale a tutti gli altri per istituire una nuova società politica. L'uomo è diventato un essere razionale nel corso della storia, ha manifestato le sue capacità di intelletto della mente, ha migliorato il linguaggio. Ma difficilmente riesce a cancellare l'ingiustizia e la disuguaglianza, l'assenza di libertà: valori sui quali dovrebbe invece essere fondata la società politica secondo Rousseau. Ciò che gli uomini cedono per istituire una nuova società è costituito non solo da tutti i diritti ma anche da tutta la propria natura. Gli uomini, in realtà, cedono totalmente sé stessi nel patto sociale. Ma, dopo che il patto è stato sottoscritto, essi riottengono sé stessi avendo cambiato natura. Poiché hanno ceduto tutti i propri diritti, le proprietà, i propri beni, e tutta la loro natura, si trovano in una condizione di radicale uguaglianza tra di loro. Essi ottengono in cambio una nuova natura. Cioè? Da uomini diventano cittadini e in quanto cittadini sono uguali gli uni agli altri. In quanto cittadini, essi sono liberi gli uni rispetto agli altri. E da cittadini si sottomettono, tutti ugualmente, sé stessi alla volontà generale. Ciascuno, poiché si da a tutti è come se non si desse a nessuno, e quindi ogni associato pur cedendo quantità diverse di beni, non le concede ad altri ma alla totalità della comunità che viene quindi così costituita. Nello stipulare questo patto, nasce un soggetto nuovo, quello che Rousseau denomina popolo oppure sovrano oppure corpo politico oppure anche cittadini e sudditi. Gli uomini sono cittadini nel momento in cui partecipano dell'autorità del sovrano, e sono sudditi dal momento che sono soggetti alle leggi del sovrano. Ci si chiede: ma cosa spinge coloro che nel patto leonino si trovano in situazione di vantaggio a sottoscrivere un nuovo patto per togliere le ingiustizie? Questa possibilità non è data a tutti gli uomini. Ciò è possibile solo in quegli stati dove la degenerazione non sia giunta a un punto tale da non essere più rimediabile. È necessario che sia rimasta una qualche forma di pratica di virtù. Ciò è possibile inoltre dove una figura/un uomo di grandi capacità sia in grado di persuadere gli uomini che si trovano in ingiustizia e assenza di libertà a cambiare le cose, affinché giustizia e libertà possano realizzarsi in quanto valori. Rousseau ipotizza la figura di un legislatore che persuada le persone in condizioni di ingiustizia trasmettendo le idee ad un popolo che non sia però totalmente corrotto. Vi devono essere, perché il legislatore possa persuadere gli uomini, una serie di altre condizioni: una popolazione contenuta, quindi uno stato con dimensioni non troppo estese e una serie di dinamiche che predispongono alla sensibilizzazione, La figura diventa quasi mitica, profetica con abili capacità per creare la nuova società basata sui valori di libertà e uguaglianza. Ma questo non è possibile dovunque e per tutti (appunto ci sono condizioni e dinamiche che devono essere rispettate). Il problema è che Rousseau intende negare la fondatezza della proprietà privata. Intende egli suggerire la necessità di ripensare l uomo, e di rifondare la società così che l uomo sia organicoʼ ʼ rispetto alla società, così che tutti gli uomini siano liberi ed uguali in tale società. Con l obiettivo diʼ costruire l uomo nuovo, Rousseau ipotizza e traccia una nuova storia. Egli vuole destituire leʼ teorie liberali di Locke: dato che la terra è di tutti, il proprietario non può recintare la terra e diventarne proprietario. Se l uomo recinta ugualmente, egli compie un furto. ʼ Rousseau vuole giustificare le attuali (attuali riferito alla sua epoca ma evidentemente le perenni) condizioni di disuguaglianza in cui si trovano gli uomini che vivono in una società di tipo politico, dove la disuguaglianza maggiore è quella che si consuma tra chi detiene potere politico e chi ad esso è sottomesso, tra chi è proprietario e chi invece non dispone del diritto di proprietà su alcun che. La proprietà privata rappresenta, per certi versi, il peccato originale che determina l uscitaʼ dallo stato di natura integra e il passaggio nello stato di natura lapsae (decaduta). La proprietà privata, è nuovo peccato originale o secolarizzazione del peccato originale. Peccato 5 Il governo non ha origine dal contratto, ma esso viene istituito grazie all'identificazione di alcuni funzionari, i quali svolgono le funzioni proprie della applicazione della legge e della sanzione delle deviazioni dei comportamenti rispetto alla legge stessa. Se il governo, che necessariamente reca in sé questa forza contraria alla sovranità, alla lunga riesce a imporre la propria forza sul popolo sovrano, il popolo perde del tutto la propria libertà, e la degenerazione del corpo sociale è completa. Per altro, se la natura dei singoli si corrompe in maniera eccessiva, essi pur dando vita ad una democrazia diretta, non esprimeranno buone leggi. Ciò ha conseguenze devastanti vi nasce una catena di cattive leggi che contribuiranno per forza alla morte dello stato e del sovrano. L'organizzazione politica democratica diretta, che Rousseau teorizza per salvare gli uomini dalla corruzione, è adatta solo ad un piccolo stato, dotato di un numero congruo di abitanti che sia in grado d'essere nutrito grazie ai prodotti provenienti dal lavoro della terra dello stato stesso. Quindi, dimensione stato e numero abitanti sono strettamente legati e funzionali all'istituzione di una democrazia diretta. Rousseau ritiene che solo in Coreica fosse realizzabile una democrazia di questo genere. Domanda: Ma prima non si diceva che lo stato deve avere un considerevole numero di abitanti? Risposta: Il numero degli abitanti deve essere adeguato alle dimensioni dello stato. In realtà, un numero troppo elevato di abitanti e l'ampiezza eccessiva del territorio rendono impossibile la circostanza fondamentale ovvero l'identificazione della volontà del corpo comune, che