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tempo cristallizzato in stoffa colorata: l’evoluzione della moda in cina, Tesi di laurea di Sociologia Della Moda

Questo elaborato si offre di presentare la moda ed il costume sotto un’ottica differente: la moda intesa come linguaggio dell’umanità, come strumento per interpretare la psicologia e l’essenza di un popolo, una chiave di lettura differente e che si propone di scindere o perlomeno di allontanare tale argomento dalla frivolezza che molto spesso le viene attribuita.

Tipologia: Tesi di laurea

2014/2015

In vendita dal 10/09/2015

alessiasant
alessiasant 🇮🇹

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Scarica tempo cristallizzato in stoffa colorata: l’evoluzione della moda in cina e più Tesi di laurea in PDF di Sociologia Della Moda solo su Docsity! UNIVERSITÀ DEGLI STUDI INTERNAZIONALI DI ROMA (UNINT) FACOLTÀ DI INTERPRETARIATO E TRADUZIONE CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN INTERPRETARIATO E TRADUZIONE TESI DI LAUREA TEMPO CRISTALLIZZATO IN STOFFA COLORATA: L’EVOLUZIONE DELLA MODA IN CINA Candidata Alessia Santoro Anno Accademico 2013/14 Sessione estiva 0 Relatore Laura Cassanelli Abstract inglese.........................................................................................................................3 Abstract cinese..........................................................................................................................4 Introduzione...................……............…………………………………………………… ......5 CAPITOLO I 1.1 La moda in Cina: linguaggio dell’umanità ..........................................................................8 1.2 Oriente, alla scoperta dell’abbigliamento ..........................................................................10 1.3 Simbolismo dei motivi decorativi ......................................................................................12 1.4 Breve panoramica storica ...................................................................................................16 1.4.1 L’antichità raccontata in un abito: dalle prime forme di organizzazione statale alla fine della dinastia Song ...............................................................................................16 1.4.2 la dinastia Zhou e i primi accenni sull’abbigliamento ..............................................17 1.4.3 Dagli Stati Combattenti alla dinastia Tang ...............................................................20 1.4.4 Le malizie del trucco..................................................................................................27 1.4.5 Song e Yuan ..............................................................................................................30 1.5 L’abbigliamento femminile nella dinastia Ming (1368 - 1644) ………............…….........31 1.6 La dinastia Qing, ultima dinastia del Celeste Impero. (1644-1911) ……......................... 34 CAPITOLO II 2.1 Da Impero a Repubblica. Considerazioni sulla storia e sull’abbigliamento……..............39 2.1.1 Salgono gli spacchi, si alzano gli orli: 1910 – 1930............................................41 2.2. Il Qipao .............................................................................................................................47 2.3 La militarizzazione degli abiti ...........................................................................................52 2.3.1 Wearing her brother’s clothes .............................................................................54 1 INDICE 摘摘 本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本“本本本本本本本本本本本本本本本本本”本 本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本 本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本 本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本 本本本本本本本本本 本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本 本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本 本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本“本本本本本本”本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本 本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本 本本本本本本本本本本 Intendere la moda come comunicazione significa postulare l’esistenza di un linguaggio della moda e anche sostenere che la moda sia essa stessa un linguaggio. Somiglianze e differenze tra moda e linguaggio sono evidenziate già da Baudrillard: come il linguaggio, la moda mira alla socialità ma, a differenza del linguaggio, che cerca un senso alla socialità, la moda ricerca una socialità teatrale che si compiace solo di se stessa. Non comunica veramente, ma si limita a imitare la comunicazione. (La moda: un’introduzione, Reinach, 2010:13) 4 INTRODUZIONE Questo elaborato si offre di presentare la moda ed il costume sotto un’ottica differente: la moda intesa come linguaggio dell’umanità, come strumento per interpretare la psicologia e l’essenza di un popolo, il rapporto tra le classi sociali ed ancora uno strumento per comprendere appieno la ricchezza della cultura cinese, una chiave di lettura differente e che si propone di scindere o perlomeno di allontanare tale argomento dalla frivolezza che molto spesso le viene attribuita. L’idea nasce durante la visione di uno tra i capisaldi dei film del cinema orientale In the mood for love, in cui la scelta accurata dei costumi, e per essere più precisi del qipao, non è solamente un’estasi per gli occhi dello spettatore, ma è anche l’unico strumento che il regista utilizza magistralmente per marcare il passaggio del tempo, il cambio dei dialoghi e gli incontri tra i due protagonisti. Rimasta affascinata da questa interpretazione ed essendo personalmente interessata al mondo della moda, ho deciso di approfondire, nei limiti del possibile, tale argomento e di connetterlo alla cultura cinese. Una piccola premessa è che per amor dell’accuratezza del lavoro, ci si è concentrati principalmente sull’abbigliamento femminile, per poter affrontare in maniera più dettagliata la stesura di tale elaborato. Inoltre sempre per la stessa ragione, il primo capitolo fa solo un piccolo cenno ai costumi delle dinastie antiche che vengono passati in breve rassegna per poi concentrarsi in maniera più approfondita e articolata sulla storia moderna e quella contemporanea. La moda e il costume, tanto quelli dell’antichità quanto quelli moderni, possono essere concepiti come un punto di incontro tra abito, corpo e cultura. Nello svolgersi di tale elaborato si sono un po’ messi in discussione (semplicemente per portare ad una riflessione più profonda) i capisaldi della concezione classica occidentale: La presunta esclusività e prerogativa europea, il mutamento continuo che la connoterebbe e differenzierebbe dall’immobilismo del costume di altri popoli o di altre epoche e la convinzione che il vestire occidentale sia destinato a restare o diventare il modo di vestire globale. (Marchetti, Reinach, Barile, 2006: 16) Coprire 5000 anni di storia del costume cinese sarebbe un tentativo troppo pretenzioso e non racchiuderebbe nemmeno il focus di tale elaborato che si propone di descrivere sì, la storia della moda e del costume cinese, ma di indagare anche le interazioni tuttora esistenti tra la Cina e l’Italia, l’Oriente e l’Occidente; perché come affermato in precedenza il mondo occidentale subisce un grande fascino nei confronti dell’Oriente, fonte di ispirazione e di ammirazione per gli stilisti di questa nuova generazione e perché no, per le persone comuni. All’interno del primo capitolo dunque, si tenterà di ripercorrere parte della storia antica, arrivando a quella moderna cinese e intessendola con le descrizioni degli abiti del tempo. Già 5 nel primo capitolo possiamo riscontrare l’esistenza della connessione tra la cultura e l’abbigliamento, che non era considerato solamente come uno stratagemma per ripararsi dal freddo e dalle intemperie: alcuni ritrovamenti archeologici hanno infatti mostrato che sin dal Paleolitico (circa 20.000 anni fa) gli uomini e le donne indossavano degli oggetti che potremmo considerare forme rudimentali di accessori e che gli archeologi ritengono poter essere stati degli amuleti indossati per combattere gli spiriti maligni. Con la nascita e l’istituzione delle differenti classi sociali (intorno al 1000 a.C.), l’abbigliamento diventava sempre più un aspetto importante nella vita dei cinesi poiché i cerimoniali richiedevano un certo tipo di tenuta: tanto i rituali religiosi quanto le cerimonie militari, quelle funebri e altre occasioni di vita sociale. Il secondo capitolo è il collante di tale elaborato poiché costituisce il ponte tra l’antichità e l’era contemporanea. Inoltre sottolinea ancora una volta il forte legame tra la moda, il costume e l’identità personale: l’abito nell’era Repubblicana (1911 ca.) diventa il simbolo di emancipazione delle donne cinesi. La donna dell’era repubblicana era una donna che portava in sé l’ambiguità e la contraddizione della tradizione, della modernità e dell’identità nazionale. I primi anni del Novecento coincidono con la partecipazione della donna alla sfera pubblica e marcano per questo l’inizio di un nuovo periodo in cui si inizia a formare una coscienza della moda. Agli inizi del XX secolo i ruoli di genere e i codici di abbigliamento erano in uno stato di completa confusione e il cambiamento radicale era in divenire. Tutto questo, secondo alcuni degli scrittori degli anni Venti e Trenta, è riconducibile ad una metafora della crisi sociale che stava investendo la nazione ed è inoltre documentato da una copiosa letteratura di racconti o romanzi in cui le donne cinesi adottano una personalità maschile, si travestono da uomini, o addirittura vengono educate sin da piccole come se fossero dei maschietti. Probabilmente perché il pensiero di base era quello che nei panni di un uomo, un essere umano può ottenere il riconoscimento sociale come persona; nelle vesti di una donna, una ragazza doveva “incipriare il volto e le gote, servire il proprio marito ed elemosinare pietà dagli altri” (Idema & Grant, 2004: 676-7). Passando poi per la fondazione dell’attuale Repubblica Popolare Cinese e la Rivoluzione Culturale, sino ad arrivare ai giorni nostri: perché essendo il modo di vestirsi, una forma di comunicazione ed espressione della propria identità, questo influenza ed è influenzato dal modo in cui gli abiti vengono prodotti e venduti. La trattazione della moda e delle relazioni che intercorrono tra Oriente e Occidente è raccontata nel terzo capitolo, perché proprio all’inizio del XXI secolo la Cina diventa, nell’alta moda, il paese da cui ispirarsi, e al contempo, il paese del tanto famoso quanto temuto “Made in China”. Le riflessioni che seguono nell’elaborato sono frutto di un lavoro di ricerca sul campo che ho effettuato in un breve periodo di soggiorno a Shanghai negli ultimi mesi del 2013 e di una ricerca bibliografica effettuata sia in Italia che in Cina. Il reperimento delle fonti in lingua inglese e cinese non è stato affatto difficile, poiché vi è una vasta letteratura che riguarda la moda in tutte le sue declinazioni, ivi compresi i rapporti che intercorrono tra moda e cultura. Per quanto riguarda il reperimento delle fonti in italiano, questo è stato piuttosto difficile perché sulla moda in Italia è stato scritto molto ovviamente; minore è invece l’attenzione rivolta alla Cina, alla storia del costume del paese e dunque ancor meno alle relazioni e alle 6 tutti simboli non affatto casuali e che descrivono e ci suggeriscono le tradizioni, la storia e la cultura di un Paese così lontano. La moda è ricca di simboli. Il simbolo secondo Jung è una “manifestazione dell’archetipo” (Fazzioli, 1991: 20) e i numerosi simboli tessuti, ricamati e dipinti sulle stoffe e sugli abiti hanno contribuito a creare e a manifestare l’archetipo dell’arte, della moda e della civiltà cinese. Se agli occhi di un sinologo i costumi cinesi potrebbero apparire ricchi di simboli e di storia, gli esperti occidentali di storia della moda e del costume ritengono che la moda, quella cinese, non abbia mai rappresentato nulla di frivolo, irrompente e fuori dagli schemi e che piuttosto sia il riflesso storico di una cultura monotona. Tesi, quest’ultima, sostenuta da una studiosa e sinologa inglese che visse nel XIX secolo e passò gran parte della sua vita in Cina. Il suo libro sulle abitudini e i costumi cinesi, The land of the blue gown (Little: 2010), già dal solo titolo denota la monotonia dei costumi del tempo. Tuttavia non si può parlare solo di stasi, infatti, nei primi anni del Novecento, vediamo irrompere degli elementi che rompono con il passato. Gli uomini cinesi abbandonarono le divise blu e gli abiti tradizionali cinesi per introdurre nel loro vestiario accessori come i cappelli di feltro o le scarpe di pelle. Tali elementi avrebbero anticipato la rivoluzione del vestiario che si sarebbe verificata molti anni dopo e che avrebbe trasformato la cultura dell’abbigliamento tanto nella Cina urbana quanto in quella rurale. Alcuni tra questi abiti e vesti tradizionali sono sopravvissuti a questa rivoluzione dell’abbigliamento, anche se solo per essere indossati in determinate cerimonie, altri ancora rimasero a lungo nel guardaroba dei cinesi mantenendo uno status importante e accompagnando i loro proprietari nelle vicissitudini dell’era Repubblicana (1911-1949). Il susseguirsi di nuove generazioni, accompagnato da un cambiamento radicale nella politica portò infine e purtroppo, portò fine, agli ultimi elementi di quella moda e degli abiti che contraddistinguevano una cultura così variegata che era fiorita e si era sviluppata nel corso dei millenni. Eppure alcuni studiosi e storiografi, occidentali e non, sono pronti a obiettare il contrario. In uno studio condotto oltre cinquant’anni fa, lo storico Fernand Braudel2 afferma e descrive la moda come una caratteristica appartenente alla storia occidentale. I suoi termini di paragone con l’Europa erano le civiltà cinese, indiana e islamica. Parlando di abiti cinesi Braudel afferma che questi “sono cambiati appena nel corso dei secoli, ma (che) d’altronde anche la società cinese si è mossa a malapena”3. Braudel sposa con il suo pensiero il connubio della stasi della moda con la stasi della società cinese. Questo genere di pensiero è legato non solo allo storico su citato ma, in generale, alla visione occidentale della Cina. Anche Hegel in alcuni dei suoi scritti descrive la Cina come un Paese che esibisce una forma di stabilità e permanenza: una nazione statica. All’interno di questo disegno, l’Oriente appare più volte, con la funzione di preliminare dialettico: là si trova il germe delle forme estetiche, di quelle politiche e di quelle filosofiche, ma come astratta potenzialità. Dall’Oriente tutto prende inizio per migrare – così come i 2In Baldini, M. (2005), L’invenzione della moda: le teorie, gli stilisti, la storia, Roma: Armando editore, p.36 3 Braudel, F. (1967) Capitalism and Material Life, New York: Harper Colophon Books traduzione italiana mia, p. 277 9 popoli “indogermanici” – verso la terra destinata a essere il luogo di sviluppo e assunzione di consapevolezza: l’Occidente, l’Europa, la Germania4. Non ci si stupisca se anche Zhang Ailing, famosa scrittrice cinese, in uno dei saggi più importanti del XX secolo sulla moda cinese5 non mancava di affermare quanto statica, priva di evoluzioni e povera di creatività la moda cinese fosse. “È realmente difficile pensare al passato, come ad un mondo così calmo e così in ordine che nel corso di 300 anni di regno dei Qing le donne hanno mancato di tutto ciò che potesse essere definito come moda” 6. Ovviamente teorie come quelle di Zhang Ailing o di Braudel sono più o meno opinabili, e negli anni a seguire molti storiografi, esperti della moda e studiosi si sono dissociati da questa staticità e immobilità tanto della Cina quanto della moda cinese. Molti d’altronde sanno che la Cina ha sperimentato e conosciuto cambiamenti straordinari negli ultimi decenni di questo secolo e che non è affatto statica come obiettato. Innegabilmente sarebbe molto facile avvalorare la tesi della staticità mettendo per esempio a paragone una donna del periodo degli Stati Combattenti (453 a.C. - 221 a.C.) ed una del periodo della dinastia Qing (1644-1911), che indossavano ad un occhio inesperto degli abiti pressoché simili, con una donna greca che probabilmente con un peplo sarà del tutto differente da una donna nell’epoca vittoriana in corsetto. 