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Tesi Magistrale in Scienze Pedagogiche, Tesi di laurea di Filosofia della Scienza

Tesi Magistrale in Scienze Pedagogiche materia: Logica e filosofia della scienza.

Tipologia: Tesi di laurea

2023/2024

In vendita dal 23/03/2024

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Scarica Tesi Magistrale in Scienze Pedagogiche e più Tesi di laurea in PDF di Filosofia della Scienza solo su Docsity! 1 Università Telematica “e-Campus” Facoltà di Psicologia Corso di Laurea in Scienze pedagogiche Tesi di laurea in Logica e filosofia della scienza “La logica: dal lògos arcaico alle Categorie aristoteliche” 2 INDICE Introduzione pag. CAPITOLO 1: I presocratici 1.1 La filosofia presocratica 1.2 La genesi della logica arcaica 1.3 Dall’antichità a Boole pag. 1.4 Eraclito pag. 1.5 Parmenide pag. CAPITOLO 2: Il problema logico 2.1 Eraclito e gli opposti pag. 2.2 La logica e l'ontologia di Parmenide pag. 2.3 Il divenire di Eraclito e l'essere di Parmenide pag. CAPITOLO 3: Evoluzione del pensiero logico 3.1 Falsa opposizione tra Parmenide ed Eraclito pag. 3.2 Dalla logica arcaica alla logica classica pag 3.3 Le Categorie di Aristotele oggi pag. Conclusioni pag. Bibliografia pag. Sitografia pag. 5 Tra i presocratici di maggiore rilievo si annovera Eraclito, famoso per la sua difficoltà ad essere compreso, ma anche per la sua massima sull’impermanenza, ta panta rhei, e per la convinzione che il fuoco sia l’arche del mondo (da esso tutto ha origine e fine in un processo ciclico eterno). A questi filosofi seguì la scuola di Elea, nel V secolo a. C., della quale facevano parte Senofane, Parmenide, Zenone e Melisso12. La teoria più importante associata alla scuola di Elea è la dottrina dell’Uno. Senofane, conosciuto per la sua critica all’antropomorfismo degli dei, riteneva che Dio fosse l’unità eterna che oltre ad attraversare e fondare l’universo, lo regola tramite il Suo pensiero13. Parmenide affermava che può esistere solamente una cosa e che niente può cambiare. In questo modo esisterebbe un Essere unico, immobile, eterno, ingenerato, immortale ed inscindibile. Zenone e Melisso concordavano con l’opinione di Parmenide. Altri tre gruppi di presocratici, infine, furono: i pluralisti, gli atomisti ed i sofisti. Tra i pluralisti ricordiamo Empedocle, il quale recuperò il punto di vista di Elea secondo il quale l’Essere è necessariamente, arrivando a riformulare questo stesso principio. Se da un lato egli non cambiò l’ideologia della natura immutabile della sostanza, dall’altro individuò una molteplicità di tali sostanze, ovvero i quattro elementi classici: la terra, l’acqua, l’aria ed il fuoco. Empedocle riteneva che il mondo fosse formato da questi elementi tramite due forze motrici: l’amore, poiché unisce e il conflitto, in quanto motivo di separazione 14 . Tra gli atomisti, ritroviamo Leucippo e Democrito, i quali sono stati i primi ad ideare un pensiero filosofico apertamente materialista. Questa filosofia è la dottrina degli atomi, cioè piccoli elementi primari non definiti, non visibili perpetui, simili dal punto di vista qualitativo, ma differenti in quanto alla forma. Nel loro eterno movimento all’interno del nulla infinito, essi urtano tra di loro e si fondono, dando origine in tal modo ad oggetti differenti in quanto a varietà, quantità, grandezza, forma, e distribuzione degli atomi di cui sono composti. Infine, è necessario menzionare i sofisti, di cui si ricordano Protagora, Gorgia, Ippia e 12ibidem 13ibidem 14ibidem 6 Prodico. Quest’ultimo gruppo credeva che il pensiero si basasse solo sulle informazioni elaborate a livello sensoriale e sulla percezione soggettiva, quindi non sono presenti altre modalità comportamentali oltre alle convenzioni personali15. La loro specializzazione era la retorica e più che filosofi, essi possono essere considerati educatori. Essi ebbero un’enorme influenza in quel periodo poiché all’epoca vi era la necessità di una nuova metodologia di insegnamento per gli studenti più avanzati. L’impatto dei presocratici è stato enorme, in quanto essi concepirono alcuni dei concetti cruciali dell’ideologia occidentale, così come il naturalismo ed il razionalismo, ed inoltre spianarono la strada per la metodologia scientifica grazie ai loro studi ed alle loro deduzioni sulla logica, con la quale essi cercavano di spiegare la natura e l’universo16. 1.2. La genesi della logica arcaica Prima di parlare della storia della logica antica è importante definire e chiarire cosa si intende per logica. Il termine deriva dal greco λογικός e in filosofia è inteso come disciplina che studia le condizioni di validità delle argomentazioni deduttive17. Tale termine, appunto, si presenta in modo ricorrente nella storia della filosofia antica sia nel periodo compreso tra Eraclito e Zenone di Elea sia in quello considerato dai sofisti a Platone, con l’accezione generica di “relativo al λόγος” 18 nel significato plurimo di ragione, discorso, legge, che questo termine ha nell’antica Grecia. Non possiamo indicarne un concetto univoco in quanto, tradizionalmente, indica una branca della filosofia ma il campo semantico di λόγος si è ampliato e, come una sorta di termine ombrello, concerne anche numerosi ambiti tecnico-scientifici, intellettuali, di ragionamento critico e formale strettamente legati oltre che alla ragione anche al pensiero. Come è noto, la suddivisione strutturata della disciplina filosofica è invece anteriore a Senocrate, filosofo greco del sec. IV a. C. e allievo di Platone. Tuttavia, è solo con Aristotele che questi principi vengono elaborati. 15ibidem 16ibidem 17www.treccani.it/enciclopedia/logica 18ibidem 7 Egli non usava, però, il termine “logica”, il quale venne poi adottato dai suoi seguaci, i cosiddetti peripatetici, ma piuttosto quello di “analitica”, in greco antico “αµαλυω”. La filosofia stessa si riconosce come atto della ragione, del λόγος appunto, ponendosi come obiettivo la ricerca della verità. È questa la concezione della filosofia di Aristotele, quando introduce la Metafisica con questa affermazione:“Tutti gli uomini per natura tendono al sapere” 19 . Nel pensiero filosofico preplatonico non c’è una netta distinzione fra logica, fisica ed etica che tanto peso avrà nella dottrina rappresentata dal Corpus Aristotelicum e che diventerà regola con gli Stoici20. Tale condizione la ritroviamo, altresì, nel pensiero greco arcaico e preplatonico, in particolare sia in Eraclito che in Parmenide i quali, in realtà, si erano già posti il problema logico. Nella dottrina filosofica arcaica, inoltre, non è presente alcuna distinzione tra cosa e parola in quanto quest’ultima non rappresenta ciò che comunica ma, invece, è immediatamente21. Secondo Calogero, piuttosto, “l’originaria coalescenza” fra linguaggio, pensiero e mondo trova il proprio ἀρχή nell’ epos arcaico tradizionale e supera la concezione astratta e metafisica della filosofia corrispondente alle logiche settoriali e quella limitativa fra parola e cosa22. La civiltà letteraria ellenica, sin dai suoi albori, nonché la poesia greca sono fondate su tale impianto mentale. In questa prospettiva, il concetto di coalescenza tra parola e realtà, tra linguaggio e mondo, non è interpretata come una dualità ma come una triunità di livelli mentali che interagiscono tra loro dando vita alla problematica filosofica presocratica. Allo stesso principio si rifà Antonino Pagliaro 23 il quale afferma che la sopracitata “originaria coalescenza”, si riscontra in forma pura soltanto nella filosofia arcaica e, nello 19 https://www.treccani.it/enciclopedia/aristotele#:~:text=Arist%C3%B2tele%20%5BSTF%5D%20(Stagira %20384,%2C%20il%20massimo%20dell'antichit%C3%A0.