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Storia demografica d'Italia - Sintesi, Sintesi del corso di Demografia

Sintesi del libro Storia Demografica d'Italia per l'esame di Demografia Storica di Francesco Scalone per il corso di Laurea Magistrale Geografia e Processi Territoriali dell'Unibo

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

Caricato il 20/12/2023

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Scarica Storia demografica d'Italia - Sintesi e più Sintesi del corso in PDF di Demografia solo su Docsity! STORIA DEMOGRAFICA D’ITALIA INTRODUZIONE: 1861: Nascita dello Stato italiano unitari. Primo censimento. Inizio della transizione demografica: - aspettativa di vita: poco sopra 30 anni - altissima mortalità infantile - numero medio di 5 figli per donna 2 dopo guerra. Nascita della repubblica. Boom economico e demografico. 1961: aumenta aspettativa di vita a 65 anni e figli medi diminuiscono a 2/3 Anni 70: alla crisi economica e politica si somma una riduzione della natalità 1993. 2° repubblica, formazione dell'UE, piccola ripresa demografica. Italia paese meta di immigrazione. Mancano investimenti pubblici, politici, familiari e di conciliazione del lavoro. 2008. Crisi economica 2011: Aspettativa oltre 80 anni, 1 figlio per donna (al di sotto della soglia di equilibrio nel rapporto tra generazioni). Cambiamenti culturali e familiari, influenza delle migrazioni 2014: Declino demografico. Le migrazioni non sono sufficienti a compensare il divario negativo tra nascite e morti. COVID19: Evento inedito, aumento dei decessi eccezionale dal Dopoguerra in poi. L'italiano sottovaluta capitale giovanile e femminile, nonché quello migrante. È il paese europeo con maggiori energie potenziali che, però, non riesce a sfruttare. CAPITOLO 1 - DALL’UNITA D’ITALIA ALLA SECONDA GUERRA MONDIALE Della morte nera e altre sventure Peste 1348. Un morto su tre. Alla fine del secolo la popolazione passa da 12,5 a 8 milioni Varie ondate di peste, non si hanno gli strumenti per fronteggiare l'epidemia. Gli interventi di pulizia e limitazione alla circolazione delle persone hanno effetti limitati. Peste anche nei secoli successivi. Seconda ondata nel 1652. Tragica ma meglio gestita, miglior situazione sanitaria, costruzione di lazzaretti. 1700. Nuovo regime demografico, interrotta crescita della popolazione. Vi sono epidemie ma non incidono fortemente 1834 Colera. Avvia una serie di reazioni. Proteste. Ripercussioni su coesione sociale, colpevolizzazione dei malati. Marginalizzazione e disgregazione. Timori e ansie si traducono in misure di sanità universale che includono anche le fasce povere. Un nuovo futuro possibile Alle soglie dell'Unità persistono alti livelli di mortalità, e si presentano epidemie legate all'estrazione sociale. Nelle campagne e nei quartieri popolari delle città si registrano alti livelli di malattie infettive, legate alla malnutrizione (malaria, tubercolosi) o alle pessime condizioni sanitarie (colera). La mortalità infantile è elevata (1 bambino su 4) ed è presente un clima di incertezza che ostacola programmi e calcoli di lungo periodo. Tuttavia, insieme ad una riduzione delle epidemie vanno segnalate due rivoluzioni che porteranno all'avvio della rivoluzione demografica: la rivoluzione scientifica e industriale. Addio all'antico regime: l'avvio della "rivoluzione" demografica • Transizione demografica: il passaggio da alti livelli di natalità e mortalità, tipici delle società preindustriali, a bassi, caratteristici di società mature e avanzate. Termine coniato nel 1934 da Adolphe Landry Il calo della mortalità in Italia, in ritardo rispetto agli altri paesi occidentali, si verifica nel periodo 1880-1910, soprattutto grazie al miglioramento delle condizioni igienico sanitarie collettive (fogne e ambiente urbano) e personali (uso del sapone, maggior cura ai bambini). Il ruolo della medicina sarà, invece, importantissimo a partire dal 1930 con la penicillina e le vaccinazioni di massa. L'aumento della sopravvivenza è dovuto soprattutto ai progressi nella riduzione della mortalità infantile. La morte sembra sempre più qualcosa che l'uomo può controllare e sottrarre dal dominio esclusivo della natura. In ritardo e più lentamente inizierà a farsi strada anche l'idea di poter controllare la natalità. Le classi agiate sono le prime