1.2 Oriente, alla scoperta dell’abbigliamento. L’abito in quanto effimero e portabile, è la forma d’arte più suscettibile ai nuovi saperi, alle influenze di posti lontani. La facilità con cui si possono imitare e mutuare forme di abbigliamento o tessuti esotici si accompagna alla facilità con cui possono essere abbandonati. Niente è definitivo nella moda e, possiamo aggiungere, niente si dimostra “autentico”, nonostante il concetto di vero e di falso riemergano costantemente nella storia del costume, o forse proprio per questo. (Segre Reinach, 2006: 10) L’Oriente produce una fascinazione estetica costante, nella mutevolezza delle forme che assume, dovuta in larga parte all’apparente impenetrabilità allo sguardo occidentale. L’Oriente diviene il luogo misterioso, più fantasticato che reale, in cui l’Occidente, che fonda la sua identità culturale sulla razionalità e i principi della logica, [...] immagina che istinto e irrazionalità siano invece liberamente agiti. (Segre Reinach, 2004: 9) L’abbigliamento in ogni società riflette i valori e le tradizioni propri di quella cultura. Perché lo stile e l’abbigliamento non riflettono solamente il gusto di una persona, ma anche le 4Enciclopedia Treccani (2008), L'Oriente di Hegel, Schopenhauer e Nietzsche. http://www.treccani.it/scuola/lezioni/scienze_umane_e_sociali/l_oriente_nelle_etx_di_hegel_schopenauer_e_nie tzsche.html (data di consultazione: 17/02/2014) 5 Ailing Zhang 本本本本本本本本 Gēngyī jì “A chronicle of changing clothes” in 本本 Gǔjīn, 1943, Dicembre. 6 Ibid. traduzione italiana di Alessia Santoro 10 tradizioni di un determinato paese e la cultura ad esso legata. In una società moderna e globalizzata quando pensiamo ad un abito ovviamente lo intendiamo come un, più o meno semplice, tessuto che utilizziamo ovviamente per coprirci o per manifestare uno stile, uno stato d’animo; nell’antica società cinese però, ogni tessuto, ricamo o rappresentazione portava con sé uno status, una tradizione, una cultura. Rispettare le tradizioni legate all’abbigliamento era fondamentale, poiché il modo di vestire era uno strumento per dimostrare l’appartenenza a una determinata comunità o cerchia sociale. Indossare il giusto capo di abbigliamento dava vita a una sorta di ordine sociale ed era sinonimo del corretto funzionamento della società. Nel caso in cui qualcuno avesse interrotto il legame della tradizione non indossando la giusta tenuta, questo veniva interpretato come segno di frattura che avrebbe portato scompiglio nell’ordine sociale. Ovviamente lo stile femminile e quello maschile differivano per la lunghezza delle vesti. La parte superiore dell’abito di una donna era di solito al livello della vita, mentre la parte inferiore si incontrava con quella superiore, come se fosse la terra a sostenere il cielo. La parte superiore dell’abito di un uomo copriva invece la parte inferiore dell’abito: perché rappresenta il cielo che abbraccia la terra. Quando invece la parte superiore dell’abito di una donna copre la parte inferiore si crea confusione tra uomo e donna (Finnane 2007: 21). Principalmente nell’antica Cina, uomini e donne indossavano indistintamente delle vesti simili a tuniche: i pantaloni faranno la loro comparsa solo intorno al 200 a.C. con la dinastia Han (206 a.C.- 220 d.C). La lunghezza della tunica della donna però arrivava fino a terra, negli uomini invece si portava all’altezza delle ginocchia. Le maniche erano molto ampie e venivano aggiunte delle fasce acconciate a fiocco come ornamento. A differenza del simbolismo occidentale che spazia soprattutto nel campo religioso, quello cinese è saldamente radicato nel pragmatico e con un occhio rivolto al concreto, riguarda quasi sempre il sociale. Il significato dei simboli rappresentati è essenzialmente legato ad un messaggio o un augurio di buon auspicio. Le regole dell’abbigliamento erano anche inoltre collegate a quelle degli accessori, ai tessuti e ai simboli rappresentati su ogni capo. La giada per esempio è una delle pietre più importanti nella simbologia cinese. Si ritiene che questa pietra possieda undici virtù, tra le quali possiamo citare la benevolenza (essendo una pietra dolce e lucida), la fedeltà (non irrita mai la pelle) e la sincerità (un difetto nella giada non si nasconde mai); molte donne infatti nell’antichità portavano un ciondolo di giada legato alla fascia che cingeva le loro vesti. La giada si usava anche come accessorio per acconciare i capelli. Anche le acconciature così come le vesti servivano per distinguere il genere maschile da quello femminile ma comunque in entrambi i casi, i capelli dovevano essere tenuti lunghi sia per gli uomini che per le donne poiché era considerato irrispettoso e una perdita di onore tagliare i capelli o portarli corti. Già da queste piccole osservazioni, possiamo intuire come nell’antica Cina il codice di abbigliamento fosse non solo legato al gusto e alla personalità ma anche alla posizione che si aveva all’interno della società. 11 quale il loto diventa simbolo di unione, perseveranza e modestia. La parte inferiore del loto, nel quale sono racchiusi i grandi semi, è simbolo di fertilità nel matrimonio. La peonia infine (本本 mǔdān), è considerata la regina dei fiori, un fiore dal carattere nobile “celestialmente dolce” ed eletta a “bellezza nazionale”. È simbolo della fanciullezza e dell’irresistibile fascino femminile, di bellezza regale e di dignitosa eleganza. A proposito delle peonie, il botanico Ippolito Pizzetti scrive: La peonia è il capolavoro dei cinesi. E, bisogna aggiungere, è la massima sublimazione del cavolo: guai se nella manifestazione più alta non si percepisse anche un’ombra della più infima. Mi è difficile esprimere la grande passione che ho per le peonie. (Pizzetti, 1968: 270) L’utilizzo della peonia nell’arte cinese ed orientale è millenario: si tramanda infatti che questo fiore venisse protetto dagli imperatori, i quali retribuivano con generosità i coltivatori delle varietà più belle, e dunque la peonia divenne uno dei principali motivi decorativi e durante il periodo Qing (1644 – 1911) venne eletta come fiore nazionale ed emblema della Cina. La peonia è simbolo di tenacia, prosperità e pace. Se ci accostiamo invece alla simbologia del mondo animale, il drago ( 本 lóng) è l’animale mitico cinese per antonomasia. È una creatura leggendaria che da millenni popola l’immaginario collettivo cinese e che si è caricato di così tanti significati da risultare quasi incomprensibile a qualsiasi tentativo di interpretazione. Simbolo di bontà, coraggio, potenza, nobiltà e virilità, si riteneva che il drago potesse controllare le condizioni metereologiche, portare la pioggia, nutrimento per le messi e per gli armenti e assicurare un buon raccolto 14 Figura1.2 Peonie. Photo credit: Flower and birds, Du Xuyi 杜杜杜, http://www.duyuxi.com/english/gallery/painting.php/7 (Obrietan, 2009). È simbolo di intelligenza, volontà, ambizione e buona fortuna e questo lo rende la creatura perfetta per l’Imperatore, il drago cinese è anche l'incarnazione del concetto di Yang, il Bene, lo spirito fecondo, associato all'acqua. Si riteneva che, al momento della morte, l'Imperatore stesso rivelasse la sua vera natura di drago liberando il proprio spirito di drago ora svincolato dalle catene terrene e libero di ascendere al cielo e vigilare sulla città. La versione femminile e speculare del drago è la fenice (本本 fènghuáng), questa rappresenta l'imperatrice nella coppia imperiale. Per questo motivo i due animali erano spesso raffigurati nelle celebrazioni di nozze come buon auspicio per la relazione coniugale, un'altra metafora che incarna il binomio di yin e yang11. La fenice rappresenta la bellezza, la pace, la nobiltà, la felicità coniugale e la buona fortuna. Fenice e peonie augurano una vita felice. Il pipistrello (本本 biānfú) al contrario dell’immaginario occidentale, che lo vede protagonista dei racconti di paura e di terrore, è in Cina l’emblema della felicità. Infatti, il secondo carattere che si utilizza per pipistrello 本 (fú) è omofono del carattere di felicità 本 (fú). I pipistrelli sono anche simbolo di longevità, perché i cinesi ritengono che solo le creature che hanno vissuto per più di mille anni, possano dormire a testa in giù (Fazzioli, 1991). Anche la gru (本 hè) è ritenuta essere simbolo di longevità, poiché è una creatura che vive a lungo. Simbolo inoltre di saggezza e nobiltà, veniva spesso rappresentata sugli abiti portati dai Mandarini. La gru in volo simboleggia un augurio o la speranza di diventare un funzionario in un’alta posizione. 1.4 Breve panoramica storica La prospettiva storica, conoscere cioè in modo approfondito la storia delle culture non occidentali, e quella antropologica, che consente di comparare e quindi relativizzare i fenomeni, hanno un ruolo importante […] nella nuova ricerca sulla moda, in quanto entrambe, antropologia e storia, da diversi punti di vista, contribuiscono a mettere in discussione l’univocità delle interpretazioni, spesso teorizzate a partire dall’ignoranza dei più elementari fatti sartoriali. (Segre Reinach, 2006: 28) Sin dal principio dei tempi, quando per la prima volta l’uomo ha iniziato ad utilizzare tessuti e pelli per creare degli indumenti che lo proteggessero dalle intemperie e da altre minacce naturali, l’abbigliamento ha sempre avuto un significato importante ed è stato significante dello status sociale, del modo di vivere e della cultura di un popolo. In questo contesto la moda si sveste del suo significato e diventa linguaggio dell’umanità; il modo per riflettere il contesto storico e sociale di un popolo, il linguaggio per descrivere in maniera vivida la storia dello sviluppo di una civiltà. Alcuni ritrovamenti archeologici hanno mostrato che sin dal Paleolitico (circa 20.000 anni fa) gli uomini primitivi indossavano già degli oggetti che 11 Teoria cosmologica che spiegava la struttura dell’universo sulla base dell’alternanza di due forze opposte e complementari (lo Yang, principio maschile e lo Yin, principio femminile). 15 potremmo considerare forme rudimentali di accessori: piccoli ciottoli, denti, ossa e zanne animali, conchiglie, lische di pesce che gli archeologi ritengono poter essere stati degli amuleti e oggetti che gli uomini indossavano per combattere gli spiriti maligni. Facendo una passeggiata sulla linea del tempo ci accorgeremo che con la nascita e l’istituzione delle differenti classi sociali (che in Cina si inizia a delineare con la nascita della dinastia Zhou intorno al 1000 a.C.), l’abbigliamento diventava sempre più un aspetto importante nella vita dei cinesi. Rituali religiosi richiedevano un certo tipo di tenuta, così come le cerimonie militari, quelle funebri e altre occasioni di vita sociale. 1.4.1 L’antichità raccontata in un abito: dalle prime forme di organizzazione statale alla fine della dinastia Song Risulta sempre più attendibile l’ipotesi che le prime forme di organizzazione statale in territorio cinese siano comparse tra la fine del III e gli inizi del II millennio a.C. nel contesto sociale e tecnologico delle culture Longshan. È il periodo in cui la tradizione scritta colloca le prime “tre dinastie ereditarie” che si sarebbero succedute al governo della Cina nell’arco di circa due millenni (dal XXII al III a.C.). I dati forniti dai ritrovamenti archeologici vanno a confermare quanto riportato dalla tradizione scritta, tuttavia sono in atto ancora molti dibattiti. Questo perché quando parliamo di tradizione scritta si fa riferimento ad una serie di testi che nella loro attuale redazione risalgono a periodi successivi all’epoca delle tre dinastie ereditarie (Stati Combattenti e dinastia Han, rispettivamente 476-221 a.C. e 206 a.C.-220 d.C.). Naturalmente ciò non significa che la tradizione scritta non possa contenere dati autentici e informazioni valide sul passato più antico della Cina (Sabattini: 38). Tuttavia, l’esistenza e la storicità della dinastia Shang (1600-1046 a.C.) sono state confermate nello scorso secolo, quando, grazie ad alcuni ritrovamenti archeologici, vennero rinvenute delle ossa di animali e carapaci di tartarughe recanti iscrizioni a scopo divinatorio in lingua cinese arcaica. Questo ci ha dato modo di scoprire che la dinastia Shang aveva già sviluppato una tecnologia del bronzo a livelli estremamente avanzati nonché una scrittura discretamente evoluta e un apparato sociale di notevole complessità. Era insomma una civiltà al massimo del suo splendore. Tra le varie iscrizioni sulle ossa oracolari, possiamo annoverare l’esistenza di caratteri concernenti l’abbigliamento: il carattere 本 (yī), per esempio, che significa “abito”, il carattere 本 (lǚ) che è uno dei modi per esprimere la parola “scarpe” o ancora 本(shang) e 本(mèi) che rispettivamente possono essere tradotti come gonna e maniche. 1.4.2 la dinastia Zhou e i primi accenni sull’abbigliamento La struttura dello Stato sotto i Zhou si fece più articolata e complessa. Al vertice dell’assetto istituzionale vi era il sovrano che, attraverso il culto del cielo, garantiva il mantenimento dell’ordine umano e dell’ordine naturale. La società iniziò ad avere un assetto gerarchico e 16 Figura1.4 metodo di chiusura dello shenyi. Photo credit: Qin Xiao (2011) Il corpo cinese e quello italiano Politecnico di Milano. Si trovano i primi cenni riguardo l’abbigliamento negli antichi libri Riti degli Zhou (本本 Zhōu lǐ) e nel Libro dei riti. Il seguente passo è tratto dal Libro dei riti: La forma e la misura dello shenyi (o veste lunga) degli antichi, sembravano esser state definite con il compasso, la squadra, la corda e la bilancia. Non doveva essere troppo corto da lasciar intravedere la pelle nuda, né troppo lungo per evitare che si trascinasse nella polvere. (La parte inferiore) era cucita a quella superiore; i bordi laterali si univano con dei gancetti. La larghezza a livello della vita era circa la metà dell’estremità inferiore (dell’abito). La manica era piuttosto ampia sotto all’ascella per permettere una maggior comodità di movimento del gomito. Era piuttosto lunga per poter compiere un risvolto fino al gomito (senza però scoprire l’avambraccio). Il fiocco non cingeva le anche, né le costole, ma si poggiava all’altezza della vita, dove non vi sono le ossa. Questo abito doveva essere composto da dodici bande di stoffa, a rappresentare i dodici mesi dell’anno; le maniche arrotondate richiamavano la forma di un cerchio; le estremità del colletto sembravano essere disegnate con la squadra, per imitare le forme di un quadrato. Il taglio dell’abito scende dritto dalla schiena sino alle caviglie come una linea perfetta tracciata da una corda. L’orlo inferiore aveva un taglio orizzontale, come il piatto di una bilancia in equilibrio. Affinché lo shenyi potesse essere indossato dai “saggi”, in questo dovevano necessariamente coesistere le cinque condizioni (suddette). La sua forma squadrata e le sue rotondità rappresentavano un monito contro l’egoismo. Il taglio così dritto sembrava esser stato fatto con una corda, e richiamava i saggi alla rettitudine d’animo; l’orlo inferiore, 19 orizzontale come il piatto della bilancia, l’immagine dell’imparzialità [...] Sino a quando il padre, la madre ed i nonni dalla parte paterna erano ancora in vita, la passamaneria dello shenyi era di vari colori. Nel caso in cui i nonni paterni fossero morti ma i genitori vivi, la passamaneria era di colore blu. Se un figlio avesse perso il padre e non aveva ancora trent’anni, i bordi dell’abito erano bianchi.” 