viene identificata solo grazie al voto espresso in assemblea. Il problema della volontà generale è stato storicamente letto in maniera diversa: la volontà generale è determinata sulla base del criterio maggioritario ma può essere anche, ritenendo che il popolo in assemblea non sia matura abbastanza o nel caso si verifichi la situazione in cui il territorio è troppo esteso o gli abitanti troppi, che nello stato stesso vi sia un soggetto carismatico o che vi sia una classe carismatica depositari della volontà generale. Classe carismatica (operai secondo il Marxismo) o individuo carismatico (quest'ultimo è il caso di Napoleone). Domanda: Sulla base di quale criterio il partito o persona può dire di essere espressione della volontà generale, se Rousseau dice che la rappresentanza è sbagliata? Risposta: Infatti non si tratta di principio rappresentativo. Il partito esprime il bene, non lo rappresenta. Quando uno stato è troppo vasto, l'esercizio del potere esecutivo e dell'attività legislativa necessariamente deve essere ridotto, e necessariamente il governo è sempre più distante rispetto al popolo. Il popolo, se anche esercita il potere legislativo come dovrebbe fare, tendenzialmente rischia di subire le prevaricazioni da parte dell'esecutivo, ancor più che non in una realtà più piccola. IMMANUEL KANT (1724 – 1804) La sua filosofia generale ha risonanze in ambito politico e giuridico. A livello di riflessione politica e giuridica, Kant è riconducibile al giusnaturalismo moderno. Anche Kant tematizza uno stato di natura da cui gli uomini escono ed evadono per un libero atto di volontà, stringendo un contratto sociale definito contratto originario. Con questo gli uomini darebbero vita ad uno stato politico, ovvero la società civile. Kant è autore che segna il passaggio, dal punto di vista della filosofia generale, alla filosofia idealistica. Per quanto riguarda invece i temi politico-giuridici può rientrare nella tradizione precedente (giusnaturalisti) pur innovando e introducendo elementi di novità. Kant ha posto saldamente l'uomo al centro della realtà. Ritiene che l'uomo sia al centro dell'attività conoscitiva. Kant è un liberale, teorico del liberalismo. Egli, per certi versi, riprende la riflessione di Locke. In Italia il filone liberale prosegue con Rosmini. Personaggio prussianamente abitudinario. Puntualissimo. Vita molto regolare. Famiglia riformata, ambiente pietistico. Genitori onesti e rigorosi moralmente. Kant studia filosofia, matematica, fisica. È stato abituato, fin da giovane, ad un forte rigore morale. Nel 1755 ottiene la libera docenza. Fino a quel punto era stato precettore, e dunque era vissuto in condizioni di miseria. Ha studiato molto bene il latino ma non il greco. La libera docenza ha segnato grande svolta personale, anche perché, grazie ad essa, egli ha cambiato alcune prospettive filosofiche. In età giovanile si era avvicinato alle riflessioni di Rousseau. Man mano poi se ne allontana, per elaborare un proprio sistema filosofico. Dagli anni '70 in avanti, diventando ordinario di logica e metafisica, Kant impronta un nuovo sistema di pensiero. Pubblica nel 1781 Critica della ragion pura, nel 1788 Critica della ragion pratica e nel 1790 Critica del giudizio. Dal '93 in avanti, la sua attività di docenza subisce censure da parte dell'autorità politica, a causa della pubblicazione dell'opera " La religione entro i limiti della ragione ". Le altre opere di Kant “Metafisica dei consumi”, nel '97: filosofia del diritto. Gli scritti con cui si ricostruisce la prospettiva politica sono considerati minori. Questi tuttavia interessano a noi. Va segnalato, a questo riguardo, uno scritto dell'84 - Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico. Si ricorda lo scritto "Che cos'è l'illuminismo". Nel '95 viene pubblicato inoltre un altro scritto: Per la pace perpetua. Critica della ragion pratica e Critica della ragion pura Ora presenteremo, per sommi capi, alcune nozioni fondamentali tratte da queste opere per meglio intendere la dottrina del diritto e della proprietà di Kant. Per Kant, l'uomo con la sua ragione conosce. Kant si dedica alla critica dei metodi conoscitivi, che fino ad allora a suo modo di vedere, erano stati teorizzati e praticati dai filosofi. Esamina la teoria dei giudizi. Kant ritiene che tutta la nostra conoscenza, cioè tutta l'attività conoscitiva, si esprima in proposizioni che sono giudizi. Un Giudizio per Kant è una proposizione: connessione tra soggetto-predicato. I giudizi possono essere di due tipi: • giudizi a priori. Prescindono dall'esperienza. Il predicato è contenuto nel soggetto. Es. la neve è bianca, nel concetto di neve so già che la neve è bianca. Si tratta di giudizi di tipo analitico. PREGIO: certezza. Per questo sono giudizi universali e necessari. DIFETTO: non consentono di accrescere le conoscenze, dato che il predicato è già incluso nel soggetto. • giudizi a posteriori. Fondati sulla base dell'esperienza. La cartella è pesante. Lo posso affermare solo dopo averla presa in mano e valutata. Si tratta di giudizi sintetici. Il predicato non è incluso nel soggetto. PREGIO: di accrescere le conoscenze, ovvero il predicato aumenta le conoscenze che abbiamo del soggetto del quale stiamo parlando. DIFETTO: non sono universali e certi. 