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[TESI]: la tutela internazionale dei diritti umani: il ruolo del giudice nazionale, Tesi di laurea di Diritti dell'Uomo

analisi comparata delle diverse esperienze giudiziarie registrate in italia e regno unito: lo human rights act 1998 e legge cost. 3/2001

Tipologia: Tesi di laurea

2013/2014

Caricato il 02/07/2014

Stefano.Trevisan
Stefano.Trevisan 🇮🇹

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Scarica [TESI]: la tutela internazionale dei diritti umani: il ruolo del giudice nazionale e più Tesi di laurea in PDF di Diritti dell'Uomo solo su Docsity! 3 6. La “vote for prisoners issue” e il diritto al rispetto della vita familiare dei cittadini extracomunitari raggiunti da un provvedimento di espulsione: gli ultimi recentissimi (e contestati) orientamenti giurisprudenziali in tema di diritti umani ..................................... 220 3. Analisi degli orientamenti giurisprudenziali riportati e considerazioni conclusive ............... 235 Bibliografia ................................................................................................................................ 254 4 5 Introduzione E’ noto che “la Convenzione europea dei diritti dell’uomo è l’istituzione internazionale più moderna, avanzata e incisiva in materia di protezione giudiziaria dei diritti umani”1. D’altronde, consapevoli e persuasi dei molti limiti insiti nella vincolatività giuridica del contemporaneo diritto internazionale2, riteniamo di condividere la tesi di chi sostiene che i diritti umani sono “in ultima istanza, un problema essenzialmente nazionale, non internazionale” 3. Sulla base di queste “pregiudiziali convinzioni” si è eletto quale scopo precipuo della presente tesi quello di analizzare alcuni particolari orientamenti giurisprudenziali registrati dagli anni ’70 del Novecento sino ai giorni nostri, in Italia e nel Regno Unito, in relazione all’applicazione interna delle norme inerenti i diritti umani. La nostra analisi si è dunque concentrata sui diritti e le libertà contenute nella Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo (in seguito CEDU), come interpretati e applicati (ma talvolta anche negati) nella pratica forense dei due citati Stati membri del Consiglio d’Europa. E’ quindi opportuno esplicitare in questa introduzione i motivi d’interesse che ci hanno suggerito il suddetto percorso di ricerca, nonché alcune annotazioni metodologiche che caratterizzano il presente lavoro. In prim’ordine, si è eletta la CEDU quale riferimento normativo principale dei nostri studi per diverse e fondamentale motivazioni. Si tenga infatti conto che il sistema convenzionale, istituito a Roma il 4 novembre 1950, vanta più di un lustro di vigenza, circostanza che consente allo studioso di valutare i molti elementi di cambiamento intervenuti durante il suddetto periodo storico nell’ambito della tutela (transnazionale) dei diritti umani. D’altronde, non disconoscendo la chiara funzione nomofilattica svolta dalla Corte di Strasburgo, qui si evidenzia 1 Cfr. CASSESE A., L’esperienza del male, il Mulino: Bologna, 2011, pag. 93. 2 Cfr. inter alios, CONFORTI B., Diritto Internazionale, VII edizione, Editoriale Scientifica: Napoli, 2009, pag. 342: “La normale reazione contro l’illecito è, dunque, l’autotutela, cioè il farsi giustizia da sé. Ciò che nel diritto interno è un fatto eccezionale, ammesso solo entro certi limiti, in certi campi, ed in presenza di circostanze eccezionali, è invece tutt’oggi la regola nell’ambito del diritto internazionale, dove manca un sistema accentrato di garanzia dell’attuazione delle norme. […] Resta insomma definitivamente confermata l’opinione che abbiamo tante volte espressa circa la scarsa efficienza e credibilità dei mezzi internazionali di attuazione coattiva del diritto, mezi in cui si riflette la legge del più forte, e circa la necessità che l’illecito venga evitato attravesi gli strumenti offerti dall’ordinamento dello Stato che avrebbe interesse a violare una data norma internazionale”. 3 DONNELLY J., Universal human rights in theory and practice, Cornell University Press, 1989, pag. 162. Si veda in tal senso la non distinta opinione affermata da altri autorevoli studiosi internazionalisti riportata in nota n.5. 8 9 La Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e il ruolo giudice nazionale italiano 1.“Il diritto internazionale nei giudizi interni”: l’opera del Anzilotti quale imprescindibile punto di partenza del nostro percorso di ricerca Muovendo i primi passi della nostra riflessione, nella ferma convinzione che il “tasso di internazionalismo di un ordinamento derivi in misura notevole dall’atteggiamento della sua giurisprudenza”5, non possiamo non inquadrare la problematica in esame - il ruolo del giudice nazionale nella moderna tutela dei Diritti Umani - all’interno di un più 5 Così CANNIZZARO E., Corso di Diritto Internazionale, Milano: Giuffrè ,2011, pag. 455. Cfr. anche CONFORTI B., op. cit., pag. 8: “A nostro avviso una soluzione al problema dell’obbligatorietà, o meglio della capacità a ricevere concreta e stabile attuazione, del diritto internazionale non può non passare attraverso gli operatori giuridici interni (…) in primo luogo i giudici. (…) Così stando le cose, l’osservanza del diritto internazionale riposa sulla volontà degli operatori giuridici interni diretta ad utilizzare, fino al limite massimo di utilizzabilità, gli strumenti che lo stesso diritto statale offre a garanzia di siffatta osservanza, e quindi di far prevalere per questa via le istanza internazionalistiche su quelle nazionalistiche”. Molti eccelsi internazionalisti italiani hanno posto l’accento su tale peculiare aspetto del diritto internazionale pubblico, che altrimenti rimarrebbe sottovalutato. Lo stesso ANZILLOTTI D., nel suo Il Diritto Internazionale nei Giudizi Interni, Bologna: Ditta N. Zanichelli 1905, pag. 1 osservava come “la funzione degli organi giudiziari interni nell’applicare il diritto internazionale rappresenta proprio, se così posso esprimermi, il mezzo con cui quotidianamente si esplica l’efficacia del diritto internazionale fuori del campo suo proprio, in contatto immediato con le altri parti della giurisprudenza”. Annotazione presente anche in CONDERELLI L., Il giudice italiano e i trattati internazionali, CEDAM: Padova, 1974, in introduzione: “Ero e sono intimamente convinto, peraltro, che studiare l’adattamento non nella prospettiva del legislatore bensì in quella del giudice, dia meglio conto di come il diritto internazionale opera nell’ordinamento in concreto, e cioè nel processo”. Per tali ragioni ci risulta intellettualmente impossibile non condividere la teoria sostenuta dal RASPADORI F. in I trattati internazionali sui diritti umani e il giudice italiano, CEDAM: Padova, 2000, secondo il quale, pag. 3: “L’azione a garanzia dei diritti umani, tuttavia, non può limitarsi al funzionamento di meccanismi internazionali di controllo, taluni dei quali non sono dotati di poteri sufficientemente incisivi. Nell’attuale Comunità Internazionale infatti, l’effettiva attuazione del diritto internazionale, specialmente in materia di diritti fondamentali dell’individuo, resta affidata agli organi interni dello Stato. (…) Tali norme, infatti, hanno per definizione come beneficiari i soggetti interni, e quindi vi è un’alta probabibilità che l’ordinamento statale consenta agli organi giurisdizionali di realizzare direttamente gli obiettivi fissati dal diritto pattizio”. 10 ampio orizzonte concettuale: quello cioè dell’interna esecuzione dei trattati internazionali. A tal fine prenderemo in esame come primo riferimento della nostra ricerca un’opera dottrinale precedente alla promulgazione della Costituzione italiana del 1947, e cioè il celebre testo del Anzilotti “Il diritto internazionale nei giudizi interni”6. Confidiamo così di evidenziare quale paradigma al tempo giuridico e politico influenzò l’attività dei Padri Costituenti nel delineare la disciplina costituzionale relativa all’adattamento al diritto internazionale particolare. Evidentemente, la tematica ora affrontata sarà valutata in relazione alla peculiare prospettiva da noi prescelta: quella cioè del giudice nazionale. Preliminarmente, ci sia consentito svolgere una considerazione di ordine terminologico: si definisce “adattamento” di un ordinamento rispetto ad un altro l’immissione e l’applicazione di norme giuridiche non nazionali all’interno del proprio sistema giuridico e il loro coordinamento con le norme di quest’ultimo7. Il termine “adattamento” sottende quindi un duplice scopo: da una parte modulare il diritto positivo dell’ordinamento interno in funzione del risultato richiesto dal diritto internazionale; dall’altra di “adattare” il contenuto originario della norma internazionale ai soggetti (anche privati) destinatari della stessa.8 Tale definizione risulta importante più per quanto presuppone che per quanto afferma: presuppone infatti un orizzonte dogmatico di tipo dualistico per quanto concerne i rapporti tra ordinamento interno e comunità internazionale, potendo gli atti della seconda penetrare nell’ambito dell’ordinamento giuridico nazionale solo per mezzo di una volontà espressa dal legislatore nazionale. Ebbene, uno dei massimi sostenitori di tale orizzonte al tempo giuridico e ideologico nella dottrina internazionalistica dei primi del ‘900 fu proprio l’autorevole 6 ANZILLOTTI D., op. cit. 7 COSÌ SINAGRA A. e BARGIACCHI P., Lezioni di Diritto Internazionale Pubblico, Milano: Giuffrè, 2009, pag. 223. Come sottolineano gli Autori, si dà nella prassi anche l’ipotesi in cui “sia la struttura collettiva della Comunità ad adattarsi a quella dello Stato”. Qui per la problematica affrontata faremo riferimento all’ipotesi classica di attuazione delle norme giuridiche internazionali nell’ordinamento interno. Abbiamo preferito tale terminologia rispetto alla diversa espressione in voga nella dottrina italiana, secondo la quale le norme internazionali verrebbero “recepite” nell’ordinamento nazionale; questo perché, come sottolinea HUNT M. in Using Human Rights Law in English Courts, 2001, pag. 43: “the language of reception may, however, fail to acknowledge the mutuality of the evolutionary dynamic”. 8 SALERNO F., alla voce “Adattamento (dir. int.)” in www.treccani.it , 2013. 13 Anzilotti fu tra i fondatori della scuola positivista italiana di diritto internazionale, e, senza poter dimenticare i contemporanei Triepel e Dicey, è considerato uno dei più importanti studiosi internazionalisti europei di quell’epoca. Ponendosi agli antipodi rispetto all’impostazione monista, il Anzilloti ritiene che l’esperienza giuridica sia il prodotto oggettivo di una volontà, storicamente e culturalmente individuata, di regolare i rapporti fra i soggetti appartenenti ad una determinata comunità. Sottratto quindi al Diritto il suo valore ontologicamente necessario e valido in quanto naturale e universale, esso dimostra il suo carattere di obbligatorietà rispetto ai consociati quale espressione della volontà formalmente competente a determinarne il contenuto: “un principio giuridico non esiste se non in quanto è riconosciuto dalla volontà che pone formalmente il diritto14”. Si rigettano dunque le tesi proprie del razionalismo giuridico, in quanto si riconosce che queste ultime rappresentavano l’essere umano come entità intellettuale sempre uguale a se stessa, astratta e separata dall’attinenza col mondo dei fatti, dal carattere tendenzialmente individualistico, capace solo di coesistere con gli altri soggetti. Il diritto è quindi qui riconosciuto nel suo particolarismo, quale “fatto sociale”, frutto di una realtà concreta, storicamente e politicamente (auto)determinata15. Tali considerazioni hanno evidentemente delle attivamente per circa venti anni. Fu membro del Consiglio del contenzioso diplomatico del Ministero degli Affari Esteri, fino alla sua riforma, e consigliere del ministro o membro di consigli temporanei in molte occasioni (casi "Carthage", "Manouba" e "Tavignano") nel 1912-13 presso la Corte permanente di arbitrato. Nel 1919 fu consigliere legale e delegato tecnico del governo italiano alla Conferenza di pace di Parigi. Dal 1916 fu sottosegretario generale della Società delle Nazioni e in tale veste partecipò nel 1920 ai lavori preparatori dello statuto della Corte Permanente di Giustizia Internazionale. Il 14 settembre 1921, fu giudice presso tale Corte e ne tenne la presidenza tra il 1928 e il 1930; nel 1930 fu rieletto per un secondo mandato di nove anni. Nel caso del Vapore Wimbledon passò alla storia della Corte come l'unico giudice ad aver votato contro un ricorso presentato dallo Stato che l'aveva designato come componente del collegio giurisdizionale. Fu membro internazionale dell'Accademia dei Lincei nel campo delle scienze morali (dal 1926) e socio della Reale Accademia d'Italia dal 27 settembre 1929. Fu inoltre membro associato dell' Institut de droit international dal 1908, di cui ottenne la piena affiliazione nel 1921. Scrisse la sua ultima fatica accademica nel 1932 con un lavoro sui limiti della giurisdizione italiana nei confronti delle compagnie straniere. Durante la Seconda guerra mondiale, egli aprì le porte della sua villa a molti rifugiati e alle brigate partigiane operanti nella zona. Morì nell'estate del 1950. Tra le sue opere si ricordano, oltre a quella in analisi: La codificazione del diritto internazionale privato (1894); Studi critici del diritto internazionale privato (1898); Teoria generale della responsabilità dello stato nel diritto internazionale (1902); e Corso di diritto internazionale (1912; 4a ediz., 1955). 14 ANZILOTTI D., op. cit. pag. 38. 15 Cfr. QUADRI R., op. cit, pag.43: “Il pluralismo giuridico presuppone il relativismo delle concezioni “positiviste”. A partire dal momento in cui il diritto è concepito come volontà dello Stato (diritto statale) o degli stati (diritto internazionale), doveva necessariamente porsi il problema del rapporto tra l’una e l’altra volontà. Dapprima gli stati cominciarono a rivendicare la loro indipendenza reciproca, la loro 14 ricadute rilevanti per quanto riguarda la scienza giuridica internazionalista: “il diritto internazionale si risolverebbe in una vuota astrazione, o semplicemente in un diritto pubblico esterno dello stato, qualora non si ammettesse che esso ha la sua fonte immediata nella volontà collettiva degli stati, che si estrinseca negli accordi espliciti e nelle consuetudini, con lo scopo di stabilire regole obbligatorie ai rapporti loro, ossia ai rapporti di enti coordinati ed autonomi”16. Ecco qui affermato il dogma della volontà normativa o dogma della volontà dello Stato originariamente creativa del diritto. Da essa ne deriva una fondamentale e duplice distinzione che intercorre fra diritto interno e diritto internazionale: in primo luogo, si afferma che tali norme giuridiche si distinguono dal punto di vista formale, in quanto sorgono da differenti fonti giuridiche: le prime derivano dalla volontà “appartenente ad uno stato”, mentre le seconde derivano come ricordato dalla volontà collettiva di più stati; in secondo luogo esse differirebbero anche da un diverso profilo sostanziale, in quanto le norme giuridiche interne “regolano rapporti che si svolgono nel seno di società giuridicamente organizzate, e perciò contengono un’idea di preminenza e di subordinazione, un imperium della collettività sopra i consociati”. Imperium che il l’Anzilotti denuncia non esservi nella comunità internazionale, essendo essa “priva di organizzazione”. E veniamo dunque al nucleo di maggiore interesse per i presenti fini dell’opera in analisi: ovvero quello relativo all’applicazione giudiziaria dei trattati internazionali. Data la duplice distinzione di ordine sostanziale e formale fra norme interne e internazionali l’Autore ritiene che, per la contraddizione che nol consente, fra di esse seppur possono darsi analogie materiali o di contenuto, tuttavia è impossibile che queste coincidano da un punto di vista formale. E allora: se “le norme di diritto internazionale regolano soltanto i rapporti fra gli stati, e soltanto a questi conferiscono diritti e doveri, è impossibile che le controversie regolate dal diritto internazionale vengano mai dinanzi alle autorità giudiziarie interne in questa loro qualità, e si può per conseguenza stabilire come principio generale che queste autorità non pronunzino mai sentenze il cui fondamento immediato sia nell’applicazione di una regola di diritto sovranità, la loro eguaglianza. Il pluralismo degli ordinamenti giuridici doveva così imporsi con l’idea di Bodin che “les Etats ne dependent de personne sur la terre””. 16 Ibidem, pag. 41. 15 internazionale17”. Ecco dunque uno dei passaggi di maggiore chiarezza della riflessione qui riportata: l’Autore risolve così un’annosa disputa, affermando l’inapplicabilità dei diritto internazionale alle questioni sottoposte in via principale o diretta agli organi giudiziari interni. A nulla varrebbe obiettare infatti che vi sono (oggi come allora) numerose regole di diritto interno che si trovano in indissolubile rapporto con le norme internazionalistiche. Se è vero infatti che, come risulta pacifico, numerose disposizioni di legge sono la “conseguenza dei diritti e dei doveri internazionali dello stato”, ovvero “adempiono una funzione che interessa la vita internazionale18”, ciò nonostante si ricorda come i due atti normativi (uno internazionale e uno interno) risultano solo apparentemente riuniti in uno solo, dovendosi riconoscere che “qualunque sia, però, il modo onde il diritto internazionale impone allo stato di emanare norme giuridiche, rimane sempre indubitabilmente vero che altro è il dovere di emanarle, altro il fatto della loro emanazione (…); per conseguenza le norme così emanate hanno sempre il valore formale di diritto interno19”. Che dire poi dell’ordine di esecuzione, la disposizione legislativa che (anche in quell’epoca) attua un rinvio materiale ad uno specifico trattato internazionale? Ebbene, secondo l’autore anche in questo caso non vi sarebbe un’introduzione diretta delle norme internazionali nell’ordinamento interno, bensì tramite tale rinvio verrebbero a essere emanate tutte le norme giuridiche (interne) che il trattato richiede per trovare corretta attuazione20. Ancora una volta viene dunque ribadito che qualora sorga una controversia in relazione ad una materia disciplinata da un trattato internazionale che ha trovato attuazione mediante il suddetto rinvio materiale, “le azioni giudiziarie, apparentemente fondate sui trattati internazionali, sono in realtà fondate su norme giuridiche interne emanate in esecuzione del trattato: onde, anche 17 ANZILOTTI D., op. cit., pag 45. 18 ANZILOTTI D., op. cit., pag. 57 19 ANZILOTTI D., op. cit., pag. 66 20 Ibidem, pag. 115: “Invece di ordinare l’esecuzione del trattato, frase inesatta anche questa perché gli obblighi risultanti da un trattato non possono essere adempiuti se non da chi ne è il subietto, è lo stato medesimo che l’eseguisce, o a dir meglio, che comincia ad eseguirlo, compiendo un atto, forse il principale, di questa esecuzione.” 18 modernità del pensiero del Anzilotti, il quale già nel 1905 coglie a pieno alcuni profili al tempo giuridici e politici inerenti all’esecuzione interna del diritto internazionale pattizio: l’insigne giurista infatti comprende che, essendo tenuti quali “subietti dello stato” sia l’organo legislativo che il giudiziario alla attuazione del diritto internazionale particolare, si daranno nella prassi applicativa “frequenti o continui contatti” fra tali organi, potendo di fatto l’uno interferire e intromettersi nello spazio di manovra istituzionale dell’altro. Quale premonizione, se valutata nel contesto applicativo contemporaneo dei Diritti Umani! Per tali ragioni, risulta opportuno qui approfondire maggiormente la questione: l’Autore infatti non solo coglie quelli che sono i profili maggiormente problematici dell’esecuzione interna dei trattati internazionali, ma tenta persino di rintracciare delle soluzioni prettamente giuridiche alla questione, traendo spunto dalla normativa giuspubblicistica. Infatti, questi ricorda che “i due criteri fondamentali che nello stato moderno determinano i rapporti tra la funzione legislativa e la giurisdizionale, cioè la dipendenza del giudice dalla legge e la sua piena libertà nell’interpretarla ed applicarla, valgono dunque senz’altro a definire la posizione del giudice rispetto alle norme giuridiche interne emanate in conseguenza di un diritto o di un dovere internazionale dello stato, e più generalmente rispetto a tutte le norme interne che riguardano fatti o rapporti interessanti le relazioni internazionali24”. E dunque: dalla prima regola l’Autore deriva il principio per cui una legislazione nazionale contraria al diritto internazionale risulta ciò nonostante obbligatoria e vincolante per tutti i suoi destinatari. Dovendosi infatti riconoscere il “fondamentale principio dello stato moderno” secondo il quale la funzione giurisdizionale è “dipendente al diritto obiettivo”, e del pari non potendo negare che ogni contraddizione fra norme giuridiche internazionali e interne si pone “al di fuori dell’ordinamento giuridico interno”, in quanto “la differenza cade su due norme appartenenti a due cerchie giuridiche distinte”, non si può che concludere che “il giudice non può mai rifiutarsi di applicare una norma giuridica interna, emanata da chi ne aveva il potere, per quanto manifestamente contraria al diritto internazionale25”. 