13 Lo shenyi è molto importante nella storia dell’abbigliamento cinese, poiché anche nelle dinastie successive, fino alla dinastia Tang (618-907), ha continuato ad essere il modello di base nella confezione degli abiti. 1.4.3 Dagli Stati Combattenti alla dinastia Tang. Nell’anno 770 a.C. possiamo segnare l’avvento del periodo delle «Primavere ed Autunni» (770 a.C. - 454 a.C.) a cui seguirà poi quello degli «Stati Combattenti» (453 a.C. 221 a.C.). In quest’epoca l’assetto politico e istituzionale della Cina arcaica conobbe un processo di disgregazione, accompagnato da una grave crisi ideologica e da profondi mutamenti in campo sociale ed economico. Tuttavia fu nel corso di tale processo che gradualmente si posero le basi per la costituzione del primo impero centralizzato. Questo periodo storico vide numerosi stati combattersi la supremazia nell'antica Cina, ci si batteva per il potere e dunque venne meno l’esigenza di una omogeneità nell’abbigliamento che al contrario portò ad una diversità nello stile e nel costume. Ma un grande cambiamento si preparava a far capolino, e nel 221 a.C. il primo Imperatore della Cina dava inizio, con il suo regno, ad una nuova era che avrebbe lasciato un’impronta indelebile sulla successiva storia cinese. Qin Shi Huang riuscì infatti ad unificare la Cina politicamente e militarmente su tutti i territori conquistati e a centralizzare il potere nelle sue mani. Benché coatta, la sua coesione in uno stato unitario è stata leggendaria, portava però in sé il seme del fallimento. La dinastia Qin infatti non sopravvisse alla morte del suo primo Imperatore (210 a.C.) e a salire al potere subito dopo, fu la dinastia degli Han Occidentali. Durante il periodo delle dinastie Qin e Han vi furono dei cambi di stile piuttosto drammatici. Successivamente al periodo degli Stati Combattenti, le tecniche di tessitura erano indubbiamente avanzate e più complesse, così come lo divenne la fattura degli abiti. Una interessante peculiarità del periodo della dinastia Qin è l’utilizzo del colore nero negli abiti. L’imperatore, al tempo, era fortemente influenzato dalla teoria dello Yin e dello Yang, teoria cosmologica che spiegava la struttura dell’universo sulla base dell’alternanza di due forze 13 Traduzione del seguente passo: 本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本 本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本 本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本本 本本本本 [...] 本 本 本 本 本 本 本 本 本 本 本 本 本 本 本 本 本 本 本 本 本 本 本 本 本 本 本 本 本 本 . 本 本 本 本 Lǐjì, Libro dei Riti (1899), cap 39 pp.588-560, in Bibliothèque nationale de France online. http://catalogue.bnf.fr/ark:/12148/cb30283452f (data di consultazione: 07/04/2014) 20 opposte e complementari (lo Yang, principio maschile e lo Yin, principio femminile) e di cinque elementi. Qin Shi Huang riteneva che la dinastia Qin fosse superiore a quella dei Zhou che li avesse sottomessi e sconfitti proprio come l’acqua estingue il fuoco. Nella storia della Cina, ogni dinastia predilige un colore rispetto ad un altro, colore che esprimeva la virtù propria di una dinastia, in rapporto a quella precedente. Perciò se una nuova dinastia saliva al potere, i suoi colori caratteristici dovevano essere cambiati per le vesti rituali e così via, da ciò deriva il fatto che il colore preponderante, fosse proprio il nero, poiché associato all’elemento dell’acqua. Il colore dei Zhou era al contrario il rosso e legato all’elemento metallo. Qin Shi Huang proclamò dunque di regnare grazie alla potenza dell’acqua e adottò il colore nero nei riti e in tutti i simboli dell’impero.14 La rivoluzione tecnologica del periodo degli Stati combattenti e l’unificazione politica realizzata da Qin Shi Huang e dalla dinastia Han avevano posto le basi per una grande espansione economica. Il controllo stabilito dall’Impero Han sull’Asia centrale favorì lo sviluppo dei traffici con l’Occidente che si svolgevano lungo la cosiddetta “via della seta” (Sabattini 2005: 152) I reggenti della dinastia Han (206 a.C. - 220 d.C.) facevano riferimento al Libro dei riti15 per seguire le norme e i codici di abbigliamento da osservare nella vita di tutti i giorni. I colori da portare erano definiti nei libri classici e prevedevano generalmente il verde per la primavera, il rosso per l’estate, il giallo per la fine dell’estate, il bianco per l’autunno ed il nero per l’inverno. La scelta dei colori non era affatto lasciata al caso, al contrario era pensata per essere in armonia con le stagioni e con le varie fasi del calendario solare. Nel famoso Libro del Maestro Guan (本本 Guǎnzi)16 leggiamo: Nel mese finale dell’estate... il Figlio del Cielo indossa abiti di colore giallo. Siede su una carrozza tirata da cavalli dalla lunga criniera nera. [...] anche le donne al palazzo imperiale indossavano abiti gialli con rifiniture e ornamenti gialli... L’imperatore ordinava alle donne più esperte di tingere i tessuti in varie tonalità e differenti disegni. Dovevano essere tutti superbi e raffinati. Questo per fornire nuove vesti da indossare nei templi ancestrali: si deve assolutamente mostrare quanto di più nuovo e brillante17. Nell’antica Cina l’Imperatore non era semplicemente il sovrano del regno terreno, bensì colui che regnava sulla terra tramite il mandato del Cielo. Era dunque responsabile di assicurare che il sole e la luna, le stagioni ed il clima e tutti i ritmi del mondo preservassero il loro ciclo naturale durante l’anno. Per esempio, utilizzare vesti e paramenti in concordanza con le stagioni, il giallo nella fine dell’estate, per esempio, dava il potere all’imperatore di irradiare 14 Bottaccioli, F. (2010), Filosofia per la medicina, medicina per la filosofia: Grecia e Cina a confronto, Milano: Tecniche nuove editore, p. 83. 15 Cfr. nota n.2 16 Opera cinese considerata per la quale l’ipotesi più accreditata sulla sua origine tende a evidenziare che il nucleo principale dell’opera si formò intorno al 250 a.C. Molti dei capitoli del Guǎnzi sono dedicati a questioni di economia politica e all’arte del buon governo, accentuando il primato della legge e soprattutto di quella naturale, le tecniche della guerra e i tempi dell’agricoltura, come momenti naturali e visibili del divenire cosmico. 17 Major, J. S. & Steele, V. (1999), China Chic: East Meets West, New Haven e Londra: Yale University Press, p.16. 21 Si viaggiava spesso da e verso paesi quali il Vietnam, l’India e l’Impero Romano Orientale, esportando negli altri confini del mondo la cultura della Terra di Mezzo (Chunming, 1987: 76). Il forte potere centrale e un ordine sociale piuttosto flessibile portarono ad una grande rivoluzione nell’abbigliamento: Inizia a diffondersi l’uso dei broccati, di stoffe stampate a colori vivaci, sete dipinte e ricamate. […] Per le donne è il momento più pazzo: vesti trasparenti, corpetti con scollature ampie che mettono in evidenza i seni, scarpe in seta, broccato e damasco con punte a nuvola […]. La capigliatura femminile si lancia in strutture aeree complicatissime, con inserimenti di pettini, gioielli, nastri, fiori. (Fazzioli 1991: 91) Due erano principalmente gli abiti più in voga tra le donne della dinastia Tang: l’hufu ed il tradizionale ruqun. La parola 本本 (hú fú) nella lingua cinese significa letteralmente “abito dei barbari”; come affermato in precedenza l’epoca della dinastia Tang è un epoca in cui ci si apre quasi totalmente alle influenze esterne, e l’hufu ne è uno degli esempi concreti. 24 Figura1.7 rappresentazione di donna della dinastia Tang. Photo credit: Hua mei, Chinese Clothing 2004 Questo genere di abito era piuttosto attillato, non per motivi estetici ma per facilitare i movimenti, e la possibilità di andare a cavallo. Non a caso, il carattere hú ( 本 ) indica tutte quelle popolazioni che non appartengono all’etnia Han e che sono provenienti dalle steppe settentrionali. Nella lunga storia della Cina infatti è importante far notare che i cinesi non sono mai riusciti a fare proprio l’allevamento del cavallo, e questo è sempre stato un punto debole per la quasi totalità delle dinastie imperiali, che erano militarmente più deboli rispetto alle popolazioni barbare (tanto che molto spesso per risolvere incidenti diplomatici o accattivarsi il benestare delle popolazioni barbare, i cinesi si affidavano alla loro arguzia, inviando in sposa principesse han ai capi barbarici). Inoltre tali popolazioni erano perlopiù nomadiche, ed utilizzavano il cavallo per spostarsi nei vari territori che abitavano. È chiaro dunque che questo abito veda nascere le proprie origini da altre etnie che utilizzavano il cavallo come animale per gli spostamenti (Abramson, 2007: 83). Solitamente l’hufu era composto da una lunga veste attillata che presentava un colletto risvoltato, al di sotto della quale venivano indossati dei pantaloni. Il ruqun (本本 ), è invece un tipo di abito tradizionale cinese che si credeva esistesse sin dai tempi più antichi ma che è tornato nuovamente in voga nell’epoca Tang. Questo capo di abbigliamento prevede l’esistenza di due pezzi: la giacchetta/camiciola (本 rú) che arrivava più 25 Figura 1.8 ricostruzione di un dipinto raffigurante donna Tang. Photo credit: Mei Hua (2004), in Chinese clothing. o meno all’altezza della vita e la gonna ( 本 qún) che veniva indossata rimboccando la giacchetta. La caratteristica distintiva che ci permette di riconoscere un ruqun in epoca Tang sta nel fatto che la gonna era a vita esageratamente alta, veniva come al solito allacciata con un fiocco che però arrivava giusto al di sotto del seno e permetteva di accentuare molto di più la scollatura. Questo perché le rotondità e l’opulenza erano a quel tempo, sinonimo di grazia ed eleganza. Essendo la dinastia Tang durata per quasi trecento anni, generalmente nella storia del costume cinese, vediamo decorrere l’utilizzo dell’hufu e un ritorno alla moda del ruqun, quest’ultimo con delle maniche molto ampie come risposta e controtendenza alle maniche piuttosto attillate dell’hufu. Molti nobili, erano infatti preoccupati che l’adozione dei costumi e delle usanze straniere avrebbero compromesso la cultura e l’identità nazionale cinese. Secondo alcune fonti storiche, Tang Yu Zong, un famoso funzionario a corte, fece promuovere un decreto che bandiva l’utilizzo di abiti troppo attillati e l’esagerato utilizzo di accessori nelle acconciature19. Le maniche e gli abiti si allargarono così tanto che le servitrici delle nobildonne dovevano addirittura tenere gli strascichi delle loro padrone per evitare che si macchiassero o sporcassero. Figura 1.9 evoluzione degli abiti nel corso della dinastia Tang. Photo credit: Gao Chunming (1987) Oltre ad allargare le maniche e le curve dell’abito, si allargò notevolmente anche la scollatura. Tutto ciò era del tutto inconcepibile nelle precedenti dinastie, poiché le donne dovevano coprire il loro corpo interamente per seguire quanto asserito nei classici confuciani. Solo le 19 Dressed Up dreams (22 Novembre 2012), (An extremely long post on) Tang Costume History, http://dressed- up-dreams.blogspot.it/2012/11/an-extremely-long-post-on-tang-costume.html (data di consultazione: 17/04/2014) 26 Un altro aneddoto curioso nella storia dei Tang vede l’Imperatore Xuan Zong commissionare ad un artista di corte il compito di dare dei nomi alle differenti forme e ai disegni delle sopracciglia che erano solite fare le donne del tempo. Tra questi annoveriamo la forma delle “anatre mandarine”, quella del “piccolo monte”, lo stile della “perla cadente” o ancora quello della “luna crescente”21. 21Qing Lin, H.S., a cura di (20/02/2014). 杜杜杜杜杜杜杜. http://www.paipaitxt.com/r6072611/?page=e (data di consultazione 23/03/2014). 29 Figura 1.11 evoluzione dello stile e della forma delle sopracciglia nell'epoca Tang. Photo Credit: Gao Chunming in Chinese Clothing (2004) 1.4.5 Song e Yuan Dopo i Tang, segue la dinastia dei Song (960-1279), che lo storico Sabattini descrive come “lo Stato più popolato, più prospero e civile del mondo” (Sabattini: 344); durante il regno dell’imperatore Taizu nel 961 vennero riviste le norme sui costumi e c’è un ritorno alla semplicità nella vita di tutti i giorni e all’eleganza e al lusso negli abiti di corte. Nasce la moda della fasciatura del seno, per accentuare la bellezza di un particolare capo che prende il nome di beizi (本本 ), un soprabito popolare al tempo, tra le donne di tutti gli strati sociali con uno stile semplice ma pur sempre elegante. Il beizi valorizza le forme di una donna snella ed esile, che era l’ideale della donna perfetta sotto i Song. La differenza di ampiezza nelle maniche del beizi determinava la formalità o meno della tenuta: maniche ampie erano confezionate per le occasioni più formali, maniche più strette per le situazioni più informali. Il collo è stretto, dritto e parallelo disegnato dalla passamaneria che orla l’apertura centrale in tutta la sua lunghezza. Due spacchi aprono il soprabito sui fianchi fino alla vita o all’altezza delle ascelle (Fazzioli, 1991: 73) Alla dinastia dei Song seguì quella degli Yuan, fu sotto la potenza Mongola che la Cina venne unificata; come accadrà ogni volta che una potenza “barbara” avrebbe assunto il potere, 30 Figura1.12 Un modello di beizi della dinastia Song. Photo credit: Fazzioli (1991), La moda nella storia della Cina. l’abbigliamento tornò ad essere una mescolanza di stile Han con elementi ereditati dalla cultura Mongola. Pur avendo accettato con entusiasmo la moda cinese, anche la dinastia mongola ha lasciato la sua impronta nell’abbigliamento femminile, seppure meno accentuata nell’abito lungo da cerimonia e da corte, che rimane nello stile Han anche se in una chiave più sobria e pratica (Fazzioli, 1991: 75). Dopo la dinastia Yuan, salì al potere quella dei Ming (1368 - 1644), che verrà trattata con più dettagli nel paragrafo successivo, per permettere al lettore di comprendere appieno lo sviluppo e l’evoluzione dalle ultime due dinastie del Celeste Impero. La storia dell’abbigliamento cinese ha segnato un lungo percorso, dall’Età del Bronzo sino a giungere al Ventesimo secolo. Tuttavia questa ha mantenuto degli elementi di continuità, quasi delle costanti invariate nel corso della storia millenaria di questo paese. Nel corso della loro evoluzione come popolo, i cinesi hanno utilizzato tessuti e stoffe, insieme ad altri indicatori culturali (come la medicina, l’alimentazione e la scrittura, per esempio) per distinguersi dai popoli confinanti che venivano considerati come barbari. I cinesi utilizzavano e prediligevano l’uso di tessuti quali la seta, la canapa, e solo negli anni a seguire il cotone, perché rientravano nella categoria di tessuti degni di una popolazione “civile”, al contrario non mostravano segni di apprezzamento per la lana, perché veniva da loro associata alle popolazioni nomadi delle steppe settentrionali ed era dunque considerato un tessuto da “barbari”. 