5 Kant decide che bisogna far fare un passo avanti alla scienza, e costruire una forma nuova di giudizi, che prevede al suo interno i pregi dell'uno e dell'altro tipo di giudizi. elabora dunque la teoria del giudizio sintetico a priori. Questo giudizio gode delle caratteristiche di accrescere la conoscenza (proprietà dei giudizi a posteriori) e della certezza (proprietà dei giudizi a priori). Universale e necessario come i giudizi a priori, accrescitivo come i giudizi a posteriori. Questo tipo di giudizio, per Kant, si addice a tutte le operazioni aritmetiche, della geometria in cui intervengono l'intuizione e l'esperienza. Dunque, intuizione ed esperienza vengono giocate insieme. Gli esempi di giudizi sintetici a priori non sono così facili da esaminare, e gli studiosi di Kant sono in difficoltà nel presentarli. La ragione vede solo ciò che essa stessa produce e secondo il proprio disegno produce la ragione. Gli esempi che riporta Kant sono quelli relativi alle operazioni aritmetiche, esempio somma: 5+2=7 questo è un giudizio sintetico a priori per Kant, in quanto consente di unire i pregi del metodo analitico a quelli del metodo sintetico. Un'operazione matematica, che ha a che fare anche con l'esperienza e non solo con l'intuizione dei numeri. Secondo Kant c'è il suffragio dell'esperienza perchè il concetto di numero ha qualcosa che è analitico e a priori ma viene anche rafforzato sulla base dell'esperienza (con le dita delle mani posso contare e mettere insieme aspetto teoretico e pratico). Kant osserva che nelle scienze naturali c'è stato grande progresso a livello metodologico nei secoli a lui vicini. Non riesce però a notare un analogo progresso nella filosofia, che sarebbe rimasta ad uno stadio prescientifico. Kant ritiene necessario operare a livello gnoseologico una rivoluzione analoga a quella che era stata operata in campo delle scienze fisiche (scienze naturali). Infatti molti ricordano che Kant riteneva di aver compiuto una rivoluzione copernicana. Perchè? Così come Copernico aveva scardinato la teoria geocentrica, opponendo quella eliocentrica, Kant ritiene che rovesciando il rapporto tra soggetto e oggetto come egli tende fare per quanto riguarda la teoria della conoscenza, la sua nuova dottrina gnoseologica ha per Kant stessa portata della rivoluzione di Copernico. In realtà la rivoluzione di Kant, per Sergio Cotta (filosofo italiano del '900) è neotolemaica. In realtà ciò che Kant infatti contribuisce a fare è individuare il centro della conoscenza dell'uomo. Fino a quel punto c'erano concezioni oggettivistiche della conoscenza, la quale si basava, su quanto avevano detto Aristotele e Tommaso. La concezione oggettivistica della conoscenza originava dalle cose, e le cose si riflettevano nella struttura del soggetto. Per Kant invece è l’oggetto che deve ruotare attorno all’uomo e alla sua ragione, e non viceversa. Ponendo la ragione dell'uomo al centro del processo conoscitivo, Kant ritiene di aver praticato una rivoluzione copernicana, ma in realtà ciò che egli fa non è altro se non porre l'uomo, ancora una volta, al centro del mondo e dell'universo. Per questo più correttamente sarebbe il caso di parlare di rivoluzione neotolemaica. Per Kant è l'uomo che conosce, con le leggi e caratteristiche proprie della sua ragione. Le leggi della sensibilità e dell'intelletto, della ragione che pensa, sente, vuole, imprimono carattere determinato alla conoscenza stessa. Kant ritiene che l'uomo abbia una possibilità di conoscere alcuni oggetti a priori. L'uomo riesce a conoscere a prescindere dall'esperienza, attraverso la sua sensibilità e il suo intelletto. La nostra sensibilità ha due forme/intuizioni pure in cui tutta la conoscenza dell'uomo è imbrigliata. Cioè, l'uomo, qualsiasi cosa conosca, la conosce attraverso una griglia che costituisce la sua sensibilità e che caratterizza anche il suo intelletto. La griglia è data dallo spazio e dal tempo. Spazio e tempo dunque non sono caratteristiche degli oggetti esterni all'uomo, ma coordinate interne all'uomo stesso e attraverso le quali egli conosce. L’uomo conosce tutto quello che gli si manifesta, gli appare (ciò che appare è il fenomeno) e solo ciò può essere conosciuto attraverso lo spazio e il tempo. L'intelletto dispone le conoscenze che la sensibilità ha acquisito nello spazio e tempo , in una serie di categorie (le disloca in categorie) che consentono all'uomo di formulare giudizi nei quali si esprime la conoscenza dell'uomo stesso. La conoscenza dell'uomo è fenomenica, ovvero di ciò che si manifesta e appare. Solo ciò che appare può essere oggetto di conoscenza e giudizi sintetici a priori. Mentre, è sottratta all'uomo la possibilità di conoscere ciò che sta oltre l'apparire stesso, e che Kant definisce noumeno che è origine del fenomeno stesso . Gli oggetti esterni all'uomo, che appaiono all'uomo si fondano in realtà sul soggetto, perchè l'uomo li conosce solo relativamente alle categorie che gli sono proprie. Ciò suppone che nell'uomo vi sia unità fondamentale originaria, definita io penso, e che identifichi in un certo modo una identità per l'uomo. Oltre quello che vedo c'è qualcosa d'altro. Il nostro intelletto può giungere, nel conoscere, fino ad un certo punto, ha dei limiti. Quando si occupa di alcuni concetti particolari, esso non può che incorrere in aporie/contraddizioni: se l'intelletto si chiede chi è l'uomo o chi sono io o cos'è il mondo, o se esiste Dio, è in grado di argomentare sia in favore sia in senso contrario e quindi ad un certo punto l'intelletto/ragione nel suo uso puro, deve fermarsi. Limit che la ragione ha necessariament. La ragione però riesce a superare tali limiti a livello pratico. Kant identifica l'idea dell'io, l'esistenza di Dio, e del mondo come tre postulati della ragion pratica. Kant dice che non è in grado di dimostrare che l'uomo è essere libero. Tuttavia a livello pratico, si accorge che l'uomo è libero. Quindi postula la libertà dell'uomo. Così per l'esistenza di Dio: non posso dimostrare né che esista né che non esista ma a livello pratico io postulo la sua esistenza. Questo postulato ha diverse conseguenze. Conseguenze sia per fondamento morale, sia di politica, sia del diritto. Kant ritiene che tutta la nostra conoscenza, cioè tutta l'attività conoscitiva, si esprima in proposizioni che sono giudizi. Un giudizio è una proposizione, ovvero congiunzione tra un soggetto e un predicato. Ogni conoscenza risulta dalla sintesi ovvero commistione (comunque definita sintesi da Kant) tra giudizi a priori e giudizi a posteriori. Ogni oggetto viene conosciuto, per Kant, in quanto appare a noi e si manifesta a noi come fenomeno che percepisce con la sua sensibilità. Fenomeno è ciò che appare. Ciò che appare colpisce i nostri sensi e la nostra sensibilità, e viene automaticamente dislocato nella griglia attraverso cui l'uomo imbriglia ogni sua conoscenza in quelle coordinate e quelle ascisse costituite dallo spazio e dal tempo. Al di fuori di questi due parametri, spazio e tempo avviene la prima forma di conoscenza di tipo sensibile, che caratterizza la sensibilità di cui Kant parla in quella che definisce conoscenza estetica trascendentale. La conoscenza avviene, a questo primo livello, grazie alle categorie a priori della nostra sensibilità e intelletto, lo spazio e il tempo, che si incontrano con i fenomeni. 