&text=%5BSTF%5D%20F 20Laspia, P., Che cosa significa parlare a vuoto? Aristotele, il linguaggio e la “logica arcaica”, Rosaria Caldarone Eros e filosofia A partire da Le phénomène érotique di Jean-Luc Marion 7 Carmelo Calì L’informazione duplice come condizione della percezione pittorica 19, 105, 2004, p.105 21ibidem 22Calogero, G., Il pensiero presocratico, Mimesis, 2021 23Orientalista e glottologo italiano (Mistretta 1898 – ivi 1973) in https//www.treccani.it/enciclopedia/ 10 “Analitici” (primi e secondi) presentano la quasi totalità della teoria del sillogismo.; i “Topici” contengono un approfondimento sui processi argomentativi che sorgono da premesse comunemente approvate, ma che non appartengono al discorso scientifico; negli “Elenchi sofistici” si analizzano i paradossi e se ne danno dei criteri generici per poterli risolvere32. L’idea più originale di Aristotele, riguardante la logica, fu la teoria del sillogismo. Tale teoria, dopo il recupero della logica nel periodo medievale, subì una standardizzazione che rimase invariata fino al XIX secolo. Tale teoria venne denominata “concezione tradizionale del sillogismo” 33 . Come ben sappiamo, non tutti i nostri ragionamenti scientifici e le nostre argomentazioni, pur essendo valide, contengono dei sillogismi. Infatti, la scuola megarico-stoica, mise in evidenza altre modalità argomentative, ideando una logica relativa più ai rapporti tra le frasi che ai rapporti tra termini. Gli esponenti maggiori di questa ideologia furono: Euclide di Megara, Diodoro Crono; Filone di Megara; Zenone di Cizio (il quale fondò la scuola stoica); Crispo di Soli. La scuola megaro-stoica fece la distinzione tra proposizioni categoriche e proposizioni ipotetiche e studiarono le varie categorie di connettivi, soprattutto il connettivo “non”. Così come aveva fatto in precedenza Aristotele per i sillogismi, altrettanto fecero i megaro-stoici, isolando tra tutte le possibili argomentazione, alcune ritenute indimostrabili. Inoltre, tentarono di dare prova della validità delle altre argomentazioni attraverso l’impiego di regole. Nonostante ciò, tra i megaro-stoici e Aristotele vi sono delle differenze. Ad esempio la maggiore consapevolezza dei megaro-stoici, rispetto ad Aristotele, dell’impiego di un vero e proprio sistema assiomatico. Infatti i megaro-stoici sfruttavano la logica delle proposizioni piuttosto che la logica dei termini 34 . Questo non significa che Aristotele non conoscesse tale tipo di logica o non la impiegasse, ma semplicemente non abbiamo alcuna teoria scritta di questa tipologia di logica da parte 32Calogero, G., I fondamenti della logica aristotelica, La Nuova Italia, Firenze, 1968 33ibidem 34Kneale, W., & Kneale, M., Storia…, op. cit. 11 di Aristotele. Passando dall’antichità al Medioevo, la disciplina della logica subì un’eclissi temporanea, così come avvenne per molte altre materie filosofiche e scientifiche in questo periodo. A partire da XI° secolo, poi, vi fu un rinnovo d’interesse per la logica, che non fece altro che crescere fino alla grande espansione tra il XIII° e XIV secolo 35 . Gli esponenti maggiori di questo periodo furono: Pietro Ispano, il quale scrisse le “Summulae logicales”, Boezio di Dacia, famoso per aver stabilito un legame tra pensiero logico e temi riguardanti la filosofia del linguaggio, Guglielmo di Ockham, scrittore di una “Summa logicae” che influenzò molto il pensiero scientifico successivo, Walter Burleigh, oppositore di Ockham, Giovanni Buridano ed infine Paolo Veneto, il quale, all’interno della sua “Logica” inserì tutte le conoscenze sulla logica del Medioevo. I pensatori logici medievali facevano la distinzione tra due categorie di vocaboli: quelli che hanno un significato a sé stante (ad. Es. “sedia”, “albero”, ecc.) e quelli che acquisiscono un significato solo in relazione ai primi (ad es. “non”, “tutti”, “se”, “qualche”, ecc.). La prima categoria includeva i termini “categorematici”, mentre la seconda, i termini “sincategorematici” 36 . Questi termini venivano distinti tra loro per differenziare il lato materiale da quello formale all’interno di una preposizione o argomentazione. Di conseguenza l’aspetto logico era caratterizzato da termini sincategorematici, mentre quello materiale da quelli categorematici. In base a questa differenziazione, poi, i filosofi medioevali, distinguevano le proposizioni vere in base alla forma, quindi a prescindere dal significato dei vocaboli categorematici presenti, e quelle vere in base alla materia, per le quali era necessaria la conoscenza del significato dei termini categorematici. In rapporto alla tradizione antica i filosofi medioevali apportarono delle novità, in quanto scrissero due trattati originali riguardanti i termini e le proposizioni: la teoria della suppositio, in cui si discuteva sulle condizioni di verità delle proposizioni e la teoria delle consequentiae in cui venivano discusse le proposizioni logicamente valide. A partire dal XVII secolo, poi, per la prima volta si ha l’intuizione di collegare la logica 35ibidem 36categorematico: definizioni, etimologia e citazioni nel Vocabolario Treccani 12 alla matematica, materie che fino ad allora erano considerate distinte tra loro in quanto a scopi e contenuti37. Questo avviene in quanto vengono sviluppati alcuni concetti collegati alla matematica, nello specifico il calcolo algebrico (inventato da François Viète) e lo scritto di Gottfried Wilhelm Leibniz38. Leibniz introdusse per la prima volta la definizione di “logica matematica” e fu il primo ad ideare un programma di matematizzazione della logica che consisteva nell’invenzione di una lingua artificiale attraverso la quale esprimere idee, concetti e dimostrazioni relative ai calcoli. In seguito all’ideazione di questa lingua, denominata “characteristica universalis”39, si dovevano isolare i concetti più importanti ai quali sono legati tutti gli altri in un rapporto di subordinazione per poi abbinare a questi concetti dei segni in modo da esporre le regole passando dall’insieme di segni alle relative proposizioni. In questo modo, la logica sarebbe stata caratterizzata da tutti i principi e le regole utili ad assicurare la corretta esecuzione delle dimostrazioni, e la relativa trasposizione matematica sarebbe stata costituita dal fatto di avere le sembianze di un calcolo algebrico 40 . Leibniz si era prefissato un obiettivo difficile da raggiungere che non saprà infatti portare a compimento. In ogni modo sarà capace di creare un concreto calcolo delle classi, che sarà possibile adattare anche alle proposizioni. Dunque attraverso Leibniz verranno unificate le due tipologie di calcolo che avevano costituito la logica fino ad allora. Malgrado l’innovatività e la