1.5 L’abbigliamento femminile nella dinastia Ming (1368 - 1644) La dinastia Ming ( 本本 míng cháo), fu la dinastia che dopo aver determinato il crollo della precedente dinastia Yuan di origine mongola, salì al potere in Cina nel 1368. Il regno dei Ming può vantare quasi tre secoli di splendore e quella dei Ming sarà l’ultima dinastia nazionale a dominare la Cina, ovvero l’ultima di reggenti appartenenti all’etnia Han. I mercanti cinesi tornarono ad avere un ruolo di primo piano spingendosi fino all'oceano Indiano e le arti raggiunsero traguardi straordinari mai ottenuti prima. Per la quasi totalità dei trecento anni di esistenza, i Ming hanno regnato in tempi di prosperità e di continua espansione nella produzione di beni di ogni sorta; l’imperatore Tai Zu favorì il ritorno dei contadini esentandoli per tre anni dalle tasse. Destinò alcune terre alla coltivazione del cotone (che venne introdotto in Cina durante la dinastia dei Song iniziò ad essere utilizzato e coltivato in numerose aree del Paese), della canapa e del gelso, dando il via allo sviluppo della produzione tessile. Nacque una nuova concezione della moda, che non pose alcun limite alla creatività degli stili, una moda evocatrice della bellezza naturale. Quando l’imperatore fondatore della dinastia Ming, strappò il potere ai mongoli nel 1368, questi tentò di eliminare ogni forma di contaminazione e influenza del costume della precedente dinastia degli Yuan, considerato appunta una popolazione “barbara”. Si tentò di imporre un nuovo codice di abbigliamento volto a far rivivere lo stile proprio dei Tang. Durante il periodo della dinastia Ming, uomini e donne tornarono a preferire abiti con una portabilità molto ampia, proprio per contrastare la “barbara moda” degli Yuan secondo la 31 1.6 La dinastia Qing, ultima dinastia del Celeste Impero. (1644-1911) Per oltre 300 anni i Ming regnarono sul territorio cinese regalando alla Cina un’era di splendore degna del nome di questa dinastia; nel 1644 però tutto questo era destinato a finire. Dopo anni di tumulti la capitale Ming, Pechino, venne saccheggiata da una coalizione di forze ribelli capeggiate da Li Zicheng. La dinastia Ming terminò ufficialmente quando l'ultimo imperatore Si Zong si suicidò impiccandosi su un albero di una collina che dominava la Città proibita, mentre i ribelli capeggiati da Li Zicheng facevano irruzione nella città. Per una beffa del destino, la Muraglia cinese che era stata fatta costruire dal primo imperatore Qin Shi Huang per proteggere la Cina dalle incursioni delle popolazioni barbare, lasciò entrare proprio l’ultima popolazione di barbari, quella dei Mancesi, che fondò l’ultima dinastia che avrebbe per sempre regnato in Cina, quella dei Qing. Il valoroso generale Wu Sangui era incaricato di sorvegliare uno dei passi più strategici della Grande Muraglia. Quando Wu, preso tra due fuochi, si rese conto che nel bottino di guerra della capitale saccheggiata, rientrava anche la sua amata concubina Chen Yuanyuan, decise di schierarsi contro Li Zicheng e di unirsi alle forze manciù aprendo loro uno dei punti più strategici al tempo della Grande Muraglia, la fortezza di Shang Haiguan, facendo così strada ai Mancesi per giungere e saccheggiare Pechino. I mancesi ristabilirono il potere imperiale fondarono la dinastia Qing che continuò a regnare per ben 268 anni. I governatori Qing, saliti al potere, istituirono il famoso "ordine del codino", che costrinse gli uomini di etnia Han ad adottare la capigliatura Manciù, un modo per simboleggiare la loro fedeltà alla dinastia. La severa regola decretava che tutti i maschi Han cinesi si dovessero rasare i capelli sulla fronte a metà del capo e raccogliere tutti i capelli rimasti in un lungo codino. Questo ordine violava l'etica confuciana nonché la pratica cinese che da sempre stabiliva l’impossibilità di tagliare i capelli. I cinesi non avevano comunque scelta: o i capelli o la testa. Nonostante questa imposizione e questo tentativo di eliminare quanto di Han fosse presente nell’abbigliamento, lo stile nella dinastia Qing rappresentava in un certo qual modo la fusione delle due nazionalità. Quello della dinastia Qing, è stato il periodo che ha visto i più svariati cambiamenti nella storia dell’abbigliamento cinese; è quasi ovvia questa osservazione dato che la fine della dinastia Qing segnerà anche la fine del grande Impero Cinese e decreterà la nascita della Repubblica. Il chángpáo (本本), lungo abito mandarino ed il tángzhuāng (本本) rappresentano due capi di abbigliamento immancabili dell’epoca Qing. Il tangzhuang è un capo di abbigliamento simile ad una giacca (ovviamente di ispirazione orientale) che nasce alla fine della dinastia Qing. È figlio della giacca di origine mancese mǎguà (本本), capo di abbigliamento che erano costretti a indossare i cinesi di etnia Han sotto la dinastia Qing. Nel 1759, l’imperatore Qian Long, preoccupato che i costume mancesi venissero soppiantati da quelli degli Han, fece stilare e pubblicare il Huángcháo lǐ qì tú shì (本本本本本本), libro nel 34 quale veniva descritto dettagliatamente lo stile che dovevano avere gli abiti dei funzionari dell’Impero. Si presume che la prefazione sia addirittura opera dello stesso imperatore e che questi sottolineava la necessità di seguire ed imporre un abbigliamento tipico dei mancesi proprio perché era stata questa mancanza di uno stile proprio, a suo parere, a porre fine a tutte le dinastie barbare che si erano succedute sul trono del Dragone (Bonds, 2008: 109). Le norme indicavano anche cosa indossare e in quale stagione, e tali cambiamenti andavano compiuti seguendo alcuni documenti e registri ufficiali nei quali venivano riportati il mese, il giorno e l’ora in cui l’Imperatore avrebbe cambiato la sua mise da invernale a estiva e viceversa. Mantengono ancora un significato importante e specifico i colori: il giallo oltre ad essere ovviamente il colore dell’Imperatore era associato alla terra. Il blu era il colore della primavera e dell’est, colore che adottarono i Qing come proprio della loro dinastia; il bianco era il colore dell’autunno e dell’ovest, nonostante si tendesse a non indossarlo poiché associabile alla morte. Il nero, simbolo di inverno e del Nord ed infine il rosso che stava a rappresentare l’estate ed il Sud, ma che veniva indossato dai mancesi in rarissime occasioni, poiché era stato per anni il colore della dinastia Ming. I cinesi di dinastia Han continuavano a indossarlo soprattutto nelle occasioni speciali poiché lo ritenevano essere un colore fortunato e connesso alla dinastia, al fasto e allo splendore dei Ming. Per confermare la teoria di quanto la moda esprima anche il linguaggio dell’umanità, e sia uno strumento per interpretare l’essenza di un popolo, è interessante notare che i costumi tradizionali mancesi fossero pensati e confezionati in modo tale da poter facilitare l’equitazione: gli uomini indossavano delle vesti più corte con pantaloni o ampie gonne, con un taglio più stretto rispetto alle ampie vesti dei Ming e che stringevano all’altezza delle spalle e con le maniche “ a zoccolo di cavallo”, un’altra caratteristica distintiva degli abiti Qing, create per coprire e proteggere il dorso di colui o colei che cavalcava il cavallo. Inoltre, data la natura nomadica di tale etnia, è molto facile notare nei vestiti dell’epoca fasce o collane sulle quali le donne appendevano a mo’ di ciondolo oggetti di utilizzo quotidiani come pinzette, stuzzicadenti, custodie porta ventaglio e fazzoletti. Se si seguono gli studi sulla moda e sul costume di Valerie Steele e John S. Major, questi nel loro libro China Chic: East meets West (1999) affermano che le norme sull’abbigliamento riguardavano solamente gli uomini e che è dunque difficile tracciare un filo rosso nella moda del costume dell’abbigliamento femminile nei Qing. È certo però che rimanevano delle distinzioni, e che l’abbigliamento fu suddiviso in tenuta ufficiale e non ufficiale e ancora in formale, semi formale e informale. Si dovevano indossare abiti ufficiali, formali e semi formali negli eventi tenuti presso la corte imperiale, mentre i vestiti ufficiali informali erano creati per essere indossati per i viaggi e le visite ufficiali, durante la presentazione di spettacoli a corte e negli eventi più importanti in famiglia. I vestiti non ufficiali formali erano invece usati per le occasioni in famiglia (Garrett, 2008: 57). Solitamente le donne di origine Manciù non indossavano le gonne bensì lunghi abiti con sotto un pantalone. Anche gli abiti delle donne avevano molto spesso la manica con la rifinitura a “zoccolo di cavallo”, che veniva molto spesso ripiegato per mostrare l’orlatura degli altri indumenti. La capigliatura e gli accessori erano piuttosto stravaganti; di gran voga le 35 acconciature “a ponte”, o a doppia crocchia, sempre adornate con fiori o spille preziose. 36 La moda moderna, agendo come indicatore delle insoddisfazioni della civiltà moderna, non cerca mai di addomesticare le fantasie collettive in forme fisse destinate a durare nel tempo, ma è sempre tesa alla trasformazione, imponendo a tali fantasie di continuare a produrre nuove suggestioni inaspettate invece di ripetere vecchie asserzioni, per quanto ben formulate. Hollander, A. (1994), Sex and Suit: The evolution of Modern dress, New York: Alfred Knopf, p.30 CAPITOLO II 2.1 Da Impero a Repubblica: considerazioni sulla storia e sull’abbigliamento. Il passaggio dal vecchio al nuovo secolo è stato accompagnato da profonde riconsiderazioni sull’identità cinese e soprattutto da profondi cambiamenti. Innanzitutto, il Novecento è per la Cina il “Secolo repubblicano” (Samarani 2008): il celeste Impero non può più essere considerato tale. Si assiste alla crisi della millenaria tradizione imperiale cinese e alla nascita, anche se non con poche difficoltà, della Repubblica cinese nel 1912. Come afferma Samarani: Il fatto che poi, [...] il sistema repubblicano abbia prodotto in non pochi momenti della sua esistenza risultati amari e deludenti, alimentando nostalgie del passato imperiale e anche sussulti di restaurazione di tale passato, è dato inequivocabile e incontestabile che non può tuttavia intaccare nella sostanza la grandezza e l’importanza della svolta storica del 1912. (Samarani, 2005) Ancora secondo Samarani a favorire quanto accadde nell’Ottobre del 1911, ovvero la rivoluzione anti-Qing, furono perlopiù fattori accidentali piuttosto che una accurata preparazione e organizzazione. Ciononostante, gli eventi che susseguirono alla rivoluzione rappresentarono il momento di svolta per il futuro della Cina; nelle settimane successive si assistette alla secessione di gran parte selle province, al tentativo da parte della corte di mantenere aperta la prospettiva monarchico-costituzionale, con la nomina nel novembre 1911 di Yuan Shikai a capo del governo ed infine il 1 Gennaio 1912 Sun Yat-sen salì al potere con la carica di Presidente provvisorio della Repubblica cinese. Il 12 febbraio 1912 assistiamo all’abdicazione dell’Imperatore, atto che poneva fine a quasi duemila anni di storia dell’Impero Celeste. È dunque facile comprendere come anche nell’abbigliamento si assistette ad una svolta epocale: nei primi decenni del Ventesimo secolo, tutto ciò che aveva caratterizzato e reso unico lo stile ed il costume cinese iniziò a svanire lentamente e così come era caduto l’Impero, iniziavano a cadere dalle vesti i draghi, le fenici, le peonie che li avevano abitati per 39 lunghi secoli. Secondo Valerie Steele (1999), una celebre studiosa di storia della moda, le cause principali del cambiamento nell’abbigliamento in questo nuovo secolo, sono da imputare principalmente all’avvento della dinastia Qing (e dunque all’introduzione di elementi estranei alla cultura Han, come il qipao) e in un secondo momento all’apertura o più in generale all’incontro con l’Occidente. Già alla fine del XIX secolo, i cinesi più benestanti si dilettavano nella collezione e nell’acquisto di orologi a pendolo, binocoli e carillon (Steele 1999: 34) con i mercanti inglesi che invece volevano stabilire il commercio con la Cina di tessuti di lana e cotone. Inoltre l’Inghilterra si trovava ad importare grandi quantità di tè, sete e porcellane, con il risultato che nella bilancia commerciale inglese le importazioni con la Cina erano maggiori delle esportazioni. Come la Spagna, gli inglesi cominciarono allora ad esportare oppio già dal XVIII secolo. Il contrabbando di oppio, prodotto nel Bengala dalla Compagnia delle Indie orientali, assunse un ruolo fondamentale per vincere la resistenza della Cina al commercio con l’Occidente. La facilità con la quale si diffuse il consumo di oppio in ogni ceto sociale creò una seria piaga sociale (aumento della corruzione) ed economica (fuga di argento dalle casse di Stato) tanto da costringere la Cina a intensificare i divieti sulla droga. Nel 1839 l’imperatore Daoguang nominò un commissario imperiale plenipotenziario con il compito di dirigere la campagna anti oppio. Dopo una serie di interventi egli ordinò di dare alle fiamme circa 20.000 casse di droga recuperate negli stabilimenti occidentali di Canton. Il puro interesse commerciale venne così a mischiarsi con elementi politici, dando vita allo scoppio della prima guerra dell’oppio: la flotta inglese occupò nel 1839 il porto di Chuandi, prima difesa marittima di Canton, per poi dirigersi verso nord sino a minacciare Tianjin e Pechino. Dopo vane trattative con l’imperatore, il conflitto si concluse con il Trattato di Nanchino (29 agosto 1842), il primo di una serie di “trattati ineguali” che permisero in prospettiva la semi colonizzazione della Cina. Questo prevedeva l’apertura di 5 porti al commercio internazionale (Canton, Fuzhou, Xiamen, Ningbo, Shanghai), la cessione dell’isola di Hong Kong alla Gran Bretagna, tariffe doganali concordate, una pesante indennità e il diritto di extraterritorialità. Interessati a ottenere ulteriori concessioni, nonostante i vantaggi conseguiti, gli occidentali guardavano ora ai porti del Nord, alle vie fluviali dell’interno ed esigevano di trattare direttamente con il governo di Pechino. Nel 1854 i ministri di Francia, Inghilterra e Stati Uniti chiesero di sottoporre a revisione i trattati. La Cina, afflitta da scontri interni tra il partito della resistenza e il partito della conciliazione, rifiutò la proposta. Le truppe anglo-francesi, presi a pretesto la morte di un missionario francese e l’arresto dell’equipaggio di una nave accusata di pirateria, iniziarono l’assedio dal porto di Canton, sino a occupare e saccheggiare il Palazzo d’Estate a Pechino. Il conflitto, noto come la seconda guerra dell’oppio (1856), si concluse con la firma del Trattato di Tianjin nel 1858 e quello di Pechino nel 1860, il quale obbligò i Qing al pagamento di una pesante indennità, all’apertura di altri 10 porti, alla libera circolazione dei mercanti e dei missionari stranieri in Cina, a esenzioni doganali, all’apertura di legazioni diplomatiche a Pechino, al libero accesso delle imbarcazioni occidentali alla rete fluviale cinese e alla legalizzazione dell’oppio (Sabattini, 2009: 531-545). A questo punto gli occidentali non erano più solamente una curiosità esotica, anzi, 40 costituivano una vera e propria realtà in Cina, una realtà che aveva importato i propri costumi, le proprie credenze (e purtroppo l’idea di essere portatori dell’unica cultura contemplabile, ovvero quella eurocentrica) bacchettando a priori la maniera cinese di rapportarsi con il mondo esterno. Con le guerre dell’oppio in Cina si designa l’avvento della “storia moderna”, e così dalla fine del XIX secolo insieme alle vicende della storia moderna cambiarono anche i costumi e la moda. Il sentimento era contrastante, alcuni concepivano la moda straniera come qualcosa di tendenza e di incredibilmente “bello”, altri invece erano piuttosto reticenti a lasciare entrare nelle loro vite tutto ciò che era etichettabile come “occidentale”. Quanto detto finora potrebbe essere riassunto in un’interessante considerazione fatta da John Levenson nel suo libro Confucian China and its Modern Fate22 in cui l’autore descrive la transizione dalla Cina imperiale alla Cina moderna come un’era in cui i cinesi si trovarono a dover accettare un cambio complesso e difficile verso una visione della Cina in un’ottica globale e non più come “Terra di mezzo”: da tiānxià (本本 )23 -ovvero tutto ciò che è sotto il cielo e che apparteneva all’Imperatore- a guójiā (本本), ovvero il paese inteso come nazione e che, come tale, esiste tra le altre nazioni. E a proposito del sentimento contrastante nei confronti della moda straniera, un passo di un libro molto interessante scritto da un’autrice americana nata e cresciuta in Cina, ci offre lo squarcio di una realtà, quella cinese, e del pensiero di una ricca donna cinese nei confronti degli Occidentali: Had she been caught by the current fashion for the “modern”, as all Western things were called? Had she been caught by the newness of the forms and designs and confused newness of design with beauty? That I could not believe. (Pruitt, 1981: 44) 2.1.1 Salgono gli spacchi, si alzano gli orli: 1910 – 1930. La rivoluzione del 1911, conosciuta anche come Rivoluzione Xinhai (本本本本 Xīnhài Gémìng), non solo rovesciò la dinastia ma sconvolse anche i canoni estetici del tardo periodo Qing; portò a cambiamenti improvvisi e importanti a livello politico e storico a cui di pari passo si sviluppò nei primi decenni del Novecento una nuova moda influenzata, come già detto, dalla presenza occidentale in Cina. Il destino di un Paese può cambiare in pochi giorni e lentamente la moda vi si adatta, 22 in Major, J. S. & Steele, V. (1999), China Chic: East Meets West, New Haven e Londra: Yale University Press, p.189. 