5 Quindi la conoscenza ha qualcosa di a priori che prescinde dall'esperienza, e che Kant definisce "trascendentale" (aggettivo kantiano che significa a priori), rispetto all'esperienza. Quindi lo spazio e il tempo, l'uomo non li costruisce sulla base dell'esperienza che compie, della vita personale, ma in realtà riguardano la struttura interiore della nostra sensibilità, non sono al di fuori dell'uomo ma sono dentro l'uomo, il quale è artefice della conoscenza, perchè egli conosce attraverso le strutture che lo caratterizzano (che sono cioè quelle dello spazio e del tempo a livello di sensibilità, a livello dell'intelletto vi sono ulteriori strutture che sono quelle delle categorie). Dal primo livello, cioè quello della sensibilità, si passa poi ad un ulteriore livello, ovvero quello dell'intelletto. Ancora sopra poi vi è la ragione. L'uomo riesce a conoscere, da questa prima fase, attraverso nuovi giudizi che mettono insieme elementi a priori, caratteristici della sensibilità e intelletto dell'uomo, ed elementi a posteriori, provenienti invece dall'esperienza. L'uomo conosce ciò che appare degli oggetti, ciò che è esclusivamente definibile come fenomeno. Kant ritiene che ciascun oggetto al di fuori dell'uomo sia conosciuto dall'uomo stesso per come l'uomo lo percepisce grazie alla sua sensibilità, e tuttavia così facendo Kant per un verso pone le basi del successivo sviluppo dell'idealismo, senza però perdere i legami con la tradizione oggettivistica gnoseologica precedente, perché egli non è disposto ad ammettere che oltre a ciò che appare (oltre al fenomeno quindi) vi sia anche un qualcosa che è sottratto alla disponibilità di essere penetrato fino in fondo che è il noumeno, una sorta di sostanza (su cui Kant non si spinge oltre), e cosa in sé che è un residuo di oggettivismo nella teoria della conoscenza kantiana. Per cui, è vero, si conoscono gli oggetti al di fuori di sé in quanto mi appaiono ma non si esclude che vi sia anche un qualcosa che va oltre a ciò che appare e che rimane come una cosa in sé, ovvero una incognita indefinibile, che però mantiene un certo gradi di oggettività e che assicura l'esistenza degli oggetti all'esterno dell'uomo e indipendentemente dall'uomo stesso. Mentre invece, nei successivi sviluppi della filosofia in senso idealistico, si ha un totale scivolamento verso soggettivismo e verso il fatto che, in ultima analisi, è il soggetto che produce conoscenza e l'oggetto esiste solo in tanto in quanto è riferito al soggetto e addirittura senza la dipendenza dal soggetto non esiste alcuna forma di conoscenza. Differenza noumeno – fenomeno Kant individua e separa alcune modalità riconoscitive che sono a priori nell'uomo che si sposano necessariamente con un aspetto che proviene invece dall'esperienza con un aspetto fenomenico il quale tuttavia non esclude che gli oggetti fuori dall'uomo abbiano esistenza indipendente dall'uomo stesso che li conosce. Il passaggio successivo rispetto alla conoscenza che avviene nello spazio e nel tempo, e quindi rispetto all'estetica, è quello che Kant definisce conoscenza analitica-trascendentale. Kant ritiene che l'intelletto sia in grado di procedere oltre nelle possibilità di conoscere rispetto alla sensibilità e che l'intelletto rielabori i dati provenienti dalla sensibilità, dati conoscitivi che si riferiscono poi a spazio e tempo, in una serie di categorie attraverso le quali articola una serie di conoscenze ulteriori. In ogni caso, la ragione (o intelletto - distinzione esiste in realtà, ma in questa sede non è richiesta) è quella facoltà in grado di costruire dei sillogismi e che conosce attraverso questi sillogismi stessi. Nel proseguire nei gradi ulteriori della conoscenza, dopo l'analitica-trascendentale vi è la fase che Kant identifica come propria della conoscenza dialettica trascendentale, relativa alla ragione vera e propria e non all'intelletto in cui però la ragione dell'uomo oltre ad un certo punto non può giungere. Nel momento della dialettica trascendentale, la ragione dell'uomo percepisce sé stessa come ragione limitata, come ragione che non è in grado di formulare giudizi univoci su alcune materie e alcuni particolari oggetti. Questi particolari oggetti sono quelli di cui si parlava ieri, ovvero anima, Dio, il mondo. Il problema è che a livello di sensibilità, a livello fenomenico, queste idee si manifestano in maniera molto effimera, se si manifestano. Anzi, queste idee sono totalmente vincolate rispetto a esperienza e fenomenicità. Kant argomenta in questo modo: osserva che la ragione se vuole spingersi fino alle sue estreme capacità e se vuole autenticamente indagare queste idee (anima, Dio, mondo), è in grado di dimostrare al tempo stesso che esiste Dio ma anche che Dio non esiste. La ragione non è in grado di dimostrare univocamente né che Dio esiste né che Dio non esiste, potendo argomentare sia in favore della prima tesi sia in favore della seconda tesi. Quindi, essendo in grado di dimostrare due cose contraddittorie relativamente allo stesso oggetto, la ragione incontra ed ha dei limiti fondamentali. La ragione dunque deve riconoscere che