24 Ibidem, pag. 199. 25 Ibidem, pag. 210. 19 Il secondo criterio fondamentale che regola l’attività giudiziaria è però la libertà interpretativa che vanta il giudice in relazione all’applicazione della legge; da questo principio il Anzilotti ne deriva un importantissimo corollario, determinante ai nostri fini: è “ufficio del giudice determinare se e come la contrarietà [tra diritto internazionale e interno] esiste, stabilire se, dando alla legge il senso e l’effetto che la pongono in contrasto col diritto internazionale, si ottiene veramente il giusto significato di lei”. In tal senso l’autore conclude affermando che “è certamente ragionevole presumere che lo stato voglia ed agisca in modo conforme a ciò che gli è imposto da’ sui doveri internazionali. Si può dunque stabilire come principio generale, che il giudice debba cercare valendosi a tale uopo della conoscenza che egli ha del diritto internazionale, di dare alla legge il significato che la mette in armonia con quei doveri, e venire nella contraria opinione soltanto quando non sia altrimenti possibile una corretta interpretazione della norma26”. La denuncia, l’elaborazione del contenuto e la legittimità costituzionale di quello che i giuristi contemporanei definiscono la “presunzione di conformità al diritto internazionale” si deve pertanto all’opera del Anzilotti, il quale è in grado di delineare un criterio ermeneutico i cui echi si coglieranno in tutta la giurisprudenza successiva in tema di diritto internazionale pattizio, la cui portata come vedremo assume un’importanza fondamentale per quanto concerne la tutela dei diritti e le libertà convenzionali. Si può addirittura ritenere che il giurista toscano abbia per primo formulato nel contesto dottrinale italiano il contenuto tecnico di tale metodo argomentativo, in quanto egli stesso riconosce di averlo dedotto da una serie di 26 Ibidem, pag. 223. Si legga una esplicitazione del criterio ermeneutico in oggetto a pag. 225, ove si afferma che “Il giudice deve certamente applicare il diritto interno contrario al diritto internazionale; ed in ciò si manifesta la sua piena dipendenza dalla legge: ma perché questo principio trovi applicazione occorre che sia dimostrato il contrasto fra la norma giuridica interna ed il diritto internazionale; la qual cosa rientra indubbiamente nelle attribuzioni del giudice. E mentre questo non può a meno di applicare la legge contraria al diritto internazionale quando gli risulta che quello, e non altro, ne è il vero significato, può e deve invece tener conto del rapporto in cui si trova col diritto internazionale allorché ne ricerca la giusta interpretazione, d’una legge interessante i rapporti internazionali non abbia concorso la considerazione dei diritti e dei doveri dello stato relativi ai detti rapporti. Un’interpretazione che prescindesse da questa ricerca, che, in particolare, non tenesse conto della presumibile volontà dello stato di non agire in modo contrario ai doveri cha ha assunto verso gli altri stati, sarebbe sempre imperfetta e spesso addirittura erronea. Rettamente inteso ed applicato, questo criterio, che trova la sua giustificazione in considerazione d’una ragionevolezza evidente, riduce nei più stretti limiti i pericolo e gl’inconvenienti, che posson derivare dall’applicazione giudiziaria del diritto interno interessante le relazioni internazionali”. 20 sentenze emanate a fine secolo da parte del Bundesgericht svizzero27, mentre la sola Cassazione italiana ha dimostrato in unico procedimento del 1880 di fare riferimento a tale importante criterio28. In conclusione: nell’opera qui esaminata del 1905 ritroviamo le stesse problematiche inerenti all’applicazione interna dei trattati internazionali relative alla prassi giudiziaria repubblicana, in special modo quella relativa ai diritti umani internazionalmente riconosciuti nell’ambito del Consiglio d’Europa. Partendo infatti dai rigidi dogmi conosciuti alla scuola positivista del diritto, secondo i quali il diritto internazionale e il diritto interno giacciono su piani giuridici radicalmente distinti, e solo mediante un atto volitivo del secondo il primo potrà penetrare nell’ordinamento giuridico nazionale29, ciò nonostante lo sviluppo argomentativo di tali principi (questi ultimi fondati su solide premesse giusfilosofiche, come precedentemente osservato) dimostra l’ammissibilità teorica e pratica di diversi correttivi e temperamenti, che ridimensionano quindi la tipica intransigenza che caratterizza le posizioni dualiste. Il giudice dovrà quindi conoscere e applicare il diritto internazionale ogni qualvolta esso risulti processualmente rilevante in giudizio, sotto le vesti di questione incidentale o pregiudiziale; anche qualora il legislatore emani una legge posteriore di contenuto contrario con il contenuto di un trattato internazionale ratificato, anche in tal caso il 27 Bundesgericht, 17 giugno 1892 (Bohm’s Zeitsch., vol. II, pag. 505 e ss.); 8 settembre 1892 (ibid. pag. 624); 17 marzo 1893 (ibid. vol III, pag. 320 e ss); 2 marzo 1895 (ibid. vol. V, pag. 202 e ss.); 15 dicembre 1896 (ibid., vol III, pag 202); 21 ottobre 1896 (ibid. pag. 357); 19 giugno 1900 (Journ. du. Dr. intern. Pr. Vol XXVII, pag. 845). 28 Corte suprema, anno V, 1880, pag. 636 e ss. La questione in diritto affrontata dalla Cassazione ci pare particolarmente interessante, in quanto affronta una tematica poi discussa in casi analoghi dalla suprema Corte in relazione alle norme G.A.T.T. Il caso è il seguente: il trattato di commercio italo- francese del 1863, applicabile anche all’Inghilterra in virtù della clausola della nazione più favorita, prevedeva la tassazione alla dogana non superiore a L. 4 il quintale per determinati prodotti chimici, designati questi ultimi in modo specifico o altrimenti contemplati in modo generico nella categoria di “prodotti chimici innominati”. La legge italiana del 30 maggio 1878 introduceva quindi una nuova tariffa doganale di L. 20 al quintale per l’importazione di magnesia calcinata. Introdotta da un commerciante inglese nel mercato nazionale una certa quantità di tale ultimo prodotto chimico, sorse una questione fra questi e la finanza su quale fosse la tariffa applicabile. La cassazione respinse le argomentazioni dei funzionari della dogana, ritenendo che la normativa interna doveva essere interpretata restrittivamente in quanto altrimenti derogatoria degli impegni internazionali assunti dallo stato italiano; non potendosi ammettere tale precisa intenzione, la nuova tariffa del 1878 fu vincolata al testo normativo del trattato internazionale precedentemente stipulato. 29 Si legga in tal senso il saggio dello stesso autore del 1910 “Alcune considerazioni sull’approvazione parlamentare dei trattati la cui esecuzione comporta provvedimenti di natura legislativa” in cui si afferma a pag. 599 che “La nostra coscienza giuridica si ribella all’idea che le leggi vigenti possano essere modificate, i diritti subiettivi tolti o menomati, senza il concorso diretto delle camere” 23 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo: si ritenne infatti in via principale che tale proposta avrebbe determinato una “vera e propria subordinazione dell’ordinamento interno a quello internazionale; in funzione cioè di una norma costituzionale si [sarebbe creato] una posizione di soggezione di un ordinamento rispetto ad un altro” 33. Un effetto di subordinazione intollerabile per la maggioranza della Sottocommissione istituita presso il Ministero per la Costituente, tanto più nell’ipotesi in cui - si sosteneva - l’altro Stato contraente un trattato internazionale non ne desse esecuzione, venendosi così a creare “una situazione aberrante nella quale un trattato viene eseguito e produce perciò immediatamente i suoi effetti solo presso un contraente”34. La soluzione risultante dai lavori per quanto concerne l’apertura dell’ordinamento nazionale al diritto internazionale fu allora in linea con la maggioranza delle Costituzioni democratiche contemporanee: si decise infatti di differenziare le condizioni e le modalità di immissione e di operatività nel diritto interno del iritto internazionale generale e pattizio35. Al termine di questa succinta esposizione del dibatto svoltosi in seno al Ministero per la Costituente ci sembra doveroso sottolineare un aspetto non marginale: nella Carta costituente oggi non è dato trovare un’ulteriore disposizione essenziale della citata proposta, ovvero sia che eventuali contrasti tra norme attuative di trattati internazionali e successive disposizioni di legge fossero regolati non in base al principio 33 Cfr. Relazione su “I rapporti internazionali dello Stato nella future Costituzione italiana”, presentata dai Professori Ago e Morelli e messa in discussione il 12 febbraio 1946 nella prima Sottocommissione “Problemi costituzionali” della Commissione per studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato, istituita presso il Ministero per la Costituente, in Riv. Dir. Intern., 1977, pag. 344. 34 Ibidem, pag. 344. Le contestazioni non si limitarono a queste argomentazioni, infatti fu altresì affermato che “l’adattamento di norme derivanti da trattati non può sempre avvenire automaticamente poiché quando esse contengono solo enunciazioni vaghe è richiesta necessariamente l’emanazione di atti legislativi per la loro applicazione pratica”. Il tema qui affrontato fu evidentemente quello del possibile carattere non self-executing delle norme contenute nei trattati internazionali, tema che verrà ripreso nella suoi profili di attualità nel proseguo. 35 A titolo esemplificativo, si ricorda che la scelta prevista dalla Costituzione italiana ritrova molte similitudini in altre carte costituenti: la Cost. tedesca (art.25) e quella portoghese (art.8) prescrivono l’adattamento automatico del diritto interno relativamente al diritto internazionale generale, mentre la Cost. austriaca (art.9) e quella greca (art.28) prevedono l’incorporazione automatica limitata alle sole norme di diritto internazionale generalmente riconosciute. Soluzione quest’ultima adottata dalle molte nuove Costituzioni dell’Europa centro-orientale, quali l’Estonia (art.3), l’Ungheria (art.7) e la Georgia (art.6). Per uno studio sulle differenti soluzioni costituzionali adottate negli stati europei si veda GERBASI G. e LOPRIENO D., L’apertura del diritto costituzionale al diritto internazionale dei diritti umani negli ordinamenti dell’Europa continentale, in Dir. Pubb. e Comparato ed Europeo, 2002, II, pag.1092. 24 contenuto nell’articolo 15 delle Preleggi36, bensì garantendo la prevalenza delle prime rispetto alle seconde in virtù di una particolare “resistenza all’abrogazione” della normativa attuativa di un accordo internazionale. In relazione all’adattamento del diritto interno al diritto internazionale pattizio si accolsero dunque soluzioni più spiccatamente dualistiche, frutto in particolare dei suggerimenti elaborati dal Perassi37 e, come abbiamo avuto modo di evidenziare, del Anzilotti. Senza che se ne possa ora trattare con la dovuta estensione vale la pena richiamare le suddette disposizioni costituzionali, in quanto queste saranno oggetto di studio per quanto concerne l’interpretazione successiva promossa dalla Corte costituzionale in tema di Diritti Umani. L’articolo 10 comma primo prevede che “L'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”. Secondo una felice espressione poi divenuta di uso comune, la disposizione richiamata introdurrebbe un “trasformatore permanente” del diritto internazionale generale in diritto nazionale, producendo “effetti interni in relazione al sorgere, al modificarsi e all’estinguersi di norme consuetudinarie”38. Qui non ci soffermeremo nell’interpretazione di questa disposizione internazionalistica, la quale esula il nostro spettro d’indagine. Basti ricordare però che quella particolare resistenza all’abrogazione attribuita nella relazione Ago e Morelli alle norme di attuazione dei trattati internazionali fu poi accolta solo al comma secondo dell’articolo 10, secondo il quale “La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali”. Troviamo invece all’articolo 11 della Carta Costituzionale un maggiore discostamento dal modello dualista tradizionale, là ove si consentono, in condizioni di parità con altri Stati, limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni. La cosiddetta “istanza pacifista” sostenuta dalla relazione Ago e 36 Preleggi, Art. 15 “Abrogazione delle leggi”: “Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore”. 37 Cfr. PERASSI T., La Costituzione italiana e l’ordinamento internazionale, Milano: Giuffrè, 1952. 38 CANNIZZARO E., op. cit., pag. 450. 25 Morelli ha quindi qui trovato cittadinanza nel nostro sistema costituzionale, determinando un coordinamento tra diritto internazionale e diritto interno nei termini “propri della dottrina istituzionale, in quanto le limitazioni di sovranità dello stato italiano conseguono dal modo in cui la realtà ordinatoria auspicata dall’articolo 11 si storicizza nell’ordinamento internazionale specie nella forma di una organizzazione internazionale”39. I padri fondatori immaginarono quindi che l’Italia avrebbe partecipato attivamente alla creazione e allo sviluppo di nuove organizzazioni internazionali, (con chiaro riferimento a quelle universali piuttosto che regionali), assicurando così che i risultati normativi ottenuti in tali sedi, finalizzate alla pace internazionale, potessero trovare applicazione diretta nell’ordinamento giuridico nazionale. In realtà, come poi si vedrà, la Corte Costituzionale ha sempre escluso che si possa far ricorso all’articolo 11 Cost. per quanto riguarda il trattato GATT, il trattato NATO e - ciò che qui più interessa - per la Convenzione europea dei diritti umani. Questo breve excursus sulle disposizioni internazionalistiche inserite nella Costituzione come originariamente promulgata nel 1947 ci è utile per svolgere alcune preliminari considerazioni. In primo luogo, come osservava già Cassese40 appare di cristallina evidenza come l’assenza di specifiche disposizioni relative al diritto internazionale pattizio abbia costretto le autorità giudiziarie italiane repubblicane ad adottare soluzioni interpretative spesso molto criticate sul piano logico-argomentativo, perseguendo il fine malcelato di garantire quella apertura internazionalistica che il costituente non aveva codificato nella Grundnorm41. Questo a maggior ragione per quanto concerne il nostro oggetto di indagine, ovvero le problematiche inerenti l’applicazione giudiziaria della Convenzione europea. 39 SALERNO F., Diritto Internazionale: principi e norme, Padova: Cedam, 2008, pag. 332. L’autore ricorda così la “dottrina istituzionale” proposta in quegli anni da Santi Romano, al quale i padri fondatori fecero appello. 40 CASSESE A., op. cit., pag. 54. 41 Se è pur vero infatti che l’art. 80 Cost. prevede che Art. 80 “Le Camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati internazionali che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, o importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di leggi” e che il successivo art. 87 sancisce, fra le prerogative del Presidente della Repubblica, quella di “ratifica[re] i trattati internazionali, previa, quando occorra, l'autorizzazione delle Camere”, ciò nonostante non risulta (almeno fino al 2001) nella Carta Costituente disciplinata l’ipotesi in cui ad una legge di esecuzione di un trattato internazionale succeda una posteriore disposizione legislativa, di contenuto ad essa contraria. 28 di esecuzione, esso risulti “non sufficiente perché le disposizioni di un trattato internazionale possano essere recepite nell’ordinamento interno49”. Stiamo qui evidentemente trattando della problematica relativa al carattere non self- executing delle disposizioni patizie che hanno già trovato attuazione nell’ordinamento giuridico italiano. Lo svolgimento di tale questione ci risulterà in seguito utile per valutarne le specifiche ricadute giurisprudenziali inerenti alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ebbene, il carattere non immediatamente esecutivo di specifiche norme convenzionali viene ad essere delineato in prima battuta sia in ambito internazionale, sia più propriamente nel contesto statunitense. Per quanto riguarda il primo profilo, si ricorda in dottrina e giurisprudenza il Parere della Corte Permanente di Giustizia Internazionale del 1928 nel caso Danzig Railway Officials, in cui si affermò che “secondo un consolidato principio di diritto internazionale … un trattato internazionale non può come tale creare diritti ed obblighi nei confronti degli individui. Ma non può essere contestato che il contenuto reale di un accordo internazionale, secondo le intenzioni delle Parti contraenti, può essere l’adozione di precise regole il cui contenuto consiste nella creazione di diritti ed obblighi nei confronti degli individui di cui dev’essere garantita l’attuazione da parte dei giudici statali50”. In tale passaggio viene evidenziato dunque il “carattere promissorio-programmatico” di un trattato internazionale nei confronti dei sudditi o cittadini di un’Alta Parte contraente: sebbene infatti la ratifica di un tale accordo determini il sorgere di un rapporto giuridico fra gli Stati segnatari, composito di diritti e doveri in capo a quelli, tuttavia esso determina in capo alle popolazioni coinvolte una mera aspettativa (legittima), a che gli organi competenti a livello nazionale riformulino in modo interindividuale quelle che altrimenti rimarrebbero disposizioni disciplinanti materie interstatuali. Non sfugga pertanto una concisa considerazione in relazione alla pronuncia da ultimo richiamata: all’epoca della citata opinione la comunità internazionale non era nel nostro sistema interno, ma diventa rilevante soltanto sul piano internazionale. (…) Se manca l’ordine di esecuzione, l’ordinamento interno rimane immutato e quindi la convenzione internazionale, alla quale esso non abbia fatto seguito, risulta inidonea a far sorgere, nei confronti dei singoli, posizioni giuridiche corrispondenti alle varie disposizioni della convenzione stessa”. 49 Cass (s.u.) 21 maggio 1973, n. 1455. 50 C.P.G.I, 28 marzo 1928, in C.P.J.I., Serie B, n.15, p. 17-18. 29 probabilmente in grado di prevedere quali mutamenti avrebbero poi radicalmente modificato la natura e il contenuto del diritto internazionale patizio, dovendosi d’altra parte riconoscere che le (contemporanee) norme internazionali sui diritti dell’uomo sono state “elaborate proprio al fine di tutelare le posizioni soggettive individuali” 51. Valutiamo dunque lo spessore della problematica in analisi alla luce delle riflessioni giuridiche sorte nel contesto giurisprudenziale statunitense. Celebre in tal senso è la seminal opinion del Giudice Marshall nel caso Foster v. Neilson, ove si afferma che “A treaty is in the nature a contract between two nations, not a legislative act. (…) when the terms of the stipulation import a contract, when either of the parties engage to perform a particular act, the treaty addresses itself to the Political, not the Judicial, Department, and the Legislature must execute the contract before it can become a rule for the Court52”. Il principio qui enucleato appare cristallino e incontrovertibile: quando due potenze mondiali (nel caso di specie la Spagna e gli Stati Uniti) stipulano un trattato impegnandosi a renderlo esecutivo mediante la legislazione interna, esse non potranno essere convenute in giudizio dai propri cittadini sulla base del citato accordo internazionale, in quanto esso è privo di norme giuridiche che attribuiscono posizioni soggettive direttamente invocabili53. D’altronde, il suddetto principio risulta fortemente ridimensionato, se valutato alla luce di tre semplici considerazioni: in primo luogo, esso dev’essere inteso in relazione al peculiare contesto costituzionale statunitense; come noto infatti l’art. VI par. 2 della Costituzione statunitense sancisce un “preventivo e generalizzato ordine d’esecuzione 51 CANIZZARO E., op. cit., pag. 489, il quale osserva che “invero, le norme sostanziali a tutela dei diritti individuali, nonché le determinazioni degli organi internazionali di controllo, acquistano sovente effettività attraverso l’azione degli organi giurisdizionali interni e degli organi esecutivi periferici, i quali ben possono imporre un orientamento diverso da quello dell’amministrazione centrale”. 52 Foster & Elam v. Neilson - 27 U.S. 253 (1829). 53 Come noto il caso di specie era stato sollevato da un cittadino statunitense, il quale rivendicava la proprietà su un appezzamento di terra limitrofo al fiume Perdido in Florida invocando in giudizio l’art. 8 del Treaty of Amity, Settlement and Limits, U.S.-Spain, 1819, il quale sanciva che tutti i terreni attribuiti ai privati dal Governo spagnolo nel trattato in questione dovevano, nonostante il cambio di sovranità sugli stessi, “shall be ratified and confirmed to the persons in possession of the lands” dall’autorità di governo statunitense. Il ricorso fu allora rigettato, in quanto: i) la domanda del ricorrente risultava fondata su un titolo proprietario non perfetto, “an inchoent title”, assimilabile al nostro contratto preliminare; ii) il citato art. 8 è stato dichiarato “executory, not executed, because it obligates the United States to take affirmative steps to confirm the grants”. 