23 L’Imperatore godeva, secondo l’ideologia confuciana, del “Mandato Celeste”, concesso dal Cielo ad una persona che fosse in grado di stabilire l’ordine nel mondo. Il Mandato poteva però (a differenza delle investiture divine come intese nel mondo occidentale) essere revocato, qualora fosse mancato l’ordine, per passare nelle mani di un nuovo “eletto dal Cielo”. L’idea di tianxia è sempre rimasta una costante nel corso della storia cinese, tanto che lo stesso Mao Tse-tung parlò di “Mandato Terrestre” per legittimare la sua rivoluzione in un’atmosfera di sovvertimento di quei valori confuciani propri della tradizione cinese. 41 Con la crescente emancipazione delle donne di ceto medio-alto e con il Movimento del Quattro Maggio25 1919, le vesti ingombranti che coprivano le donne nel passato vennero abbandonati nei cassetti per lasciar spazio a nuove forme di abiti, che seppur di stile e ispirazione cinese, erano un ibrido con la moda occidentale. Uno di questi esempi è l’aoqun (本本), uno tra gli abiti tradizionali cinesi di etnia Han; 本 (ǎo) letteralmente vuol dire giacchetto e 本 (qún) gonna. L’ao divenne sempre più stretto nella sua confezione, ma aumentò la lunghezza (generalmente sino alle ginocchia) che però presentava uno spacco molto alto all’altezza del bacino, le maniche andavano stringendosi verso il polso e in genere la passamaneria era adornata da motivi piuttosto semplici e non elaborati come nel passato. Il colletto diventa sempre più alto. Solitamente il giacchetto era abbinato ai pantaloni, soprattutto per le donne non sposate, o alla gonna di cui si parlava sopra. Il passare degli anni vede l’evoluzione continua dell’ao, che intorno al 1920, diventa ancora più attillato, per accentuare le forme del corpo femminile, più corto e con le maniche a tre quarti. Il giacchino diventa più corto, così come iniziano a salire e ad accorciarsi gli orli delle gonne abbinate ad esso. Le gonne erano spesso di seta nera e damascate con un taglio a campana. 25 Il 4 maggio 1919 a Pechino davanti alla Porta della Pace Celeste scoppiò una manifestazione di protesta contro le inique clausole di Versailles. I giovani si scagliarono contro l’imperialismo straniero. Ma il Movimento del 4 maggio 1919 era anche un fermento intellettuale modernizzatore che cercava esempi in Occidente. E’ stato chiamato il Rinascimento cinese, per la scoperta di valori come scienza e democrazia. L’ordine costituito contro cui si scagliava quella generazione di giovani istruiti nella grandi città era il confucianesimo. La ribellione del ’19 era un sussulto di vitalità della élite intellettuale, umiliata dalla lunga decadenza della Cina. Da quell’episodio prese forza il movimento repubblicano e popolare di Sun Yat-Sen. Più tardi si ispirò al 4 maggio anche Mao Zedong, capo del comunismo cinese, e Chang Kai-shek, comandante dei nazionalisti cinesi. 44 Figura2.2 Studenti, 1930. Photo credit: Shanghai Library Fondamentalmente nei primi tre decenni del Novecento in Cina, abbiamo due tipi di fashion leader, dove per leader si intende il senso letterale della parola, ovvero di “colei che guida” o che crea una tendenza: in primo luogo le donne benestanti dell’alta società o comunque appartenenti al circolo della mondanità, molto spesso si trattava di accompagnatrici o prostitute; in questo periodo infatti, la moda nelle grandi città era lanciata e creata dalle prostitute. Accompagnatrici che amavano abbandonarsi alla vanità, che amavano seguire la moda, andare a teatro o ballare per intrattenere i loro clienti. Il secondo modello da seguire e da ammirare per i canoni della moda era quello della studentessa. Le due cose iniziarono poi ad amalgamarsi e a confondersi l’una con l’altra dal momento che sempre più ragazze avevano accesso all’istruzione e questo portò una ventata di freschezza e novità, tanto che furono infine le prostitute a seguire i canoni che venivano “imposti” dalle studentesse. Si trattava di un fenomeno assolutamente nuovo e che veniva rappresentato nei manifesti, nelle pubblicità e qualsiasi altra forma artistica. Entrambi i modelli, seppur completamente differenti rappresentavano quello che il sociologo George Simmel definisce “desiderio di distruzione” che si scontrava con l’ordine prestabilito e con quello che doveva essere, le prostitute perché si abbandonavano, lascive, a questa nuova mondanità e le studentesse perché impegnate politicamente e portatrici nonché protagoniste della riforma sociale. Il primo periodo repubblicano coincide con la partecipazione della donna alla sfera pubblica, e marca per questo l’inizio di un nuovo periodo in cui si inizia a prendere in considerazione la moda femminile in Cina. Le donne iniziarono ad uscire dalle loro camere e così iniziò ad uscire e a formarsi una coscienza della moda. Questa è per la moda un’era ricca di spunti, le donne potevano ispirarsi a differenti scenari, tutti interessanti in egual modo: i campus scolastici, le manifestazioni in strada, i parchi, i grandi viali o addirittura attingere a elementi, che vedremo in seguito, delle divise militari. La cultura fiorisce, e così nuovi immaginari: 45 riviste, giornali, manifesti e poster26 e non per ultimo il cinema, che sarà grande motivo di ispirazione. Shanghai, infatti, nella prima metà degli anni Trenta fu teatro di esperimenti modernisti, nonché di sconvolgimenti sociali e culturali divenendo non solo simbolo dell’apertura verso lo straniero, ma anche avamposto per una nuova generazione di artisti. Negli anni ’30, Shanghai visse un periodo di massimo splendore, che la rese una sorta di Hollywood cinese. Molti film emblematici che ci descrivono una Shanghai fastosa, cosmopolita, ricca e allo stesso tempo piena di contraddizioni, vizi e peccati. Questa, infatti, era la Shanghai del periodo d’oro, che viene ritratta da molti registi dell’epoca. E proprio nei poster degli anni Trenta e nei primi film possiamo vedere lo stile e l’abbigliamento delle donne. Alcune in tailleur con pantaloni, altre con delle bluse da “donne per bene” e con gonne con spacchi clamorosi, fino alla rappresentazioni di alcune donne che indossano dei vestiti che sono un ibrido di tendenze alla moda orientali e occidentali, tutte quelle, ragazze che cercavano l’emancipazione. 26 Prima dell'austerità calata con l'avvento del regime comunista nel 1949, la Cina, e in particolar modo Shanghai cominciava a sperimentare delle nuove forme pubblicitarie mutuate dall'Occidente. Tra le altre cose possiamo contare le colorate e vivaci pubblicità di sigarette o di profumi, le quali evidentemente ora come all'epoca, cercavano di puntare sulla bellezza femminile. C’è una Cina non molto conosciuta infatti, precedente alla Rivoluzione Comunista che, almeno nelle grandi città come Shanghai, competeva o addirittura superava in tutto e per tutto il punto di rifermento culturale degli inizi del Novecento: Parigi. In particolare, il sud della Cina, da Shanghai in giù, era un fiorire di industrie, attività imprenditoriali di tutte le taglie, scambi culturali e commerciali, ma anche di eccellenti ristoranti, bordelli, club e altre attività occulte e decisamente poco legali. In questo contesto, le diverse attività merceologiche combattevano, proprio come oggi, a colpi di pubblicità. Uno dei metodi più utilizzati all’epoca era quello del poster e, sul poster, oltre al prodotto ed al marchio, molto spesso compariva una figura femminile cinese conturbante e che ci testimonia le mode più eccentriche di quel tempo. 46 Figura 2.4 Qipao, 1910 ca. Photo credit: Valery Garrett (2007) In un periodo in cui il nazionalismo combatteva e ripudiava l’influsso occidentale sui prodotti importati, vestire un abito come il qipao era un segno di resistenza culturale all’Occidente ed era inoltre per le donne un modo di farsi portatrici dell’uguaglianza di genere; nel momento più alto di emancipazione della donna nei primi anni ’20, questo stile androgino che molto spesso caratterizzava il guardaroba delle donne rifletteva il desiderio delle donne di uguaglianza di diritti e di rispetto della loro individualità. Le donne cinesi iniziarono ad indossare il qipao “perché volevano apparire come gli uomini” (Zhang 2003 :435). Vestirsi alla stessa maniera di un uomo significava poter avere lo stesso ruolo che avevano gli uomini nella società, le donne divennero il simbolo del progresso sociale, e i loro corpi, così come i 49 loro abiti, divennero il simbolo della nazione (Croll 1995: 40)29. Con il movimento del 4 Maggio, le manifestazioni di protesta si diffusero presto in tutto il paese e segnarono l'affermazione del nazionalismo cinese. A differenza dei movimenti precedenti, le donne attiviste inserivano ora, nella sfera delle loro rivendicazioni, anche i diritti civili, pur sempre entro finalità fortemente nazionaliste. Ciò che emerse, tuttavia, come dato decisivo per le successive conquiste femminili, fu la comparsa sulla scena nazionale di 50 Figura 2.5 Poster raffigurante una giovane ragazza alla moda con capelli acconciati e che indossa un qipao risalente al 1920. Photo credit: Garret, 2007. un nuovo soggetto collettivo: le operaie delle industrie tessili. Negli anni della guerra l’industria nazionale si accrebbe notevolmente come conseguenza della contrazione delle importazioni delle merci europee. Molte furono le donne che entrarono in fabbrica, e per costoro il cammino d’emancipazione passò attraverso il lavoro e le lotte sindacali, soprattutto nelle zone più industrializzate e sottoposte a maggiore sfruttamento come la regione del Canton e il Sud del paese (Carpinelli, 2008). Il taglio del qipao negli anni ’20 è quello di un vestito a trapezio, con un ampio orlo e senza 51 suoi famosi articoli sulla moda cinese32, che non esaltava assolutamente le forme femminili. Secondo la tesi di Wessie Ling, l’ispirazione androgina e le forme oversize del qipao non erano che un modo per le donne di liberarsi dalle costrizioni che erano state imposte loro fino a quel tempo (fasciature del seno e fasciatura dei piedi, per esempio) e di proporre la loro uguaglianza mediante l’abbigliamento. L’utilizzo e la diffusione del qipao negli anni ’30 non può essere ridotta semplicemente ad un puro risultato del nazionalismo. Anzi, il suo “essere alla moda” ci indica un modo tutto nuovo ed uno strumento per le donne cinesi di combattere contro quanto era stato loro imposto negli anni circa l’abbigliamento e la decenza di non lasciare scoperta alcuna parte del corpo. Mediante il cambiamento di stile e le risposte alle mode occidentali, le donne cinesi hanno tatticamente combattuto sfidando gli standard estetici occidentali, usando il qipao per ribellarsi alle autorità nazionali (Ling 2008: 1). Il nazionalismo ha rafforzato la popolarità del qipao, e la sua accettazione come abito nella società cinese ha rappresentato un congedo dal passato. La Ling afferma ancora che nel 1930 il qipao era diventato lo strumento di “ribellione silenziosa contro il tradimento della nazione nei confronti del corpo femminile” e il canale attraverso il quale “le donne cinesi trovarono la democrazia... e la trasformarono secondo la 54 loro volontà”33. In uno scritto di recente pubblicazione (Chang, 2009: 117-120) però, l’interessante lavoro della Ling viene criticato e si obietta in primis che il taglio androgino dei primi qipao non ha nulla a che vedere con il desiderio delle donne repubblicane di mostrare la loro uguaglianza di fronte agli uomini, e che anzi, sin dall’epoca imperiale i primi qipao avevano questo taglio quadrato quasi identico nella versione maschile e femminile e che la differenza era solo nelle decorazioni. Nulla di nuovo dunque nel carattere androgino dell’abito. Inoltre, per quanto riguarda la questione del nazionalismo, il fatto che i vestiti fossero larghi e un po’ maschiacci, non aveva niente a che vedere con l’uguaglianza di genere, ma erano piuttosto sinonimo di frugalità e semplicità. Ad ogni modo, il punto di svolta per il qipao è costituito dal Movimento del Trenta Maggio 1925 ( 本 本 本 兰 wǔsà yùndòng) quando esplosero delle tremende manifestazioni contro 55 l’Occidente34 in tutto il Paese. È chiaro dunque che il nuovo carburante dei cinesi era proprio il nazionalismo e che tutto ciò che era occidentale andava demonizzato, ivi compresi gli abiti. Il qipao divenne dunque il simbolo e la risposta al bisogno di “sinizzazione”, già indossato dalle donne più eversive e che amavano osare, giorno dopo giorno entrò a far parte dei must have di ogni studentessa, donna o ragazza. Per la prima volta nella storia, in un certo senso, la moda cinese aveva qualcosa in comune con altri paesi nel mondo. Il carré in Cina, così come in Francia era motivo di una controversa discussione in entrambe i Paesi, così come la moda androgina degli anni Venti a Shanghai e a Parigi portò all’estrema esaltazione della femminilità negli anni Trenta (Finnane 2007: 141). In questi anni infatti vi era un fervente dibattito circa l’abbigliamento femminile e le preoccupazioni, tanto in Europa quanto in Asia, di questioni fondamentali la famiglia, la nazione, il passato e il futuro e la tendenza comune a esprimere tutto questo facendo anche riferimento alla figura preoccupante della donna moderna (Finnane 2007: 141). Oramai il qipao non era più riconosciuto come un abito appartenente ad una minoranza etnica, al contrario il simbolo della nuova “donna moderna” cinese. Anzi, la donna moderna per eccezione, ovvero Song Qingling, la moglie di Sun Yat-sen, fu tra le donne icone del momento e raffigurata e fotografata spesso e volentieri con un qipao. 