oltre un certo grado non può andare. Quindi, la ragione dell'uomo è ragione che, quando vuole riflettere sui problemi più grandi che l'uomo si è storicamente posto nel corso della storia (esiste una anima? siamo mortali o immortali? Dio esiste o no? L'uomo è libero o no?), è in grado di argomentare sia in favore di una tesi che in favore della tesi opposta. Appoggiando due tesi opposte, in realtà, la ragione non dimostra nulla. Insomma, la conoscenza muove dall'esperienza sensibile e prende avvio dalle manifestazioni fenomeniche, viene elaborata a livello della sensibilità, rielaborata successivamente a livello dell'intelletto (livello analitico-trascendentale), e ancora più sistematizzata dalla ragione (dialettica trascendentale). Ieri si diceva che queste affermazioni contrastanti sono definite paralogismi della ragione. A livello di ragion pura, Kant dice che bisogna fermarsi qui. Ma ciò che, a livello teoretico e puramente conoscitivo, non può essere dimostrato in maniera univoca e che può diventare dunque un ostacolo-limite, viene aggirato (l'ostacolo) a livello di ragione pratica. A questo livello la ragione deve necessariamente ammettere sia che l'uomo è un essere libero, sia che l'anima dell'uomo esiste, sia che Dio esiste. Questa ammissione avviene non tanto per una via dimostrativa, argomentazione sillogistica e razionale, ma avviene a livello di postulato. Dunque, ciò che a livello rigoroso e logico non può essere postulato, deve invece essere ammesso come postulato della vita pratica e come ambito nel quale la ragione può essere esercitata e deve essere esercitata nell'ambito che riguarda le azioni dell'uomo. Separando, anche artificiosamente, l'aspetto conoscitivo dall'aspetto dell'azione (pratico), e quindi separando la capacità che la ragione ha di dire qualcosa di definitivo intorno a determinati concetti (cosa che non è in grado di fare) prescindendo totalmente dall'esperienza, e sollevandosi dall'esperienza. È un modo diverso di affrontare quella separazione scelte teoretiche / scelte pratiche di cui avevamo parlato, volendo, rispetto a Aristotele. All'inizio dell'Etica Nicomachea Aristotele invitava ad essere prudenti e a tener conto della specificità degli oggetti di indagine. L'avvertenza riguardava proprio questo: all'ambito della pratica non si può richiedere lo stesso rigore proprio e pretendibile da parte di ambiti puramente astratti. I due discorsi, di Kant e Aristotele, non sono analoghi ma simili. Per quanto riguarda l'ambito teoretico, la conoscenza muove senz'altro dalla sensibilità e poi si eleva attraverso l'intelletto e poi successivamente raggiunge elevati gradi grazie alle capacità della ragione di sollevarsi 5 Il contratto, e lo stato che nasce dal contratto, si fonda su 3 principi a priori. Questi 3 principi sono individuati da Kant nella: • libertà • uguaglianza • indipendenza Libertà Gli uomini sono liberi in quanto sono uomini. È abbastanza evidente che sia necessaria per costituire lo stato, considerate le precedenti argomentazioni. Principio a priori dello stato e riguarda ogni membro dello stato in quanto uomo e in quanto prima era uomo che viveva nello stato di natura (prima va inteso sotto il profilo logico, come tutti i passaggi). Libero perché dotato di ragione. Uguaglianza Gli uomini sono poi uguali, in quanto sono tutti sudditi. Per Kant, l'uguaglianza consiste nell'essere, in maniera identica, tutti membri dello stato sottomessi alla legge dello stato, o nello stesso rapporto di fronte alla legge dello stato stesso. Tutti i membri dello stato, uomini, consociati in quanto sudditi sonouguali di fronte alla legge. Ciò tuttavia non toglie che si dia diseguaglianza tra gli stessi consociati in merito invece ai possedimenti, fortuna, successo mondano e che Kant ritenga necessario che lo stato sia in grado di assicurare a tutti le condizioni formali all'interno delle quali possano dare il meglio di sé prescindendo dalla nascita. Ciò significa che Kant aspira ad uno stato che assicuri una certa mobilità sociale in cui i legami di sangue non siano fonte di privilegi. Kant aspira ad uno stato in cui ciascuno, grazie ai suoi talenti e alla sua laboriosità e impegno, possa esprimersi al meglio e raggiungere quelle posizioni sociali che si addicono all'impegno, capacità, talento, operosità. Lo stato deve quindi assicurare che a tutti sia consentita questa possibilità, e quindi anche la possibilità di modificare il proprio patrimonio in senso economico. Tradotto: tutti sono ugualmente sottomessi alla legge e ugualmente sottomessi al diritto. Per il resto, ciascuno sia artefice del proprio destino grazie alla propria capacità e non invece grazie alle posizioni tradizionali legate alla provenienza e alla nobiltà (provenienza di sangue). (Lo stato non deve garantire l'elevazione, ma porre le basi per chi è in grado. Indipendenza L'indipendenza riguarda ogni consociato in quanto cittadino. Il terzo principio a priori sul quale il contratto originario si fonda. Essa ha contenuto prevalentemente di tipo economico. Cittadini sono coloro che partecipano al potere legislativo, che è potere sovrano e sono titolari dunque dei diritti politici, del diritto di voto. L'uguaglianza giuridica è compatibile con le disuguaglianze economiche e l'indipendenza sotto il profilo economico richiede che siano cittadini coloro che dispongono di una qualche proprietà. Chi non ha proprietà non è cittadino, ma consociato . I cittadini sono artificies - artefici, ovvero artefici del proprio destino prima di tutto. Gli artificies sono pienamente liberi e possono votare. La proprietà privata, l’indipendenza economica è condizione della cittadinanza. Non a caso Kant esprime questa convinzione, che è espressione di una mentalità anti-democratica, ma squisitamente liberale. Coloro che non possiedono proprietà, definiti operai, devono necessariamente offrire il proprio lavoro e le proprie capacità a