30 riguardo a tutti i trattati che saranno debitamente stipulati dallo stato”54, prevedendo infatti che “all Treaties made, or which shall be made, under the Authority of the United States, shall be the supreme Law of the Land”. Ecco che affermare la natura self-executing di un trattato equivale negli Stati Uniti “a decidere che esso è pienamente operante nell’ordinamento nazionale, senza naturalmente che occorra alcun puntuale atto di organi interni mirante a rendere possibile un tale risultato” 55. Pertanto, si ritiene correttamente che la nozione in discorso non possa essere utilizzata propriamente negli ordinamenti giuridici in cui, come in Italia e nel Regno Unito, l’adattamento al diritto internazionale dei trattati avviene esclusivamente, (quanto meno dal punto di vista formale), mediante la traduzione delle norme pattizie mediante un provvedimento legislativo ad hoc56. In secondo luogo, il contenuto giuridico e la portata della nozione in parola appare oggi più che mai controversa, in quanto la sua applicazione contemporanea (come altresì la sua formulazione originaria) è fortemente criticata anche da una parte della dottrina statunitense57. In terzo e ultimo luogo, qualora si ritenesse corretto applicare la 54 CONDORELLI F., op. cit., pag. 30. 55 CONDORELLI F., ibidem. 56 Cfr MC NAIR, The law of the treaties, Oxford: Clarendon Press, 1962, pag. 81: “No treaty is self- executing. (…) no treaty requiring municipal action to give effect to it can receive that effect without the cooperation of Parliament, either in the form of a statute or in some other way”. Per quanto concerne l’applicazione giudiziaria delle norme contenute nella CEDU nell’ordinamento britannico si rimanda direttamente il lettore al secondo capitolo della presente ricerca. 57 Cfr. SLOSS D. L., “Executing Foster v. Neilson: The Two-Step Approach to Analyzing Self-Executing Treaties”, Harvard International Law Journal, Vol. 53, 2012. L’Autore ci avverte della incoerenza logica che sottende la tradizionale “intent-based doctrine”, in quanto, per i sostenitori di tale teora “self- execution is a treaty-interpretation question; they examine the treaty text and ancillary materials to ascertain whether the treaty makers intended the treaty to be self-executing”. L’Autore invece ritiene diversamente che “The intent-based approach is analytically incoherent. Courts applying the intent- based doctrine consistently conflate the international obligation inquiry with the domestic implementation inquiry by combining them into a single inquiry, asking whether the treaty makers intended the treaty to be selfexecuting. The question itself is nonsensical because, in the vast majority of cases, the treaty makers did not have any specific intention concerning which government actors within the United States have the power and/or duty to implement the treaty domestically. Unable to find any actual evidence of the treaty makers’ intentions, the courts invent a fictitious intent to resolve domestic implementation issues”. Sarebbe dunque da prediligere rispetto al criterio ermeneutico ora illustrato la c.d. “two-step approach”, la quale “promotes analytic clarity by drawing a sharp distinction between the international obligation issue and the domestic implementation issue (…). The question whether a treaty is self-executing is actually two very different questions, masquerading as a single question. The first question is: “what does the treaty obligate the United States to do?” This is a treaty interpretation issue. The second question is: “which government actors within the United States have the power and duty to implement the treaty domestically?” This is a domestic legal issue, not a treaty interpretation issue. Examining the treaty text to answer the second question is like studying the text of 33 possa ricevere esecuzione in quanto non esistono gli organi o le procedure interne indispensabili alla sua applicazione65; iii) o ancora, quando la sua applicazione comporti adempimenti di carattere costituzionale. Ma aldilà delle categorie su indicate, vedremo come la giurisprudenza nazionale, di merito e di legittimità, assume orientamenti altalenanti in tema di diretta applicabilità dei diritti umani convenzionali, caratterizzati da un alto tasso di pragmatismo giuridico piuttosto che da una precisa elaborazione teorica. In tal senso condividiamo l’opinione di chi, nel dibattito fra concezioni riduttive e possibiliste, ritiene che l’applicabilità diretta “debba essere valutata in base alla sua idoneità a determinare la soluzione di una vertenza giuridica interna, in cui si realizzino al contempo gli scopi imposti dalla norma internazionale e siano soddisfatte le condizioni che nell’ordinamento italiano sono richieste per l’applicazione di una norma ad un caso specifico.66” Se è vero, come si ritiene, ciò che precede, appare dunque opportuno “reagire” contro quelle “tendenze dirette ad utilizzare la distinzione tra norme internazionali self- executing e non self-executing per scopi in senso lato politici, ossia per non applicare norme indesiderate perché contrarie a sopravvenuti interessi nazionali, o magari perché progressiste o anche soltanto perché oggetto di diffidenza da parte dell’operatore giuridico interno a causa della loro provenienza67”. Tale reazione ci quando le Alte Parti contraenti abbiano effettivamente stipulato un trattato individuando delle singole ipotesi di mera facoltà. In tal senso Cataldi G. in op. cit. pag. 401 rileva come anche la c.d. “clausola di esecuzione, che sancisce l’impegno delle parti ad adottare tutte le misure idonee all’applicazione delle disposizioni convenzionali, dev’essere collegata solo a quella che, tra le disposizioni del trattato, dev’essere negata la natura di norme self-executing”. 65 Cfr. ordinanza Cort. Cost. 6/2/1979 (caso Lockeed) in cui i giudici hanno ritenuto non applicabile l’art. 14 par. 5 del Patto internazionale sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite in relazione ai giudizi di accusa ex art. 96 Cost. 66 RASPADORI F., op. cit., 2000, pag. 290. Si ritiene opportuno riportare una interessante distinzione avanzata dall’Autore, tale per cui si deve intendere una norma pattizia direttamente applicabile quando è possibile “riscontrare nella norma pattizia, e non negli atti interni adottati congiuntamente o successivamente al trattato, il precetto che è effettivamente applicato in un caso specifico”; questo esclude pertanto la perfetta coincidenza del concetto di “immediata applicazione” con quello di “norma internazionale self-executing”, in quanto quest’ultimo si presenterebbe quale condizione eventuale per il realizzarsi del primo. Questa ricostruzione sembrerebbe confermata dalla giurisprudenza che analizzeremo in tema di diritti umani, ove si riscontra come “il giudice nazionale [abbia] applicato norme di origine internazionale che si limitavano a prevedere principi di carattere generale”. 67 CONFORTI B., op. cit., pag. 281. Siamo così in grado di comprendere la puntuale annotazione proposta da SLOSS D. L. in op. cit., secondo cui “The self-execution debate implicates fundamental constitutional questions about federalism, separation of powers, and individual rights. Partisans in that debate tend to divide into two camps: nationalists and transnationalists. Nationalists generally favor non self-execution; they advocate a limited judicial role in the domestic application of treaties, especially insofar as private 34 appare a fortiori giustificata da due motivazioni di ordine logico-interpretativo: in primo luogo, (e ciò deve essere inteso in specifico riferimento a quelle disposizioni c.d. programmatiche, quali sono spesso considerate quelle relative alla CEDU), non esiste “principio, anche generalissimo, dal quale l’interprete non possa comunque ricavare delle applicazioni concrete, magari dal solo punto di vista della forza abrogativa del principio medesimo68”. In secondo luogo, e fors’ancor più puntualmente, si sottolinea come sia “evidente, difatti – ed è appena il caso di enunciarlo – che questa della completezza (o autosufficienza) [della norma internazionale self-executing] è situazione che, ove rigorosamente intesa, non può mai verificarsi con riguardo a nessuna norma isolata di qualsivoglia genere. Non v’è norma, in effetti, che possa sorreggersi da sola, senza collegarsi cioè in un numero indefinito di interrelazioni, con altre; ogni norma, dunque, si completa necessariamente in un ordinamento. E questa lampante verità non può, come è ovvio, non valere anche per le norme estraibili dai trattati internazionali ai fini del diritto interno”69. Per le ragioni su esposte siamo dunque in grado di valutare la reale portata della nozione in discorso: affermare la natura non self-executing di un trattato internazionale risulta (fatte salve le tre ipotesi eccezionali sopra descritte) di frequente pretestuoso; il più delle volte si intende così copertamente, avvalendosi di argomentazioni giuridiche come dimostrato incoerenti, impedire od ostacolare l’applicazione interna della norma pattizia. Pertanto si ritiene condivisibile la tesi per parties invoke treaties as a constraint on federal, state, or local government actors. Transnationalists generally favor self-execution; they advocate a broader role for courts in the domestic application of treaties.” 68 CONFORTI B., op. cit., id. Come non citare in tal senso la prima sentenza della Corte Costituzionale italiana del 1956, in cui la Consulta, chiamata a valutare la questione di legittimità costituzionale del T.U. delle leggi di p.s. approvato con R.D. 18 giugno 1931, n. 773, ebbe modo di affermare che “la nota distinzione fra norme precettive e norme programmatiche può essere bensì determinante per decidere della abrogazione o meno di una legge, ma non é decisiva nei giudizi di legittimità costituzionale, potendo la illegittimità costituzionale di una legge derivare, in determinati casi, anche dalla sua non conciliabilità con norme che si dicono programmatiche, tanto più che in questa categoria vogliono essere comprese norme costituzionali di contenuto diverso: da quelle che si limitano a tracciare programmi generici di futura ed incerta attuazione, perché subordinata al verificarsi di situazioni che la consentano, a norme dove il programma, se così si voglia denominarlo, ha concretezza che non può non vincolare immediatamente il legislatore, ripercuotersi sulla interpretazione della legislazione precedente e sulla perdurante efficacia di alcune parti di questa; vi sono pure norme le quali fissano principi fondamentali, che anche essi si riverberano sull'intera legislazione”. 69 CONDORELLI L., op. cit., pag. 57 35 cui “una disposizione convenzionale è self-executing o meno a seconda dello stato del diritto interno, cioè a seconda che questo ordinamento sia appunto già predisposto o meno in modo da consentirle di ricevere a opera dell’interprete”70. La tematica affrontata come evidente meriterebbe maggiore approfondimento. Ci ripromettiamo in ogni caso di valutare tali problematiche alla luce di una certa giurisprudenza poco illuminata della Cassazione, che, durante gli anni ’80 del secolo scorso, ha ripetutamente affermato la non applicabilità diretta delle norme convenzionali sui diritti umani. Ci sia però consentita un’ultima considerazione, che fungerà da tre d’union con il paragrafo che segue: come sottolineato, alla radice della problematica in analisi, ovvero in relazione alla natura self-executing o meno di una norma internazionale “corre la linea di confine (così difficile da individuare con certezza) tra funzione giudiziaria e funzione legislativa nazionale; costituisce un particolare modo di manifestarsi del principio di separazione tra i poteri del giudice e quelli del legislatore”. E’ proprio nel gioco di equilibrio fra i suddetti poteri dello stato che si sviluppa l’attuazione processuale del diritto di origine pattizia, in special modo quello relativo alle norme a tutela dei diritti umani. Vedremo di seguito alcune particolari tecniche ermeneutiche che rendono possibile tale risultato. 3.1 Segue: la “presunzione di conformità” al diritto dei trattati internazionali: nozione ed esempi di applicazione giurisprudenziale Un ulteriore elemento utile per comprendere i meccanismi ermeneutici insiti nell’applicazione giurisprudenziale delle norme pattizie risulta senza dubbio essere la tecnica logico-argomentativa sviluppatasi sotto il nome di “presunzione di conformità”. Se infatti risulta pacifico che i Trattati internazionali di norma non esplicitano le modalità con le quali il regolamento pattizio debba trovare attuazione all’interno 70 CONDORELLI L., op. cit., pag. 61. 38 successive possano essere risolti con la prevalenza delle prime sulle seconde79”, derogando così al noto principio contenuto all’art. 15 delle Preleggi, in quanto esso, pur essendo “una regola giuridica certamente importantissima ed anzi imprescindibile, [risulta] privo di avvertibili risonanze etico-sociali, [ed inoltre] consacrata in una norma legislativa ordinaria80”. Riteniamo quindi qui opportuno sottolineare un dato di importanza fondamentale ai nostri fini: mentre infatti il Giudice delle leggi nell’ordinamento italiano ha da sempre ridimensionato l’applicabilità diretta del diritto internazionale pattizio, privilegiando l’interesse della conservazione della legislazione posteriore e contrastante emanata dalle camere parlamentari81, i giudici comuni si sono dimostrati invece maggiormente sensibili ad un’istanza internazionalistica di segno diametralmente contrario, con accenti evidenti proprio in tema di diritti dell’uomo. 79 SICO L., La posizione spettante alle norme di adattamento al diritto internazionale nella valutazione del Giudice italiano, in Università degli studi, Milano, Comunicazioni e studi, v. XVI, 1980, pag. 335. 80 SICO L., op. cit., ibidem. In tal senso anche il CONFORTI B., in op. cit. pag. 293, il quale ritiene che il contenuto di un accordo internazionale sia sorretto da una duplice volontà normativa: da un lato la volontà che certi rapporti siano disciplinati così come li disciplina la norma internazionale, dall’altro la volontà che gli impegni assunti verso altri stati siano rispettati. Occorre dunque, per far prevalere una legge posteriore, che entrambe le volontà siano annullate; occorre che la norma posteriore riveli non solo e non tanto la volontà di disciplinare in modo diverso gli stessi rapporti quanto quella di ripudiare gli impegni internazionali già contratti. Ne consegue che una abrogazione o modifica delle norme di adattamento al trattato per semplice incompatibilità con una legge posteriore non è ammissibile. 81 Si veda in tal senso la nota sentenza n. 323 del 1989, in cui la Consulta afferma che: “Emerge in modo inequivocabile dai lavori dell'assemblea costituente - e dottrina e giurisprudenza sono concordi - che l'art. 10 comma 1 Cost. prevede l'adattamento automatico del nostro ordinamento esclusivamente alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, intendendosi per tali le norme consuetudinarie. L'adattamento alle norme internazionali pattizie avviene invece per ogni singolo trattato con un atto ad hoc consistente nell'ordine di esecuzione adottato di regola con legge ordinaria. Ne consegue che i trattati internazionali vengono ad assumere nell'ordinamento la medesima posizione dell'atto che ha dato loro esecuzione. Quando l'esecuzione é avvenuta mediante legge ordinaria, essi acquistano pertanto la forza ed il rango di legge ordinaria che può essere abrogata o modificata da una legge ordinaria successiva. E' rimasta minoritaria in dottrina, e non é mai stata condivisa dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, né di questa Corte, la tesi secondo la quale i trattati internazionali, pur introdotti nel nostro ordinamento da legge ordinaria, assumerebbero un rango costituzionale o comunque superiore, così da non poter essere abrogati o modificati da legge ordinaria in forza del principio del rispetto dei trattati (pacta sunt servanda), norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta. In tal modo si verrebbe a ricondurre le norme internazionali pattizie sotto l'impero dell'art. 10 comma 1 Cost., mentre - come si é detto - esso é stato così formulato proprio per limitarlo alle norme generali materiali ed escludere dalla sua sfera di applicazione i trattati, in quanto la norma generale pacta sunt servanda é norma strumentale non suscettibile di applicazione nell'ordinamento interno. Questa Corte non può quindi non confermare la propria costante giurisprudenza che esclude le norme internazionali pattizie, ancorché generali, dall'ambito di operatività dell'art. 10 Cost.” Vengono in tal senso richiamate le precedenti sent. nn. 153 del 1987, 96 del 1982, 188 del 1980, 48 del 1979, 104 del 1969, 32 del 1960. 39 Due considerazioni conclusive chiudono l’analisi della tecnica ermeneutica in discorso. In primo luogo, questa si presta a combinarsi con un’altra presunzione elaborata dalla dottrina internazionalista italiana, quella cioè di “operatività”, in virtù della quale “se un trattato non è idoneo ad essere eseguito nell’ordinamento interno, il legislatore non emanerà l’inutile comando di eseguirlo. Per converso, se un comando puntuale e specifico di tale contenuto è stato dato, sarà ragionevole ritenere che il trattato cui esso si riferisce sia, almeno in parte, attuabile82”. In base a tale criterio interpretativo il giudice sarà indotto, a prescindere dal carattere ambiguo della legge di attuazione o da eventuali norme nazionali contrastanti, ad utilizzare “fino al limite massimo di utilizzabilità gli strumenti che lo stesso diritto statale offre a garanzia di siffatta osservanza83”, e quindi ad individuare “almeno un nucleo di operatività della convenzione, e perciò a rilevare le norme self-executing discernendole accuratamente da quelle che self-executing non sono84”. In secondo luogo ci sia consentita un’annotazione, apparentemente ovvia, ma che esprime forse al meglio la peculiare prospettiva di indagine adottata nella presente tesi: si intende qui rimarcare che le riflessioni fin’ora svolte abbiano evidenziato come il giudice nazionale italiano, inteso questi nella sua persona fisica più che nell’impersonale autorità giudiziaria, attua l’applicazione del diritto internazionale pattizio avvalendosi di “processi logici e volitivi” e dell’impiego “di un complesso procedimento psicologico” che esulano dal sillogismo noto alla scuola positivista del diritto, secondo la quale la risoluzione della singola controversia avverrebbe per mezzo della (automatica) sussunzione del caso concreto emerso in giudizio nella fattispecie astratta. Abbiamo infatti fin’ora discusso di tecniche argomentative, di criteri interpretativi, di canoni ermeneutici, che, se correttamente adottati, consentono di certo l’osservanza processualmente satisfattiva degli obblighi internazionali convenzionalmente assunti, ma che non impediscono di per sé stessi alla persona fisica-giudicante di svolgere una scelta di segno opposto, qualora ne ravvisi l’opportunità. Pertanto si condivide la teoria 82 CONDORELLI L., op. cit., pag. 33. 83 CONFORTI B., op. cit., pag.8. 84 CONDORELLI L., op. cit., pag. 36. 40 secondo la quale, vista “la possibilità di seguire due linee di argomentazione largamente indipendenti, se non del tutto separate, e tendenti verso esiti fra loro opposti, (…) il giudice [potrà] scegliere la norma da applicare sulla base di valutazioni che non solo sono ampiamente discrezionali, ma sono anche destinate – in quanto egli non ha evidentemente bisogno di motivare la scelta dell’una o dell’altra linea di argomentazione – a rimanere in larga parte inespresse o mascherate dietro argomentazioni sostanzialmente elusive”85. 4. La prima fase della giurisprudenza italiana in tema di diritti umani: l’inidoneità delle norme convenzionali a esprimere efficacia diretta secondo le Corti superiori e il divergente orientamento delle Corti di merito Come ampiamente osservato in precedenza, dal disegno dei Padri Costituenti fu esclusa l’introduzione di una disposizione costituzionale che disciplinasse in modo specifico il rapporto fra le norme di adattamento ai trattati internazionali e gli altri provvedimenti legislativi di rango primario. Ferme tali premesse, nel 1955 con la legge n.848 è stata autorizzata la ratifica e data esecuzione alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la quale ha avuto efficacia nell’ordinamento interno a partire dal 26 ottobre 1955, data in cui è stato depositato, ai sensi dell’art. 66, par. 3, lo strumento di ratifica presso il Segretario generale del Consiglio d’Europa. Dall’esame dei lavori parlamentari di tale disposizione di legge emerge lo scarso interesse degli addetti ai lavori rispetto alle questioni tecniche legate all’introduzione di tale trattato internazionale nell’ordinamento italiano. Si ha infatti la sensazione che il recepimento di tale strumento internazionale fosse considerato all’epoca come una mera ripetizione del catalogo dei diritti fondamentali già inseriti nella Costituzione entrata da pochi anni in vigore: più che la tappa iniziale per una più profonda tutela dei 85 SICO L., op. cit., pag. 344. 