2.3 La militarizzazione degli abiti Così come Song Qing Ling si attestò come icona della moda tra le donne, il marito Sun Yat- sen lasciò un’eredità incommensurabile (non solo storicamente) con la giacca alla Sun Yat-sen (本本本 Zhōngshàng zhuāng) che divenne il simbolo della Rivoluzione Nazionalista. Gli avvenimenti che portarono alla nascita della Repubblica di Cina non seguirono proprio la direzione che Sun Yat-sen aveva sperato. Nel 1911, tornato in Cina, Sun Yat-sen veniva nominato presidente provvisorio a Nanchino, nella capitale però il passaggio al nuovo governo fu gestito con un colpo di Stato di palazzo, per cui il generale Yuan Shikai costrinse la corte a conferirgli l’autorità per costituire un governo repubblicano, proclamando l’abdicazione dell’ultimo imperatore Puyi. Sun Yat-sen fu costretto a farsi da parte e, nonostante il suo partito, il Guomindang, avesse vinto le elezioni, ben presto dovette ritornare in esilio. Yuan Shikai, quasi vicino alla follia, prese la direzione del paese fino al 1916 mirando a proclamarsi nuovamente imperatore sostenendo che i cinesi non avevano mai accettato la costituzione della Repubblica. Il colpo di grazia non tardò ad arrivare, nel novembre 1913, quando un decreto presidenziale ordinava lo scioglimento del Guomindang “per motivi di sicurezza” e il 10 gennaio 1914 venne anche sciolto il Parlamento (Sabattini, 2009: 577) i giornali furono chiusi, i membri dell’opposizione del parlamento furono arrestati e i membri del Guomindang vennero espulsi dal parlamento mentre le assemblee provinciali furono sciolte. Situazione nel caos che non si risolve con la morte di Yuan Shikai nel 1916, il paese rimase di fatto in mano ai governanti militari di ogni provincia (i signori della guerra) e si avvia uno tra i periodi più cupi della storia moderna cinese. Nel 1916 con la morte di Yuan Shikai, Sun Yat-sen tornò in Cina, egli continuava a costituire 56 La soluzione che Li Yuyi propone è quella di avere più cura nell’abbinamento dei colori, ricordando inoltre che vi sono colori principalmente adatti ad un uomo, come il nero, il verde scuro, il viola scuro, il grigio il blu e l’oro. La perplessità dell’autrice rispetto a questo genere di cross-dressing, è invece esaltata da molti altri e molte altre nella letteratura e nei film di quel tempo (anni ’30 e ’40). In uno dei suo racconti brevi, lo scrittore Liu Na‘ou (本本本) ci presenta Jingqiu, protagonista di un gioco sessuale e di una storia erotica con tre donne: la tredicenne figlia del suo capo, la rivoluzionaria Xiaoying e la concubina Qingyun. Scorrendo le pagine del racconto, si riesce a notare che, oltre alle idee rivoluzionarie di Xiaoying, ciò che farà innamorare Jingqiu, è il fatto che questa abbia una corporatura quasi mascolina con braccia e gambe forti e dinamiche, la pelle scura e i capelli corti (Finnane, 2001: 170). Che si trattasse di moda, di abiti da lavoro, di semplici abiti indossati dalle intellettuali o di abiti da scena, lo stile woman-as-man (本本本 nǚ zuò nán) suscitò l’interesse ad ogni livello dei media, che colsero la provocazione e lo resero un argomento scottante di cui parlare e che portò a diffondere ancor di più questa tendenza (Finnane, 2001: 190). È importante precisare che non è del tutto corretto parlare di woman-as-man o di cross-dressing poiché come detto in precedenza, era molto difficile distinguere gli abiti femminili da quelli maschili; parlare di cross-dressing presupporrebbe l’esistenza di differenze ben definite nell’abbigliamento del genere maschile e di quello femminile, cosa non affatto possibile in Cina dove in questo periodo le donne e gli uomini portavano indistintamente gonne e pantaloni, capelli lunghi e capelli corti. Nel XX secolo i ruoli di genere e i codici di abbigliamento erano in uno stato di completa confusione e il cambiamento radicale era in divenire. Tutto questo è anche documentato da una copiosa letteratura di racconti o romanzi in cui le donne cinesi adottano una personalità maschile, si travestono da uomini, o che addirittura vengono educate sin da piccole come se fossero dei maschietti. Il filo rosso è sempre lo stesso: nei panni di un uomo, un essere umano può ottenere il riconoscimento sociale come persona; nelle vesti di una donna, una ragazza doveva “incipriare il volto e le gote, servire il proprio marito ed elemosinare pietà dagli altri” (Idema & Grant, 2004: 676-7). A peggiorare la situazione vi era il fatto che molto spesso questo tipo di abbigliamento era adottato dalle donne nei bordelli e nei teatri ed era quindi considerata ancor di più una forma di depravazione morale. Le prostitute e gli attori facevano parte della categoria di “persone cattive” che abitavano uno spazio sociale dove le brave ragazze di famiglie a modo avevano paura ad inserirsi. Secondo Finnane (2001) il fascino di una donna vestita da uomo, risiedeva proprio nella sua mascolinità, e questo genere di abbigliamento attirava ancor di più l’attenzione sulla femminilità che paradossalmente era ancora più pronunciata, o forse conturbante, di quella di una donna in qipao. Tra i modelli a cui le donne cinesi si ispiravano a quel tempo non possiamo non citare le grandi Marlene Dietrich e Katherine Hepburn, che erano considerate flapper girls per eccellenza. Marlene Dietrich che tra l’altro fu la protagonista del film “Shanghai Express” in cui recitò al fianco della famosa attrice cinese- americana Anna May Wong. 59 In the 1920s, a new woman was born. She smoked, drank, danced, and voted. She cut her hair, wore make-up, and went to petting parties. She was giddy and took risks. She was a 60 flapper36. Figura 2.6 Flapper era, Anna May Wong. Photo credit: Eichberg film, Berlin. 61 civile. Il Guomindang, appoggiato dagli Stati Uniti, godeva di una netta superiorità militare, ma i comunisti, appoggiati dalla popolazione, potevano contare su una superiorità politica e sociale, che permise loro di sbaragliare gli avversari. Tra gli ultimi mesi del 1948 e i primi mesi del 1949 le forze comuniste, cogliendo di sorpresa tanto gli Americani quanto i Sovietici, presero decisamente il sopravvento su quelle nazionaliste, le quali vennero infine completamente sbaragliate e cercarono rifugio nell’Isola di Formosa, l’attuale Taiwan. Ebbe così fine la rivoluzione, con la divisione della Cina in due paesi contrapposti e nemici: l’uno formato dall’immenso territorio continentale dominato dai comunisti, l’altro dall’isola in 64 mano ai nazionalisti37. Il 1° Ottobre 1949, a Pechino, dall’alto della Porta del Palazzo Celeste (Tian’an men), che ancora oggi fronteggia l’omonima piazza, Mao Zedong proclamava trionfante la nascita della Repubblica Popolare Cinese. In poco meno di trent’anni la storia era stata rovesciata: ora però, una volta ottenuta la vittoria, il compito del Partito comunista cinese non appariva certo meno arduo: governare un paese devastato dalla guerra e dalla crisi e fornirgli una nuova identità, interna e internazionale, più solida ma anche migliore rispetto a quella che, a partire dal 1912, i vari governi repubblicani avevano cercato di forgiare, invano, in modo stabile e convincente (Samarani, 2008: 186-7). Con la proclamazione della Repubblica Popolare Cinese tutto ciò che poteva essere classificato come tradizionale venne accantonato e messo da parte. I nuovi leader, Mao per primo, decisero che la Cina avrebbe dovuto percorrere una transizione da un’economia agraria, sostenuta dai contadini, ad una società socialista moderna e industrializzata (Garrett, 1999: 212). In un certo senso, questa transizione si proietta anche nel percorso che compirà la moda dell’abbigliamento femminile negli anni a venire. Gli studi di Chen sull’abbigliamento femminile, che comprendono un periodo che va dagli anni Quaranta fino alla Rivoluzione culturale in Cina, rilevano due principali forze collegate tra loro che avrebbero guidato la moda del periodo. La prima riguarda le abitudini di abbigliamento che erano molto più complesse e diversificate di quanto sembravano suggerire le modalità d’abbigliamento ufficialmente approvate. Lontane dal sembrare “sgraziate” e “per niente sexy”, le donne cinesi sperimentarono tutte le varianti e diversi colori per personalizzare i loro abiti (Craik 2010: 220). In un contesto in cui sembrava che la moda fosse del tutto scomparsa possiamo notare quanto questa osservazione sia assolutamente non veritiera poiché anche il dissociarsi dalla moda ha sempre creato delle tendenze e delle sottoculture per contrastare la moda predominante. Simona Segre Reinach, autrice specializzata in studi e ricerche sulla moda da un punto di vista antropologico e sociologico, in un libro molto interessante in cui ci introduce alla moda, afferma: La moda riguarda quindi il sociale [...] ed è associata prevalentemente al femminile. Il passato della moda assomiglia a queste definizioni che invece si applicano con difficoltà al tempo presente, in cui la moda, così come l’arte, la letteratura o il cinema, è divenuta una parte essenziale delle attività immaginative della nostra cultura. L’abito, suo campo preferenziale e come vedremo oggetto privilegiato della nostra indagine, è un abito definito dalla moda. Anche chi cerca di opporvisi, si mette in relazione con la moda. Le istanze anti- moda, cioè l’insieme dei comportamenti apparentemente condotti contro di essa, non sarebbero altro che una prova del suo potere. Vestirsi di moda può diventare di moda in intere cerchie di una società estesa, si tratta di una delle più notevoli complicazioni sociopsicologiche [...]. Opponendosi con diverse motivazioni all’ideologia che la moda si ritiene rappresenti, questi movimenti si situano in un rapporto dialettico con la moda stessa. Ma, nella contemporaneità, i fenomeni di anti-moda sono inglobati sin dal loro nascere nella moda. Un esempio è il grunge, modo di vestire “alternativo” e spontaneo, nato entro la cultura musicale dei giovani di Seattle nel 1990 e presentato pochi mesi dopo sulle passerelle 65 del prêt-à-porter internazionale da stilisti come Anne Sui e Marc Jacobs. (Segre Reinach, 2010: 3-4) Tornando poi alla seconda forza che guidava e disegnava la moda del tempo possiamo dire che questa riguarda il Partito Comunista. Il PCC si rese conto dell’importanza del vestito come tecnica per produrre specifiche tipologie di cittadini e codici prestabiliti di femminilità. In questo processo le donne unirono elementi dell’abbigliamento tradizionale (come le bluse a fantasia), con altri innovativi come il qipao, oppure giacca con cinta alla Mao e cappello morbido. Il completo alla Mao era un completo interessante e ambiguo, perché da una parte promuoveva l’uniformità e l’immagine del nuovo nazionalismo della Rivoluzione Culturale, mentre dall’altra contribuiva anche a creare distinzione dentro al partito, tra gli aderenti e i cittadini ordinari, e tra questi ultimi e altri ancora. Secondo Chen durante il periodo maoista si promuove sempre più un tipo di abbigliamento, che è quello dell’uniforme militare, ed il relativo comportamento ad esso connesso: tutti i cittadini devono lavorare. La crescente presenza di uniformità militaristica non distruggeva le altre convenzioni dell’abbigliamento ma produceva l’esigenza che tali alternative alla divisa si confrontassero con le uniformi stesse (Chen 2001: 156). Questo produsse sottili distinzioni tra le differenti manifestazioni del completo maoista come anche tra questo completo e gli abiti fatti con stoffe colorate. Malgrado l’importanza della riforma dell’abbigliamento per l’attuazione della dottrina maoista, l’elaborazione delle consuetudini vestimentarie e la sottile resistenza ai modi di vestire ufficialmente affermati illustrano la complessità e le molteplici risposte al regime. (Craik 2010: 220) Escluso un relativamente breve periodo nella più remota antichità in cui conservava una tradizione matriarcale, la Cina è sempre stata una società patriarcale e tendenzialmente maschilista, idee alimentate anche probabilmente dalla dottrina confuciana. Nel corso della storia si era definito il ruolo naturale della donna come protettrice del focolaio domestico e figura portante all’interno della famiglia, era destinata a creare un ambiente favorevole per i figli e per il proprio marito. Questo fino ai primi anni Venti, come abbiamo avuto già modo di vedere, quando i primi movimenti femministi fecero capolino ma anche quando, al momento della costituzione del Partito Comunista Cinese, si stava delineando una nuova ideologia che promuoveva tra le altre cose l’uguaglianza di genere. La questione delle donne, infatti, iniziò ad entrare nell’agenda del Partito, la donna doveva essere uguale in tutto e per tutto all’uomo. I primi politici e teorici comunisti cinesi ritenevano che gli schemi tradizionali che promuovevano le differenze di genere e l’educazione in generale erano la ragione dell’oppressione delle donne cinesi, sposarono infatti le teorie materialiste di Engel, il quale sosteneva che la famiglia era il primo luogo dove si perpetrava l’oppressione delle donne (Gilmartin, 1993). Nel 1919 ancor prima della piena evoluzione del qipao come abito nazionale Mao Zedong scriveva: If a woman’s head and a man’s head are actually the same, and there is no real difference 66 le nuove ambiziose figlie della Cina, 69 che al belletto preferiscono i fucili39. Il Grande Timoniere riteneva di fondamentale importanza che nella neonata Repubblica, i cinesi dovessero avere e mantenere delle tradizioni proprie. Mao infatti sin dai primi anni utilizzò il potere e l’impressione che un abito ha il potere di racchiudere, per promuovere il nazionalismo e l’ideologia comunista. Vestirsi secondo i dettami del Partito implicava tener vivo e portare avanti il futuro della nazione socialista, e il PCC rappresentava questa nazione socialista, che in parte, aveva bisogno di essere “rivestita”: liberata dalle varie forme di oppressione e contaminazione, quali il feudalesimo, l’imperialismo, la tradizione patriarcale e soprattutto il capitalismo. Tutto questo doveva rappresentare il nuovo carattere della classe socialista cinese che si allontanava e ripudiava le ineguaglianze di classe degli altri ordini sociali (Chen, 2001). Nella Cina di Mao, sin dal principio, la questione dell’uguaglianza di genere e quella della moda hanno sempre avuto un ruolo molto importante. Molto spesso, e forse anche in maniera errata, si pensa che per tutto il periodo maoista non fosse affatto esistito alcun tipo di moda e che donne e uomini portassero indistintamente l’evoluzione di quella che era la giacca di Sun Yat-sen, con l’unica variazione contemplabile, ovvero quella della scelta tra il colore verde, grigio o blu. 70 In realtà questa totale uniformità negli abiti inizierà a essere proposta e imposta soltanto dagli anni precedenti alla Rivoluzione Culturale fino a trovare il suo exploit proprio negli anni della Rivoluzione (1966-1969). La precedente mancanza di conformismo nell’abbigliamento è stata proprio ciò che ha contraddistinto la moda negli anni Cinquanta in Cina. La differenza nell’abbigliamento non rappresentava solamente la liberalizzazione politica e sociale o la necessità di una individualità sovversiva contro le nuove regole, era anche un punto cruciale nell’interazione tra i cittadini e le politiche per la costruzione di una nuova nazione, la nascita di una coscienza di genere, l’abbigliamento ha contribuito a creare e a formare dei nuovi cittadini pronti ad abitare questa nuova nazione (Chen, 2001). L’abbigliamento in questo decennio è principalmente una fusione di elementi occidentali, orientali, militari che potremmo quasi definire come un pot-pourri di tendenze. “In a country and city turned upside down, women were all in plain colors, for you must 71 Figura 2.8 Calendar poster by artist Hang Zhiying, c. 1940. photo credit: https://cross-currents.berkeley.edu/e-journal/issue-3/history-bicycle-and- chinese-cyclist-1868-1949 Se ci prestiamo ad un’analisi più attenta degli eventi è in realtà difficile interpretare quanto accadde in quegli anni di ricostituzione di un paese tanto grande come la Cina: nonostante i progressi nel campo dell’educazione, larga parte degli intellettuali continuava a provenire da famiglie abbienti o che tali erano state; diversi avevano operato sino alla vigilia del 1949 nelle istituzioni e nelle libere professioni e dunque a contatto con i nazionalisti, e molti si erano formati all’estero o erano stati influenzati dall’Occidente. Durante le prime fasi del Primo Piano Quinquennale, il ruolo degli intellettuali in generale venne visto in modo piuttosto positivo: la loro competenza ed esperienza appariva indispensabile ai fini dello sforzo economico nazionale. In quegli anni scrittori come Wang Meng, però, puntarono il dito sull’arbitrarietà e l’incompetenza della burocrazia comunista. In questo periodo si era di fronte a una ricerca continua e costante della strategia più giusta, a una calibratura attenta di scelte e comportamenti, il che spesso dava vita a oscillazioni anche significative nell’elaborazione teorica e nella prassi politica, e portava altresì ad accelerazioni e frenate, a momenti di ottimismo incontrollato e di preoccupazione cupa. L’andamento economico- sociale era di fronte a crescenti problemi (Samarani, 2008: 215-9). Probabilmente anche per questo, nel Maggio 1956 il Grande Timoniere lanciò la Campagna