sostanzialità delle sue opere, dopo la sua scomparsa queste caddero nell’oblio. Dopo Leibniz altri studiosi, si prefissarono il compito di far diventare la logica una sorta di calcolo, facendo in modo di far corrispondere ad ogni congiunzione, la disgiunzione logica nelle operazioni di addizione e moltiplicazione, prendendo in considerazione la 37Kneale, W., & Kneale, M., Storia…, op. cit. 38ibidem 39Russell, B., A critical ex position of the Philosophy of Leibniz, Cambridge, Cambridge University Press, 1900 40ibidem 15 Eraclito è di difficile interpretazione proprio per la natura frammentaria della sua opera e quindi de suo pensiero che ci perviene, per lo più, da citazioni indirette. È interessante cogliere l’opportunità di analizzare, altresì, il contesto delle citazioni eraclitee per quanto riguarda gli autori che, anche a distanza di un millennio, hanno eseguito citazioni su un determinato frammento. È chiaro che nell’ osservazione di una porzione di testo a partire dalla citazione di un autore, si debba analizzare il quadro storico e teorico del citatore stesso, in quanto il frammento è embedded ossia contestualizzato, e più o meno volontariamente e consapevolmente inserita e condizionata in una precisa prospettiva 49 . Il citatore, infatti, nel riportare un brano può essere motivato da tesi, concetti, ideologie e motivazioni a supporto o meno del pensiero dell’autore citato, che possono influire sul testo originale. L’elemento caratteristico della filosofia di Eraclito è il flusso, infatti egli stesso ha postulato che tutte le cose della natura sono in uno stato di flusso perpetuo. Proprio come i precedenti filosofi monisti, Eraclito affermò che l’arche del mondo era il fuoco il quale era soggetto al cambiamento. Questo concetto fa si che il filosofo sia classificato tra i monisti materialisti 50 . Dal fuoco hanno origine tutte le cose ed alla fine tutte le cose ritornano nuovamente ad esso in un processo ciclico eterno. Il fuoco diventa acqua e terra e viceversa. Questi cambiamenti perpetui spiegano il suo punto di vista secondo il quale il cosmo “fu, è, e sarà”51. L’idea di flusso continuo è nuovamente confermata anche quando Eraclito dice che noi non cammineremo mai per due volte nello stesso fiume, posizione confermata anche con il suo motto panta rhei (tutto scorre). Eraclito sembra suggerire che, non è solo il fiume ad essere in continuo mutamento, ma lo siamo anche noi, accennando così ai quesiti esistenziali sull’umanità 52 . Un altro concetto chiave presente nella filosofia di Eraclito è che in qualche modo gli 49ibidem 50Graham, D., W., “Heraclitus: Flux, Order and Knowledge”, in Curd, P., (ed.), The Oxford Handbook of Presocratic Philosophy, Oxford University Press, USA, 2008, pp. 169-187 51ibidem 52Warren, J., Presocratics, Routledge, London, 2014, pp.72-74 16 opposti si riflettono l’un l’altro, una dottrina chiamata “unità degli opposti”. Per spiegare questo concetto Eraclito afferma che: così come le cose fredde si riscaldano, quelle calde si raffreddano, l’umido diventa secco, ed il secco diventa umido 53 . Attraverso la dottrina sull’unità degli opposti, Eraclito sostiene che l’unità del mondo e le sue varie parti sono mantenute grazie alla tensione prodotta dagli opposti. In più, ciascuna sostanza in antitesi contiene al suo interno il suo opposto, in uno scambio e movimento circolare continuo che da come risultato la stabilità del cosmo 54 . Un altro tra gli assiomi più famosi di Eraclito afferma che: “la guerra origina tutto e governa tutto, a volte si manifesta tramite l’uomo, altre attraverso le divinità, ad alcuni dà la libertà, ad altri la schiavitù”; dove per guerra si intende il conflitto interno, la tensione che fa esistere le cose55. Ma l’idea cardine della filosofia di Eraclito è quella del logos, una parola greca antica avente vari significati. Molto probabilmente Eraclito considerò il concetto di logos, nelle sue varie sfaccettature di significato, all’interno della sua opera. Inoltre il pensiero di Eraclito riguardante il logos, influenzò gli Stoici, i quali si riferivano ad esso per supportare le loro credenze sul fatto che le leggi razionali governino l’universo56. L’inserimento del termine λόγος nella dottrina eraclitea che ci è stata tramandata in frammenti e la sua successiva interpretazione, inevitabilmente si rispecchiano sulla comprensione della filosofia eraclitea. Infatti, a prescindere dal significato che questo termine assume in epoca greca arcaica, gli studi e le svariate interpretazioni teoriche hanno dimostrato che, già in età contemporanea e addirittura precedente a Eraclito, non potesse ridursi al solo significato di “dire e discorso”57. Tra le principali funzioni del λόγος vi è quella illustrativa o esplicativa58 che evidenziano l’insieme dei criteri che normano la realtà. 53Graham, D., W., “Heraclitus…, op. cit., p. 175 54Ivi pp.175-177 55 Sandywell, B., Presocratic Reflexivity: The Construction of Philosophical Discourse c. 600-450 B.C.: Logological Investigations: Volume Three, Routledge, London, 1996, pp. 263-265 56Warren, J., Presocratics…, op. cit. pp. 263-265 57Fronterotta, F., Frammenti, Bur, 2013 58ibidem 17 Come già affermato, la difficoltà nella classificazione dei frammenti eraclitei sono stati interpretati in diverse epoche e da diversi studiosi che hanno cercato di mettere in luce differenti caratteristiche. Hegel, ad esempio, evoca l’immagine del pensatore efesino come una sorta di approdo59 filosofico e fa della dottrina eraclitea il fondamento del suo pensiero. Per il filosofo tedesco, Eraclito concepisce l’assoluto non più come concetto astratto ma come concretezza del λόγος inteso come processo dialettico in divenire, appunto, ma senza alcuna armonia. Diversi frammenti eraclitei affermano che la realtà è, appunto, un movimento dialettico del λόγος e ne costituiscano l’essenza. Diversa invece l’interpretazione di Nietzsche secondo il quale non esiste qualcosa che possa essere, nulla “è”60, in quanto la realtà è mutevole, scorre in perenne divenire. La scienza, dunque, non può rispondere in modo definitivo e con verità inconfutabili ma può, semmai, focalizzarsi verso punti di vista differenti per coglierne le molteplici sfumature e i diversi significati. La conoscenza, dunque, non può mai considerarsi un punto d’approdo in quanto non ha fine manifestandosi come un processo in fieri. Secondo la chiave di interpretazione nietzscheana di Eraclito, la realtà e la natura si presentano in uno panorama contrapposto e conflittuale in cui si manifesta senza sosta una giustizia cosmica61 in continua evoluzione. Heiddeger, invece, esprime la sua personale interpretazione del λόγος eracliteo come “atto del porre” prendendo come riferimento le più svariate accezioni del verbo greco λἑγειμ nel significato proprio di “parlare” ma anche di “porre”62 ossia portare alla luce, svelare. In quest’ottica, tale interpretazione, ci riporta alla nozione di “svelamento”, ossia il disvelamento dell’essere, spesso comparato ad una radura che si mostra nel bel mezzo di un bosco portando luce nell’oscurità. Osserviamo come la radice dei termini “lichtung” ossia radura e “licht” luce, utilizzati dal filosofo tedesco, sia la stessa; in