43 sufficientemente chiaro e puntuale. Il contenuto delle stesse viene pertanto ritenuto un minus rispetto alle garanzie già allora radicate nella cultura giuridica nazionale. Per tali motivi le norme internazionali in pari materia, in particolare l’art.8 CEDU, sono ritenute non idonee a produrre alcun effetto nell’ordinamento giuridico italiano. Forte appare dunque il retaggio giuridico-culturale ereditato in seno alla corte di Cassazione dal Legislatore italiano del primo dopo guerra, secondo il quale, come ricordato, l’accordo stipulato in seno al Consiglio d’Europa risultava essenzialmente una conferma delle tutele apprestate dalla Costituzione del 1947, piuttosto che un trattato internazionale capace di introdurre elementi di novità nel sistema giuridico di recepimento. Ma vi è di più. Il fondamento della (nuova) posizione soggettiva riconosciuta alla parte ricorrente viene come ricordato rintracciato nell’art. 2 della Costituzione, il quale prevede che “La Repubblica riconosce e garantisce, i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. In tal senso tale disposizione consente di ammettere un “diritto di libera autodeterminazione nello svolgimento della personalità nei limiti di solidarietà considerati”. Come osservato dalla dottrina tale pronuncia evidenzia una particolare interpretazione dell’art. 2 Cost., considerato quest’ultimo quale “clausola chiusa agli apporti del diritto internazionale, in quanto i diritti fondamentali in essa riconosciuti comprendono forme di garanzie già previste (quanto meno implicitamente) dalla Costituzione90”. Pertanto a parere della Cassazione le norme sui diritti umani non garantirebbero alcun nuovo diritto estraneo alla carta fondamentale dell’ordinamento italiano, dovendosi valutare le disposizioni interne solo ed esclusivamente in riferimento al diritto di origine nazionale. Benché questa soluzione sarà successivamente riformata dalla stessa Corte di cassazione proprio con riferimento al diritto alla riservatezza91, non 90 RASPADORI F., op. cit., pag. 327. 91 Cfr. il noto caso sollevato dalla ex imperatrice Soraya Esfadandiari contro la casa editrice Rosconi, per la pubblicazione di alcune foto che la ritraevano in atteggiamenti intimi con un uomo all’interno di una sua abitazione, Corte di cassazione civ. sez I, sentenza 27 maggio 1975 n.2129. Nella stessa si afferma infatti che “Il nostro ordinamento riconosce il diritto alla riservatezza, che consiste nella tutela di quelle 44 possiamo qui non cogliere una certa aspirazione autarchica dei giudici ermellini, i quali ritengono che il complesso di norme nazionali sia più che sufficiente per garantire la soluzione del caso di specie92. Una maggiore sensibilità rispetto al movimento internazionale dei diritti umani viene ad essere indubbiamente espresso già da quegli anni dalla giurisprudenza di merito, con soluzioni processuali che esprimono la portata rivoluzionaria della Convenzione europea. In tal senso, si dimostra di particolare interesse il dibattito svoltosi negli anni ‘60 e ’70 rispetto al dubbio di incostituzionalità o incompatibilità con le norme CEDU del D.L. 11 febbraio 1948, n.50, poi abrogato dal D.L. 13 luglio 1994, n.480. Tale disposizione prevedeva all’art. 2 che “Chiunque a qualsiasi titolo dà alloggio ovvero ospita uno straniero ed un apolide, anche se parente od affine, o lo assume, per qualsiasi causa, alle proprie dipendenze, è tenuto a comunicarne, entro ventiquattro ore, le generalità all'autorità locale di pubblica sicurezza, specificando, in caso di situazioni e vicende strettamente personali e familiari le quali, anche se verificatesi fuori del domicilio domestico, non hanno per i terzi un interesse socialmente apprezzabile, contro le ingerenze che, sia pure compiute con mezzi leciti, per scopi non esclusivamente speculativi e senza offesa per l'onore, la reputazione o il decoro, non sono giustificati da interessi pubblici preminenti”. Lo scenario legislativo non è affatto mutato rispetto al precedente del 1963, eppure questa sentenza giunge a conclusioni completamente differenti da quelle stabilite nel caso Petacci. Si può ritenere pertanto che in tal caso la norma CEDU abbia determinato degli effetti diretti nel giudizio? Rispondendo a tale quesito il giudice, dopo aver sostenuto che il “diritto all’intimità domestica non solo non contrasta con i principi costituzionali, ma trova in essi vari motivi di convalida” afferma che tale diritto è “espressamente riconosciuto da diverse deliberazioni di carattere internazionale”. Pertanto, pur dovendosi riconoscere che la corte nel caso Soraya abbia dichiarato di non volersi pronunciare sul problema “della diretta efficacia delle norme pattizie nei rapporti intersoggettivi”, ciò nonostante questa ha ritenuto che “le disposizioni contenute in tali atti internazionali costituiscono quanto meno un notevole criterio interpretativo delle norme vigenti nel nostro ordinamento”. 92 Espressione di tale atteggiamento di chiusura verso le norme di derivazione pattizia è anche la nota sentenza sul caso Fois, Corte di cass. pen., sez. VI, 17 novembre 1973 n.8157. La Corte era chiamata a valutare l’eccezione sollevata da parte ricorrente relativa all’incompatibilità della disciplina relativa alla rinnovazione del dibattimento in Appello, ai sensi dell’art. 520 Codice Rocco, con il principio della parità delle armi sancito all’articolo 6 par.3 lett.d CEDU. La Corte ha, secondo parte della dottrina, svolto nel caso di specie un esame esclusivamente formale della normativa italiana, respingendo “ogni ipotesi di contrasto tra il processo italiano e il principio della parità delle armi, solo in base al fatto che nell’ordinamento italiano sono percorribili solo ben due gradi di ricorso” (RASPADORI F., op. cit., pag. 117). Inoltre, “anche qualora fosse ravvisabile un contrasto fra norme pattizie e disposizioni interne”, rileva la Corte, “questo non avrebbe sortito alcun effetto, in quanto non è prevista una specifica comminatoria di nullità nella Convenzione stessa e nella legge di esecuzione”. Tale pronuncia pertanto nega ancora una volta l’efficacia diretta delle norme pattizie nell’ordinamento italiano. Vedremo nel prossimo paragrafo un overruling rispetto a tale posizione nel caso Iaglietti. 45 assunzione, il servizio cui e' adibito”. La pena per i trasgressori era prevista in un anno di reclusione obbligatoria, a cui poteva essere aggiunta un’ammenda. Il pretore di Udine nella sentenza del 12 marzo 1969, in cui veniva contestato all’imputato la violazione della fattispecie su richiamata in quanto non aveva segnalato l’assunzione di uno straniero alle autorità competenti, rilevò l’assoluta incompatibilità della normativa nazionale con la successiva legge di ratifica della Convenzione europea del 1955, in quanto “non si concilia con il rispetto della vita privata e familiare e del domicilio l’ingerenza della P.S. che discende dall’obbligo penalmente sanzionato di comunicare le generalità delle persone, anche parenti o affini, cui si dia ospitalità nella propria abitazione, o lavoro nel proprio domicilio”. Si escludeva pertanto anche l’ipotesi derogatoria di cui al par. 2 dell’art. 8, in quanto l’obbligo di comunicazione imposto dalla legge non era assimilabile “ad alcuna delle misure indicate ed in particolare all’esigenza di garantire il benessere economico del paese”. Viene in tal senso analizzato il particolare meccanismo giuridico di adattamento alle norme internazionali pattizie, affermandosi così che “l’ordine di esecuzione produce nell’ordinamento interno quelle variazioni, e solo quelle, che sono necessarie perché l’adattamento al trattato sia completo, e [l’interprete] deve, per bene procedere, avere due punti di riferimento: in primo luogo le norme internazionali contenute nel trattato e quindi gli obblighi e le facoltà che dal trattato derivano a carico o a favore dello stato; in secondo luogo, le norme che compongono l’ordinamento dello stato nel momento in cui l’ordine di esecuzione viene emanato”. Pertanto, ove le norme intere e internazionali non si possano comporre in armonia, integrandosi vicendevolmente nella pratica giudiziaria nazionale, “deve riconoscersi forza abrogativa [alla CEDU], secondo il dettato dell’art. 15 delle preleggi e in armonia con i principi generali del diritto internazionale”. Il caso di specie risolve evidentemente una circostanza non frequente nella prassi, ovvero di abrogazione di una disposizione di legge interna incompatibile con la CEDU, in quanto entrata in vigore precedentemente a quest’ultima. Ciò nonostante la decisione in esame rappresenta un’assoluta peculiarità nello scenario giuridico e 48 costituzionale afferma di condividere “il prevalente orientamento della dottrina e della giurisprudenza, secondo il quale, in mancanza di specifica previsione costituzionale, le norme pattizie rese esecutive nell’ordinamento interno della Repubblica hanno valore di legge ordinaria”, non potendo quindi fungere la CEDU da parametro di costituzionalità per eventuali disposizioni di legge in contrasto. Non si può pertanto disconoscere come la Consulta abbia più volte affermato, con giurisprudenza costante, che l’unica modalità di risoluzione di tali conflitti normativi rimaneva essere il solo criterio cronologico. Ciò nonostante nella citata sentenza n. 104 l’effetto abrogativo riconosciuto alla disposizione di legge posteriore ex art. 15 preleggi non viene riconosciuto in ordine alla leggi di esecuzione della CEDU, in quanto questa non è ritenuta in assoluto contrasto con il D.L. n.50 del 1948. Evidentemente la Convenzione è così interpretata restrittivamente, sia per quanto riguarda il rango formale ad essa riconosciuto, sia per quanto riguarda i diritti e le libertà in essa sanciti. E’ così compiuto un duplice movimento di ridimensionamento dello strumento pattizio, che determina una esclusione dello stesso dal campo giuridico nazionale. 5. La seconda fase della giurisprudenza italiana in tema di diritti umani: il (denegato) diritto di autodifesa, alcune rilevanti innovazioni in relazione alla disciplina del processo penale e il nuovo “diritto all’abitazione” Siamo quindi giunti alla seconda fase della giurisprudenza nazionale cronologicamente successiva alla nazionalizzazione formale della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Un interessante questione relativa all’efficacia interna dei diritti e delle libertà sanciti nella Convenzione Europea è quella relativa all’art. 6 par. 3 lett. c del trattato approfondito del contenuto e delle norme di raffronto indicate, sia di quelle della Costituzione come di quelle della Convenzione Europea, in quanto il rapporto tra le stesse risulta già risolto dalle precedenti sentenze di questa corte”. 49 internazionale, il quale prevede che “ogni accusato ha il diritto di difendersi personalmente o avere l’assistenza di un difensore di sua scelta”. L’assoluta peculiarità di tale disposizione consta secondo parte della dottrina nella idoneità della stessa a “ricevere applicazione immediata negli ordinamenti degli stati parti”, grazie alla “perentorietà e alla precisione con cui essa è formulata”99. L’applicazione della disposizione qui richiamata nell’ordinamento italiano ha suscitato un acceso dibattito dottrinale e giurisprudenziale, in quanto essa è stata considerata la base di un possibile riconoscimento del diritto all’autodifesa esclusiva nel processo penale; diritto che, inter alios, è stato invocato (anche per mezzo di attentati terroristici dall’esito drammatico) in alcuni celebri “processi di rottura” durante i c.d. “anni di piombo” italiani100. La previsione di un autonomo diritto di autodifesa nell’ordinamento italiano di origine pattizia fu sostenuto ampiamente in alcune celebri ordinanze emessa dal Tribunale di 99 RASPADORI F., op. cit., pag. 234. L’elemento caratteristico del citato art.6 par.3 lett. c si coglie con maggiore facilità se confrontato con l’art. 8 della stessa Convenzione, nell’applicazione giurisprudenziale analizzata nel precedente paragrafo. In relazione a quest’ultimo, sia afferma infatti che “Gli stati contraenti mantengono quindi un considerevole margine di apprezzamento nel fissare l’estensione del diritto alla vita privata e familiare ed i suoi eventuali limiti. Sia la Convenzione che il Patto demandano in definitiva agli organi legislativi l’interpretazione dei modi in cui la comunità nazionale concepisce le espressioni della vita privata e familiare. Le norme pattizie possono essere considerate, quindi, un modello di riferimento del quale gli stati devono tenere conto nell’emanare e nell’applicare le loro disposizioni nazionali” (ibidem, pag. 53). 100 Secondo la celebre ricostruzione svolta da JACQUES M. VERGÉS, il noto avvocato “mefistofelico” francese, in Strategia del processo politico, Torino: Einaudi, 1969, pag. 49: “In un processo di connivenza vi è una sola volontà di vincere, quella dell’accusa. In un processo di rottura ve ne sono due. (…) La rottura sconvolge tutta la struttura del processo. I fatti e le circostanze dell’azione passano in secondo piano; in primo piano appare immediatamente la contestazione brutale dell’ordine”. E’ in tal senso esemplare il primo processo svoltosi nel 1976 a Torino contro alcuni militanti delle Brigate Rosse, con l’accusa, tra le altre, di banda armata. Alla prima udienza del processo l'imputato Maurizio Ferrari affermò infatti, a nome di tutti gli imputati detenuti, di proclamarsi “pubblicamente militanti dell'organizzazione comunista Brigate Rosse. E come combattenti comunisti ci assumiamo collettivamente e per intero la responsabilità politica di ogni sua iniziativa passata presente e futura. Affermando questo viene meno qualunque presupposto legale per questo processo. Gli imputati non hanno niente da cui difendersi. Mentre al contrario gli accusatori hanno da difendere la pratica criminale antiproletaria dell'infame regime che essi rappresentano. Se difensori, dunque, devono esservi, questi servono a voi egregie eccellenze. Per togliere ogni equivoco revochiamo perciò ai nostri avvocati il mandato per la difesa e li invitiamo, nel caso fossero nominati d'ufficio, a rifiutare ogni collaborazione con il potere [...]". Dopo tale comunicato tutti gli avvocati d’ufficio rifiutarono l’incarico, ad eccezione del Presidente dell’Ordine di Torino, l’ avv. Fulvio Croce. Il quale però due anni più tardi venne ucciso, mentre saliva le scale del proprio studio, con cinque proiettili sparati al viso e al petto. Interessante notare che nel processo penale poi svoltosi regolarmente a carico degli imputati i più di venti difensori d’ufficio finalmente nominati si dichiararono “garanti del rito”: questi rinunciarono infatti a svolgere attività difensiva di merito (ad esempio controinterrogare i testi, o produrre documenti), ma si limitarono ad eccepire le sole eventuali irregolarità processuali. 50 Monza101 e di Torino102. Oggetto della questione di illegittimità costituzionale furono gli art. 125 e 126 dell’abrogato Codice Rocco, i quali prevedevano di norma l’obbligatorietà della difesa tecnica in giudizio, (eccettuata solo da ipotesi marginali103), ritenute quindi in violazione dell’art. 24 comma 2 Cost., interpretato quest’ultimo alla luce della menzionata disposizione internazionale. I giudici a quibus svolsero nelle ordinanza menzionate un interessante ricostruzione teorica dei rapporti fra ordinamento nazionale e sistema convenzionale, che è qui opportuno ricordare per sommi capi. Innanzi tutto, si afferma l’immediata applicabilità della disposizione convenzionale in quanto essa costituisce una “previsione alternativa e disgiuntiva della difesa personale e della difesa tecnica: l’imputato ha il diritto di scegliere tra la piena autodifesa e la nomina di un difensore”. Pertanto si sostenne che la disposizione in discorso non implicasse un generico impegno per il Legislatore, ma dovesse invece essere considerata “una regola massima cui tendere nel pieno rispetto di una visione libertaria e egualitaria dell’uomo che è reputato pienamente capace di difendersi da solo”. In secondo luogo, si argomentò in merito alla costituzionalizzazione della previsione convenzionale, quanto meno quale strumento ermeneutico, idoneo a risolvere in modo dinamico l’interpretazione dei precetti vigenti. Si legga in tal senso l’ordinanza del Tribunale di Torino, nella quale, pur riconoscendo che “la Corte Costituzionale, in precedenti pronunce ha fatto intendere che il primo comma dell’art.10 Cost. si riferisce appunto a tali norme di diritto internazionale, e non anche ai singoli impegni assunti dallo stato nel campo internazionale: di modo che soltanto le prime e non anche i secondi debbono intendersi direttamente costituzionalizzati”, ciò nonostante si sostiene che “i Patti internazionali rappresentino pur sempre delle norme che servono ad interpretare dinamicamente la portata ed il valore delle disposizioni costituzionali, poiché riflettono l’evoluzione storica della sensibilità internazionale di fronte ai diritti dell’individuo, e l’assegnazione, a questi ultimi, di contenuti via via più incisivi ed 101 Ordinanza 14 marzo 1979. 102 Ordinanza 5 aprile 1979. 103 L’autodifesa era consentita per i soli procedimenti vertenti una “contravvenzione punibile con ammenda non superiore a 3000 lire, e con l’arresto non superiore ad un mese, anche se congiuntamente”. 53 dibattimento di primo grado”, ha chiarito che la richiesta esplicita di parte in giudizio in relazione a tale eccezionale fase rituale obbliga il giudice a “indicare adeguatamente le ragioni per le quali ritenga di dover disattendere tale richiesta”. In tal senso la Corte d’Appello sarebbe incorsa in un manifesto vizio di motivazione, ed anche in una palese violazione di legge, nella misura in cui non dimostrò nella sentenza impugnata l’inutilità o la superficialità delle indagini richieste dall’imputato113. La soluzione del caso di specie, che riforma una giurisprudenza costante della Cassazione in tema di rinnovazione dibattimentale114, è dovuta in larga parte sul piano logico-argomentativo alle innovazioni apportate dalla Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo in tema di “giusto processo”, e in massima parte alla interpretazione svolta dall’art. 6 CEDU dagli stessi organi della Convenzione. Infatti la Cassazione afferma in un celebre passaggio che “le norme convenzionali - salvo ovviamente quelle disposizioni il cui contenuto, pur utilizzati gli usuali metodi interpretativi, sia da considerarsi sì generico da non delineare specie sufficientemente puntualizzate - sono di immediata applicazione nel nostro Paese e vanno concretamente valutate nella loro incidenza sul più ampio complesso normativo che si è venuto a determinare in conseguenza del loro inserimento nell’ordinamento italiano”. In tal senso sono richiamati alcuni importanti pareri della Commissione europea, secondo i quali il diritto ad un “processo giusto” si esplica nel principio fondamentale della tutela “della posizione di eguaglianza che, nel corso del 113 Infatti nel caso di specie l’organo giudicante si limitò a constatare che l’imputato “non aveva indicato né il domicilio dei teste né alcun altro dato idoneo alla loro identificazione ed aveva con siffatto artificio reso impossibile il controllo del suo alibi, nella quasi immediatezza dei fatti e prima di possibili inquinamenti”. 114 Cfr Corte di cass. pen. Sez. VI, sentenza 17 novembre 1973 n.8157, ric. Fois: nella stessa infatti si affermò l’insussistenza a parere della Corte di contrasti fra il processo penale italiano in tema di rinnovazione dibattimentale e il principio della parità delle armi, inteso quest’ultimo però in senso formalistico. Anche se un conflitto con lo strumento pattizio fosse ravvisabile, si argomentò, questo non avrebbe sortito effetti, in quanto “non è prevista una specifica comminatoria i nullità della Convenzione stessa e nella legge di esecuzione”. Un sentenza successiva a quella in analisi (sent. cass. pen. Sez. II, 27 luglio 1989, n.10693, ric. Verdiglione) dimostra nuovamente un orientamento di chiusura nei confronti della Convenzione europea, in quanto si afferma che “i poteri discrezionali, riconosciuti al giudice d’appello dall’art. 520 c.p.p., in tema di rinnovazione dibattimentale, non contrastano con il disposto dell’art. 6 par. 3 lett. d”, in quanto le norme internazionali non sarebbero applicabili nei rapporti interni ed hanno efficacia solo tra le Parti contraenti in quanto programmatiche. Del resto la portata di tale sentenza è ridimensionata nella nota alla massima n.1703, in cui si afferma che “la corte si adegua alla decisione delle sez. un. 23 novembre 1998, Polo Castro […] con la quale, componendosi un contrasto giurisprudenziale […]. Si è ritenuto il carattere non programmatico ma precettivo delle norme della CEDU”. 