dei Cento Fiori (本本本本本本本 本 băihuà qífàng, băijiā zhēngmíng) per fare in modo che, parafrasando un detto confuciano: “cento fiori sboccino insieme, che cento scuole si contendano”. Il grande circolo che inglobava poeti, intellettuali, scrittori, scienziati, artisti e tutta l’intellighenzia era invitato a ripensare la rivoluzione, per contribuire a quello sviluppo creativo che ha caratterizzato la versione maoista del marxismo. Ogni cittadino era sollecitato ad esternare ogni problema, in un clima di collaborazione tra popolo e quadri del PCC, al fine di arrivare ad un profondo cambiamento culturale, artistico, scientifico e politico. La campagna fu un fallimento. Gli studenti e i docenti dell’università Bei Da di Pechino ( 本 本 本 本 Běijīng dàxué) ne approfittarono per denunciare il monopolio dell’informazione da parte del partito, i giornalisti per protestare contro il frequente uso della censura e gli intellettuali tutti per chiedere a gran voce la libertà di stampa e con essa tutte le libertà democratiche…cento scuole stavano cominciando a contendere, non cento, ma mille idee stavano sbocciando... ma il timore che troppa libertà potesse minare alle fondamenta tutta l’architettura della rivoluzione del 1949, spaventò Mao che si affrettò a dichiarare 74 conclusa l’esperienza della Campagna dei Cento Fiori, dando inizio alla repressione41. Nel giugno del ’57 la brusca fine della campagna venne sancita da un duro editoriale del “Quotidiano del Popolo”, nel quale, oltre a riflettere indirettamente la profonda amarezza e disillusione di Mao per le critiche sollevate, si accusavano apertamente coloro che avevano abusato della crescente libertà per attaccare il partito e il socialismo. Fu così che iniziò la Campagna contro la Destra, nel corso della quale varie centinaia di migliaia di intellettuali furono puniti con la perdita del lavoro e degli incarichi, con l’imprigionamento, con l’invio nei campi di lavoro. Alcuni, disperati, si suicidarono (Samarani, 2008: 218). In una serie di incontri e di conferenze di lavoro tenute nelle città di Nanning e Chengdu, Mao ribadì la propria convinzione che opporsi a una decisa accelerazione dello sviluppo economico era politicamente sbagliato e che ciò avrebbe avuto l’effetto di deprimere la volontà e la passione di centinaia di milioni di cinesi per il partito e il socialismo. Fu dunque, in occasione dell’VIII Congresso Nazionale del PCC che venne ufficialmente ratificato l’avvio del Grande Balzo in Avanti (本本本 dàyuèjìn) che sarebbe durato dal 1958 al 1961, con l’obiettivo di trasformare la Cina in una forte potenza industriale socialista e superare, nel giro di pochi anni, la produzione delle più avanzate nazioni occidentali. Per raggiungere tale obiettivo l’intera popolazione cinese fu mobilitata in particolare nelle campagne, dove si concentrava la maggior parte della manodopera e dove un aumento massiccio della produzione agricola doveva fornire il surplus fondamentale per lo sviluppo industriale del paese (Samarani, 2008: 223-7). L’entusiasmo delle masse doveva essere sollecitato e utilizzato ai fini di promuovere la crescita economica e l’industrializzazione. Questa grandiosa opera di collettivizzazione forzata avrebbe dovuto portare la Cina ai livelli produttivi della Gran Bretagna, ma finì invece in una tragica, inutile e silenziosa carneficina. Durante quegli anni, dal 1958 al 1962, furono milioni i cinesi a morire sotto i colpi della fame oppure, marchiati come controrivoluzionari, uccisi per non aver rispettato i dettami della rivoluzione. Le stime sono raccapriccianti e contano dai 15 fino e i 42 milioni di morti. Una marea di uomini e donne sacrificati su quello che è stato definito “un disastro molto costoso”. Mao, affetto da manie di megalomania, diede vita ad un progetto chimerico, senza capo né coda, sprovvisto di ogni fondamento economico. Negli anni del Grande Balzo in Avanti la crescita della Cina fu inferiore a quella degli anni 1966-1978, quando quelle direttive economiche furono definitivamente abbandonate (Frank Dikötter, 2011). Altri vogliono vedere nel Grande Balzo in Avanti uno dei momenti più alti dell’emancipazione femminile in 75 Cina42: circa il 90 percento delle donne cinesi fu coinvolto in attività e lavori fuori dalle mura domestiche, andando a ricoprire ruoli in precedenza di competenza esclusivamente maschile. Secondo la propaganda diffusa dal PCC tra il 1958 e il 1960, l’entrata di massa delle donne nel settore industriale e in particolare in quello agricolo, poteva garantire loro indipendenza economica e, dunque, una vera emancipazione. Figura 2.9 杜杜杜杜 1953 New view in the rural village Photo credit: Xin Liliang (杜杜杜), http://chineseposters.net/posters/e12-527.php Analizzando gli articoli pubblicati in quegli anni su 本本本本 (Zhōngguó fùnǚ), con un lavoro molto interessante, Bovetti nota quanto il messaggio lanciato alle donne fosse in perfetta armonia con quello delle politiche economiche promosse dal partito. Sotto la guida del PCC le donne erano state finalmente liberate e potevano, insieme alla nazione intera, partecipare alla costruzione di una nazione comunista. Frequenti sono, sul mensile, i riferimenti al contributo della manodopera femminile nell’agricoltura, nella fusione dell’acciaio e in ogni ambito dell’economia del paese. Nonostante il forte appello al lavoro, però, i discorsi ufficiali del PCC continuarono a sostenere l’importanza del ruolo tradizionale di mogli e madri, ponendo la maternità e la protezione della salute procreativa della donna al centro della costruzione socialista. Durante il Grande Balzo in Avanti, nelle comuni popolari, istituite nel 1958 e divenute il simbolo della nuova campagna economica, numerose squadre di produzione femminili si distinsero per i risultati ottenuti e divennero degli esempi per molte lavoratrici. Leggendo gli spazi dedicati dalla stampa alle donne, ogni lavoratrice poteva apprezzare i traguardi raggiunti dalle diverse brigate di produzione e mettersi in competizione 76 in campo le Guardie Rosse44 che sono chiamate ad aprire il “fuoco sul quartier generale” e a lottare contro i Quattro Vecchiumi ( 本 本 sì jiù). Le scuole vennero chiuse, e denunciati insegnanti e intellettuali, come ostacoli alla rivoluzione. Milioni di intellettuali vennero inviati nelle campagne per essere rieducati mediante il duro lavoro. La voce del presidente Mao è stata come un colpo di tuono nel cielo di primavera. In brevissimo tempo le Guardie rosse si sono costituite nelle scuole e in numerose fabbriche e villaggi di tutto il paese e sono diventate una grande e impetuosa armata della Rivoluzione culturale. Il movimento di lotta contro coloro che avendo posizioni di potere hanno imboccato la via del capitalismo, quello di critica delle autorità accademiche reazionarie borghesi e dell’ideologia della borghesia e delle altre classi sfruttatrici e infine quello di trasformazione dell’educazione, della letteratura, dell’arte e di tutti gli altri settori della sovrastruttura non corrispondenti alla base economica socialista si sono estesi dalle scuole 79 all’intera società45. Ben presto però il programma rivoluzionario che avrebbe dovuto dar vita ad una nuova Cina, sarebbe degenerato in lotte di potere tra le varie fazioni delle Guardie Rosse. Il caos regnava, ed era eclissato solo dalla paura. Le Guardie rosse rivoluzionarie hanno distrutto su grande scala i Quattro Vecchiumi (cultura, ideologia, costumi e abitudini) delle classi sfruttatrici e gettato le basi delle quattro novità del proletariato. In tutto il paese, i cinesi iniziarono a nascondere o a bruciare in segreto libri, dipinti, album e cimeli di famiglia e tutto ciò che potesse essere in qualche modo legato al passato feudale della Cina o al capitalismo borghese. Ciò nonostante, quando le Guardie Rosse facevano irruzione nelle case di ogni cinese, era difficile che queste non trovassero nulla di “anti- rivoluzionario” (Wu, 2009: 1-2). In questo clima di terrore politico dunque, iniziamo a comprendere il motivo dell’uniformità della moda del tempo: uomini e donne, piuttosto che essere etichettati come anti-rivoluzionari ed essere esiliati o torturati, preferivano vestire abiti comuni e rimanere confusi nella mischia piuttosto che osare un abbigliamento che li avrebbe sicuramente condotti sulla via del disastro. La moda non poteva appartenere ad una società così rivoluzionaria e proletaria, frugalità e semplicità (本本 púsù) erano le parole d’ordine: We lived simply and modestly, wore patched clothing, cut our short hair and combed it smooth. We believed our intellectual life was rich and pure. Luxury and pleasure were things we despised. After all, we were revolutionaries, and how else could you imagine a revolutionary? (Dai, Q. in Steele, 1999: 171) L’abbigliamento faceva sicuramente parte di uno dei Quattro Vecchiumi, e da alcune testimonianze che ci sono giunte sappiamo che era in potere delle Guardie Rosse sia attaccare chiunque nelle strade indossasse degli abiti offensivi sia tagliare via questi abiti da chi aveva avuto il coraggio di indossarli. Molto spesso il target di questi attacchi erano le donne. Durante le spedizioni delle Guardie Rosse i vestiti venivano spesso consegnati ad essi o sequestrati e strappati via dai loro proprietari. Nell’agosto del ‘66 la moda e in genere l’abbigliamento seguirono un violento attacco (Steele, 1999:59). Nien Cheng, una delle donne che venne arrestata e accusata ingiustamente di essere una spia, e per sei anni e mezzo confinata e torturata, racconta nel suo libro Life and Death In Shanghai (Cheng, 1987: 85) di aver assistito a uno di questi violenti attacchi in cui le Guardie Rosse assalirono una giovane donna e la spogliarono dei suoi pantaloni alla moda, togliendole anche le scarpe di fronte a una folla che la derideva. Una ex-Guardia Rossa ricorda, raccontando a Valerie Steele (1999), di aver fatto parte di una “squadra di epurazione” composta di giovani ragazzi, uno con una pistola, uno con la forbice ed il terzo a mani nude. Vagavano per le strade della città cercando donne vestite con abiti troppo lunghi, stretti o alla moda, o che portavano capelli lunghi o con la permanente; nel momento in cui ne avessero scovata una, intimorendo la donna con la pistola puntata, le avrebbero tagliato i capelli o gli abiti che indossava. Il “terrorismo sartoriale” era molto comune negli anni della Rivoluzione Culturale. Un manifesto interesse nei confronti della moda e dell’abbigliamento era considerato come 80 vergognoso, peccaminoso e anti-rivoluzionario. Mostrare individualità nell’abbigliamento, così come eccentricità, erano un invito a nozze con il pericolo. Ma i cinesi erano intrappolati in un paradosso, poiché da una parte non ci si doveva assolutamente preoccupare di cose futili e superficiali come l’apparenza dal momento che la moda era associata alla borghesia; d’altra parte però, ogni deviazione dal rigido codice di abbigliamento imposto, poteva risultare in una minaccia per la vita della persona, e qui risiede l’ironia: per la prima volta l’abbigliamento non era mai stato così importante. L’autrice cinese Juanjuan Wu, in un suo studio sulla moda dell’epoca post-Maoista, sostiene infatti che in realtà la moda non è stata uccisa durante la Rivoluzione Culturale, ma che le è stata data una veste differente, non una ricca di lustrini né tantomeno di sgargianti colori, ma pur sempre una veste. E dunque mentre la moda, intesa come abiti, tendeva ad uniformarsi, allo stesso tempo tendeva a vestirsi di implicazioni politiche e minuziosi dettagli. La differenza di posizione di un bottone sulla giacca maoista o il modo in cui indossare una sciarpa potevano rappresentare delle scelte stilistiche, a volta anche con serie implicazioni (Wu, 2010: 2). Uno degli episodi più incresciosi, e interessanti dal punto di vista storico e della moda, accadde nel 1967, quando alcuni soldati delle Guardie Rosse, interrogarono Wang Guangmei, moglie del Presidente Liu Shaoqi. Avvenne nel 1963, quando la moglie del presidente, si recò con lui in visita ufficiale di Stato in Indonesia. In tale occasione la donna indossò un qipao e portava al decolleté una collana di perle. Quattro anni dopo, nell’Aprile del ’67, in uno dei più famosi incidenti della Rivoluzione Culturale (dal punto di vista sartoriale), Wang Guangmei fu uno dei bersagli delle cosiddette “sessioni di lotta”: circa 300.000 studenti si radunarono in una prestigiosa università di Pechino e le Guardie Rosse la obbligarono a indossare lo stesso qipao che la donna aveva indossato durante la visita ufficiale con il marito in Indonesia, criticandola per essere la moglie di un elemento borghese reazionario e obbligandola a indossarlo nuovamente come esempio della sua decadenza. La beffa continuò e alla povera donna venne fatta indossare una collana fatta di palline da ping-pong a sostituire il filo di perle che aveva “osato” indossare nel lontano 1963. Dopo essere stata umiliata di fronte al pubblico, e torturata fisicamente, la donna venne imprigionata per i dieci anni a seguire (Steele, 1999: 61). 81 Sei delle otto opere, avevano come protagoniste principali o come co-protagoniste delle 84 donne, una delle più famose è conosciuta come il “Distaccamento rosso femminile”46 (本本本本本 Hóngsè Niángzǐjūn). Inutile dire, che le protagoniste nonostante fossero delle ballerine di opera indossavano come unico costume scenico la giacca maoista. Ballerine che combattevano contro il vecchio sistema e che si ribellano contro il loro vecchio padrone imbracciando i fucili e portando avanti la rivoluzione. Figura 2.12 Il distaccamento femminile rosso. Illustrazione di ballerine con la giacca maoista. Photo credit: Garrett, 2007: 221 L’imposizione di un unico tipo di costume scenico può sembrare il male minore, dopo la censura di ogni forma di opera teatrale; in realtà anche il fatto di poter utilizzare un solo costume ha costituito un grande “shock” e momento di arresto per il teatro cinese. Questo perché “l’attore cinese mette in scena un comportamento simbolico attraverso un linguaggio formale standardizzato. La vita quotidiana non viene imitata ma presentata al pubblico in forma convenzionalmente codificata” (Idema & Haft, 2008: 195). Nell’Opera tradizionale cinese le tre unità aristoteliche di tempo, luogo e azione sono sconosciute: sono gli attori stessi, al loro apparire sulla scena, che spiegano ciò che succede sul palcoscenico, dove ci si trova, chi sono i personaggi. Non vi è alcun sipario che si alzi o si abbassi o alcun cambiamento di scena come invece è costume nel teatro moderno occidentale, ma le scene si susseguono l’una dopo l’altra, direttamente. La scenografia è pressoché inesistente, è presente solo qualche arredo di elevato valore simbolico, mentre smaglianti e ricchissimi sono i costumi, caricato il trucco ed elaborate le acconciature: colori e decorazioni sono strettamente 85 legati a una complessa simbologia, incomprensibile per i non esperti47; in ogni caso, i costumi rivestono una tale importanza all’interno dell’Opera che fra gli attori si dice che è meglio vestire un costume consunto che un costume sbagliato (Savarese, 2003: 86-8). 