qualcun'altro, e quindi dipendono economicamente da questo qualcuno che è fonte del loro sostentamento a livello economico. Gli operaii (potremo dire, oggi, operai) sono i garzoni, precettori, operai in senso stretto. Coloro cioè che si trovano al servizio di qualcun'altro. L'assenza di proprietà è indice di un grado minore di libertà, capacità di gestire la libertà. Avendo questa dipendenza da qualcun'altro, c'è il rischio che per non restare senza pecunia si voti conformemente a ciò che il datore di lavoro preferirebbe, e non in maniera libera. Lo stato che si fonda su contratto originario, è stato che necessariamente si fonda sul consenso. Consenso che viene espresso da parte del popolo, consenso delle volontà private particolari, a costituire una volontà comune e unica. Il contratto originario è una idea della ragione, tuttavia, ha una funzione pratica. Infatti il contratto prevede che, tra le sue clausole, sia contemplato il principio maggioritario sulla base del quale si costruisce il consenso nello stato. Il popolo vota e lo fa a maggioranza. Il popolo dunque elegge dei rappresentanti. Il legislatore non è mai tutto il popolo, perchè per Kant se ci si trovasse in una democrazia diretta, mancherebbe la divisione tra poteri e quindi si realizzerebbe dispotismo. Nel costituire la società/lo stato, Kant non ritiene che si debba poi dar vita ad una democrazia di tipo diretto, addirittura identifica la democrazia diretta con la peggior forma di despotismo. Infatti, il contratto originario vincola il legislatore, titolare del potere legislativo e generalmente una camera di rappresentanti, a emanare delle leggi come se tutto il popolo avesse dato consenso, a cui il popolo, se rettamente informato , avrebbe potuto prestare il suo consenso. Dunque questa è la funzione pratica del contratto originario. Esso costituisce un vincolo all'attività legislativa nella quale si esprime eminentemente il potere sovrano. Le leggi dunque devono essere emanate come se derivassero dalla volontà comune e come se ogni cittadino avesse manifestato ed espresso il proprio consenso. Nel momento in cui il legislatore pensa ad una legge e la sottopone ad una verifica per poi approvarla, deve approvare solo leggi che riterrebbe potessero essere accettate da ogni cittadino, come se ogni cittadino potesse dare e avesse potuto dare il consenso alla legge. Con una precisazione: il popolo adeguatamente e rettamente informato . Questa ipotetica approvazione, legata al "come se", è connessa ad una corretta informazione del popolo e corretta consapevolezza di ciascun cittadino relativa al bene dello stato. Una legge che prevedesse aumento delle tasse, potrebbe essere approvata? Forse no, dato che generalmente i cittadini non amano pagare più tasse, e quindi se interpellati i cittadini potrebbero non dare il loro consenso. Se però i cittadini vengono posti nelle condizioni di conoscere il bilancio dello stato e le difficoltà in cui si incorrerebbe se non fosse approvato l'aumento delle tasse, potrebbero dare il voto all'aumento e dunque il legislatore potrebbe approvare la legge. Tuttavia, Kant ammette anche che il cittadino accidentalmente se interpellato potrebbe non dare consenso alla legge da approvare, perchè magari si sentirebbe danneggiato nel suo particolare, non essendo consapevole del bene superiore che grazie a quella legge potrebbe essere raggiunto. La legge viene approvata dalla camera dei rappresentanti che detiene il potere legislativo. Non è necessario che il popolo sia informato, stiamo parlando di "come se". Il legislatore legifera non 5 consultando il popolo, ma votando. Un legislatore deve pensare a cosa direbbe il popolo, ogni cittadino se interpellato sulla legge. Non è necessaria l'unanimità dei cittadini. Kant non è un democratico. Non gli importa che tutti i cittadini siano d'accordo. Lo stato di natura è condizione che permane, che è immanente, a priori della storia umana - c'è sempre. Il popolo deve sempre necessariamente ubbidire. Diversamente da Locke, del quale per certi versi rielabora le istanze, Kant non ammette il diritto di resistenza. La ragione di ciò è semplice: assenza di un terzo superiore tra le parti. Se si ammettesse bisognerebbe ammettere che esista un terzo superiore alle parti in causa, cosa che non è prevista. Non esiste un terzo superiore tra sovrano - potere legislativo - e il popolo. Il popolo non ha neppure il potere di giudicare il sovrano. L'applicazione della costituzione non può essere sottomessa a giudizio del popolo, o a giudizio del singolo cittadino. Anche se, il sovrano può compiere degli errori. Quindi, nel caso in cui il sovrano compia errori, che diritti hanno i cittadini? Nel caso il sovrano non eserciti il suo potere in modo conforme ai vincoli costituzionali, il cittadino può criticare il sovrano, attraverso la libertà di penna. La libertà di penna è libertà di scrivere e di esprimere per iscritto le proprie critiche al sovrano. Libertà di penna è infatti connessa all'uso della ragione, che può essere pubblico o privato. L'uso pubblico della ragione si addice allo studioso. Diversamente, l'uso privato della ragione, che è l'uso della ragione che viene praticato dai funzionari dello stato non ammette il dissenso. Questa libertà di penna appare quindi come libertà limitata, per certi versi che si esprime eminentemente in forma scritta da parte degli studiosi, alla lunga condizionerà la mentalità del popolo e giungerà anche a condizionare il potere legislativo del sovrano. La costituzione così come pensata da Kant è costituzione definita repubblicana. Per Kant, repubblicanesimo significa anti dispotismo. Il dispotismo non si realizza e dunque si evita quando i poteri sono divisi, nello stato. Kant distingue, riprendendo per certi versi Rousseau e per certi Montesquieu, distingue tra forme di stato costituzionali (repubblica e il dispotismo) e le forme di governo (autocrazia, aristocrazia, democrazia - quest'ultima è la peggiore perché l'assemblea del popolo esercita insieme esecutivo e legislativo). Kant auspica che vi sia una costituzione liberale e non democratica, che assicuri la massima libertà possibile alla sfera d'azione dei singoli cittadini. Il modello giusnaturalistico utilizzato dallo stesso Kant anche per elaborare una dinamica di rapporti tra stati e, così come la socievole insocievolezza discerneva i rapporti tra singoli in uno stato di natura, allo stesso modo si modulano i rapporti degli stati tra loro. Questa è proiezione del modello che riguarda i rapporti tra individui al modello dei rapporti tra stati, fino a dar vita ad una sorta di federazione di popoli e non di stati, che sarebbe garanzia di pace perpetua. Governo paternale: Kant distingue il governo paternale che si occupa della felicità dei suoi sudditi, pensando che i cittadini siano come minori. Governo paternale è forma governativa dove colui che detiene il potere esecutivo guida i cittadini come fa il padre verso i figli minori, seguendoli passo passo nello sviluppo e guidandoli verso gli obiettivi ritenuti migliori dal padre stesso. Questa tipologia è coerente con una prospettiva che non può invece essere accolta da Kant, che è semmai il paladino della libertà, colui che è teso a salvaguardare sempre la libertà del singolo. Se lo stato si preoccupa di stabilire come i cittadini debbano essere felici e quale sia la via per raggiungere la felicità che essi devono seguire, quello non sarà un governo libero Governo patriottico: Kant auspica che ciascun uomo/cittadino/suddito possa essere felice a suo modo, anzi ciascuno ha diritto di essere felice a suo modo e nessuno ha il potere o dovere di obbligare a essere felice secondo altri criteri, diversi da quelli desiderati. Questo è un aspetto molto rilevante dato che si assegna a ciascun uomo il diritto oltre che il dovere di cercare la propria felicità, senza essere obbligati da alcun altro ad individuare/cercare come propri fini o ideali altrui: nessuno può obbligarmi ad essere felice a suo modo. La ricerca della felicità è esclusivamente individuale e anche le vie per ottenere la felicità vanno perseguite individualmente. Per quanto riguarda il diritto (ricordare distinzione del diritto rispetto a morale) Kant distingue tra Imperativi categorici e imperativi ipotetici. Essi riguardano tanto la morale quanto il diritto, per certi versi. Gli imperativi ipotetici sono quelli che si esprimono secondo la proposizione "se vuoi, devi". L'imperativo categorico invece si pone senza se e senza ma: "tu devi". Il diritto positivo può in certi casi prevedere entrambe le tipologie. Sempre tenendo presente che il legislatore che emana le norme deve aver attenzione verso la presunta volontà del popolo e della possibilità per il popolo di aderire alle norme intimamente. ANTONIO ROSMINI (Rovereto,1797-Stresa,1855) Il più grande filosofo italiano dell'800. Non ha conosciuto fortuna perché è cristiano e tende a far filosofia cristiana, ma soprattutto perchè alcune delle sue opere maggiori sono state poste all'indice. Nella Chiesa cattolica egli ha trovato numerosi ostacoli alla diffusione del suo pensiero. D'Addio è uno degli studiosi più accreditati di Rosmini. Proviene da una famiglia nobile di Rovereto. Nella sua casa può disporre, fin dalla tenera età, di una vasta libreria. Viene avviato agli studi per i quali manifesta grande attitudine. A Padova si laurea in Teologia. Nel 1821 diventa sacerdote, ordinato prete a Chioggia. A metà degli anni '30 si reca a Milano. A Milano entra in contatto con i circoli culturali più alla moda. Stringe amicizia con Manzoni, del quale sarà amico intimo. Rosmini, benché prete, fu appassionato di politica fin dai primi anni '20. Negli anni milanesi compone un'opera conosciuta come "Politica prima" che rimane per un po' incompleta a causa dei limitati strumenti filosofici a sua disposizione (necessitava di maggiore padronanza e conoscenza). Rosmini inizia ad occuparsi innanzi tutto di gnoseologia - come l'uomo conosce? - e di antropologia proprio per trovare risposta ai problemi politici. Durante i suoi anni giovanili aveva studiato la filosofia moderna, leggendo anche i classici. Lo scopo che si prefigge Rosmini è aggiornare la filosofia moderna, della quale conosce gli esiti, alla luce della tradizione classica, ovvero alla luce del pensiero di Tommaso, Aristotele, Platone, ecc. Il sistema filosofico di Rosmini, che si può leggere in molte opere (dalla filosofia della politica alla filosofia del diritto, alla gnoseologia, alla filosofia morale, teologia, logica, etica, matematica, statistica) viene paragonato per vastità e complessità al sistema di Hegel. Nel 1828 fonda un suo ordine religioso: Istituto della carità. Questo ordine fa della passività uno dei suoi principi teoretici e regolativi (principi della regola). Nel 1848, Rosmini è 5 destinatario di una richiesta da parte del governo sabaudo, il quale lo invia a Roma per una missione particolare: convincere il Papa ad emanare una costituzione e allearsi con Carlo Alberto/Savoia contro gli austriaci (Prima guerra di indipendenza, finita male!). Lo scopo di fondo è orientare l'alleanza Papa-Savoia verso una più larga alleanza con gli stati italiani per unificare sotto un progetto federale la penisola italiana, e contrastare gli austriaci. Il Papa Pio IX aveva inizialmente accolto le istanze di Rosmini e dunque provenienti dai Savoia. A Rosmini viene addirittura proposta la veste cardinalizia. Egli compra addirittura i vestiti. Ma a Roma nel frattempo, in seguito ai cambiamenti nel panorama italiano ed europeo, prevale la politica del Cardinale Antonelli. Il Papa si trasferisce a Gaeta, dove inizialmente Rosmini lo segue (c'era ottimo rapporto tra i due). Poco dopo, Rosmini però cade in disgrazia: il progetto fallisce. In queste circostanze, vengono messe all'indice alcune opere di