questo senso la dottrina eraclitea aiuta a dipanare i dubbi 59ivi 60ibidem 61ibidem 62ibidem 20 È chiaro che, come già affermato precedentemente, le citazioni sui frammenti debbano essere contestualizzate ed essere interpretate secondo le dottrine e i fini, più o meno consapevoli, dei citatori stessi. A tal proposito, dunque, nel panorama concettuale platonico e aristotelico, si debba tenere conto di questi criteri. Da ciò ne consegue che quanto postulato da Platone e Aristotele riguardo la dottrina eraclitea del divenire delle cose, non deve essere considerata inverosimile in quanto la loro interpretazione nasce al fine, appunto, di contrapporre al continuo cambiamento delle cose, l’immutabilità e la stabilità del mondo intellegibile 72 . La tradizione posteriore sarà influenzata dalla differenziazione delle due filosofie di pensiero relative all’unità del tutto, degli opposti, del divenire. Dai documenti pervenuti dai pensatori stoici è palese che costoro, a differenza di Platone e Aristotele, non facessero alcuna critica oppositiva riguardo alla dottrina eraclitea. Tra la fine del IV sec e l’inizio del III sec. a. C., i tre esponenti più importanti del primo periodo dello stoicismo greco, Zenone, Cleante e Crisippo, presero come modello per elaborare le proprie teorie, proprio la filosofia di Eraclito. Allo stesso modo, con Seneca nel periodo successivo compreso tra il I e il II sec. d. C., nonché nel periodo seguente alla tradizione fedele a Platone, i pensatori resteranno fedeli alla dottrina eraclitea73. L’adozione stoica di tale dottrina identifica il concetto eracliteo di λόγος come principio immanente che regge il cosmo. Tale principio non è assimilabile ad una legge ma, semmai, ad un soffio vitale che accomuna il λόγος all’elemento naturale del fuoco74. Da questo assunto, gli stoici estrapolano da Eraclito la teoria della rigenerazione del cosmo che segue un itinerario ciclico paragonabile alla intensità discendente o ascendente del calore del fuoco che culmina con una conflagrazione, generando l’inizio di un nuovo ciclo vitale. 72ibidem 73Fronterotta, F., Frammenti, op. cit. 74ibidem 21 Tale teoria deriva dall’esigenza di ordine del λόγος stesso, assicurandone una visione unitaria delle cose la cui pluralità trova una dimensione unitaria grazie al principio del fuoco che resta immutabile nella successione costante dei suoi cicli cosmici75. 1.5. Parmenide Parmenide è considerato il fondatore della scuola di Eleatica, la quale include anche Zenone di Elea e Melisso di Samo. Parmenide nacque ad Elea, una città greca antica, da una famiglia facoltosa intorno al 515 a. C.76 Egli si interessò a diversi argomenti come la biologia e l’astronomia. Inoltre fu il primo a dedurre che la terra aveva una forma sferica 77 . Il filosofo, inoltre, si interessò molto alla sfera politica all’interno della sua città 78 . Parmenide è considerato un seguace di Senofane, infatti è molto influenzato dalla sua filosofia. Egli viene considerato uno dei più importanti filosofi presocratici. I contributi di Parmenide furono essenziali non solo in relazione alla filosofia antica, ma anche per la metafisica e l’ontologia occidentali 79 , infatti il filosofo può esserne considerato il fondatore. L’unica opera conosciuta di Parmenide è un poema di difficile interpretazione il cui titolo originale è sconosciuto, ma al quale ci si riferisce con l’appellativo “Sulla natura”. Quest’opera ebbe una notevole influenza sulla successiva filosofia greca 80 . Di quest’opera sono ci pervenuti solo 150 frammenti81, ma la sua importanza è enorme in quanto per la prima volta troviamo un lungo argomentare nella storia della filosofia occidentale. In essa si racconta la storia di un giovane uomo che si dedica alla ricerca della verità trasportato da una Dea in un lungo viaggio verso il cielo. Il poema è suddiviso in tre parti: l’introduzione, in cui viene spiegato lo scopo dell’opera, 75ibidem 76Barnes, J., Early Greek Philosophy, Penguin Books, 1987, p. 129 77Ivi p.40 78Sandywell, B., Presocratic…, op. cit., p. 295 79ibidem 80Barnes, J., Early..., op. Cit., p. 40-41 81Warren, J., Presocratics..., op. Cit., p.79 22 una prima parte denominata la Via della Verità ed una seconda parte chiamata la Via dell’opinione. La parte introduttiva descrive il viaggio del narratore affinché riceva una rivelazione da parte di una Dea (di cui non si conosce il nome) sulla natura della realtà. Sono rimasti solo pochi frammenti della Via dell’opinione. A giudicare dalle citazioni di altri autori, in questa parte Parmenide si sarebbe interessato alla cosmologia82. In questo poema fondamentalmente vi sono due visioni della realtà. Nella Via della verità viene spiegato come la realtà è una sola, il cambiamento è impossibile e l’esistenza è senza tempo, uniforme e necessaria. Nella Via dell’opinione Parmenide spiega il mondo dell’apparenza, e afferma che le facoltà sensoriali dell’uomo portano a considerazioni sbagliate e false. La Via della Verità venne considerata, e lo è ancora oggi, la parte più importante. Nella Via della Verità, la Dea, fa una critica delle persone che non distinguono il reale dall’inesistente (ciò che è, e ciò che non è). In questo poema Parmenide sviluppa la sua filosofia, ovvero che tutte le cose formano un’unità e quindi nulla può essere cambiato o alterato. Quindi tutto quello che riteniamo essere vero, anche noi stessi, non sono altro che false rappresentazioni 83 . Quello che è, secondo Parmenide, rappresenta la sfera fisica immodificabile ed infinita.84 Questa è una visione monistica del mondo, ancora più radicale di quella di Eraclito85. La Dea insegna al giovane ad usare la sua ragione per capire se alcune affermazioni sono vere o false, scartando l’uso dei sensi in quanto ingannevole 86 . Altre problematiche affrontate da Parmenide sono la dottrina che afferma che nulla deriva dal nulla87 e l’unità dell’essere e del pensiero. 82Ivi pp. 79-80 83Ivi p. 300 84Ivi p. 98 85Ivi p. 80 86 Curd, P., Presocratic Philosophy, in Edward N. Zalta (ed.), Stanford Encyclopedia of Philosophy., Metaphysisc Research Lab, Stanford University, 2020 87Sandywell, B., Presocratic..., op. Cit., p. 312 25 Egli pensa dunque di poter caratterizzare questi insegnamenti attraverso il termine eracliteo polymathia, non solo per la varietà di temi, ma anche per la mancanza di connessioni che egli sembra riscontrare tra i vari temi. Malgrado la decisione di Rossetti di mettere in secondo piano il primo logos, la dottrina dell’essere resta per lui problematica. Egli non riconosce nulla nel poema che possa costituire un embrione di metafisica. Sembra che nulla di tutto ciò che si potrebbe dire sull’essere abbia a che fare con le dottrine peri physeōs, ovvero con la conoscenza umana98. Le interpretazioni che sono state date su Parmenide, dal passato fino al presente, sono numerose e diversificate. L’unica cosa su cui ci si trova comunemente d’accordo è che le sue idee siano fondamentalmente enigmatiche e difficili da comprendere. Quindi rimangono numerose questioni aperte sia dal punto di vista critico, filosofico e filologico. Cerri, nel suo Parmenide fisico, si pone sostanzialmente tre domande 99 . Inizialmente si domanda come mai Parmenide afferma con tanta solennità che l’essere è, e il non essere non è100. Dal punto di vista storico, è stato ribadito costantemente che, considerando la cultura di quel tempo, la scoperta del principio di non contraddizione rappresento un notevole passo in avanti, in quanto esso fonda le basi della logica formale 101 . La seconda domanda che Cerri si pone su Parmenide riguarda il controsenso espresso da Parmenide nel momento in cui nega l’esistenza di tutto ciò che si ritrova sotto i nostri sensi, mentre afferma l’esistenza di un essere unico, eterno, innato, non trasformabile, compatto e perfino non infinito, ma finito102. Al fine di dare una spiegazione di questa dottrina, è stato ipotizzato che essa fosse la conseguenza logica del principio di non contraddizione. Questo principio, però, è falsato dall’ambivalenza del significato del verbo essere, che può essere copula oppure inteso nel senso di esistere103. 