che beneficiano del calo della mortalità infantile e sono anche quelle che iniziano un maggior controllo sulle nascite (da condizione naturale a processi decisionali deliberati). Con i processi di urbanizzazione, industrializzazione e modernizzazione anche le classi più basse inizieranno un processo di controllo sulla natalità a causa dell'aumento del "costo" dei figli. I figli studiano di più e diventano autonomi più tardi. Inoltre, con lo sviluppo dei sistemi previdenziali, i figli perdono il ruolo di sostegno per i genitori in età avanzata. L'abbandono del regime di fecondità naturale in Italia avverrà tra il 1910 e il 1920, con notevoli differenze regionali soprattutto tra nord e sud. Questione meridionale e demografia Alla fine del XIX secolo il Regno d’Italia è in ritardo nel processo d’industrializzazione rispetto ad altri paesi europei e non. La popolazione è ancora prevalentemente agricola e non alfabetizzata. Si registra, inoltre, un notevole divario tra nord e sud, non solo dal punto di vista economico ma anche demografico. Il nord si distingue per un maggior sviluppo di collegamenti stradali e ferroviari. Inoltre, mentre nel nord sono presenti insediamenti sparsi e diffusi, nel Mezzogiorno vi sono grandi agglomerati urbani intervallati da vaste aree disabitate, funzionali all’agricoltura. Nel periodo postunitario le principali dinamiche migratorie erano temporanee e riguardavano la pratica della transumanza. Successivamente, con la messa a coltura delle terre di pascolo e alle nuove possibilità di insediamento stabile presso le aree litoranee bonificate, si registra una trasformazione dei movimenti migratori da temporanei a stabili. La crescita della mobilità territoriale non sarà sono solo interna ma coinvolge anche lo spostamento verso paesi lontani. Baby Boom Gli anni 50 e 60 vengono definiti “epoca d’oro dei matrimoni”, in cui una generazione si è trovata ad essere l’ultima con valori tradizionali ancora forti e la prima ad entrare nella società del benessere, in un clima positivo e di mobilità sociale. Il percorso di transizione alla vita adulta è tradizionale e differenziati sono i ruoli e percorsi di uomini e donne, i primi occupati in ambito produttivo e le seconde in ambito riproduttivo, con limitate possibilità di scelta. Il momento di benessere economico sarà cruciale ad affermare questa situazione, perché faceva sì che il salario maschile bastasse a soddisfare le esigenze economiche della famiglia. Nel passaggio da economia agricola a industriale la famiglia perde la sua funzione di unità di produzione e diventa sempre più un’unità di consumo. La facilità di ottenere un reddito e di costruire una famiglia autonoma spinge molti giovani, e sempre più presto, a sposarsi e fare figli. Il 60% dei matrimoni avviene sotto i 25 anni. Per quanto riguarda le nascite si abbassa il numero di figli per donna, dando pienamente avvio alla fine della transizione riproduttiva. Le rivoluzioni che chiudono un’epoca Il modello tradizionale che aveva trainato il periodo del Baby Boom inizia ad entrare in crisi versa la fine degli anni 60. • Teoria della New Home Economics di Gary Becker: la maggior istruzione e partecipazione delle donne nel mondo del lavoro mette in discussione l’asimmetria tradizionale nelle funzioni all’interno della famiglia. Questo spiega anche la riduzione della fecondità. • Teoria della Seconda transizione demografica: mette al centro il mutamento “ideazionale”. Gli ideali di antiautoritarismo (vedi 1968) e autorealizzazione portano i giovani a non voler impegnarsi in relazioni percepiti come irreversibile o troppo vincolanti Mutamenti di carattere strutturale e culturale che influiscono sui tempi e modi di formazione della famiglia all’inizio degli anni 70 - Legalizzazione delle pubblicità sui metodi contraccettivi - Legge sul divorzio - Riforma del diritto di famiglia: marito e moglie posti per la prima volta sullo stesso piano per questioni di scelte familiari, patrimonio, potestà dei figli. Fondamentali risultano quindi il cambio di concezione sul matrimonio (visto come scelta individuale e non come destino inevitabile) e la rivoluzione sessuale derivata dall’uso dei contraccettivi, che porta un’intera generazione a vivere la vita sessuale e di coppia in modi nuovi. L’emancipazione femminile e la necessità di scardinare le