54 procedimento, deve sempre sussistere tra l’imputato e la difesa, da una parte, e la pubblica accusa, dall’altra”115. Inoltre, riprendendo alcune motivazioni espresse dalla Corte EDU116, si afferma che il principio in discorso, derivando dalla preminente importanza che il diritto ad un equo processo deve avere in una società democratica, “induce ad optare per una concezione materiale e sostanziale e non formale della disposizione prevista all’art. 520 [del Codice Rocco]”; solo in tal modo si ritenne pertanto soddisfatta pienamente la garanzia contenuta all’art. 6 della Convenzione. E’ una sentenza di assoluta importanza, in quanto la Suprema Corte ha dimostrato “di considerare la giurisprudenza internazionale un elemento necessario per comprendere il corretto significato delle norme della Convenzione”117. Quindi lo strumento internazionale è finalmente valutato quale “living instrument”, quale trattato le cui disposizioni devono essere valutate non solo “in base al senso comune da attribuire ai termini” in esso contenuti, ma anche “ alla luce dei suo oggetto e del suo scopo118”. Ed è proprio tale interpretazione teleologica che assume un ruolo decisivo nell’esegesi della Convenzione europea, in quanto, come affermerà la stessa Corte di Strasburgo pochi anni dopo la sentenza in analisi, “The Convention must be read considering its specific nature of treaty of collective warranty of human rights and fundamental freedoms…”119. Se aggiungiamo poi quali ulteriori tasselli di questo inedito quadro giuridico il “principio di effettività” - in base al quale le disposizioni della CEDU devono essere applicate in modo da renderle produttive di effetti pratici nella singola situazione concreta120 - e l’accreditamento della Corte di Strasburgo quale autorità competente a 115 Parere della Commissione Europea dei Diritti dell’Uomo 23 novembre 1962, affare Ofner e Hopfinger, par.46. 116 Sentenza 27 febbraio 1980, affare Deweer, par. 44, e sentenza del 17 gennaio 1970, affare Delcourt, par. 25, Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. 117 RASPADORI F., op. cit., pag. 129. 118 Convenzione di Vienna sul Diritto dei Trattati, art. 31. 119 Caso Soering v United Kingdom, 161 Eur. Ct. H.R. (ser. A) (1989). 120 Tale principio, esplicitato come noto nel caso Loizidou c. Turchia, del 23 marzo 1995, causa 15318/89, nel quale si afferma che “The object and purpose of the Convention, instruments for the protections of human beings, requires to understand and apply his dispositions in order to make its qualifications real and effective …”, si presta, come si intenderà, a svilupparsi in sede di procedimento giudiziario nazionale mediante la particolare tecnica ermeneutica sopra descritta della “presunzione di conformità” della legge nazionale alle disposizioni pattizie, dovendosi pertanto preferire quelle soluzioni interpretative che garantiscono sostanzialmente l’effettività concreta dei diritti e delle libertà convenzionali. 55 svolgere la funzione nomofilattica nel sistema CEDU121, non si può che accogliere con favore una pronuncia come quella descritta nel caso Iaglietti; la quale esprime pioneristicamente uno degli effetti più rilevanti delle norme sui diritti umani di derivazione internazionale sulla giurisprudenza interna: quello cioè di suggerire al giudice nazionale nuovi principi, incidendo fortemente nella sua cultura giuridica, nonché nella sua forma mentis122. La seconda importante pronuncia che contraddistingue in quel torno di anni le tecniche di adattamento giudiziario alle norme convenzionali è sicuramente la n. 404 del 1988 della Corte Costituzionale, nella quale, contrariamente alla precedente giurisprudenza della Corte123, è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell'art. 6 della L. n. 392 del 1978 (c.d. “legge sull'equo canone”) nella parte in “cui non prevedeva tra i successibili nella titolarità del contratto di locazione, in caso di morte del conduttore, il già convivente more uxorio”124. A ben vedere la sentenza in discorso non richiama i principi sanciti nella nostra Convenzione europea, bensì quelli contenuti nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (New York, 10 dicembre 1948) e nel Patto internazionale dei diritti economici, sociali e culturali (approvato il 16 dicembre 1966 dall'Assemblea generale 121 Cfr in tal senso CEDU, art. 32: “1.La competenza della Corte si estende a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi Protocolli che siano sottoposte a essa alle condizioni previste dagli articoli 33, 34, 46 e 47. 2. In caso di contestazione sulla competenza della Corte, è la Corte che decide” e art. 46, in base al quale “1. Le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti”. Seppur non si tratti di un vincolo interpretativo assoluto quello vantato dalla Corte EDU, ciò nonostante questa si pone quale supervisore delle giurisprudenze nazionali manifestamente contrastanti (Cfr Daddi c. Italia, 2 giugno 2009 causa 15476/09), e pertanto risulta quanto mai indispensabile per l’operatore interno integrare il testo della Convenzione con la giurisprudenza di Strasburgo. 122 Tre secondo il RASPADORI, (op. cit., pag. 292) tre sono i possibili risultati determinati dall’applicazione interna dalle convenzioni riguardanti la tutela dei diritti umani: “la definizione di orientamenti giurisprudenziali ispirati a nuovi principi, l’estensione della portata precettiva di disposizioni interne e l’imposizione di nuovi limiti applicativi di norme nazionali”. 123 Cfr. Sent. Corte Cost., n.404 del 1988: “La giurisprudenza precedente di questa Corte (sent. n. 45 del 1980; ord. n. 128 del 1980) non aveva dato il dovuto rilievo all'abitazione come bene primario, valutando su un piano prospettico di maggiore rilevanza l'estraneità del convivente more uxorio dagli elenchi tassativi degli aventi diritto alla proroga dei contratti di locazione di immobili adibiti ad uso di abitazione, in caso di morte del conduttore, sia in base all'art. 2 bis, comma primo, parte prima, della legge 12 agosto 1974, n. 351, sia in base all'art. 1, comma quarto, parte prima, della legge 23 maggio 1950, n. 253. 124 La citata disposizione di legge prevedeva diversamente che “In caso di morte del conduttore, gli succedono nel contratto il coniuge, gli eredi ed i parenti ed affini con lui abitualmente conviventi”. 58 Un ulteriore elemento caratterizza fortemente la pronuncia in discorso, la quale troverà negli anni successivi, in tema di convivenza more uxorio, sicuro seguito nella giurisprudenza di merito e di legittimità127. Non può sfuggire infatti dall’analisi della pronuncia in discorso che nello svolgimento dell’iter logico-interpretativo ivi sviluppato si riscontra quella particolare tecnica ermeneutica che abbiamo descritto precedentemente, ovvero la “presunzione di conformità” ai trattati internazionali. Effettivamente, per dimostrare la sussistenza del menzionato “diritto all’abitazione” nell’ordinamento italiano la Consulta prende in considerazione la legge previgente a quella oggetto di questione di legittimità costituzionale, ovvero sia la l. n. 253/1950, la quale prevedeva in tema di locazione di immobili urbani la facoltà di prorogare il contratto di locazione “soltanto a favore del coniuge, degli eredi, dei parenti e degli affini del defunto con lui abitualmente conviventi128”. L’analisi della suddetta disposizione normativa porta la Consulta a concludere che “la volontà di escludere qualunque soggetto diverso da quelli elencati è fatta palese dall'avverbio soltanto”. Individuata così la ratio legis della disposizione richiamata, la Corte concentra la propria analisi ermeneutica relativamente alla successiva disposizione di legge che disciplina la medesima fattispecie, in vigore dal 1978, e dinnanzi a lei impugnata. Ebbene, stante l’assenza di un elenco esclusivo di soggetti titolari del diritto di succedere nel contratto di locazione, palesato dalla mancanza dell’avverbio “soltanto” nella citata novella legislativa, la Consulta ne deduce che “Il legislatore del 1978 […] ha voluto [sic] tutelare non la famiglia nucleare, nè quella parentale, ma la convivenza di un aggregato esteso fino a comprendervi estranei - potendo tra gli eredi esservi estranei - , i parenti senza limiti di grado e finanche gli affini”. consentito all’interprete di dare una maggiore concretezza alla voluta genericità dell’art. 2, di tradurlo in atto, rendendolo effettivamente invocabile, in giudizio, dal cittadino”. 127 Cfr in tal senso Cass. civ.. sez. III, 16 marzo 1995, n. 3074, Covi c. Ipeaa; Cass. civ., sez. III, 17 giugno 1995, n. 6910, Scudieri c. Amodeo; Cass. civ., sez. III, 3 ottobre 1996, n. 8652, Raiola c. Puglia; Cass., sez. I, 28 aprile 1990, n. 3599, Vancini c. Zuniga; Cass. civ., sez. III, 10 ottobre 1997, n. 9868, Alba Imm. Spa c. Papanti Pellettie; Cass., sez. I, 20 febbraio 1988, n. 1768, Candotti c. Cesini e da ultimo le recentissime sentenze Cass. Civ. , sez. II, sentenza 21.03.2013 n° 7214 e Cass. civ. sez. II, del 2 gennaio 2014 n. 7, la quale ha stabilito che ha stabilito che in presenza di una famiglia di fatto, in assenza di figli, il convivente, non proprietario della casa familiare, è qualificabile come comodatario, il quale pur non avendo il possesso del bene è comunque un detentore della casa e può tutelarsi dallo spoglio che subisce. 128 L. n. 253/1950, art. 1, comma 4, parte I. 59 Risulta pertanto a giudizio della Corte evidente la nuova volontà legislativa a cui tende la disposizione del 1978, quella cioè “di farsi interprete di quel dovere di solidarietà sociale, che ha per contenuto l'impedire che taluno resti privo di abitazione, e che qui si specifica in un regime di successione nel contratto di locazione, destinato a non privare del tetto, immediatamente dopo la morte del conduttore, il più esteso numero di figure soggettive, anche al di fuori della cerchia della famiglia legittima, purché con quello abitualmente conviventi”. Evidente dunque il processo logico volitivo qui posto in essere dalla Consulta, la quale assumendo quale dato certo la sussistenza del “diritto d’abitazione” nell’ordinamento nazionale, (come derivato da alcune disposizioni pattizie), stipula la relativa conformità della normativa nazionale, nella parte in cui essa non esclude esplicitamente il diritto fondamentale riconosciuto dalla Carte dei diritti umani. Al di là dunque del rango formale riconosciuto alle menzionate disposizioni di diritto internazionale pattizio, nonché della specifica soluzione logico interpretativa svolta in riguardo alla legislazione nazionale, ci sembra qui cristallino l’interesse perseguito dalla Consulta: quello cioè di allineare l’ordinamento italiano con gli standard di tutela sanciti dal diritto internazionale dei diritti umani. 6. La terza fase della giurisprudenza italiana in tema di diritti umani: il caso Polo Castro della Corte di Cassazione e “la competenza atipica” della CEDU sancita nella sentenza n. 10/1993 della Consulta Durante quella che noi definiremo “la terza fase” giurisprudenziale italiana, relativa alla tutela dei diritti e delle libertà convenzionali, si registrano numerose pronunce che escludono la diretta operatività-giustiziabilità delle disposizioni pattizie, in quanto “[essa] ha efficacia vincolante per le [sole] Alte Parti contraenti, e non anche per i relativi sudditi, nonostante che l’oggetto della convenzione e dei corrispondenti 60 obblighi internazionali riguardi proprio costoro ed i loro diritti fondamentali129”. A sostegno di tale teoria, ovverosia del carattere mediato delle disposizioni convenzionali, si riportava il contenuto dell’art. 52 CEDU, il quale, imponendo ad ogni Alta Parte contraente di fornire le delucidazioni richieste circa il modo con cui le norme del suo diritto interno assicurano l’applicazione effettiva di tutte le disposizioni della Convenzione, sembrava richiedere che al singolo fosse garantita “non necessariamente la possibilità di far valere dinanzi al giudice nazionale le norme della (derivanti dall’adattamento alla) Cedu, ma piuttosto quella di chiedere la tutela dei medesimi diritti, in ipotesi già disciplinate da norme nazionali130”. In aggiunta alla suddetta concezione “diplomatica” del diritto internazionale pattizio, osteggiata dalla migliore dottrina italiana131, si sommarono alcune sentenze della corte di Cassazione, in cui si postulò il “il carattere programmatico di singole norme della Convenzione e talvolta, più in generale, l’inidoneità del trattato ad assumere di per sé rilevanza dinanzi al giudice interno132”. Emergeva dunque con netta evidenza un celebre contrasto giurisprudenziale sorto in seno alla prima sezione della Corte di cassazione penale, la quale, se con alcune pronunce aveva aderito al suddetto orientamento133, in altre decisioni, sempre con riferimento alle disposizioni convenzionali inerenti il “giusto processo”, ne affermava l’immediata applicazione, sulla base degli artt. 1 e 13 della CEDU stessa, salvo quelle il cui contenuto fosse così generico da non delineare specie sufficientemente puntualizzate134. 129 Così Cass. pen., sez. I, 23-03-1984, n. 2770, in Riv. pen., 1985, 298. 130 Montanari L. "Giudici comuni e Corti sovranazionali: rapporti tra sistemi", 2003, pag. 7, in archivio.rivistaaic.it. 131 CONFORTI B., Diritto internazionale, 1987, pag. 286, “detto principio è talmente anacronistico e legato alla vecchia concezione “diplomatica” del diritto internazionale da non meritare confutazione”. 132 MONTANARI L. op. cit., ibidem, riportando le sentenze n. 4790, Cass. pen., sez. V, 20-4-1988, («le norme della Cedu hanno carattere meramente programmatico ed efficacia vincolante solo per gli Stati contraenti e non per i relativi sudditi, ancorché sia consentito a questi ultimi adire la commissione europea per i diritti dell’uomo dopo la decisione interna avente carattere definitivo. Ne deriva la preclusione della deduzione, nei motivi di ricorso, di violazioni concernenti disposizioni della Convenzione») e n. 6822 Cass. pen., sez. I, 06-05-1989. 133 Cfr. sentt. 23 marzo 1983, ric. Fignagnani; 20 ottobre 1983, ric. Bonazzi; 7 novembre 1983, ric. Canale; 19 gennaio 1984, ric. Giusto. E nello stesso senso anche sez. III, 31 marzo 1978, ric. D'Alessio; sez. V 12 febbraio 1982, ric. De Fazio. 134 Cfr. Cass. sentt. 7 dicembre 1981, ric. Faglietti, 20 aprile 1982, ric. Bonfanti; 27 ottobre 1984, ric. Venditti. 63 sulla precettività o meno [di una norma convenzionale] e poi introdurre il concetto di self-executing139”. D’altra parte non è irragionevole ritenere che nel menzionato passaggio la Corte abbia voluto sottolineare un tratto peculiare del meccanismo di adattamento (italiano) al diritto internazionale pattizio: è così sancita infatti l’immediata applicabilità della norma convenzionale che (completa nei soli elementi essenziali della fattispecie astratta) trova esatta attuazione processuale ove sia in grado di integrarsi in modo complementare con la legislazione nazionale. L’esclusione del “carattere precettivo” della norma internazionale porta dunque a ritenere che il nucleo operativo della stessa debba, a parere della Corte, essere valutato all’interno di un procedimento logico di tipo induttivo, per propria natura di tipo casistico; spetterà dunque all’interprete individuare l’esatto ambito di applicazione della norma internazionale nel procedimento nazionale, proprio in virtù di quell’ineludibile rapporto di compenetrazione creatosi con il diritto nazionale di riferimento. Ed è proprio grazie a tale impostazione metodologica che la Corte sancisce la diretta operatività dell’art. 5 comma quarto della CEDU, affermando come la garanzia in discorso dovesse essere riconosciuta nell’ordinamento italiano. Non sfugga inoltre che la legislazione nazionale dell’epoca, in virtù di alcune specifiche previsioni costituzionali e del codice di rito140, era già predisposto ad una lettura convenzionalmente orientata, risultava cioè capace di accogliere la normativa convenzionale. Esplicita in tal senso risulta dunque l’affermazione secondo la quale la normativa convenzionale “si pone come norma attributiva del potere di adottare il rimedio già previsto dal codice di procedura penale [anche] per i casi in cui l’ordinamento interno non lo contempli, in contrasto con il principio consacrato nella convenzione”. Giova da ultimo ricordare che la soluzione giurisprudenziale qui ampiamente descritta ha da ultimo trovato cittadinanza nel nuovo Codice di procedura penale; seppur non 139 RANDAZZO B., Giudici comuni e Corte europea dei diritti dell’uomo, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., fasc.6, 2002, pag. 1303. 140 Si citano in tal senso gli articoli 111 co. 2 Cost., che prevedeva, come ad oggi il comma sesto della medesima disposizione, che “Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge” e gli articoli 190 co. 2 e 236 bis del codice di rito penale abrogato. 64 mancano, anche nella normativa in vigore, numerosi profili di dubbia compatibilità convenzionale. Tali elementi critici della novellata disciplina in tema di provvedimenti cautelari nell’ambito del procedimento di estradizione si devono in parte alla formulazione non chiarissima della norma, ed in parte ad un certo orientamento giurisprudenziale della Cassazione, ad oggi ancora restia ad accogliere le innovazioni contenute nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo141. 141 Ai sensi dell’art. 719 c.p.p. (Impugnazione dei provvedimenti relativi alle misure cautelari) “Copia dei provvedimenti emessi dal Presidente della Corte di Appello o dalla Corte di Appello a norma degli articoli precedenti è comunicata e notificata, dopo la loro esecuzione, al procuratore generale presso la corte di appello, alla persona interessata e al suo difensore, i quali possono proporre ricorso per cassazione per violazione di legge”. ANTINUCCI M., La libertà dell'estradando nel regime cautelare d'urgenza, in Giur. It., 2013, pag. 3, seppur riconoscendo che “la segregazione carceraria dell'estradando nel codice Vassalli viene interamente ridefinita in forma organica, abbandonando — in via di principio — i grossolani modelli ministeriali-polizieschi”, tuttavia non dimentica di sottolineare come “nella fase amministrativa-politica il Ministro della giustizia per decidere nel merito dispone di un'eventuale custodia "supplementare" di quarantacinque giorni nonché di un ulteriore supplemento e/o dilatazione riferito al termine di consegna pari a quindici giorni prorogabili, previa domanda motivata dello Stato richiedente di altri venti giorni. In presenza della varianti richiamate la custodia cautelare, per effetto delle cause ostative alla perenzione, può essere in astratto sospesa "sine die". E non può dubitarsi del fatto che il supplemento di carcerazione di quarantacinque giorni rientri tra le competenze del potere esecutivo tradizionalmente previste nel vecchio sistema misto di cooperazione internazionale, […]”. Concludendo: “sino a quando si manterranno nel procedimento di estradizione poteri comunque incidenti sulla libertà personale dell'estradando in capo ad un'autorità di governo, è inevitabile che si realizzino, in misura più o meno clamorosa, lesioni del principio di inviolabilità della libertà personale (artt. 13 Cost., 5 Cedu), come pure è altamente improbabile che si giunga ad escludere la previsione di tali poteri se, sul piano delle idee, non si sarà prima rifiutata la prospettiva per cui vi sarebbe una continua compresenza di motivi giuridici e politici nelle vicende estradizionali”. Non possiamo mancare di denunciare del resto come alcune sezioni della stessa Corte di cassazione abbiano disatteso il precetto sancito nel caso Polo Castro: alcune sentenze emesse agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso hanno infatti ritenuto inapplicabili all'estradizione le garanzie che presiedono alla custodia cautelare (Cfr. Cass., Sez. I, 15 maggio 1989, Van Anraat, in Cass. Pen., 1990, 1323, 1073, con Cass., Sez. IV, 17 agosto 1989, Torresan, ivi, 1990, 1955, 1565, nonché con Cass., Sez. I, 27 febbraio 1989, Gomez Ces, in Riv. Pen., 1990, 185). Inoltre, seppur risulta pressoché pacifico in dottrina la ricorribilità anche per vizio di motivazione in Cassazione in relazione al provvedimento in oggetto, controversa rimane la possibilità di riesame dinnanzi al tribunale di libertà: infatti, seppur si argomenta, in virtù della riserva “in quanto applicabili” operata dall’art.714.2 nonché del tenore testuale dell'art. 719 c. p. p., che le norme sul riesame debbano ritenersi non richiamate (aggiungendo inoltre quello di estradizione è un procedimento semplificato, a cui corrisponderebbero logicamente garanzie più semplici), CENCI D., in Nota in tema di estradizione per l'estero, in Giur. It., 1994, pag. 3, ritiene doversi accogliere un’interpretazione “che non solo si fonda sulla lettura più agevole dell'art. 714, 2° comma, ma, soprattutto, è ispirata da un evidente favor libertatis”. In relazione poi alla condizione prevista dall’art. 705 comma 2 lett. a), secondo cui “La corte di appello pronuncia comunque sentenza contraria all'estradizione: se, per il reato per il quale l'estradizione è stata domandata, la persona è stata o sarà sottoposta a un procedimento che non assicura il rispetto dei diritti fondamentali” si veda la controversa pronuncia assunta dalla Corte di cassazione, Sez. VI, Sentenza 12 luglio 2012, n. 28714. 