98ibidem 99Cerri, G., Parmenide fisico, Seminari romani di cultura greca: VIII, 1, Edizioni Quasar, 2005 100ibidem 101ibidem 102ibidem 103ibidem 26 Un’altra domanda che Cerri si pone, riguarda il perché, Parmenide, dopo l’illustrazione di dottrine così impegnative ed enigmatiche, nella seconda parte del suo poema, nonché la più lunga, si dedichi invece gli elementi appartenenti alla comune filosofia presocratica, ovvero il cielo, le stelle, la fisiologia umana, il sesso e la generazione. 27 Capitolo II Il problema logico 2.1. Eraclito e gli opposti L’origine e lo sviluppo del pensiero filosofico di Eraclito presenta ancora diverse ambiguità soprattutto dovute all’estremità del tema trattato che egli divide con Parmenide, quasi suo contemporaneo, e alla sua scoperta – in realtà perlopiù intuitiva – della connessione che lega il linguaggio, la contraddizione e il logos. Eraclito, a differenza dei suoi predecessori, utilizza una prosa quasi feroce. Però questi suoi predecessori scrissero poemi di cui si hanno solo pochi frammenti104. Inoltre non si tratta di una prosa qualsiasi: Eraclito scriveva per aforismi, che possono anche assumere cosiddette immagini oracolari, anche se nelle testimonianze più arcaiche Eraclito vada a risultare il primo ad aver composto un trattato di filosofia portato al tempio di Artemide. Non è una esposizione logica e sistematica, che si vedrà invece solo mezzo secolo dopo, ma di uno stile diverso di scrittura che rappresenta un’audace innovazione nella storia del linguaggio. Dopo di lui infatti saranno filosofi come Zenone di Elea e Melisso di Samo a scrivere quelli che possiamo considerare i primi veri trattati di filosofia. Ma essi non utilizzarono uno stile aforistico. Ma di Eraclito si hanno ancora dei frammenti; questi ultimi tuttavia si possono dire frammenti anche di ciò che resta di prima di Eraclito: si tratta di parti che si possono rivelare più o meno significative inerenti a ragionamenti complessi; lo si può vedere ad esempio in Anassimandro e in Anassimene, registrati perlopiù da fonti tarde che recepiscono brani di sistemi sicuramente più complessi, ma purtroppo dei quali non c’è traccia. In Eraclito, a differenza dei frammenti di autori precedenti, abbiamo invece pensieri completi molto condensati, anche se in poche righe, righe che sono autosufficienti, dovuti a più che altro a un modo di scrivere differente, che è appunto quello interessante dell’aforisma. Si tratta di un nuovo genere di scrittura che, dalle testimonianze registrate, 104A tal proposito si veda B. Snell, Il linguaggio di Eraclito, tr.it. B.Maj, Corbo, Ferrara, 1989, e il più recente G. Semerano, L'infinito: un equivoco millenario. Le antiche civiltà delVicino Oriente e le origini del pensiero greco, Bruno Mondadori, Milano, 2001. 30 l’origine della visione. La visione non è quello che mi sta dinanzi e che io accolgo in modo assolutamente non problematico, ma è il risultato di un importante e mai semplice indagine di me stesso, della mia ψυχή: è lei che produce la visione111. Nei termini di proporzione il logos andrà di certo recepito come quel qualcosa che dà armonia ad ogni cosa, superando la doxa (l’opinione). Tutto ciò per poter cogliere dietro la molteplicità delle cose, la verità. Per Eraclito così il Logos è la legge fondamentale, universale della realtà delle cose. In quest’ultima ciò si concretizza nella figura del fuoco. Di fatto il significato coincide con il significante. Così il Logos si identifica con la razionalità stessa. Inoltre il temine logos ricopre un ruolo linguisticamente molto importante, che è quello di radice per un gran numero di espressioni, come per esempio opinione, ragion d’essere, causa, ragione, proporzione, spiegazione, enunciato, definizione, intelligenza, relazione, rapporto. Ma il logos è anche, e in realtà soprattutto, l’intelligenza di afferrare ciò che riesce a cogliere quell’unità degli opposti, che non sono altro che rivelazione di un’unica unità di fondo. Nel Frammento DK 91 Eraclito rappresenta l’enunciazione più limpida ed elevata dell’unità degli opposti e dell’armonia che ne consegue e scaturisce. Questo è sicuramente uno dei frammenti più famosi del filosofo greco. Armonia e connessione si possono così comprendere proprio in merito a ciò che anima l’opposizione di questi opposti. Gli opposti, in questa visione, vanno a rappresentare ed esprimere una unità in continua trasformazione. Questo, nella sua discordanza, genera per Eraclito anche armonia. Eraclito, in un altro frammento, pensa che l’opera del Divino sia caratterizzata in modo necessario da una componente di immanenza e, inevitabilmente, trascendenza. In questo modo, apparentemente, sembra che quest’armonia segua un ordine razionale. L’armonia delle cose del mondo, gli esseri umani, e l’universo, seguono tutti uno stesso principio di razionalità? La risposta di Eraclito è No. È importante fare chiarezza. Ciò ha addirittura portato alcuni interpreti a considerare la filosofia di Eraclito elitaria, 111Cfr. M. de Grandi, Ipotesi sul concetto di contraddizione in Eraclito, in Comunicazione filosofica, 2017, pp. 154-161. 31 aristocratica. Per quanto ciò possa sembrare palese, è una pretesa di superbia limitare un tale pensiero in un’espressione che può considerarsi “vuota”, come “filosofia aristocratica”. Nel Frammento DK 22 B1 Eraclito parla del Logos riferendosi all’uomo che non è cosciente di quello che fa dormendo, e questo è il Logos per gli uomini non intelligenti. Eraclito è il primo filosofo, con Parmenide che fu suo contemporaneo, a considerare in modo davvero esplicito il problema del rapporto tra uomo e natura, tra realtà e ragione112. Il Logos non è semplicemente un principio razionale. Esso è strettamente legato alla semantica del termine che non vuol dire solo “razionalità”. È una parola che dà spazio a molti concetti, tra cui quello di “pensiero”, dunque “pensare”, “dialogo”, “discorso”. Approfondendo questi ultimi due, si potrebbe intendere il Logos come un parlare ed un ascoltare insieme. Anche Heidegger nei “Saggi e Discorsi” parla del logos paragonandolo a quello che chiama udire autentico 113 . È dunque chiaro il motivo per cui il logos non è accessibile a tutti. Bisogna saper porsi con l’atteggiamento corretto. Tutti coloro che non ascoltano del logos, non riescono a vivere razionalmente, come fossero in un sogno. Come accadeva già in Anassimene, anche in Eraclito i quattro elementi che costituiscono l’universo fisico (terra, aria, acqua e fuoco) non sono diversi modi di essere di una stessa materia, ma attraverso due opposti cicli di cambiamenti, dal fuoco si passa all’acqua, dalla terra all’aria: come dice infatti Eraclito in un frammento, dal mare si passa alla tessa e poi diventa un soffio infuocato114. Ancora come in Anassimandro, anche in Eraclito il cosmo deve ritornare al fuoco da cui è sorto: così il processo si ripete all’infinito, il ciclo delle cose ritorna perennemente su sé stesso. Anche per Eraclito (così come per gli Ionici) la materia è viva e la sua vita è divina. L’universo per il maestro efesino è un grande organismo e proprio per questo al suo interno tutto muta e si trasforma continuamente. È questo il significato della famosa affermazione di Eraclito secondo il quale «tutto 112A riguardo cfr. https://gabriellagiudici.it/eraclito/ consultato il 10/06/2022. 