86 obiettivo. La Repubblica Popolare Cinese, pur avviata verso l'autosufficienza economica, ha deciso di accelerare il processo di modernizzazione aumentando il volume del commercio con l'estero, aprendo i suoi mercati al Giappone e all'Occidente. La crescita, trainata dall'aumento delle esportazioni, consentì ai cinesi di avanzare finanziariamente attraverso investimenti stranieri, un mercato più aperto, l'accesso alle tecnologie avanzate e un'accresciuta competenza manageriale. (Secondi, 1991: 39) La posizione di Deng era piuttosto differente rispetto a quella dei suoi predecessori, ancor di più in materia economica. Durante il XII Congresso Nazionale del PCC, nel 1982, il nuovo leader riuscì a promuovere la sua linea politica, fondata sulla necessità di “integrare la verità universale del marxismo con la realtà concreta della Cina” (Secondi, 1991:40) e a costituire cioè un socialismo con le caratteristiche cinesi. “Non importa che il gatto sia bianco o nero; ciò che importa è che questo acchiappi i topi", così Deng riassumeva il suo modello economico, in contrasto con una metafora simile usata da Mao in passato che recitava che “essere rosso è più importante di essere esperto". Le idee di Deng erano in netta opposizione con quelle di Mao Zedong, il quale sognava una Cina comunista e autosufficiente, basata su un sistema economico e sociale molto rigido e ispirato dalla dottrina marxista. Deng Xiaoping intraprese invece la strada della novità, promuovendo delle politiche di riforma e di apertura che aprirono, appunto, gradualmente i mercati cinesi alle imprese estere, avviando una transizione verso un’economia di mercato e affiancando alle imprese statali delle piccole imprese private. Solo in questo modo la Cina avrebbe potuto competere con le moderne nazioni occidentali. Così come il focus politico in quegli anni passò dalla lotta di classe alla lotta per lo sviluppo economico, il focus della moda passò dalla frugalità e dal conformismo alla ricerca di nuove forme o alla ripresa di vecchi indumenti come il qipao. Il cambiamento e la transizione furono piuttosto lenti e a regnare era la confusione assoluta, soprattutto dopo un decennio di abiti fatti di grigio, blu e verde. Vedere donne che portavano scarpe con il tacco, i capelli lunghi o vestiti abbinati con accessori creava un certo scalpore per le strade delle grandi città, figurarsi nelle campagne dove ancora oggi (parlo per esperienza personale) una donna in rossetto viene vista come una poco di buono o come una sfacciata. Questi cambiamenti rivoluzionari erano accompagnati in genere da una confusione generale, da entusiasmo, ribellione, romanticismo, idealismo e voglia di sognare nuovamente. Pantaloni a vita alta, jeans, magliette a fiori, occhiali da sole rappresentavano una ventata di novità e di libertà. Non sempre, però, erano ben accetti dagli anziani e dai più conservatori, i quali ritenevano che questi look bizzarri riflettevano uno stile di vita e un pensiero decadenti e corrotti dal capitalismo. Ma d’altronde “non importa se il gatto sia nero o bianco, purché acchiappi i topi", e così i cinesi iniziarono a indossare nuovamente abiti colorati, bianchi, neri e alla moda. La ricerca dell’estetica iniziò a far parte della vita di alcuni cinesi e finalmente rinasce la ricerca del bello e la cura per la bellezza che per molti anni avevano caratterizzato l’abbigliamento cinese. Nel 1978 la rivoluzione della moda iniziò a scalpitare nelle strade. La popolarità dei pantaloni a vita alta per esempio, già aveva spopolato a Hong Kong e Taiwan grazie a Elvis Presley e alle dive del cinema. Come in tutte le rivoluzioni di stile, ovviamente, “i rivoluzionari” con indosso quegli strani pantaloni venivano fissati per le strade come se avessero perso completamente il senno o come se fossero dei giovani e delle giovani scapestrate senza valori. Sempre intorno al 1978 nacque un movimento di libertà e per la democrazia, comunemente conosciuto come Movimento del Muro per la democrazia48 (本本本本本 xī dān mín zhǔ qiáng), questo accese un entusiasmo che durò ben poco tra i cinesi e tra i giovani intellettuali che cercavano di esporre i loro pensieri riguardo agli affari nazionali del paese dopo dieci anni di silenzio forzato e repressioni. Proprio in questo contesto, la popolazione, che in passato mai avrebbe osato avere contatti con un occidentale, tornava ad essere incuriosita e a cercare un dialogo con queste persone che vestivano strani abiti colorati e occhiali da sole. In alcune zone pubbliche era persino concesso ballare all’aperto con gli occidentali, come testimonia una foto del 1980 scattata al Palazzo d’Estate dal fotografo Li Xiaobin. Come possiamo notare dalla foto, alcuni giovani cinesi e occidentali sono intenti a ballare indossando abiti alla moda e occhiali da sole, mentre sullo sfondo si intravedono sguardi contrariati o curiosi ad assistere a quello che avrebbero definito tutti come uno strano spettacolo. 48 Si diffuse in Cina dall’autunno del 1978 alla fine del 1979. In sintonia con numerosi giornali e in parallelo a manifestazioni, che si estesero a Shanghai e ad altre città della Cina, sul muro, che si trovava nel quartiere Xidan, nel centro di Pechino, furono affissi numerosi cartelli ( 本 本 本 dazibao), che criticavano Mao Zedong, la Rivoluzione Culturale, la mancanza di democrazia o di rispetto per i diritti umani, il comportamento dell’amministrazione, il culto della personalità. I cartelli, sebbene in genere favorevoli a Deng Xiaoping, mossero rilievi anche a lui. Certi giudizi rigettavano esplicitamente il marxismo-leninismo e la dittatura del proletariato. Dopo un alternarsi di aperture del governo e di provvedimenti giudiziari e di polizia, nella primavera del 79 il muro della democrazia fu spostato senza tante cerimonie in un piccolo giardino pubblico nella parte occidentale di pechino e coloro che consideravano affiggervi un manifesto dovettero cominciare a registrare il proprio nome e indirizzo presso le autorità competenti. Nell’autunno successivo i capi del movimento del muro della democrazia erano già stati tutti arrestati processati e incarcerati. Non fu più possibile invocare pubblicamente una democrazia politica di tipo liberale o parlamentare, in quanto i quattro principi fondamentali formulati da Deng Xiaoping nel marzo 1979 (secondo i quali tutti gli atti pubblici dovevano sostenere il socialismo e la leadership del Partito) divennero legge. Tale discorso chiarì che la tolleranza del Piccolo timoniere verso la libertà di espressione politica era più strategica che sostanziale e che il Partito poteva far cessare con la forza assemblee o discorsi pubblici sconvenienti e non avrebbe esitato a farlo, se necessario (Cheek,2008: 67). La natura umana è ben nota a tutti e questo assaggio di libertà di espressione nella sfera politica, perché minacciato e proibito, divenne ancora più stimolante e attraente. Tra queste forme di libera espressione possiamo annoverare, ovviamente, anche l’abbigliamento; vestirsi in maniera differente, andare controcorrente dava alla persona un potere politico e lo rendeva un soggetto importante all’interno della società, un soggetto in grado di compiere delle scelte che potevano discostarsi dall’ideale e dall’uniformità che aveva caratterizzato la nazione cinese per decenni. L’abbigliamento cambiava e rifletteva i cambiamenti drastici nella società cinese. E dal momento che l’abbigliamento era la prima forma evidente e manifesta del cambiamento, anch’esso divenne oggetto di controversie e dibattiti accesi. (Wu, 2009: 10) Era una delle più libere forme di espressione che non fece altro che aumentare i dissapori; molti infatti erano convinti del fatto che l’abbigliamento e la preoccupazione per la propria immagine rappresentavano entrambi una distrazione dall’unico scopo possibile che era quello di costruire una forte nazione socialista. Coloro che invece difendevano la moda, ovviamente sostenevano che fosse più che legittimo volere migliorare la propria apparenza ed esprimere la propria personalità (China Chic, 1999: 65). Sempre in questo periodo iniziano a nascere le prime riviste di moda. Cheng Tianbao, il direttore di 本本本本 (fú zhuāng), che letteralmente vuol dire abbigliamento, affermava in uno dei suoi articoli che gli abiti stessi portano in loro un’ideologia, anche se era difficile in quell’era di confusione, capire quale fosse propriamente borghese, proletaria o semplicemente cinese. L’abbigliamento della nuova Cina doveva essere basato su speciali caratteristiche orientali e doveva avere la capacità di riflettere lo spirito del Figura 3.1 Giovani che indossano abiti alla moda e che ballano al Palazzo d'Estate di Pechino, 1980. Photo credit: Li Xiaobin in Wu, 2009:9 che però lo misero nei guai Una anziana signora del quartiere lo trascinò per la strada I suoi pantaloni strappati Così come il suo orgoglio La sua espressione colpevole50. (Ai Jing, Yanfen de gushi, 1995) A testimoniare le parole della canzone, c’è anche l’autrice del libro Chinese Fashion, from Mao to now (Wu, 2009: 11) che racconta come i pantaloni a vita alta e i jeans fecero un grande scalpore quando arrivarono sulle prime passerelle cinesi. Pantaloni attillati che accentuavano le forme del corpo femminile, stretti sulle curve e sulle cosce, e che poi scendevano a campana dal ginocchio in giù. Pantaloni che ovviamente davano un’immagine assai lontana da quella di frugalità che era andata per la maggiore nei decenni precedenti, e che dipingevano una donna eccentrica e sfacciata alla quale i cinesi non erano abituati. Inoltre i pantaloni a zampa di elefante venivano mal visti dalla maggioranza della popolazione anche per l’eccesso di stoffa con cui erano confezionati, un affronto alla maniera di pensare cinese, data la scarsa reperibilità dei materiali a causa del sistema di razionalizzazione dei tessuti che era ancora in vigore alla fine degli anni Settanta. Solo i giovani più audaci avevano il coraggio di indossarli, e ancora una volta, l’abbigliamento rappresentava una scelta politica. Davano ai giovani il potere, e il piacere, di osare contro un sistema che per anni li aveva relegati a semplici numeri vestiti in una tuta militare. Riflettevano un’immagine di ribellione (Wu, 2009: 11). 3.1.1 I jeans arrivano in Cina Come già detto, non appena i jeans fecero la loro comparsa sulle passerelle cinesi, crearono grande scalpore. E questo non solo perché, a detta dei più, erano indossati da ragazze e ragazzi dalla dubbia integrità morale. L’astio e la reticenza nei confronti dei jeans, infatti, erano perlopiù riconducibili al fatto che nascondevano e confondevano le distinzioni di genere. La chiusura dei jeans, quella degli uomini e quella delle donne, era in entrambi i casi frontale; questo andava “contro” le regole della moda cinese e in generale del passato poiché i pantaloni delle donne avevano sempre avuto una chiusura laterale sul fianco destro (Wu, 2009: 12). Nei primi anni Ottanta era dunque praticamente impossibile trovare un vero e proprio negozio cinese (ricordiamo che al tempo i negozi non esistevano, vi erano solo i 本本本本 bǎihuò dàlóu, ovvero i magazzini del popolo dove si potevano comprare merci di ogni genere, anche se ovviamente non erano molte le cose disponibili) che vendesse i jeans. Sempre nello stesso periodo ancora si risentiva il peso della Rivoluzione Culturale, il ripudio della liberalizzazione 50 Testo originale: 本本本本本本本本本本本本/本本本本本本本/本本本本本本本本本本/本本本本本本本本/ 本本本本本本本本本本/本本本本本本本本/本本本本本/本本本本本本本本本本 capitalista e la pulizia dell’inquinamento spirituale erano prioritari e in molti auspicavano di eliminare l’utilizzo dei jeans come capo di abbigliamento (Weiming, 1994: 10). Nel libro Take my life (本本本本 jiè wǒ yīshēng), lo scrittore Yu Qiuyu ci racconta di quando era un giovane professore presso un Istituto di teatro di Shanghai e tentò di mettere in atto una protesta invitando i professori ed i suoi studenti ad indossare i jeans. Tale dimostrazione zittì le critiche che decisero di chiamare questo gruppo di giovani “ 本本本本 ” (niúzǎi jiàoshòu), ovvero “i professori in jeans”51. Molti speravano che questa moda dei jeans sarebbe presto passata, mentre al contrario, iniziò a impazzare nelle strade delle più grandi città; ragazzi e ragazze tentavano di accaparrarsi un paio di jeans frugando tra gli abiti venduti dagli ambulanti di strada. Ovviamente la moda dei jeans non tramontò mai. Nei primi anni Ottanta era ancora pericoloso indossare abiti esageratamente alla moda. Questo anche perché agli occhi di molti cinesi, la moda stessa era discutibile da un punto di vista morale: vestirsi alla moda non rappresenta nulla di utile, né di pratico ed inoltre richiede tempo, energia e denaro, tutte condizioni non disponibili per i cinesi a quel tempo. (Wu, 2009:12). “L’entusiasmo per gli abiti alla moda, le acconciature e le scarpe, ci distraggono dal lavoro e dallo studio e non fanno che incidere in maniera negativa sulle nostre finanze”52, questo quanto si leggeva in un articolo di giornale pubblicato sul Xinmin Evening News nel marzo del 1982, e come questo tanti altri che per esempio condannavano l’uso dei tacchi così poco pratici e la strana e incivile moda del buco alle orecchie (Wu, 2009: 12). Il corpo femminile era sempre rimasto coperto (se escludiamo nella storia gli stravaganti abiti delle donne Tang, o il qipao), poiché nell’inconscio etnico dei cinesi il confucianesimo è sempre stato ben radicato e presente. Secondo Confucio infatti il corpo è frutto del sacrificio dei nostri genitori ed è dunque sacro, privato e assolutamente da non essere “condiviso” con il pubblico. Qualsiasi forma di nudità, nel corso della storia, in qualsiasi tipo di rappresentazione visiva, doveva essere bandita e considerata come pornografica; questo fino agli anni Ottanta. Un altro concetto da sempre stigmatizzato era quello dell’individualismo, tanto in politica, quanto nell’arte e nell’abbigliamento. Ideologicamente, culturalmente e storicamente la Cina è sempre stata uno Stato collettivista che ha sempre prediletto il gruppo all’individuo. Ma nel corso della transizione verso l’economia di mercato, pian piano questa propensione all’ individualismo iniziò ad acuirsi sempre di più anche tra i cinesi. L’espressione dell’individualismo mediante l’abbigliamento era ancora pericolosa, e molti cinesi non avevano ancora il coraggio di sfidare la sorte per indossare un paio di pantaloni attillati o una camicetta colorata. Tan Fuyun, presidentessa della Federazione delle donne di Shanghai sottolineava l’importanza dell’abbigliamento nel dipingere una nuova immagine della Cina. Tan riteneva fosse necessaria una guida corretta nel definire l’estetica delle consumatrici cinesi, invitandole inoltre a mantenere uno stile di vita civile, sano e scientifico. Tutti quei vestiti strambi, che 51 Yu Qiuyu 本本本, (2004)本本本本本本 jiè wǒ yīshēng “ Take my life”, 33. 52 Zhang, Z., (12 Marzo 1982), 本本本本本本本本 (Duō yīdiǎn zìránměi), “Un po’ più di bellezza naturale”, Xinmin Evening News. erano troppo attillati, trasparenti, corti o conturbanti dovevano essere “corretti”. Ovviamente questo non servì affatto a controllare le mode del momento che lentamente iniziarono a diffondersi, incuranti delle parole spese dai “detentori” della cultura (Edwards, 2008: 204). 3.2 Dopo la Rivoluzione culturale, la Rivoluzione della Moda. Gli anni Ottanta rappresentano uno spartiacque importante nella storia della Cina, dal punto di vista storico e anche da quello della moda. Come già affermato in precedenza la Cina stava affrontando la transizione verso un’economia di mercato e la politica di riforma e di apertura sta esponendo la Cina al mondo esterno. I primi stilisti occidentali arrivano in Cina, i primi stilisti cinesi iniziano a formarsi. Per quanto riguarda la prima affermazione, è interessante fare un breve cenno alla storia di Pierre Cardin, che nel 1976 fu invitato in Cina a visitare una mostra sull’artigianato cinese: rimase così affascinato dalla bellezza della Cina che non con poche difficoltà riuscì a tornarvi nel 1979, dove per la prima volta nella storia della Cina, si tenne una sfilata di moda presso il Beijing Ethnic Cultural Palace. Figura 3.3 La prima sfilata di moda della storia in Cina, 1979. Photo credit: 杜 杜 杜 杜 杜 80 杜 杜 杜 杜 , http://www.jianxuanyuan.com/index.php/2012/1194.html Per quanto pioniere della moda e lungimirante, probabilmente neanche Pierre Cardin poteva immaginare quello che sarebbe diventata la Cina ai giorni nostri. In un’intervista pubblicata sull’ “English East Day”, Cardin afferma che fu veramente dura organizzare una sfilata di
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