precedenti gerarchie di potere di genere assumerà una funzione chiave. CAPITOLO 3 - DAL 1975 AL 1995: LA PIRAMIDE DEMOGRAFICA INIZIA A ROVESCIARSI Tutto cambia Il periodo dei “30 gloriosi” volge al termine con la crisi energetica del 1973 che fa precipitare l’Italia e altri paesi europei nell’austerity. Inizia ad essere chiaro all’opinione pubblica che il benessere è legato alle risorse disponibili e cresce la consapevolezza sui danni che industrializzazione e consumo recano all’ambiente e alla salute. Emerge la consapevolezza su nuovi rischi legati al fumo, all’inquinamento, alla sedentarietà e all’alimentazione ricca di grassi animali. Non solo stili di vita e consumo ma anche il contesto di lavoro, soprattutto nelle fabbriche, esponeva a condizioni nocive. Il modello economico dopo il 1973 entra in crisi. Molti paesi avanzati vedono nel PIL un andamento negativo e la disoccupazione è in aumento. La crisi porta ad una riduzione della natalità, tant’è che alla fine degli anni 80 l’Italia è uno dei paesi al mondo con i più alti livelli di invecchiamento e di indebitamento. Sono questi gli anni in cui l’Italia diventa un paese sempre più ostinato nel preservare posizioni di rendita e benessere passato piuttosto che investire su nuovi diritti e nuove opportunità. A livello macro, la difesa dei livelli di benessere, su cui si appoggia il consenso elettorale, viene perpetuata sempre più a debito delle generazioni future; mentre a livello micro. le famiglie difendono il proprio benessere riducendo il numero di figli, ma dovendoli poi mantenere a lungo e compensando con l’aiuto informale privato le carenze dell’investimento pubblico. È mancato soprattutto un ripensamento del sistema delle politiche attive del lavoro e degli strumenti di conciliazione tra famiglia e lavoro. Un paese in difesa del benessere raggiunto Dal 1963 (prima crisi) al 1978 l’Italia si dedica ad un periodo di riforme sociali e strutturazione del welfare, ma la letteratura storico-economica considererà la programmazione di queste riforme come un occasione mancata, soprattutto per quanto riguarda il sistema previdenziale, su cui è mancata un’essenziale organicità e attenzione alla sostenibilità. Nel 1969 si passa da un sistema a capitalizzazione a uno a ripartizione (pensione su ultime paga del periodo lavorativo). I contributi di chi lavora in un dato anno non vanno ad alimentare la pensione futura ma a pagare l’assegno di chi è in pensione in tale stesso anno. Creando uno squilibrio generazionale a favore di quelle vecchie. Questa disattenzione verso le future generazioni è dimostrata anche dalle misure di pensionamento anticipato che cercavano di risolvere il problema della disoccupazione scaricandone sul futuro i costi. Manca, inoltre, una programmazione di conciliazione tra famiglia e lavoro e misure atte ad una redistribuzione del lavoro di cura all’interno della coppia. Nel corso degli anni 80 il costo della spesa pensionistica è preoccupante- Il fare famiglia in trasformazione Le nuove leggi sul divorzio, i movimenti di emancipazione, l’educazione sessuale, la diffusione di contraccettivi, e una nuova concezione di gioventù libera da impegni troppo vincolanti, portano nel corso degli anni 70 ad un cambio di direzione. Si registra un aumento dei divorzi e delle separazioni con una riduzione del matrimonio, che si sposta ad età via via sempre più mature. Partnership revolution: mutamenti nei modi di formare l’unione di coppia e la famiglia. Nei paesi dell’Europa mediterranea il matrimonio resiste, rispetto ad altri paesi occidentali, nella sua funzione di evento centrale alla riproduzione (cambiamenti si verificheranno solo a partire dagli anni 2000). In Italia vi è una permanenza prolungata nella casa dei genitori che termina solo con il matrimonio e la formazione di una nuova famiglia. L’80% di donne coniugate alla fine del XX secolo tra 25 e 29 dichiarano di essersi sposate senza nessuna esperienza pregressa di coabitazione ( in Francia o Germania solo il 20%). Mentre in Europa la posticipazione del matrimonio da avvio a forse di autonomia giovanile nuove, nell’Europa mediterranea si traduce in un prolungamento nella casa dei genitori. Il legame tra genitori e figli La famiglia mediterranea è caratterizzata da legami familiari forti che si traducono in assistenza e supporto economico ed