113A riguardo cfr. M. Heidegger, Saggi e Discorsi, Ed. Mursia, Milano, 2007, e T. Ariemma, Fenomenologia dell'estremo, Mimesis Edizioni, Milano, 2005, pp. 24-28. 114N. Badaloni, O. Pompeo Faracovi, Il pensiero filosofico, Carlo Signorelli Editore, Milano, 1996, pp. 24-25. 32 scorre» (pánta rei). Quindi tutto cambia perché tutto è vivo. L’uno è la conseguenza dell’altro. In questo modo, stabilità e permanenza sono solo apparenti; la verità profonda delle cose sta nella loro mutevolezza, rappresentata dalla fiamma che brucia, che è appunto in continuo mutamento. Per rendere anche visivamente questa idea del continuo mutare delle cose, Eraclito ricorre inoltre a un’altra immagine, molto famosa: cioè quella del fiume. Eraclito dice infatti che chi entra in acqua non sarà mai toccato dalla stessa acqua, perché questa scorre continuamente115. Come potrebbero fare a comporsi in una cosa sola o come si potrebbe chiamare con una nuova parola il giorno o la notte? Eraclito in realtà non va ad alludere a una superiore forma d’essere. Egli sta ad indicare l’impossibilità che ha il logos di esprimere in maniera razionale la propria traduzione della realtà, perché quando si mantiene stabile un dato, si colloca immediatamente l’altro: questo perché il movimento è di natura logica e non cronologica. Se tutto continuamente cambia, ogni singola realtà diventa quindi provvisoria e relativa, non può essere altrimenti, ed è destinata ben presto a mutarsi nel proprio contrario. Per questo Eraclito in un altro suo frammento molto famoso afferma anche che, parlando degli opposti, una stessa cosa può essere allo stesso tempo viva e morta, giovane e vecchia, e via dicendo: e si possono trasformare l’una nell’altra cosa116. Questo fenomeno che possono essere la stessa cosa, chiaramente assurdo, è ciò che ci fa comprendere il significato dell’uno e dell’altro, cioè che il logos compone razionalmente per concludere l’impossibilità dell’assoluto significato dello stesso. Così il percorso, che può essere retto o deviato, in realtà sono proprio la stessa via (cosa impossibile): questi trasformandosi sono quelli e viceversa, quelli questi. Ma bisogna di certo fare attenzione: il percorso concettuale non è di tipo temporale, non si va sicuramente dal giovane al vecchio o ancora dal vivente al morto, non può essere possibile in questo modo. Si dice che gli uni sono gli altri e gli altri, trasformandosi, sono questi. Questo logicamente indica una dimensione che non è temporale. 115Frammento DK 22 B12. 116Frammento DK 22 B88. 35 Ciò che rende razionale questa ambiguità, è il porsi, ancora una volta, in ascolto del Logos, e tramite, appunto, opposti, raggiungere un’unità. L’ambiguità alla quale si riferisce è davvero implicita in modo potente anche nella cultura greca. Basti pensare al termine “bios”. La parola significa allo stesso tempo “vita” e “arco”, strumento di morte. La dottrina dell'unità dei contrari è probabilmente l'aspetto che più rappresenta l’originalità del pensiero filosofico del maestro efesino128. Come già visto, la cosiddetta legge segreta del mondo risiede nel rapporto di interdipendenza che hanno due concetti opposti (come ad esempio pace-guerra, amore- odio ecc.): questi, in quanto tali, lottano fra di loro ma, allo stesso tempo, non riescono a fare a meno l'uno dell'altro, poiché non fanno che vivere solo l'uno in forza dell'altro; ciascuno dei due può essere definito solo in quanto opposizione. In sostanza niente esisterebbe se allo stesso tempo non esistesse anche il suo opposto. Si può affermare che è proprio la dottrina dei contrari che fa di Eraclito il fondatore di una logica degli opposti, che appare antitetica rispetto a quella aristotelica e fondata sulla legge del divenire della realtà. In questa dottrina, infatti, tesi e antitesi (essere e non-essere) rappresentano una sintesi contraddittoria e permanente nella realtà che solo così può divenire, attraverso i suoi due coessenziali aspetti; questa è in chiara antitesi rispetto alla logica aristotelica, perché è opposta al suo principio di non contraddizione e anche del terzo escluso (in un frammento si riferisce all’acqua del mare, definendola che la più pura e impura allo stesso tempo, perché per i pesci è vita, per gli uomini risulta invece imbevibile129)130. Entro l’ambito del linguaggio, seppure con toni anche quasi da oracolo, Eraclito aveva già visto la contraddizione: nel comunicare lui voleva portare alla luce tutto il fondamento problematico del proferire parola131. In quanto la comunicazione funziona, nonostante la contraddizione, Eraclito oggi ci direbbe questo: è vero, evidentemente, che il pensiero e le nostre parole sono basate sul 128N. Abbagnano, G. Fornero, La filosofia e l’esistenza, Pearson, Torino, 2021, p. 37. 129Frammento DK 22 B61. 130Aristotele tuttavia sosterrà l'impossibilità che il medesimo attributo appartenga e non appartenga contemporaneamente al medesimo oggetto sotto il medesimo aspetto, mentre Eraclito faceva forse riferimento a due diversi aspetti nei quali lo stesso oggetto può essere osservato. In tal caso, la sua ambiguità rispetto ad Aristotele consisterebbe piuttosto nell'assegnare alle contraddizioni una valenza oggettiva che è invece meramente soggettiva. 131M. de Grandi, Ipotesi sul concetto di contraddizione in Eraclito, in Comunicazione filosofica, 2017, p. 164. 36 principio di non contraddizione, e infatti parliamo e in qualche modo riusciamo a capirci, ma, essendo la contraddizione l’unica forma possibile di pensiero, la contraddizione diventa anche l’unica forma possibile di comunicazione132, è innegabile. 