Rosmini, tra le quali "Le cinque piaghe della Santa Chiesa" in cui Rosmini elenca i mali della chiesa italiana, puntando il dito su questioni che saranno risolte solo con il Concilio Vaticano 2° . Dopo la sua morte vengono condannate 40 proposizioni estratte casualmente dalle sue opere. Nel 1888 viene emanato un decreto con cui scompare dagli studi ufficiali italiani. Fu Giovanni Gentile a riscoprire Rosmini: a Rosmini, Gentile dedica la tesi di laurea e la prima monografia. Per la riabilitazione di Rosmini bisogna attendere gli anni '80 del Novecento. Qualche anno fa, Rosmini è stato proclamato beato. Leggendo il suo pensiero (in un italiano molto pesante rispetto all'amico Manzoni), emerge come egli abbia anticipato troppo i tempi. Infatti, il cristianesimo di Rosmini è un cristianesimo liberale. Per Rosmini, i cristiani non possono non essere liberali. Dopo la sfortunata missione romana torna a Stresa chinando il capo e praticando il principio di passività . Non ha cominciato però a inveire contro il Papa. Questo principio è legato sia alla sua concezione filosofica sia alla via ascetica che prescrive a coloro che aderiscono al suo istituto della carità. Della naturale costituzione della società civile Opera minore di Rosmini. Principio di passività, Rosmini scrive che "ad esser giusti non si deve far altro che esser passivi al vero". Essere passivi al vero significa che nel osservare e leggere, conoscere la realtà, vita, storia e nell'approcciarsi alla politica, bisogna far si che la propria mente sia libera da preconcetti e pregiudizi, per quanto questo sia possibile. Rosmini ritiene che non si debba forzare l'interpretazione sulla base di ciò che noi desideriamo in modo che il vero possa manifestarsi. Sulla base del principio egli ritiene si debba anche conoscere. Quando Rosmini deve tornare da Gaeta a Stresa non è contento, ma soffre molto. Ciò che egli era andato a fare a Roma era svolgere missione che reputava giusta: auspicare l'unità d'Italia attraverso confederazione di stati, e istituire una costituzione dello Stato pontificio. L'atteggiamento di Rosmini, fu di passività: accetta le cose così come sono andate, anche se non gli piacciono, dando una giustificazione e lettura. La giustificazione che diamo a posteriori è: i tempi non erano abbastanza maturi perchè certi temi fossero accettati. Le cinque piaghe della santa chiesa Da cattolico egli compone la sua questa opera scritta con il cuore perchè intendeva riformare la chiesa. Puntualizza che però il clero non è sufficientemente istruito e formato, che i vescovi non rispondono ai principi cristiani in senso stretto. La politica prima Dal '20 fino al '27-'28 mentre compone l’opera critica esiti nefasti della rivoluzione francese, conformandosi alla restaurazione. In essa Rosmini affronta il problema politico confrontandosi con la Rivoluzione francese su cui il suo giudizio è decisamente negativo perché le idee e i valori portati avanti dai rivoluzionari sono in realtà “astratti” e non applicabili concretamente come dimostrato dalle contraddizioni emerse durante gli anni. Gli errori dei rivoluzionari francesi sono imputabili in realtà ai teorici cui essi si ispirano, cioè i filosofi illuministi. Il riferimento polemico al carattere “astratto” della filosofia illuminista spinge quindi Rosmini ad assumere un atteggiamento “realista” in materia politica perché il riferimento alla storia è un dato irrinunciabile per il pensiero. Si accorge che le opere politiche di ingegneria costituzionale erano risposte che non riuscivano a risolvere i problemi perchè egli non era riuscito ad individuare gli strumenti teoretici. Rosmini si fa consapevole del fatto che i problemi politici non possono essere risolti se non sulla base di un ripensamento dell'uomo , e di un ripensamento della filosofia e della teoria della conoscenza. Rosmini fa quindi, per questo, un passo indietro, ferma la produzione di scritti politici e si dedica allo studio della gnoseologia. Saggio sull'origine delle idee Nel quale riprende la teoria della conoscenza kantiana, in cui sottolinea che conoscere significa giudicare. Scinde il processo con cui l'uomo si rapporta alla realtà per conoscerla, in due fasi distinte. Rosmini ritiene che ogni uomo sia reso intelligente e capace di conoscere dall'intuizione originaria dell'idea dell'essere: ogni uomo ha intelletto, ragione, volontà. A vent'anni ha l'intuizione. Inizia a sottrarre ai concetti conosciuti tutti i particolari, tutti gli attributi, non solo agli oggetti ma all'uomo anche. Togliendo tutti gli "accidenti" giunge a pensare a ciò che accomuna tutte le cose, esseri ma anche tutti gli enti. Ciò che accomuna tutte le cose, private di tutti gli accidenti, è l'essere. Se togliamo l'essere alle cose, non abbiamo più nulla. L'essere è quel primo dato che rende possibile ciò che una cosa è, ciò che rimane dopo che dal concetto di uomo noi togliamo gli accidenti. Senza l'intuizione originaria dell'essere che fa in modo che l'intelletto sia intelletto (dato che se lo priviamo di questa idea dell'essere non è neppure intelletto), non sarebbe possibile conoscere alcunché. Parlando di Kant, s'è detto che l'estetica, la prima fase della conoscenza, si struttura su due categorie: spazio e tempo. Per Rosmini, ciò che è generale nella conoscenza non sono tanto queste categorie a priori dell'intelletto - spazio e tempo - quanto invece questa intuizione originaria dell'essere, che costituisce l'uomo intelligente. Rosmini riprende la teoria oggettivistica della conoscenza: fa passo indietro rispetto a Kant e all'idealismo. Dice che gli attribuiti non vanno dati all'ente ma tolti. L'oggetto è esterno all'uomo e in quanto tale l'uomo conosce. Non è l'uomo che mette le sue categorie e attribuisce ciò che vorrebbe, ma l'oggetto si da all'uomo. Questo è, di nuovo, per il principio di passività: il vero si
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