emotivo. Questa condizione è associata ad un welfare pubblica che risulta inadeguato e carente. Con la generazione X (i giovani degli anni 80 e 90) si consolida l’accettazione di una lunga permanenza a casa dei genitori, e i sostegni economici superano la fase giovanile prolungandosi anche al post matrimonio. La famiglia si consolida come primo ammortizzatore sociale e si incentiva un’accentuata prossimità abitativa tra genitori e figli sposati. L’aiuto da parte dei genitori si trasforma anche in una più alta ingerenza nelle questioni personali dei figli che cercano di non disattendere le aspettative dei genitori. La scelta di convivere, anziché sposarsi, può rivelarsi penalizzante in quanto i genitori non risultano culturalmente aperti e disposti ad accettare tale scelta dei figli. La diffusione della convivenza si innesta in maniera dolce a bassa tensione generazionale con le nuove generazioni di genitori culturalmente più aperte alla relationship revolution, e senza indebolire la solidarietà familiare intergenerazionale. Le scelte bloccate di giovani e donne - Baby boom: aumento nuzialità e fecondità - Baby bust: riduzione di nuzialità e fecondità Rispetto alle altre economie avanzate risulta evidente, in Italia, una difficoltà a valorizzare il capitale umano delle nuove generazioni. L’inserimento del numero chiuso in determinate facoltà risponde alla volontà di incoraggiare i giovani ad adattarsi a ciò che offre il mercato o a cercare opportunità all’estero. Per un giovane le opportunità sembrano limitate a seguire la strada dei propri genitori o cercare migliori opportunità altrove. Per quanto riguarda le donne, nonostante lo sviluppo del settore terziario fornisse maggiori opportunità di impiego femminile, l’occupazione femminile rimane compressa rispetto ai paesi dell’Europa nord- occidentale, a favore di un modello che continua ad essere quello del male breadwinner. La minore occupazione femminile italiana è accompagnata da tassi di fecondità più elevati. Ma nel corso degli anni 80 la relazione negativa tra partecipazione delle donne al mercato del lavoro e fecondità diventa progressivamente positiva. Il doppio stipendio limita il rischio di impoverimento e risulta socialmente e demograficamente più equilibrato. L’Italia stenta a inserirsi in questo percorso a causa delle resistenze strutturali e culturali, generando un circolo vizioso che comprime verso il basso occupazione femminile e fecondità. Il paese degli squilibri L’Italia è incapace di valorizzare giovani e donne. Negli anni 90 l’Italia diventa il primo paese al mondo in cui gli over 65 superano gli under 15. A questo epocale cambiamento contribuisce anche l’aumento della longevità e la transizione epidemiologica e sanitaria: si assiste alla fine del dominio delle malattie infettive come cause di morte a all’aumento delle malattie generative. Alla fine del XX secolo si sviluppa una nuova cultura della salute legata all’alimentazione e agli stili di vita, che portano ad un aumento della popolazione anziana e, soprattutto, ad un aumento qualitativo della vita adulta. L’Italia è uno dei paesi più longevi al mondo, ma questo dato continua ad essere combinato con la riduzione delle nascite. Dalla denatalità al degiovanimento (non solo quantitativo) L’Italia nel nuovo secolo si trova in una spirale di “degiovanimento” quantitativo e qualitativo, ovvero di indebolimento delle nuove generazioni sia rispetto alla propria dimensione demografica, quindi anche del peso elettorale, sia nella partecipazione attiva nella società e nel mercato del lavoro. La popolazione under 25 passa da essere il 37% al 25% (immigrati inclusi). In Italia l’investimento pubblico sulle giovani generazioni è tra i più bassi in Europa. Nel 2010 l’UE adotta il tasso di NEET come uno dei principali indicatori della condizione dei giovani. In tale anno il dato italiano risulta essere intorno al 22%, il peggiore in Europa (media UE 15%). Tra chi lavora, chi ha contratti temporanei è il 43,3% (media UE 39,4%). Dal punto di vista politico si è fatto poco per affrontare la situazione, preferendo assecondare le esigenze di quelle generazioni più vecchie, più numerose e , quindi, più importanti nelle stagioni elettorali. Le nuove generazioni si sono trovate a farsi carico di un sistema pensionistico insostenibile e da condizioni lavorative