2.2. La logica e l’ontologia di Parmenide Per chiunque di noi avvezzo a ricerche filosofiche, il primo incontro sui banchi di scuola (quantomeno italiani) con le discipline che attirano oggi il nostro interesse è stato – anche nel peggiore dei casi – con i cosiddetti filosofi presocratici, quindi con Parmenide di Elea e gli eleatici, ancora oggi insegnati a scuola e nelle accademie con il nome di “filosofi dell'essere”. Essi furono i primi teorici che ebbero a indagare su importanti questioni di carattere ontologico e metafisico, così come coloro per i quali le strutture dell'essere e quelle del pensiero logico condividerebbero gli stessi confini, e anzi, sono le stesse133. Per i greci dell’età preparmenidea, le forme dell’essere andrebbero di per sé raggruppate con il “modo infinito”; queste costituivano un complesso di strumenti di significato che, con la stessa spontanea libertà con cui se n’è valso in ogni ambiente linguistico, colui che parla, nell’ambito parmenideo, non si preoccupa di formali difficoltà nel suo uso, né di si ulteriori difficoltà che ne possono conseguire134. Prima di Parmenide il pensiero dei filosofi era sicuramente molto differente; ma è possibile riscontrare un punto di transizione nel Pitagorismo. Questo sviluppa una teoria nella quale si è cercato di attribuire al carattere cosiddetto di “Principio”, l’essenza ultima della realtà: l’archè è quindi costituita da entità matematico- geometriche dalle quali si è giustificata conseguentemente l’intera realtà. Per chi voglia interpretare la posizione di Parmenide, nella sua genuina freschezza storica, si deve riportare a quell’ambiente e a quell’uso: deve cioè rifarsi Parmenide, tornare al suo primitivo ed ingenuo orizzonte mentale, presupporre quelli che sono i suoi soli presupposti e quindi lasciar da parte tutti quelli di cui la sua coscienza di storico, che è arricchita dai quasi venticinque secoli dell’evoluzione di quel problema dell’essere, 132M. Venuti, Contro l’ovvietà, Ares, Milano, 2016, p. 100. 133Cfr. F. Berto, L'esistenza non è logica. Dal quadrato rotondo ai mondi impossibili, Laterza, Roma-Bari, 2010. 134G. Calogero, Parmenide e la genesi della logica classica, Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa. Lettere, Storia e Filosofia, Serie II, Vol. 5, No. 3, 1936, pp. 143-185. 37 perché appunto, in quanto nacque da Parmenide, non fu, logicamente, la premessa di Parmenide. Solo con Parmenide ed Eraclito è venuta davvero ad esprimersi in modo compiuto la domanda metafisica. Da Eraclito in poi tutti i filosofi diedero una loro definizione di essere in quanto tale differente. L’essere di Parmenide è eterno, immutabile, uno, non può essere altrimenti; e ha inoltre i caratteri opposti a ciò che è materiale, sensibile, ciò che è soggetto al divenire. In un contesto del genere, la filosofia è innanzitutto contrapposizione del pensiero all’esperienza sensibile. Parmenide radicalizza i dualismi e costruisce contrapposizioni. L’esame della “logica” del maestro di Elea è condotto con un puntuale richiamo agli studiosi che da opposte posizioni hanno studiato le articolazioni logico-argomentative del poema. Il riferimento alla “prossimità” della logica, mette in questione il concetto stesso di “logica”, tradizionalmente collocato nella sfera della filosofia. Se questa logica si erge al rango autonomo di scienza, che presiede alla formazione delle idee, è impossibile che sia nata prima di Aristotele. Nei presocratici non ci sarebbe perciò la logica, ma il solo “ragionamento logico”135. E tuttavia si dice di Parmenide che ha avuto un ruolo di primaria importanza nella “nascita” della logica. Ma può avere la logica forme embrionali? Forme che progressivamente e gradualmente si generino da quella che possiamo chiamare “preistoria”? Certo, ma per darle un senso specifico, la si deve inserire nell’ambito della storia della logica136. 135 Cfr. G. Messina, La logica di Parmenide, https://d1wqtxts1xzle7.cloudfront.net/53737805/La_logica_di_Parmenide- libre.pdf?1499058260=&response-content- disposition=attachment%3B+filename%3DLa_logica_di_Parmenide.pdf&Expires=1655028191&Signature =QhKeEgxCcxgU2EOlYLlsVoXVPZ3qjPe83JntD8gNHHL9Cq~wwHztbWJMMtWbsVZHxbRxsx7ylqS23gLNR6 3e2ZwbXyay4R~mgdSWqafZhf6gfIzRCgzc~kkYsD8lQkztSnHiQshgnEeAfN5nnQ1F~tJ4ZFBTPC3Qm~1aJX9si TQEwFGjFKmQyW40zZ- Pw8b9kI3IVI~UiskS8YIGzXG9KQfkZaVlvTwpepm4sfvD~OQrRdNCmv6Un1xgeP4shKKJMnNOAegNNF70rV- Di4~69wBhRBaNHr1N6lFWQahD2bUPFTguX-GPPpFgsOifp36Cb8n32dkuHfOyQ6G3JpoXTw__&Key-Pair- Id=APKAJLOHF5GGSLRBV4ZA consultato il 12/06/2022. 136Ibidem. 40 Enrico Berti scrive che la filosofia greca è stata la prima forma di cultura che ha esplicitamente tematizzato l’essere, inaugurando quel tipo di riflessione che, in età moderna, è stato chiamato “ontologia”140. Ed è Parmenide stesso a stendere, per la prima volta, si può dire in maniera compiuta, questo genere di discorso, ad intraprendere questo tipo di ricerca. Come aggiunge poco oltre ancora Berti: Parmenide è il primo filosofo che si occupa dell’essere. Infatti secondo lui il pensiero e il linguaggio si riferiscono al pensiero e al linguaggio dell’essere stesso, nella sua essenza141. Senza Parmenide cosa penseremmo? E come lo diremmo? Anzi, senza Parmenide, forse, non potremmo nemmeno pensare e dire qualcosa, formulare pensieri ed articolare discorsi che possano avere davvero un senso che possiamo riconoscere come tale 142 . Francesco Berto, in un suo testo, se la prende con la receivedview del “parmenidismo” contemporaneo secondo il quale Parmenide sarebbe colui che per primo tra i filosofi abbia affermato che tutto esiste143, ogni cosa. Si tratta di una tesi a dir il vero piuttosto riduttiva dello specifico sostenuto dal filosofo antico. Eppure, è una posizione che, almeno in Italia, ha attecchito in modo particolare. Un esempio su tutti è costituito da Emanuele Severino secondo il quale l’essere altro non è che la totalità delle differenze, e non la totalità vuota e molteplice. Al di fuori di questa non c’è niente. Severino afferma inoltre che l’essere è l’intero del positivo, non c’è altro144. È opinione di Sergio Galvan, che nel pensiero di Severino possa esistere una teoria più che altro idealistica dell’apparire in sé145. Questa opinione è certamente vera, se riferita a Severino, come quella di Berto è pure vera se ricondotta all’analisi, e valutazione, della prospettiva teorica di Severino, cioè una sorta di neo-parmenidismo, come si potrebbe definire; ma tuttavia Parmenide non dice 140Cfr. E. Berti, In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica, Laterza, Roma-Bari, 2007, p. 42. 141Ibidem. 142A. Pizzo, Ontologia in Parmenide: come e cosa si pensa quando si dice «è», inDialegesthai. Rivista telematica di filosofia, anno 14, 2012. 143F. Berto, L’esistenza non è logica. Dal quadrato rotondo ai mondi impossibili, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 5. 144E. Severino, Ritornare a Parmenide, in Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano, 2010, p. 27. 145S. Galvan, Ontologia del possibile, Milano, EDUCatt, 2009, p. 25. 