65 In questa terza fase così delineata della giurisprudenza italiana in tema di diritti umani internazionalmente riconosciuti si inserisce temporalmente una sentenza che per molti è stata accolta quale “leading role”: una decisione che “ha radicalmente messo in discussione le posizioni sino ad allora dominanti”, operando uno “spartiacque storico rispetto all’epoca precedente” per cui la Corte Costituzionale “mettendo in discussione il valore di legge ordinaria della CEDU e sottolineando la sua specificità anche rispetto ad altri trattati internazionali, (…) apriva una fase di crisi dei rapporti tra l’ordinamento italiano e il sistema CEDU142”. Con la sentenza n.10 del 1993 la Corte Costituzionale si è pronunciata su due questioni riunite di incostituzionalità aventi in comune una censura riguardante altrettante norme del codice di procedura penale: nel primo caso si è prospettata l’illegittimità dell’art. 555 comma 3 c.p.p, nella parte in cui non prevedeva che il decreto di citazione a giudizio davanti al pretore debba essere notificato “all’imputato straniero, che non conosce la lingua italiana, accompagnato da una traduzione nella lingua a lui nota”; nel secondo caso invece è stata sollevata questione di incostituzionalità relativa al combinato disposto degli artt. 456 comma 2 e 458 comma 1 c.p.p., nella parte in cui non prevedeva che “l’avviso previsto dall’art. 456 comma 2 c.p.p. sia tradotto nella lingua dell’imputato che non conosce la lingua italiana con l’indicazione del termine entro cui richiedere il giudizio abbreviato”143. Quattro i parametri di riferimento costituzionale denunciati dai giudici a quibus, il Tribunale di Milano e il Pretore di Torino: l’art. 24, comma 2, Cost. in quanto quelle norme non consentivano “un reale 142 LIBERATI F., Corte Costituzionale e giudici comuni nell’adattamento della CEDU al diritto interno: tra tentativi di disapplicazione e obbligo i interpretazione conforme a Convenzione, in www.federalismi.it, 2011. 143 I casi sono stati così riuniti, in virtù dell’unico petitum presentato all’attenzione della Consulta: quello cioè di ottenere due pronunzie additiva di contenuto analogo; nello specifico: “tali giudici, affinchè siano salvaguardati i principi costituzionali invocati e, in particolare, il diritto di difesa, prospettano l'esigenza che nell'ordinamento processuale penale sia introdotta una norma diretta a prescrivere che all'imputato straniero che ignora la lingua italiana siano notificati, anche nella traduzione nella lingua a lui nota, atti del processo penale, dai quali dipendono la conoscenza tempestiva e dettagliata dell'imputazione (decreto di citazione a giudizio dinnanzi al pretore) ovvero l'esercizio di significativi diritti garantiti all'imputato dalle norme di procedura penale (avviso, contenuto nel decreto di citazione a giudizio immediato, concernente la facoltà dell'imputato di richiedere il giudizio abbreviato entro sette giorni dalla notifica del decreto stesso)”. 68 espansivo, diretto a render concreto ed effettivo, nei limiti del possibile, il sopra indicato diritto dell'imputato”. Tale sentenza, se presenta il forte merito di garantire la massima tutela invocata dai ricorrenti, pur tuttavia fa emergere una situazione di scarsa chiarezza dovuta alla distinzione fra forma (ordinaria) delle norme di attuazione della convenzione e contenuto (costituzionale) delle stesse. Nelle parole della Corte, si tratta di una “difficile individuazione del rango delle norme CEDU, che da una parte si muovono nell’ambito della tutela dei diritti fondamentali delle persone, e quindi integrano l’attuazione di valori e principi fondamentali protetti dalla stessa Costituzione italiana, ma dall’altra mantengono la veste formale di semplici fonti di grado primario”. Molti Autori si sono confrontati per tentare di individuare una corretta interpretazione di tale importante quanto problematico passaggio argomentativo. Con la stessa infatti la Corte parrebbe modificare l’orientamento consolidato nei quasi quarant’anni di storia giudiziaria precedente, riconoscendo da una parte quella particolare resistenza passiva delle norme attuative di un trattato internazionale che, come abbiamo visto più sopra, proprio l’Assemblea Costituente aveva negato; dall’altra la Corte sembra attribuire alle disposizioni contenute nella Convenzione europea, per mezzo della loro riconduzione all’art. 2 Cost., un peculiare parametro di legittimità costituzionale. Alcuni Autori hanno così ritenuto di intravedere nella sentenza in discorso una particolare qualificazione del procedimento disciplinato dall’art. 80 della Costituzione, quale iter legislativo capace di determinare la formazione di un “atto atipico”, la cui modifica “esigerebbe che si operasse nella sfera propria di efficacia riconosciuta all’atto stesso, cioè l’adozione di un atto contrario” . Una ricostruzione questa che si fonda sull’antica teoria sostenuta dal Quadri, secondo la quale a livello costituzionale sarebbe in vigore un meccanismo di adeguamento automatico anche nei confronti dei trattati internazionali, in virtù del principio di diritto internazionale consuetudinario introdotto nel nostro ordinamento dall’ art. 10 Cost., “pacta sunt servanda”. Tuttavia la radicalità di tale impostazione avrebbe però reso necessaria una maggiore elaborazione teorica della problematica affrontata da parte della Consulta, non potendosi invece tralasciare che la suddetta affermazione abbia trovato spazio solo nel citato obiter dictum della sentenza; dovendosi riconoscere che quest’ultimo oltre a 69 essere “molto sintetico e privo di motivazione”, risulta oltretutto formalmente non vincolante146. Il carattere innovativo ma non rivoluzionario della decisione in analisi si evince anche (e soprattutto) dal fatto che questa rimase un orientamento isolato, destinato a essere tralasciato quando non espressamente negata dalla giurisprudenza successiva147. D’altronde, per quanto riguarda i profili meritali affrontanti nella pronuncia non si può nascondere che “seppur dopo la storica sentenza cost. n. 10 del 1993 […] si è assistito alla progressiva estensione degli atti che vanno tradotti gratuitamente, [ciò nonostante] si registrano pervicaci resistenze giurisprudenziali con riguardo a determinati atti processuali”, tra cui la sentenza, l’estratto contumaciale148 e l’ordinanza di custodia cautelare149. Tali rilievi dovrebbero invero aver trovato una 146 Per una prospettiva fortemente critica della sentenza in esame si veda fra tutti CATALDI G., Rapporti tra norme internazionali e norme interne, in Digesto delle discipline pubblicistiche, vol. XII, 1997, p. 391 e ss. 147 La tesi sostenuta dalla Consulta nella sentenza in esame, tale per cui le norme della Convenzione deriverebbero da una fonte riconducibile ad una competenza atipica, è stata confermata nella sola ordinanza 24 febbraio 1994, n.64 e nella sentenza della Corte di cass. Civ. sez. I, 8 luglio 1998, n. 6672. 148 MITJA G. L’obbligo di interpretazione conforme alla direttiva sul diritto all’assistenza linguistica, in Dir. Pen. e Processo, 2012, vol. IV, pag. 433. L’Autore del resto esprime un indirizzo fortemente critico della sentenza della Cass. pen. Sez. III, 18 marzo 2011, n. 26703, che aveva negato il diritto dell'imputato alloglotto alla traduzione nella lingua a lui conosciuta del provvedimento conclusivo del procedimento penale a suo carico, ritenendo diversamente che l’art. 3, par. 1 e 2 della direttiva 2010/64/UE, (che sancisce l'obbligo di tradurre le sentenze), ha “senza dubbio natura self-executing”. Un orientamento invece più incline a riconoscere l’immediata operatività della suddetta direttiva (e di conseguenza anche del precetto contenuto nell’art. 6 par. 3 lett. c) è invece affermato nella recente pronuncia della Cass. pen. Sez. III Sentenza, 12 luglio 2012, n. 5486, la quale ha annullato la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione del giudice di appello, potendosi così accertare se gli imputati avessero rappresentato di non conoscere la lingua italiana e quindi richiesto esplicitamente la traduzione della sentenza. 149 KALB L. L'effettività del diritto alla traduzione degli atti dopo la Dir. 2010/64/UE, note a margine della sentenza della Cass. pen. Sez. V, 30 ottobre 2013, n. 48782, in Giur. It., 2014, 3, 714, sottolinea come la Cassazione abbia limitato l'obbligo alla traduzione ai soli “atti che consentono la partecipazione allo svolgimento dell'udienza e al contatto con gli organi giudiziari, non estendendosi a quelli che, come la sentenza o l'estratto contumaciale della stessa, in quanto preordinati a dare impulso alla fase successiva, solo eventuale, mediante impugnazione, sono rimessi all'iniziativa e alla valutazione della parte interessata. Né, sempre secondo quest'orientamento, la mancanza di un siffatto obbligo viola l'art. 6 Cedu, il quale, pur contemplando l'assistenza dell'interprete per il soggetto che non comprenda o non si esprima nella lingua usata nel processo, non richiede che sia effettuata la traduzione scritta di ogni documento della procedura”. In una sentenza delle Sezioni Unite (9 febbraio 2004, n. 5052, Zalagaitis, in Giust. pen. 2004, III, 615) la cassazione aveva stabilito che il destinatario alloglotta di una ordinanza cautelare avesse diritto alla traduzione della medesima in una lingua per lui comprensibile, a partire però dal momento in cui risulti la sua incapacità di comprendere o parlare la lingua italiana. L'implicazione più ovvia e rilevante del principio è che, nell'assenza di informazioni sulle competenze linguistiche dell'interessato (assai ricorrente quando si tratti di procedere «a sorpresa»), la traduzione non è dovuta, fermo restando uno 70 sicura definizione nella recentissima riforma dell’art. 143 del Codice di procedura penale, ad opera D.L. 4 marzo 2014, n. 32, che ha così finalmente attuato la Direttiva 20-10-2010 n. 2010/64/UE sul “Diritto all'interpretazione e alla traduzione nei procedimenti penali150”. Ciò nonostante alcuni Autori hanno salutato con favore ed entusiasmo la sentenza in esame, ritenendo che la Corte volesse distinguere il rango formale delle norme di attuazione dei trattati in generale da quelle inerenti la Convenzione europea, intendendo così valorizzare quest’ultima in quanto “la materia dei diritti umani è elemento capace di influire sulla forza passiva della legge di ratifica151” . 7.1 Segue: il caso Medrano quale riconoscimento del “controllo di convenzionalità diffuso” e il successivo riferimento alle norme pattizie quali fonte interposte nella sentenza n. 388/1999 della Consulta Nella fase giurisprudenziale in analisi, direttamente precedente a quella in cui si scrive, risulta opportuno ricordare due celebri sentenze che hanno confermato un particolare slittamento dei termini per l'impugnazione quando risulti, ex post, che l'indagato non comprende la lingua dell'atto. 150 L’art. 147 c.p.p prevede ora più dettagliatamente ai primi tre commi che “L'imputato che non conosce la lingua italiana ha diritto di farsi assistere gratuitamente, indipendentemente dall'esito del procedimento, da un interprete al fine di poter comprendere l'accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti e lo svolgimento delle udienze cui partecipa. Ha altresì diritto all'assistenza gratuita di un interprete per le comunicazioni con il difensore prima di rendere un interrogatorio, ovvero al fine di presentare una richiesta o una memoria nel corso del procedimento. Negli stessi casi l'autorita' procedente dispone la traduzione scritta, entro un termine congruo tale da consentire l'esercizio dei diritti e della facolta' della difesa, dell'informazione di garanzia, dell'informazione sul diritto di difesa, dei provvedimenti che dispongono misure cautelari personali, dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari, dei decreti che dispongono l'udienza preliminare e la citazione a giudizio, delle sentenze e dei decreti penali di condanna. La traduzione gratuita di altri atti o anche solo di parte di essi, ritenuti essenziali per consentire all'imputato di conoscere le accuse a suo carico, può essere disposta dal giudice, anche su richiesta di parte, con atto motivato, impugnabile unitamente alla sentenza”. Siamo dunque di fronte ad un tipico caso in cui il diritto europeo integra specificando le disposizioni relative ai diritti fondamentali, già previsti in generale dalla Costituzione italiana nonché da alcune disposizioni di rito, oltre che già affermati sul piano internazionale grazie alla Convenzione europea. 151 Si legga in tal senso le considerazioni di GIARDA A. Un messaggio importante per i diritti dell'uomo, in Corriere giuridico, vol. XI, 1994, pag.562. 73 l’orientamento menzionato della Corte sovranazionale ha ritenuto giustificata la violazione dell’art. 8 par. 1 CEDU solo ove la misura di espulsione risulti necessaria in una società democratica, la Corte non può che accogliere le istanze del ricorrente, in quanto il provvedimento impugnato è stato assunto “senza procedere ad un accertamento in concreto della pericolosità del soggetto […], al fine di pervenire ad una soluzione di giusto equilibrio fra le considerazioni di ordine pubblico sottostanti l’espulsione e quelle non meno importanti concernenti la protezione della vita familiare dell’interessato158”. Risulta pertanto centrale il ruolo giocato dalla giurisprudenza sovranazionale, che, come sottolineato nella precedente sentenza Iaglietti, è “considerata elemento indispensabile per chiarire il significato della norma da applicare nel caso di specie159”. Nella sentenza in esame vi sono però ulteriori annotazioni non di poco conto, riferibili all’applicazione di tale particolare criterio ermeneutico. In primo luogo si osserva in dottrina come la giurisprudenza della Corte di Strasburgo non valga solo a “chiarire la portata delle norme convenzionali di principio, e renderle così più facilmente utilizzabili dai giudici nazionali, [ma] essa, a volte, sembra dirigersi espressamente ai giudici nazionali160”. Con particolare lucidità d’osservazione si sottolinea infatti come la giurisprudenza CEDU delinei (implicitamente) “un riparto di competenze tra giudice e legislatore circa dell'espulso); ma possono concernere anche interessi relativi alla "vita privata" (come ad esempio la natura e la gravità dell'infrazione compiuta, la durata del suo soggiorno nel paese ospitante, il periodo trascorso dalla commissione dell'infrazione e la condotta del soggetto durante quel periodo). A questi ultimi la Corte ha poi aggiunto (Grande camera, Üner c. Paesi Bassi, 18 ottobre 2006) il criterio della solidità dei vincoli sociali, culturali e familiari con il paese ospitante e il paese di destinazione. 158 Ibidem, punto 7. 159 RASPADORI F., op. cit., pag. 79. Dello stesso avviso BULTRINI A., La Convenzione Europea dei diritti dell’uomo: considerazioni introduttive, Corriere Giur., 1999, 5, 642, il quale sottolinea come “Dopo un primo, lungo periodo di chiusura rispetto all'apporto di sistemi normativi esterni, durante il quale la Convenzione è stata talora considerata fonte di obblighi per gli Stati ma insuscettibile di dar luogo a situazioni giuridiche soggettive direttamente azionabili dai singoli, talaltra come fonte di norme programmatiche, […] nella sentenza Medrano, questa ha applicato al caso di specie l'art. 8 della Convenzione, conformandosi all'interpretazione che a tale disposizione è stata data dagli organi della Convenzione. Il fatto che la Corte di cassazione, su impulso del sostituto procuratore generale, abbia preso in considerazione, in modo sostanzialmente corretto e appropriato, la giurisprudenza degli organi di Strasburgo è davvero una novità di notevole portata per la sua giurisprudenza. 160 GUIZZAROTTI A. Applicazione immediata del «diritto vivente» CEDU e «diffusione» del sindacato sulle leggi, in (a cura di) FALZEA P., SPADARO A., VENTURA L. La Corte costituzionale e le Corti d'Europa, 2003, p. 399-411. 74 il potere-dovere di adeguamento agli standard di tutela convenzionale161”, attribuendo di sovente al giudice nazionale una delega di bilanciamento fra interessi contrapposti (ad es. libertà/unità familiare). Nel caso di specie le sentenze richiamate dalla Cassazione italiana obbligano lo Stato membro ad “esercitare certi poteri [provvedimento di espulsione] solo dopo aver verificato l’incidenza su determinati diritti, in modo che sia rispettata la proporzionalità tra grado di realizzazione dello scopo statale perseguito e grado di compressione del diritto162”. Si badi bene: la giurisprudenza CEDU non richiede (non potendo) che il bilanciamento suddetto sia risolto sempre in via processuale dall’autorità giudiziaria, escludendo così una disciplina astratta sancita dal Legislatore, ma di certo “vieta allo Stato di applicare leggi che quel bilanciamento lo omettono completamente, o che lo realizzano solo formalisticamente163”. Questo per quanto riguarda la responsabilità (internazionale) dell’Alta Parte contraente di riconoscere “a ogni persona sottoposta alla propria giurisdizione i diritti e le libertà” sanciti nella Convenzione europea164. Per quanto invece riguarda i profili relativi all’applicazione interna della normativa convenzionale si deve ammettere che la menzionata regola di bilanciamento “laddove non espressamente recepita nelle disposizioni di legge applicabili, ma neppure da queste espressamente vietata, vale come una deroga all’obbligo generale di espulsione dello straniero, connesso a determinati reati165”. Non sfugga dunque una considerazione essenziale nell’analisi in discorso: si condivide infatti l’opinione secondo la quale le norme convenzionali sottendano di per sé una natura propriamente costituzionale, in quanto la loro struttura richiede all’interprete di operare un bilanciamento fra interessi giuridici (fondamentali e fondanti lo Stato di diritto), che nella pratica si possono presentare in potenziale contrasto. Pertanto, ove la giurisprudenza CEDU sia in grado di fornire dei criteri stabili per svolgere correttamente tali bilanciamenti, questa rappresenta senza dubbio “uno strumentario 161 GUIZZAROTTI A., ibidem pag. 405. 162 GUIZZAROTTI A., ibidem, pag. 409. 163 GUIZZAROTTI A., ibidem, pag. 409. 164 Art. 1, CEDU. 165 GUAZZAROTTI A., ibidem, pag. 410. 75 notevole per il giudice nazionale determinato a piegare la rigidità di certe disposizioni di legge in favore delle esigenze del caso166”. Vi sarebbero molte altre considerazioni che sorgono dall’analisi di questa interessatissima sentenza. Ci siano qui consentite tre ulteriori annotazioni; la prima: si ritiene che la Corte di cassazione avrebbe ben potuto garantire la massima tutela invocata dal ricorrente limitandosi ad interpretare (in modo senza dubbio innovativo) la legislazione di origine nazionale167. L’aver fondato allora l’iter logico-interpretativo sulle norme convenzionali alla luce della giurisprudenza CEDU dimostra pertanto l’autorevolezza che gode il sistema istituito in seno al Consiglio d’Europa nel sistema giuridico italiano, nonché la sua capacità di penetrare nei confini nazionali per mezzo della Magistratura interna168. 166 GUAZZAROTTI A., ibidem, pag. 411. 167 Come infatti sottolinea la stessa Cassazione la disciplina delle misure di sicurezza delineate dal Codice Rocco erano già state modificate all’epoca da precedenti sentenza della Consulta (n.1 del 1971, n.139 del 1982, n.249 del 1983), la quale aveva così proceduto “all’abolizione di ogni forma di presunzione legale di pericolosità, imponendo in ogni caso al giudice l’accertamento in concreto della pericolosità del soggetto quale risultato di un giudizio prognostico circa la probabilità di ricaduta nel delitto. Come base della prognosi, nel nostro ordinamento, l’organo giudicante è tenuto, ex art.203 c.p. a utilizzare pur sempre gli indici offerti dall’art. 133 c.p., tra i quali, come si è visto, nel caso di specie, valutati quelle concernenti le condizioni di vita famigliare del soggetto interessato”. 168 Ci si può infatti domandare se sarebbe stato maggiormente persuasivo ricavare la soluzione del caso di specie individuando nella normativa nazionale menzionata la tutela invocata dal ricorrente; ovvero optare, come di fatto si è preferito, per una soluzione interpretativa “in grado di riallineare, nel momento applicativo della legge, il nostro ordinamento a quel livello di civiltà giuridica” rappresentato dalla Convenzione (ibidem, punto 8.1). Evidentemente, nel primo caso la sentenza così emanata avrebbe di certo sollevato molte (fisiologiche) critiche da parte della dottrina nazionale. L’alternativa qui prescelta vanta il merito di apparire quale ineluttabile conseguenza del movimento internazionale (e progressista) inerente la tutela dei diritti umani. La contestazione del caso di specie dovrebbe pertanto, per coerenza, svolgersi anche nei confronti della circolazione di questi nuovi modelli e standard giuridici nell’ordinamento giuridico nazionale. Del resto, alla stessa conclusione è giunta, mediante un’analisi limitata alla legislazione di origina nazionale, la Corte Costituzionale con la sentenza n.58 del successivo febbraio del 1995, dichiarando l’illegittimità costituzionale del art. 86, primo comma del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, in quanto “Messa a confronto con le altre ipotesi di applicabilità della misura di sicurezza dell'espulsione, previste dagli artt. 235 e 312 c.p., le quali, pur essendo subordinate al presupposto di condotte obiettive altrettanto gravi rispetto a quelle considerate nell'impugnato art. 86, primo comma, comportano pur sempre, in ossequio alla regola generale stabilita dal ricordato art. 31 della legge n. 663 del 1986, la valutazione da parte del giudice della sussistenza in concreto della pericolosità sociale dello straniero condannato, l'ipotesi contestata configura un'irragionevole disparità di trattamento”. Da ultimo, per completezza dalla trattazione, si ricorda come il D.L. 8 gennaio 2007, n. 5, "Attuazione della direttiva 2003/86/CE relativa al diritto di ricongiungimento familiare" abbia introdotto l’obbligo, all’art. 4 comma 5 del D.L. 25 luglio 1998, n. 286, “Nell'adottare il provvedimento di rifiuto del rilascio, di revoca o di diniego di rinnovo del permesso di soggiorno dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare ovvero del familiare ricongiunto, ai sensi dell'articolo 29, [di tenere] anche conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell'interessato e dell'esistenza di legami 78 richiamo, che non trova maggiori spiegazioni nella sentenza, di maggiore interesse risulta il riconoscimento dell’art. 6 CEDU quale norma interposta, ritenuta così legittimo parametro per valutare la costituzionalità della disposizione del codice di rito civilista impugnato. Come noto, la suddetta formulazione del giudizio di costituzionalità verrà poi (parzialmente) accolta dal Legislatore del 2001, con la riforma dell’art. 117 comma primo della Costituzione italiana. 