sempre peggiori a causa della progressiva terziarizzazione, flessibilità e privatizzazione del mercato del lavoro. Le sfide del vivere sempre più a lungo La percentuale italiana di over 65 arriva a superare il 20% nel 2007, mentre il dato mondiale è nello stesso anno pari al 7%. L’aspettativa di vita nello stesso anno è pari a 78,7 anni per gli uomini e a 84 per le donne. La riduzione dei rischi legati al lavoro, più comuni in passato nel Nord Italia, porta la geografia della longevità e delle condizioni di salute a essere sempre più legata alla ricchezza economica del territorio, ai livelli dei servizi di welfare e del sistema sanitario. Negli anni 70 le regioni che presentavano condizioni migliori di sopravvivenza femminile non corrispondevano a quelle con più alti livelli maschili (donne al nord e uomini al sud). Lo svantaggio maschile settentrionale si è però progressivamente ridotto. Con l’aumento della quantità di vita vissuta si inizia a guardare alle fasi della vita più matura in modo qualitativamente diverso. Dal punto di vista economico diventa sempre più rilevante, assieme alla spesa pensionistica, anche la spesa per long term care. Da un punto di vista sociale aumenta il rischio di solitudine degli anziani e di sovraccarico sulle famiglie, che rispondono alle carenze della struttura pubblica. A peggiorare la situazione è la riduzione del numero dei figli, i quali sono anche più mobili nel territorio e riescono ad occuparsi meno dei genitori. Inoltre, la carenza di servizi porta ad un sovraccarico soprattutto femminile, le tradizionali caregivers del welfare informale. Il ricorso alle “badanti” sarà così massiccio che nel 2009 si procederà ad una regolarizzazione degli immigrati ristretta a colf e badanti. I persistenti vincoli all’aumento dell’occupazione femminile Nel periodo tra il 1995 e il 2007 l’occupazione femminile passa dal 37% al 45%. Un dato importante ma non soddisfacente in quanto non si riesce comunque a raggiungere l’obiettivo strategico europeo del 60% fissato nel 2000 a Lisbona per il 2010. La crescita dell’occupazione è stata sicuramente favorita dall’aumento dell’istruzione. Con il nuovo secolo il tasso di scolarità femminile e le performance scolastiche femminili superano quelle maschili. Rimangono però ostacoli dovuti a resistenze culturali. Le donne tendono a non scegliere, per stereotipi culturali, le materie STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics), che sono anche quelle che garantiscono migliori sbocchi professionali. L’importanza dell’istruzione emerge quando si confrontano i tassi di attività per titolo di studio. Nel primo decennio del XXI secolo il tasso di occupazione maschile dei laureati è del 95% e poco più alto di quello femminile (soprattutto donne senza figli). Ma per chi si è fermato alla scuola dell’obbligo il tasso maschile è del 90% mentre quello femminile del 53%. Un altro aspetto importante è la mancanza di politiche di conciliazione tra lavoro e impegno familiare. Vi è una carenza di asili nido, con differenze territoriali notevoli, che rende difficile superare un modello culturale basato sul welfare informale femminile. Nuove e vecchie mobilità Importantissimo è il fenomeno migratorio in entrata. Nel 2007 con l’entrata della Romania e della Bulgaria nell’UE si registra un eccezionale afflusso. Se fino agli anni 90 la crescita dell’immigrazione si limita a frenare il declino demografico, nel primo decennio del nuovo secolo diventa così rilevante da alimentare un processo di crescita. A fare cresce l’immigrazione è la forte domanda di manodopera a bassa qualifica nel terziario, nell’edilizia e nella ristorazione, nei servizi (soprattutto agli anziani) e nell’agricoltura. La maggior parte della componente straniera è diretta nelle regioni del Centro-Nord. La maggiore mobilità deli stranieri, legata a minori vincoli abitativi, alle reti familiari e alla giovane età, va a configurare una più elevata capacità di adattamento ai cambiamenti strutturali e territoriali del mercato del lavoro, portando ad una flessione della mobilità interna. Persistono allo stesso tempo le migrazioni dal Sud verso il Nord costituendo una scomoda evidenza del ruolo di subalternità delle regioni meridionali. A spostarsi sono sempre più giovani con elevato titolo di studio, contribuendo all’impoverimento del capitale umano delle regioni meridionali e al degiovinamento della popolazione. CAP 5. DALLA GRANDE RECESSIONE ALLA PANDEMIA Un paese che non cresce Nel 2007 la crisi finanziaria e poi economica e sociale porta a quella che viene definita “Grande recessione”. Aumentano i tassi di disoccupazione alla fine del primo decennio, soprattutto per under 35. Si registra per gli over 50, invece, un aumento occupazionale. Il tasso di occupazione femminile passa dal 47% al 45% nel 2007 per poi risalire sopra il 47% solo nel 2015. L’UE entra in una fase di Austerity e in Italia dal governo Berlusconi si passa al governo tecnico di Mario Monti. Nella strategia Europa 2020 lanciata nel 2010 ci si pone come obiettivo una crescita che sia intelligente, sostenibile e inclusiva. Questi tre assi vengono declinati su cinque principali fronti: - Aumentare il tasso di occupazione (fino al 75%) - Investire in ricerca e sviluppo (almeno 3% del PIL) - Ridurre le emissioni e aumentare le energie da fonti rinnovabili - Ridurre abbandono scolastico e aumentare numero di laureati (almeno 40%) - Ridurre povertà ed esclusione sociale A livello europeo e dei singoli paesi, quindi, si cerca di uscire dalla crisi incentivando l’innovazione, la digitalizzazione, l’occupazione e istruzione giovanile. In Italia si attivano diverse riforme per fronteggiare la crisi, ridurre la segmentazione del mercato del lavoro e la povertà - Alternanza scuola – lavoro ( Buona scuola , 2015) - Jobs Act - Istituzione dell’Anpal - Reddito di cittadinanza (2019) Nell’ambito delle trasformazioni familiari: - Divorzio breve (2015): riduce il periodo che può intercorrere tra l’unione e il divorzio - Unioni civili (2016) - Family act (2020): assegno unico e universale per ogni figlio a carico, congedi di paternità. COVID-19 L’Ue anziché raccomandare l’austerity, sceglie di dare impulso a una ripresa resiliente. Istituisce il Next Generation EU per aiutare le economie degli stati membri, che vedrà l’Italia come principale destinataria. In Italia si instaura il governo Mario Draghi che attua il PNRR italiano ( Piano nazionale ripresa e resilienza), che prevedere uno sviluppo “verde e digitale” e interventi di infrastrutturazione sociale. C’è un’attenzione a migliorare l’occupazione giovanile e femminile ma manca un esplicito riconoscimento delle sfide che gli squilibri demografici pongono al paese. Di particolare rilievo è il piano di potenziamento dei nidi che mira a portare il paese a raggiungere l’obiettivo di copertura del 33%. La ripresa post pandemia deve però fare conto con i nuovi conflitti (Russia- Ucraina) e l’emergenza di migranti e profughi. Le condizioni delle nuove generazioni e l’emergere del fenomeno NEET Le varie riforme sono risultate occasioni sprecate e realizzati in modo incompleto. In Italia si riduce il numero dei giovani e anche il loro tasso di occupazione. Rispetto alle altre economie avanzate, l’Italia si trova ad accentuare squilibri demografici a sfavore delle nuove generazioni. Permangono notevoli differenze territoriali e un aumento dell’occupazione in età matura che va a scapito di quella giovanile. I giovani pur avendo titoli di studio più elevati faticano a trovare lavoro qualificato, duraturo e ben retribuito. Aumenta, sotto i 35 anni, il rischio di diventare working poor. La percentuale di NEET (18%) costituisce la principale misura delle difficoltà nella transizione scuola-lavoro e del rischio di esclusione sociale. I giovani escono dal percorso scolastico senza le competenze ed esperienze richieste dalle aziende, o faticano a trovare posizioni all’altezza delle loro capacità. Mancano, inoltre, strumenti utili per orientare e supportare i giovani nella ricerca di lavoro. L’aumento dei NEET è sostenuto da due tipicità italiane: la lunga dipendenza dai genitori e l’economia sommersa. Quello che manca ai giovani italiani è la possibilità di passare dal sostegno passivo da parte dei genitori a un investimento pubblico in strumenti di attivazione e abilitazione che consenta ad essi di diventare parte attiva e qualificata nei processi di sviluppo del paese. Da NEET a NYNA: la fine della mobilità sociale Si rafforza il ruolo della famiglia come ammortizzatore sociale e sempre meno giovani escono da casa dei genitori per unirsi in matrimonio. Da un lato si consolida il processo di posticipazione