8. Le recenti espressioni del confronto fra l’ordinamento giuridico italiano e il sistema convenzionale di protezione dei diritti umani: la riforma del Titolo V della Costituzione e i successivi orientamenti della corte Costituzionale (“le prime sentenze gemelle”) Il nuovo millennio si apre senza dubbio con alcune importanti novelle legislative, in grado di incidere profondamente nel rapporto ormai pluridecennale fra il sistema di protezione dei diritti umani istituito in seno al Consiglio d’Europa e l’ordinamento giuridico italiano. Fra le molte espressioni di questo nuovo interesse dimostrato dal Legislatore italiano nei confronti dell’applicabilità interna della CEDU173 non si può qui non ricordare la legge Costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001, la quale, riformando 173 Per esigenza di sintesi abbiamo preferito pertanto soprassedere rispetto all’analisi delle pur rilevanti innovazioni determinate nell’ordinamento giuridico italiano dalla legge 24 marzo 2001, n. 89, cosiddetta “Legge Pinto” e dalla successiva “Legge Azzolini” – l. n. 12 del 9 gennaio 2006. In estrema sintesi: la prima novella qui richiamata tenta di offrire una soluzione alle centinaia di condanne subite dallo Stato italiano per la violazione (strutturale) dell’art. 6 CEDU. Pertanto la suddetta novella impone al giudice nazionale di adottare i criteri stabiliti dalla CEDU per il calcolo della durata effettiva del procedimento - stabiliti a 3 anni per grado di giudizio - dopo i quali si incorre nella “irragionevole durata” dello stesso, e dunque nel relativo diritto al risarcimento. La seconda delle disposizioni ricordate prevede invece una precisa responsabilità del Governo italiano in relazione all’esatta esecuzione delle pronunce della CtEDU, in quanto quest’ultimo è tenuto non solo a darne pronta comunicazione alle Camere, ma anche a presentare al Parlamento una relazione annuale sullo stato di esecuzione delle stesse. Giova sottolineare che con questa norma si equipara sostanzialmente il dettato della Corte di Strasburgo a quello della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, per la quale il comma 3 della legge 400 stabiliva già la competenza del Presidente del Consiglio dei Ministri a “promuovere e coordinare l'azione del Governo relativa alle politiche comunitarie …” e a “promuovere gli adempimenti di competenza governativa conseguenti alle pronunce della Corte di giustizia delle Comunità europee”. 79 l’art. 117 della Carta Costituzionale, ha sancito che “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali174”. A prescindere dalla molte critiche sollevate in dottrina rispetto all’infelice collocazione di questa disposizione nel Titolo V della Costituzione175, dovuta secondo alcuni ad una scelta non avveduta da parte del Legislatore176, risulta palese dalla successiva giurisprudenza di legittimità che tale novella non fu in grado da sola di dissipare i molti dubbi interpretativi relativi all’applicazione interna della normativa convenzionale. L’orientamento altalenante e a tratti persino contraddittorio espresso dalle diverse Sezioni, civili e penali, della Corte di cassazione, non può che convalidare la suddetta impressione. 174 L’articolo 1 della legge di attuazione del nuovo Titolo V (legge La Loggia) specifica quanto disposto dalla novella costituzionale, prevedendo che “costituiscono vincoli alla potestà legislativa dello Stato e delle Regioni, ai sensi dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione, quelli derivanti dalle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, di cui all’articolo 10 della Costituzione, da accordi di reciproca limitazione della sovranità, di cui all’articolo 11 della Costituzione, dall’ordinamento comunitario e dai trattati internazionali”. 175 La scelta infatti appare infelice: piuttosto che nella parte dedicata alla delimitazione delle competenze legislative tra Stato e Regioni meglio sarebbe stato inserire tale disposizione tra i principi generali della costituzione. Secondo l’avviso del CONFORTI B. (Sulle recenti modifiche della Costituzione italiana in tema di rispetto degli obblighi internazionali e comunitari, in Foro Italiano V, 2002, pag. 229) infatti la norma in esame presenta diversi elementi di similitudine con l’articolo 10 comma secondo, Cost., in quanto “le leggi che non rispettano i vincoli derivanti dai trattati validamente conclusi dall’Italia possono essere poste nel nulla dalla Corte Costituzionale”. La critica comunque non appare decisiva, in quanto il Legislatore pur non inserendo tale disposizione fra i principi fondamentali della Costituzione ha voluto ciò nondimeno così tutelare l’interesse dell’osservanza degli obblighi internazionali, ripartendo nell’articolo in esame le materie legislative riservate rispettivamente allo Stato e alle Regioni. Come osservato d’altra parte la garanzia costituzionale dell’osservanza degli obblighi internazionali è “diretta quindi a rinvenire un rimedio rispetto alle incongruenze derivanti dall’imperfetta corrispondenza fra funzione normativa interna e potere estero di Stato e Regioni” , trovando così il proprio ambito di applicazione (CANNIZZARO E. “La riforma federalista della Costituzione e gli obblighi internazionali”, in Riv. Dir. Intern., 2001, pag. 921). Secondo quest’ultimo Autore quindi tale disposizione sarebbe funzionale ad “esplicitare e bilateralizzare il vincolo del rispetto degli obblighi internazionali, che nel preesistente ordinamento era, pur se solo implicitamente, disposto nei confronti delle [sole] Regioni. Dato che nel nuovo assetto costituzionale (…) le Regioni dispongono di proprie competenze sul piano esterno, è ragionevole pensare che l’art.117 primo comma abbia proprio la funzione di stabilire che l’assunzione di obblighi internazionali ad opera di ciascuno degli enti titolari di tale potere costituisca un limite di legittimità per l’esercizio di competenze normative interne dell’altro”. 176 Lamarque E., “Il vincolo alle leggi statali e regionali derivante dagli obblighi internazionale nella giurisprudenza comune” in www.associazionedeicostituzionalisti.it a pag. 1 ricorda come “l’introduzione di questa statuizione di dirompente novità sia avvenuta in modo inopinato, nella disattenzione generale, successivamente all’elaborazione del testo unificato da parte della prima commissione della Camera dei Deputati”. 80 Si rammenta infatti che se da un lato la Corte di cassazione dopo il 2001 denunciava la diretta operatività del nostro Trattato internazionale nei giudizi interni, riconoscendo pertanto posizioni giuridiche soggettive in capo ai ricorrenti177, d’altra parte, probabilmente in vicende processuali più delicate, ove cioè ricorrevano profili economici e/o valoriali processualmente rilevanti, i giudici ermellini non dimenticavano di ripetere il mantra della programmaticità e non precettività della normativa convenzionale, limitandosi pertanto a riconoscere “la sostanziale impossibilità di affidare l’eventuale risoluzione dell’antinomia [fra legislazione interna e quella convenzionale] allo strumento del coordinamento ermeneutico delle diverse fonti”178. 177 Cfr fra le altre Cass. 27 marzo 2002 n. 4297, in cui, venendo in discussione un provvedimento concernente la ricusazione di un giudice, si affermava che l’esigenza di far decidere una controversia ad un giudice imparziale è stata definita dalla CEDU come un “diritto soggettivo della parte […]. Sicché, dato il rango della fonte da cui l’attribuzione proviene, non può dubitarsi che detta aspirazione rappresenti ormai un diritto soggettivo della persona non solo pieno ed assoluto, ma anche fondamentale e insopprimibile (neppure dal legislatore interno)”; come poi non ricordare le quattro sentenze “poker” delle Sezioni Unite della Cassazione (nn. 1138, 1339, 1350, 1341, depositate il 26 gennaio 2004) le quali, successive allo stato d’accusa espresso dalla CtEDU (27 marzo 2003, Scordino c. Italia) in relazione all’inefficace rimedio interno rispetto alla irragionevole lunghezza dei processi disposto dalla legge Pinto, seguivano tutte un percorso motivazionale unico: quello cioè di conformarsi ai criteri stabiliti dai giudici di Strasburgo in tema di risarcibilità del danno non patrimoniale dovuto alla violazione dell’art. 6 CEDU, come quest’ultimo attuato in Italia con la menzionata l. n. 89 del 2001. CONTI R., in La Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo: il ruolo del giudice nazionale, 2011, pag. 67 osserva come “la riconosciuta rilevanza di diversi cataloghi dei diritti (artt. 6 CEDU e 111 Cost.)” operata dai giudici della Cassazione permetteva loro nelle sentenze menzionate di individuare “la sfera e la misura di tutela […] non in ragione della prevalenza di una fonte rispetto all’altra, ma piuttosto attraverso l’individuazione del massimo livello di tutela apprestato dal complessivo esame delle due fonti”. Interessante notare inoltre che le S.U., ipotizzando il perdurare del contrasto tra la normativa nazionale e quella convenzionale, sancivano che quest’ultimo avrebbe comportato “una questione di conformità della stessa con la costituzione”, non disdegnando pertanto l’idea che il sindacato di costituzionalità dovesse comprendere anche la conformità della norma interna con gli obblighi di natura internazionali. 178 In particolare si legga Cass. 14 giugno 2002 n.8503, in cui si asserì che la pretesa violazione dell’art. 5 CEDU, in ragione della genericità e specificità della norma, non comporta una responsabilità dello stato alla stregua del diritto interno, in applicazione dell’art. 2043 c.c., essendo configurabile solamente una sua responsabilità internazionale pattizia a far valere nei limiti della convenzione stessa dinnanzi agli organismi di controllo in essa previsti; ancora, relativamente ad una domanda di risarcimento proposta dinnanzi alle autorità giudiziarie italiane per alcuni bombardamenti illegittimi posti in essere dall’esercito nazionale nei confronti di civili serbi durante l’ultimo conflitto nell’area dell’ex – Jugoslavia, si veda S.U. n. 8157/2002; nella stessa infatti, riproponendo le argomentazioni ormai note relative all’asserità programmaticità della CEDU, si finiva per sterilizzare il contenuto di tale strumento convenzionale; addirittura poi Cass. n. 6173/2004 ha escluso non solo ogni vincolatività delle sentenze promananti dalla Corte EDU, ma anche la possibilità di risolvere il conflitto tra norma interna e principio convenzionale con la prevalenza del secondo in ragione della eterogeneità delle fonti normative. Tale orientamento, particolarmente attento a difendere con ogni mezzo il vigore della legislazione italiana da eventuali “incursioni” da parte del diritto CEDU, risulta ancor più esplicito nella giurisprudenza precedente alla citata sentenza Scordino c. Italia del 2003. Nello specifico Cass. 11987/2002 affermava 83 prospettiva di studio si afferma pacificamente che le sentenze in discorso abbiano stabilito una vera e propria guida metodologica per le autorità giudiziarie nazionali nell’ambito dell’applicazione pratica della Convenzione europea. Si riporta quindi di seguito il c.d. “decalogo” delineato per il giudice comune convenzionale184, ripromettendoci di affrontare successivamente gli elementi di maggiore criticità delle sentenze in discorso: 1) il meccanismo di adattamento automatico dell’ordinamento giuridico italiano al diritto internazionale previsto dall’art. 10, primo comma, Cost., vale solo per le norme internazionali consuetudinarie e non può essere invocato per le norme internazionali pattizie, e quindi neppure per la Convenzione europea, che appartiene a tale ultima categoria; 2) in relazione alle norme della Convenzione europea non è invocabile neppure il parametro dell’art. 11 Cost., poiché esso riguarda soltanto il diritto comunitario. Di conseguenza, non è possibile attribuire alle norme convenzionali “l’effetto diretto, nel senso e con le implicazioni proprie delle norme comunitarie provviste di tale effetto, in particolare la possibilità per il giudice nazionale di applicarle direttamente in luogo delle norme interne con esse confliggenti”; 3) il parametro costituzionale di riferimento per le norme internazionali pattizie, Convenzione europea compresa, è invece l’art. 117, primo comma, Cost., il quale certamente conferisce alle norme pattizie una forza di resistenza maggiore rispetto alle leggi interne successive, senza peraltro attribuire loro il rango costituzionale; 4) l’art. 117, primo comma, Cost., agisce realizzando “un rinvio mobile” alla norma convenzionale di volta in volta conferente, la quale dà vita e contenuto a quegli obblighi internazionali genericamente evocati e, con essi al parametro, tanto da essere comunemente qualificata “norma interposta”; di conseguenza, gli eventuali contrasti fra una norma convenzionale e una legge interna successiva “non generano problemi di successione delle leggi nel tempo o valutazioni sulla rispettiva collocazione gerarchica delle norme in contrasto, ma questioni di legittimità costituzionale” aventi come oggetto la legge interna e come parametro interposto la norma convenzionale; 5) anche il contrasto tra norma convenzionale e legge interna anteriore, peraltro, si configura come questione di legittimità 184 I “dieci comandamenti” per il giudice comune sono stati qui ricordati prendendo spunto dall’analisi svolta dalla Prof.ssa Lamarque E. in op. cit., pag. 5. 84 costituzionale di competenza della Corte costituzionale185; 6) “al giudice comune spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme; 7) il giudice comune può percorrere la via del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale solo qualora l’interpretazione conforme al vincolo internazionale non sia possibile, e cioè quando il rilevato contrasto tra norma interna e disposizione internazionale è “insanabile invia interpretativa” da parte del giudice comune, oppure quando l’interpretazione conforme al vincolo internazionale è rifiutata dal diritto vivente; 8) stante il dovere del giudice comune di procedere all’interpretazione della legge in senso conforme al vincolo internazionale ogniqualvolta tale interpretazione sia testualmente possibile e non esista un diritto vivente contrario, il mancato esperimento di un tentativo in tal senso rende inammissibile la questione di legittimità costituzionale eventualmente sollevata; 9) quando la Corte costituzionale entra nel merito di una questione di costituzionalità relativa a un preteso contrasto tra norma interna e norma internazionale interposta, ad essa spetta il compito di “verificare congiuntamente la conformità a Costituzione di entrambe e precisamente la 185 Soluzione questa solo implicitamente ricavabile dalle “sentenze gemelle”, mentre verrà esplicitamente affermata in Corte Cost. 39/2008. Quest’ultima ha infatti escluso l’operatività del meccanismo di abrogazione implicita della norma interna preesistente, contrastante con la CEDU introdotta successivamente. Sul punto però la dottrina maggioritaria italiana ritiene d’altronde che le sentenze in esame della Corte Costituzionale non sianon ostative all’applicazione dell’istituto dell’abrogazione implicita da parte della legge di ratifica della CEDU rispetto alle leggi previgenti e con la stessa contrastante. In tal senso, ancora con massima chiarezza, LAMARQUE E. in op. cit., pag. 18 : “non è determinante neppure la circostanza che la sentenza n. 39 del 2008, con grande scandalo della dottrina internazionalistica, abbia affrontato come una questione di costituzionalità di competenza della Corte costituzionale, invece che come un problema di abrogazione di competenza del giudice comune, l’incompatibilità tra norma interna precedente e norma convenzionale successiva che in quella specifica occasione veniva in rilievo. In quella sentenza, infatti, la Corte costituzionale non ha affatto negato […] che le norme pattizie, se dotate di determinate caratteristiche di contenuto, possano attribuire, una volta immesse nell’ordinamento interno mediante ordine d’esecuzione, diritti e obblighi in capo ai soggetti dell’ordinamento, né ha negato che tali norme di origine pattizia abbiano la capacità di abrogare o modificare leggi precedenti nel tempo. Una simile affermazione sarebbe stata in contrasto non solo con il consolidato orientamento giurisprudenziale sul carattere immediatamente precettivo delle norme internazionali di tipo self executing, e cioè recanti una disciplina completa e autosufficiente introdotte con ordine di esecuzione, ma soprattutto con il chiaro dettato dell’art. 80 Cost., che dà per scontata l’esistenza ditrattati internazionali che “importano … modificazioni di leggi”. Mi sembra piuttosto che la Corte costituzionale abbia semplicemente ritenuto che, una volta che il dubbio circa la compatibilità di una legge interna con una norma convenzionale posteriore sia stato rimesso da un giudice al suo giudizio, la soluzione di quel dubbio sia senz’altro di sua competenza. Nulla dice al contrario la Corte circa l’ammissibilità dell’ipotesi di cui ora ci occupiamo, di un giudice cioè che ritenga la norma interna abrogata, e di conseguenza giudichi la relativa questione di costituzionalità non rilevante”. 85 compatibilità della norma interposta con la Costituzione e la legittimità della norme censurata rispetto alla norma interposta” e, “nell’ipotesi di una norma interposta che risulti in contrasto con una norma costituzionale”, la Corte “ha il dovere di dichiarare l’inidoneità della stessa ad integrare il parametro, provvedendo, nei modi rituali, ad espungerla dall’ordinamento giuridico italiano”; 10) infine, con riferimento alle sole norme convenzionali, la Corte costituzionale precisa che esse vivono nell’interpretazione che viene data loro dalla Corte europea, nel senso che la loro “peculiarità”, nell’ambito della categoria delle norme internazionali pattizie che fungono da norme interposte, “consiste nella soggezione all’interpretazione della Corte di Strasburgo, alla quale gli Stati contraenti, salvo l’eventuale scrutinio di costituzionalità, sono vincolati ad uniformarsi”. Quando viene in rilievo la Convenzione europea, in definitiva, su tutti gli organi giurisdizionali nazionali, Corte costituzionale compresa, ciascuno nell’esercizio delle proprie competenze, graverebbe un vincolo interpretativo assoluto e incondizionato alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo per la determinazione dell’esatto contenuto del vincolo internazionale. 8.1 Alcune considerazioni relative ai canoni interpretativi stabiliti nelle “prime sentenze gemelle”: vinti e vincitori nella lunga battaglia per l’applicazione diretta della Convenzione europea ed il vincolo di fedeltà alla giurisprudenza di Strasburgo Fissati così i dieci comandamenti per il giudice comune convenzionale, è ora opportuno sottolineare come le sentenze in discorso siano state salutate con giudizi divergenti dalla dottrina e dai giudici italiani. Da una parte infatti si evidenzia con sollievo che “la perdita di potere discrezionale che deriva al giudice comune dal secondo comandamento del decalogo (ovvero sia quello di non poter applicare direttamente la normativa convenzionale in aperto contrasto con la legislazione italiana) è stata accettata senza fatica soprattutto dalle giurisdizioni superiori perché è compensata da 88 La ricostruzione teorica operata della Consulta in tale passaggio apparirebbe persino eccessivamente “filo-convenzionale”: sebbene infatti il riconoscimento del pieno valore giuridico del precedente CtEDU è senza dubbio un elemento di forte innovazione per le giurisdizioni nazionali italiane191, ciò nonostante la formula utilizzata dal Giudice delle leggi rischia di presentare non pochi inconvenienti nella sua attuazione pratica. Vi sono anzi molteplici caratteri connaturati alla giurisprudenza convenzionale che ne rendono spesse volte addirittura impossibile la sua traduzione di fronte ad un’autorità giudiziaria nazionale. In primo luogo si osserva come la Corte di Strasburgo svolga la propria funzione giurisdizionale con un andamento giocoforza casistico, risolvendo cioè sempre casi particolari e specifici, ambientati in un determinato ordinamento nazionale192. Pertanto le singole applicazioni date alle norme convenzionali di rivelano essere “non sempre adatte, per la loro struttura, a essere immediatamente tradotte in norme generali e astratte, uniformemente valide per tutti gli Stati e per tutti gli individui che ricadono sotto la sua giurisdizione193”. 