e dall’altro accelera il la partnership revolution, con un indebolimento del matrimonio che investe sempre più anche le donne del Mezzogiorno. Si registra, inoltre, un progressivo deterioramento delle opportunità di mobilità sociale. La classe di origine aumenta il suo potere condizionante sui destini occupazionali. L’impoverimento e l’incertezza si lega alla rinuncia ad avere figli. Si passa da “proletari” a “parentari”: ciò che rimane ai giovani italiani è il sostegno di genitori e parenti. I giovani del nuovo secolo partono da condizioni di benessere maggiore rispetto alle generazioni passate, ma trovano condizioni meno favorevoli nel costruire il proprio futuro e nel porsi come soggetti attivi nei processi di crescita del paese. NYNA ( Neither Young Nor Adults) : sono persone che non possiamo considerare propriamente giovani, quantomeno per criterio anagrafico, ma nemmeno pienamente adulte, perché non hanno ancora realizzato le tappe principali del processo di entrata nella condizione adulta. L’entrata nella fase di declino demografico e di indebolimento della popolazione attiva Una delle novità epocali per l’Italia degli anni Dieci è l’entrata della popolazione in fase di declino. Il saldo naturale (nascite/decessi) diventa negativo negli anni 90 ma rimane molto vicino allo zero e compensato dai flussi migratori. Nel 2019 il saldo naturale è del – 200.000 contro un saldo migratorio di +150.000. Dal punto di vista economico assume centralità l’indice di dipendenza degli anziani. Se tale indice aumenta diminuisce la popolazione in età produttiva e aumenta la spesa pubblica per spesa previdenziale e sanità. Secondo le stime OECD del 2019 l’Italia è a rischio di trovarsi a metà di questo secolo con un rapporto 1 a 1 tra pensionati e occupati. Questo comprometterebbe qualsiasi prospettiva di crescita, eppure, la questione demografica non sembra entrare nell’agenda politica italiana nella misura adeguata alla gravità del problema. L’Italia nella pandemia e oltre La pandemia ha avuto un effetto rilevante sulla demografia attraverso i suoi effetti diretti sulla mortalità ed indiretti sulla fecondità. L’Italia si riduce di circa 1,3 milioni di abitanti dal 2014 al 2022. La pandemia è un fattore esogeno e quindi di interruzione temporanea nel percorso di miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. Allo stesso tempo, però, rappresenta il segnale che il rischio di diffusione di gravi epidemie non è remoto e che vi sono fattori che tendono a favorirlo come: densità di popolazione e agglomerazioni urbane, maggiore mobilità, cambiamento climatico e perdita di biodiversità. Inoltre, la maggior presenza di popolazione anziana comporta una maggiore vulnerabilità. La pandemia ha fornito evidenza dei limiti del welfare italiano. Confinamento e restrizioni, inoltre, hanno reso meno possibile contare sulla mutua solidarietà intergenerazionale. La crisi sanitaria ha inasprito le diseguaglianze sociali e la povertà assoluta. La presenza di figli minori espone maggiormente le famiglie alla povertà, mentre la presenza di anziani la riduce grazie ai redditi da pensione che garantiscono entrate regolari. Le restrizioni da pandemia peggiorano le condizioni di famiglie con figli anche in termini di complicazione dell’organizzazione dei tempi di vita e lavoro, anche quando si è ricorso al lavoro da remoto. Secondo il rapporto BES del 2020: le donne, i lavoratori del mezzogiorno, i giovani e gli stranieri presentano una peggiore qualità del lavoro, in termini di instabilità, bassa remunerazione, irregolarità dei contratti e sicurezza sul lavoro. Queste differenze si sono ampliate nel periodo di crisi pandemica. I giovani che all’arrivo della pandemia si stavano affacciando al mondo del lavoro o ne stavano cercando uno nuovo sono rimasti bloccati. La pandemia ha, inoltre, congelato le iniziative di molti giovani che erano in procinto di avviare una attività economica propria. La pandemia ha inciso anche sull’abbandono scolastico e la didattica a distanza ha dimostrato forti limiti con ricadute negative sia sulla dispersione scolastico che sui livelli di apprendimento. Anche la natalità è stata investita dalla pandemia. I dati ISTAT mostrano che ad essere più frenate sono le scelte delle categorie in condizione di maggiore provvisorietà come giovani e immigrati. L’insicurezza prodotta può portare le giovani generazioni investite dalla pandemia a una variazione più in profondità di orientamento e atteggiamento verso la scelta di avere un figlio. Sarà da valutare in futuro se i provvedimenti dell’assegno universale e del Family Act saranno capaci di invertire questa tendenza. APPENDICE. UNO SGUARDO SUL FUTURO L’inerzia dei fenomeni demografici La struttura della popolazione tende a muoversi lentamente come una nave: farle cambiare rotta non è un’operazione facile ma è certamene possibile, basta iniziare con il dovuto anticipo. Governare il cambiamento demografico è possibile ma impone una programmazione e visione di medio e lungo periodo. La tendenza dei decisori politici, però, è quella di sottovalutare i cambiamenti demografici o di considerarli inesorabili. Nel fare previsioni verso il futuro possiamo aiutarci con l’inerzialità di alcune dinamiche demografiche, ma restano comunque elementi di incertezza: - Natalità: continuerà a scendere o convergerà verso i livelli più alti registrati in nord Europa? - Mortalità: quanto guerre, crisi economiche e pandemie influiranno nella sua tendenziale diminuzione? - Flussi migratori: è la componente più sensibile al cambiamento, è in grado di modificarsi rapidamente Nella demografia, quindi, fare previsione rimane un’operazione difficile. Per questo la prassi è quella di disegnare scenari alternativi secondo la logica del what if: cosa succede se si verificano alcune condizioni. Vi sono però anche dei cambiamenti che appaiono ormai inevitabili. Cerchiamo di vedere quali sono. Un paese più piccolo La tendenza futura italiana è quella di una riduzione della popolazione. Tale diminuzione si otterrebbe anche se il numero medio di figli per donna risultasse in crescita, in quanto è in progressiva diminuzione il numero di potenziali mamme. La diminuzione della popolazione potrebbe portare ad un minore impatto ambientale ma anche a svantaggi ecologici dovuti allo spopolamento delle aree interne italiane e alla loro conseguente incuria. Tuttavia, la questione più rilevante non è tanto la dimensione demografica quanto lo squilibrio strutturale interno che non permette un ricambio generazionale. Un paese più vecchio Uno dei punti meno incerti del nostro futuro è l’aumento della popolazione nelle età più mature. Qui non ci sono di fatto margini per agire sulla dimensione quantitativa ma molto può essere fatto sul versante qualitativo. Una popolazione che invecchia vede inevitabilmente crescere numericamente le fasce più fragili con un conseguente aumento della richiesta di servizi assistenziali e sanitari. La fragilità degli anziani, inoltre, è influenzata dal corso di vita precedente: disoccupazione, stress, difficoltà finanziare e cattiva salute sono elementi che aumentano la fragilità degli individui in tarda età. Il secondo effetto è legato alla pressione sulla spesa pensionistica. Un paese con meno persone che lavorano Oltre alla riduzione della popolazione complessiva, l’Italia vede una inedita riduzione della componente attiva, al netto dei flussi migratori. I prossimi due decenni costituiranno la fase di maggior impoverimento della popolazione in età lavorativa. Una riduzione del numero dei lavoratori non implica un automatico aumento delle opportunità di inclusione nel mercato del lavoro per i più giovani; servono programmi di sviluppo, formazione e politiche attive del lavoro efficaci. Lo stesso vale per l’occupazione femminile che necessita di politiche di conciliazione, che aumentano anche i tassi di natalità. Un paese con sempre meno giovani Il “degiovanimento” è un processo destinato a continuare anche nei prossimi anni Padroni del nostro destino? Il quadro spesso depressivo che emerge dalle proiezioni non deve essere considerato come un futuro predeterminato da vivere con rassegnazione. È possibile orientare lo sviluppo, in modo sistematico e integrato, verso gli scenari più favorevoli tra quelli possibili. Aldilà dell’azione politica si richiede anche una combinazione tra consapevolezza e responsabilità delle scelte individuali. La cosiddetta human agency è ciò che davvero fa la differenza tra la componente inerziale della demografia e i margini di incertezza su cui possiamo agire per migliorare il nostro futuro collettivo.
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