191 Sulla capacità recettiva della Magistratura italiana rispetto alla giurisprudenza sovranazionale si legga a titolo esemplificativo l’opinion di Selvaggi E., op. cit., pag.9: “Per lungo tempo la giurisprudenza delle corti sopranazionali, in particolare di quella di Strasburgo, è stata poco frequentata dai nostri giudici. Sono poche le eccezioni significative, peraltro ascrivibili a specifiche professionalità piuttosto che a un habitus mentale generalmente riconducibile all’amministrazione giudiziaria nel suo complesso. Il che costituisce un aspetto perlomeno curioso (comunque divergente dall’esperienza di altri Paesi, come la Francia) se si considera che la Cedu (adottata a Roma il 4 novembre 1950) è entrata in vigore per l’Italia il 26 ottobre 1955 (legge di ratifica 4 agosto 1955)”. Dello stesso avviso inter alios anche Lamarque E., in op. cit., pag. 34, la quale evidenzia come i giudici comuni, prima delle “sentenze gemelle”, richiamavano “abbastanza frequentemente le disposizioni della Convenzione, ma di solito senza alcun riferimento alle interpretazioni della Corte di Strasburgo, tanto che le previsioni della Convenzione europea subivano una vera e propria dissociazione, vivendo contemporaneamente nell’ordinamento internazionale nel significato loro attribuito da parte della Corte europea, da una parte, e nel diritto interno nella diversa lettura in chiave nazionale fornita dai giudici italiani, dall’altra”. 192 Come si sottolinea in dottrina, nelle sentenze “gemelle” il giudice costituzionale d’altronde non fa differenza fra pronunce della CtEDU rese nei confronti dell’Italia e pronunce rese nei confronti degli altri Paesi per arguirne l’illegittimità costituzionale di una normativa interna. Evidentemente tale ultima questione è complessa e meriterebbe un approfondimento specifico, implicante necessarie valutazioni di tipo comparatistico. Qui si condivide la tesi di VARI F., A (ben) cinque anni dalle sentenze gemelle: appunti su due problemi ancora irrisolti, in www.federalismi.it , 2012, pag. 6, ove si afferma che “il carattere concreto del giudizio innanzi alla Corte di Strasburgo dovrebbe normalmente escludere la possibilità di ricavare da sentenze relative a Stati diversi dall’Italia regole di carattere generale efficaci, per il tramite dell’art. 117 Cost., anche per il nostro Paese”. Tale soluzione inoltre parrebbe confermata dalla Dichiarazione di Brighton del 2012, nonché in termini più espliciti dalla Conferenza di Interlaken del 2010. 193 LAMARQUE E., op. cit., pag. 34. 89 In secondo luogo, anche qual’ora un operatore nazionale dovesse appellarsi all’autorevolezza di un precedente della CtEDU, con la quale la stessa ha acclarato la violazione della Convenzione da parte di una norma giuridica nazionale, anche in tal caso si deve ricordare che la stessa Corte di Strasburgo ha più volte affermato di potersi discostare da un proprio precedente se vi sono “convincenti ragioni” per farlo194. Inoltre giova ricordare che ai sensi dell’art. 43 CEDU “entro un termine di tre mesi a decorrere dalla data della sentenza di una Camera, ogni parte alla controversia può, in situazioni eccezionali, chiedere che il caso sia rinviato dinnanzi alla Grande Camera”, ben potendo perciò quest’ultima riformare la sentenza rinviata. Per tali motivi risulta controverso in dottrina se sia corretto (come parrebbe confermare una recente ordinanza della Consulta195) consentire alle singole autorità giudiziarie nazionali di sollevare un giudizio di costituzionalità anche ove la sentenza della CtEDU non sia già divenuta definitiva196. 194 Cfr., inter alias, Corte eur. dir. uomo, 27 settembre 1990, Cossey c. Gran Bretagna, ric. n. 10843/84, par. 35. Più di recente Scoppola c. Italia n. 2, 17 settembre 2009, ric. n. 10249/03, par. 104: “Senza che la Corte sia formalmente tenuta a seguire le proprie decisioni anteriori, è nell’interesse della sicurezza giuridica, della prevedibilità e dell’eguaglianza davanti alla legge che essa non si discosta senza un valido motivo dai propri precedenti […]. Tuttavia, poiché la Convenzione è anzitutto un meccanismo di tutela dei diritti dell’uomo, la Corte deve tenere conto dell’evoluzione della situazione nello Stato convenuto e negli Stati contraenti in generale e reagire, ad esempio, al consenso che potrebbe emergere per quanto riguarda il livello di protezione da raggiungere […]. È di fondamentale importanza che la Convenzione venga interpretata e applicata in modo tale da renderne le garanzie concrete e effettive, e non teoriche e illusorie. Se la Corte non adottasse un approccio dinamico ed evolutivo, un tale atteggiamento rischierebbe di ostacolare qualsiasi riforma o miglioramento”. 195 E’ il caso ordinanza n. 150 del 2012 della Corte costituzionale, concernente il divieto di procreazione artificiale eterologa previsto dalla legge 19 febbraio 2004, n. 4010. Il relativo giudizio di legittimità costituzionale era stato promosso a seguito di una decisione di primo grado, non definitiva, della Corte EDU (caso S.H. and Others v. Austria del 1° aprile 2010). Successivamente alle ordinanze di rimessione, tale decisione era stata annullata dalla Grande Chambre (sentenza del 3 novembre 2011)12. Con l’ord. n. 150 del 2012 la Corte costituzionale si è limitata a restituire gli atti ai giudici a quibus, chiedendo loro di rivalutare la questione alla luce della sentenza d’appello della Corte EDU e non avendo nulla “da (ri)dire” sul fatto che il giudizio di costituzionalità era stato attivato senza attendere tale sentenza. 196 In tal senso si ricorda come diversamente nell’esperienza britannica non solo la sec. 2 dello HRA stabilisce che i giudici siano tenuti a “take into account” – e non “to follow” – la giurisprudenza della Corte EDU, ma si richiede altresì che si tratti di una giurisprudenza della Corte “clear and constant” (cfr. Lord Neuberger, Pinnock v. Manchester City Council, decisione del 3 novembre 2010). In relazione alla prassi instauratasi in Italia, si legga l’opinione di VARI F., op. cit., pag. 4: “Consentire la promozione di giudizi di legittimità costituzionale senza attendere (quanto meno) che le decisioni della Corte EDU siano divenute definitive desta, tuttavia, forti perplessità. Per rendersi conto della fondatezza delle stesse basta domandarsi che cosa accadrebbe se la Corte dichiarasse l’illegittimità costituzionale di una normativa interna per violazione mediata dell’art. 117 Cost., facendo leva su una sentenza non definitiva del giudice di Strasburgo, poi cancellata – dopo la sentenza di accoglimento della Corte italiana – dalla Grande Chambre”. 90 A prescindere da questi ultimi, importanti, rilievi, rimane da sciogliere il nodo relativo al “decimo comandamento” contenuto nelle “sentenze gemelle”, a cui prima si faceva riferimento. Se infatti le autorità giudiziarie nazionali cedessero alla tentazione di seguire pedissequamente il menzionato precetto comunicato dalla Consulta, dinnanzi a queste si presenterebbe un’alternativa netta, un pericoloso aut aut: ogniqualvolta infatti non fosse possibile dare applicazione ad una normativa interna di rilevanza convenzionale coincidente con quanto stabilito dalla CtEDU, sarebbe sempre necessario sollevare una questione di legittimità costituzionale della legislazione nazionale, per contrasto della stessa con l’art. 117 Cost. Pertanto, date le difficoltà, prima ricordate, insite nella traduzione della giurisprudenza della Corte di Strasburgo in contesti giuridici nazionali, non sarebbe stato irragionevole prevedere un esponenziale incremento (dopo il 2007) delle domande di legittimità costituzionale avanzate dai giudici comuni alla Corte Costituzionale. Tale ultima evenienza, come sottolineava la dottrina più attenta, avrebbe di fatto trasferito sulla Corte costituzionale “l’arduo compito di dare una corretta lettura della giurisprudenza di Strasburgo, richiedendole indebitamente di svolgere la funzione di… giurisdizione d’interpretazione della stessa giurisdizione d’interpretazione della Convenzione europea197”. L’orientamento della giurisprudenza comune successiva al 2007 in realtà dimostra come i timori su prospettati non abbiano trovato seguito. Sebbene infatti le pronunce della Corte di Strasburgo abbiano assunto un rinnovato valore, di indiscussa autorevolezza fra i giudici italiani198, ciò nonostante questi ultimi sono stati in grado di 197 LAMARQUE E., op. cit., pag. 30. 198 Osserva ancora LAMARQUE E. in op. cit. pag. 31 come “non accad[a] quasi mai, infatti, che nella motivazione di un provvedimento giurisdizionale un articolo della Convenzione europea non accompagnato dal riferimento all’orientamento della Corte di Strasburgo valga da solo a supportare un’interpretazione conforme alla Convenzionedella legge interna o la proposizione di una questione di legittimità costituzionale”. Con evidenti analogie rispetto all’attività di ricerca svolta dalla dottrina inglese, anche in Italia gli studiosi tentano di individuare le diverse funzioni svolte dalla giurisprudenza sovranazionale nell’iter logico-interpretativo della Magistratura nazionale. In tal senso, a giudizio dell’Autrice, negli ultimi anni la giurisprudenza di Strasburgo risulta determinante per le scelte interpretative dei giudici “sotto ogni possibile profilo”, ovvero sia: 1) come ausilio interpretativo per sostenere una determinata lettura della Costituzione; 2) come ausilio interpretativo per trovare conferma della bontà di una determinata interpretazione della legge; 3) per dichiarare la manifesta infondatezza di una questione di legittimità costituzionale di una legge eccepita in relazione all’art. 117, primo comma, Cost. per violazione della Convenzione europea; 4) per procedere a una vera e propria 93 modo retroattivo il trasferimento di dipendenti di enti locali nei ruoli statali del personale amministrativo, tecnico e ausiliario (ATA) del settore scuola202. Ebbene, quest’ultimo intervento a gamba tesa del Legislatore aveva suscitato i dubbi di costituzionalità dei giudici a quibus, i quali ritenevano che la norma censurata violasse l’art. 6 CEDU, alla luce dell’interpretazione svolta dalla CtEDU di questa fondamentale disposizione. In particolare si richiamavano alcune pronunce nelle quali, (pur non essendo l’Italia risultata parte in giudizio), la Corte di Strasburgo aveva sancito il principio secondo cui uno Stato contraente, al fine di salvaguardare le norme in tema di giusto processo, non possa interferire nell’amministrazione della giustizia allo scopo d’influire sulla singola causa o su di una determinata categoria di controversie, attraverso norme interpretative che assegnino alla disposizione interpretata un significato vantaggioso per lo Stato parte del procedimento, salvo il caso di “ragioni imperative d’interesse generale”. Ma proprio il richiamo alla giurisprudenza sovranazionale non trova impreparata la Consulta, la quale anzi dimostra di saper utilizzare le pronunce della CEDU “a proprio vantaggio”. Ribadito infatti il rapporto che lega il Giudice delle leggi a quello di Strasburgo203, la Corte Costituzionale ritiene che la condotta posta in essere dal Legislatore italiano non sia incompatibile con le disposizioni convenzionali, proprio in virtù di quanto è stato stabilito dai giudici di Strasburgo: si ricorda così un precedente 202 In particolare, il legislatore aveva inteso con la citata “legge di interpretazione autentica” ribadire con legge ordinaria quanto in realtà era già stato prefigurato da un decreto ministeriale, sulla base della posizione espressa dalle organizzazioni sindacali: ovvero sia che i dipendenti trasferiti sarebbero stati inquadrati, nelle qualifiche funzionali e nei profili professionali dei corrispondenti ruoli statali, sulla base del trattamento economico complessivo in godimento all’atto del trasferimento (c.d. criterio del “maturato economico”) . Tale interpretazione, secondo le autorità rimettenti, contrastava con il principio generale per cui lo stesso personale doveva essere assimilato al personale ATA statale, attraverso il riconoscimento, ai fini giuridici ed economici, dell’anzianità maturata presso l’ente di provenienza, determinando, nella categoria del personale ATA, la coesistenza, pur a parità di mansioni e di anzianità, tre diversi regimi giuridici (i lavoratori ATA, provenienti dagli Enti locali; i lavoratori ATA inseriti fin dall’origine del loro rapporto di impiego nei ruoli dell’amministrazione dello Stato; i lavoratori inseriti nell’ambito dello stesso comparto di contrattazione collettiva). 203 Cfr par. 6, sent. 311/2009: “[alla Corte costituzionale] è precluso di sindacare l’interpretazione della Convenzione europea fornita dalla Corte di Strasburgo, cui tale funzione è stata attribuita dal nostro Paese senza apporre riserve; ma alla Corte costituzionale compete, questo sì, di verificare se la norma della CEDU, nell’interpretazione data dalla Corte europea, non si ponga in conflitto con altre norme conferenti della nostra Costituzione. Il verificarsi di tale ipotesi, pure eccezionale, esclude l’operatività del rinvio alla norma internazionale e, dunque, la sua idoneità ad integrare il parametro dell’art. 117, primo comma, Cost.; e, non potendosi evidentemente incidere sulla sua legittimità, comporta – allo stato – l’illegittimità, per quanto di ragione, della legge di adattamento”. 94 risalente della CtEDU204, poi riconfermato nel 2004205, con la quale la stessa aveva ritenuto “legittimo l’intervento del legislatore che, per porre rimedio ad una imperfezione tecnica della legge interpretata, aveva inteso con la legge retroattiva ristabilire un’interpretazione più aderente all’originaria volontà del legislatore206”. Stabilita così la piena analogia fra i casi precedentemente analizzati nella piccola cittadina francese al confine con la Germania, e le vicende particolari relative alla questione sollevata innanzi alla Consulta, risulta per quest’ultima relativamente agibile la via della infondatezza delle questioni di illegittimità dinnanzi a lei paventate. Passiamo ora all’analisi della successiva sentenza Corte cost. n.317 del 2009. La menzionata pronuncia si inserisce a pieno titolo nell’ambito della giurisprudenza italiana in tema di diritti umani, in quanto in essa il Giudice delle Leggi riconosce ancora una volta il peso ed il valore determinante della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento giuridico italiano. Oggetto della questione di legittimità costituzionale è la discussa disciplina del processo penale con imputato contumace che, in seguito ad una lunga serie di interventi della Corte di Strasburgo e del Legislatore italiano207, non garantiva, ai sensi 204 Sentenza 23 ottobre 1997, Corte EDU, National & Provincial Building Society, Leeds Permanent Building Society e Yorkshire Building Society c. Regno Unito. 205 Sentenza del 27 maggio 2004, Corte EDU, Ogis-institut Stanislas, Ogec St. Pie X e Blanche De Castille e altri c. Francia. 206 Ibidem, par. 8. 207 Il codice di procedura penale del 1930, nel suo testo originario, consentiva la celebrazione del processo in contumacia, con l’unica garanzia rappresentata dalla previsione che l’estratto della sentenza fosse notificato al contumace, per il quale il termine utile per l’impugnazione decorreva dalla data della notifica. Con la riforma del 1955, e la conseguente introduzione nel codice di un art. 183-bis, veniva prevista anche per il contumace la possibilità di essere rimesso nel termine per impugnare, qualora non avesse potuto farlo, in precedenza, per «caso fortuito» o «forza maggiore». Mentre era ancora in vigore la disciplina del 1955, interveniva la prima sentenza della Corte EDU (Colozza c. Italia, 1985), nella quale si riteneva necessario, per garantire il diritto di difesa del contumace inconsapevole, che fosse assicurata una nuova valutazione dell’accusa da parte del giudice, in un procedimento nel cui ambito l’imputato venisse «ascoltato» sul merito dell’imputazione. Successivamente il codice di procedura penale del 1988 stabiliva alcune nuove regole in materia di processo all’imputato contumace. La possibilità per il difensore di impugnare la sentenza a carico del contumace veniva accordata alla sola condizione che lo stesso difensore fosse munito di uno specifico mandato in tal senso. Veniva inoltre fissato un termine di dieci giorni dalla cognizione dell’atto e si precludeva la rimessione nel termine per l’impugnazione, a favore dell’imputato, qualora il difensore avesse già impugnato la sentenza. Intervenendo nuovamente con la legge 16 dicembre 1999, n. 479, il legislatore sopprimeva la necessità del mandato speciale al difensore per impugnare la sentenza resa a carico del contumace, ma non eliminava per quest’ultimo la preclusione ad una restituzione nel termine per l’impugnazione, nel caso che questa fosse stata già proposta dal difensore medesimo. Intervenivano quindi altre due significative pronunce della Corte di Strasburgo (in particolare, la decisione 11 settembre 2003 nel procedimento Sejdovic c. Italia, e la 95 dell’art. 175 c.p.p., all’imputato, nell’ipotesi in cui il suo difensore avesse già promosso un giudizio impugnatorio, la possibilità di chiedere la restituzione nel termine per impugnare e, conseguentemente, l’effettività del diritto ad essere presente nel processo che lo riguarda. Nel merito, l’autorità rimettente sottolineava come l’art. 6 della CEDU, nella costante lettura datane dai giudici di Strasburgo, garantiva all’accusato il diritto di partecipare al giudizio penale a suo carico, ed il diritto altresì, qualora il processo si svolga senza che l’interessato ne abbia contezza, a misure ripristinatorie che rendano effettivo l’esercizio personale della difesa. Nel reasoning della Consulta, che accoglie la questione di legittimità dinnanzi a lei sollevata, si riscontrano alcune “schegge argomentative” di assoluta novità, che, se lette in combinato disposto con quelle presenti nella precedente pronuncia n.311, denotano un radicale cambio di rotta della Corte costituzionale rispetto alla “prime sentenze gemelle” del 2007. La migliore dottrina italiana infatti non ha mancato di sottolineare quali siano state le logiche che hanno più incisivamente condizionato i suddetti arresti giurisprudenziali: nel 2007, la maggiore preoccupazione del Giudice delle leggi era quella di (ri)affermare il carattere sub-costituzionale del diritto convenzionale, in radicale difformità rispetto al diverso rango formale riconosciuto al diritto europeo208. Una logica quest’ultima successiva sentenza, nello stesso procedimento, in data 10 novembre 2004). In tali pronunce si censurava la legislazione italiana per l’eccessiva difficoltà di provare il difetto di conoscenza e per l’estrema brevità (dieci giorni) del tempo utile per la presentazione dell’istanza di restituzione nel termine per impugnare la sentenza contumaciale. Tenendo conto di tale giurisprudenza della Corte EDU, il legislatore è intervenuto ancora una volta in materia, con una nuova formulazione dell’art. 175 cod. proc. pen., introdotta dal decreto-legge n. 17 del 2005 e dalla relativa legge di conversione, che detta alcune nuove regole: a) il contumace non deve più provare l’inconsapevolezza dell’esistenza del procedimento o del provvedimento, per la cui impugnazione chiede di essere rimesso in termini, con la conseguenza che l’onere della prova ricade su chi sostiene invece la consapevolezza; b) il termine per la richiesta è aumentato a trenta giorni dalla conoscenza dell’atto; c) non è riprodotta l’esplicita preclusione ad una restituzione dell’imputato, nel termine per impugnare, in caso di impugnazione già proposta dal difensore. 208 Cfr. RUGGERI A., Conferme e novità di fine anno in tema di rapporti tra diritto interno e CEDU (a prima lettura di Corte cost. nn. 311 e 317 del 2009), in www.forumcostituzionali.it: “[…] nel 2007, la preoccupazione maggiore del giudice delle leggi, al momento in cui riconosceva l’attitudine della CEDU (e del diritto internazionale in genere) a porsi a parametro della validità delle leggi, era di avvertire che le norme di origine esterna, astrattamente idonee a porsi a parametro delle norme interne, soggiacciono nondimeno ad una previa verifica della loro conformità a (tutta la) Costituzione. In ogni caso, si faceva allora presente, il vincolo nascente in seno alla Comunità internazionale può in ogni tempo essere messo da canto in presenza di leggi che si dispongano ad offrire tutela ad interessi costituzionalmente protetti e – viene da pensare – ancora più meritevoli, in sede di bilanciamento, degli interessi riguardati dalle norme di diritto. La logica sottesa a quest’impianto era quella della distinzione
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