41 affatto questo, e non sostiene che tutto esista. Il suo discorso è diverso, e va illuminato appropriatamente, pur facendo i dovuti conti con le poche informazioni che il tempo ci ha tramandato. Purtroppo il tempo non è stato clemente con le opere di Parmenide, infatti disponiamo soltanto di pochi frammenti della principale opera parmenidea, il Peri Physeos, sulla natura. In essa, il filosofo parla dell’essere, e questo accade per la prima volta dalle origini dei cosiddetti fisiologi146 Talete, Anassimandro e Anassimene. In più, Parmenide ne enuncia quelle che sono le sue proprietà. In particolar modo, dove i primi filosofi hanno individuato un “principio materiale” all’origine di tutte le cose, Parmenide invece, ha colto l’aspetto complessivo della realtà, il fatto stesso del suo avere luogo. Non cercando più in questo modo una causa, un’archè, il filosofo eleate prende in considerazione la realtà nella sua interezza. Così facendo egli parla di essere: cioè, di quanto è e di quanto può essere sia pensato, che detto. Secondo le parole di Parmenide, ci sono due vie che si possono pensare: una è la via dell’”è”, che ovviamente non possibile che non possa esistente, in quanto appunto, è; l’altra via è quella del “non è”, che, anche in questo caso, deve non essere. Questo sentiero a due vie indica che non si può conoscere ciò che non è, in quanto non c’è. Quest’ultimo, di conseguenza, è anche inesprimibile147. Questo frammento viene considerato da Angelo Tonelli il frutto di una scrittura per così dire “iniziatica”148, il prodotto di un’”esperienza mistica”149. Le origini stesse della filosofia vengono in effetti individuate nel sapere sapienziale, una sorta di sapere a metà strada tra quello teologico e quello sciamanico. Si tratta di un’origine, per così dire, ordinaria, quasi “normale” in forme culturali così antiche. Allora, le parole di Parmenide sembrano descrivere un’esperienza misterica, praticamente sciamanica. 146Cfr. Aristotele, Metafisica, Milano, Bompiani, 2000, p. 33. 147Cfr. Parmenide, Sulla natura, Milano, Bompiani, 2001, p. 45 (fr. 29). 148A. Tonelli, Le parole dei Sapienti. Seonfane, Parmenide, Zenone, Melisso, Milano, Feltrinelli, 2010, p. 91. 149Ibidem. 42 Nelle parole di Giorgio Colli, questa sorta di estasi misterica si deve considerare come il presupposto fondante della conoscenza, e non come conoscenza stessa, perché essa si raggiunge quando un individuo si spoglia completamente delle sue condizioni dell’essere stesso un individuo150. Probabilmente sono riconducibili a questa visione tanto le letture fisiche parmenidee che quelle epistemologiche151; le prime cercano di far convergere il senso della dottrina di Parmenide verso accezioni più fisico-esistenziali, le seconde verso sfumature logico- predicative. Tra tutte le interpretazioni che si basano su questo punto di vista è importante sottolineare che in passato la “con-fusione”152 tra i due piani veniva vista spesso come un limite, quasi si trattasse di una incapacità del maestro eleaneo di cogliere la differenza tra i due aspetti, si diceva che solo con Aristotele si sarebbe avuta una netta differenza tra i due piani. Interpretazioni più recenti, invece, tendono a leggere questa confusione sotto una luce decisamente più positiva: non si tratta infatti di mancanza di capacità di distinzione dei due piani, ma di una apposita volontà di non distinguerli. Ovviamente questa logica si fonda su un logos che non è una mera capacità intellettiva dell’uomo ma una legge intrinseca alla natura (φύσις) stessa, una logica indubbiamente divina. Per Parmenide solo la ragione è un mezzo di conoscenza davvero efficace; solo questa, rompendo la dura superfice delle apparenze, può farci cogliere l’unità profonda del reale. L’opposizione tra razionalismo ed empirismo, che tanti sviluppi avrà nella storia della filosofia, trova proprio qui la sua prima e più antica radice. L’interpretazione di coscienza è, d’altronde, esclusa perché se il pensiero dell’individuo va a scoprire l’essere, di certo non lo andrà a creare, anzi, al contrario, sarà l’esistenza 150G. Colli, La nascita della filosofia, Milano, Adelphi, 2004, p. 17. 151Secondo alcuni esponenti di questo filone, la presenza in contemporanea dei due significati non è da vedersi tanto come un problema di con-fusione, quanto piuttosto di derivazione (o ricomprensione) di un senso rispetto all’altro. 152Il primo a parlare di con-fusione tra l’aspetto predicativo e quello esistenziale del verbo essere fu Calogero, sebbene probabilmente spesso fosse stato frainteso in ciò. Successivamente la tesi della con- fusione fu ripresa da Jhon Raven (G. S. Kirk,J. E.Raven, M. Schofield,The presocraticphilosophers, Cambridge University Press, 1983, pp.269-272) e da qui in poi divenne conosciuta a livello globale da ogni studioso del settore. Sulla rilettura da parte di Raven della proposta di Calogero e il rapporto con la lettura “standard” (ontologica), v. A. P. D. Mourelatos, Some alternatives in interpretingParmenides, The Monist62, n. 1, 1979: 3–8. (ristampato in A. P. D. Mourelatos, The Route of Parmenides,Revised and expandededition, a cura di G. Vlastos, pp. 350–355). 45 I concetti 1-4 non sono altro che una riduzione all’essenziale di tale questione la quale, però, appare intimamente connessa con l’ontologia: le cose che sono esistono perché possibili, necessarie o contingenti?158 È logico, se sono non ha alcun senso chiedersi se esistano perché impossibili. Scrive Jacques Maritain che l’essere è il primo concetto tra tutti e che gli altri non sono altro che delle varianti dello stesso, perché esso viene fuori alla prima ripresa del pensiero159. L’essere, ossia il Tutto, quel che è, com’è pensabile dal pensiero? Se così stanno le cose, Parmenide, all’interno di un discorso ontologico, innovativo per i tempi, ci spiega come e cosa pensare (ma anche dire). In altri termini, la ricognizione ontologica è normativa per il retto pensiero (linguaggio), e nel farlo, indica anche i non-sensi nei quali rischiamo d’imbatterci, riducendo all’assurdo tali evenienze. È presente in Parmenide una fondazione ante-litteram della logica, anche se, comunque, è importante tener presente che egli vive ed opera all’interno di una cultura che già da tempo muoveva i suoi passi autonomamente in direzione formale. Questo appare ancora più vero se si considera, giustamente, la logica come scienza di quelle che sono le leggi del pensiero160. Questa posizione sicuramente piace ai sostenitori del “post-pensiero” dato che in essa la logica è sempre e solo un’elaborazione culturale, la cui funzione è piuttosto rassicurante rispetto ad un mondo che risulta privo di ordine e di prevedibilità. Al contrario, ci si può riconoscere in Maria Luisa Facco quando scrive che per lei, alle origini della logica c’è soprattutto l’esigenza umana di conoscere ciò che è vero; si fa questo al fine di evitare la falsità e l’errore161. 158Fanno da eco le celebri domande di alcuni filosofi che hanno tentato di pensare l’originario: come mai v’è l’essere piuttosto che il nulla? Cfr. M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano,1972, p. 13: «Perché vi è, in generale, l’essente e non il nulla?». Ma anche G. W. Leibniz, I principi razionali della natura e della grazia, in G. W. Leibniz, Monadologia, Bompiani, Milano,2003, p. 47. Risulta interessante quanto sostiene Cfr. L. Pareyson, Ontologia della libertà, in L. Pareyson, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi, Torino, 1995, pp. 87-88: «La realtà è veramente realtà solo se, semplicemente, è: proprio perché è si può pensare che prima di essere fosse possibile o necessaria, nel senso che si può asserire indifferentemente, tanto «ormai è, ma poteva non essere» quanto «ormai è, e quindi non può più non essere». 159J. Maritain, Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente, Morcelliana, Brescia, 1998, p. 25. 160Cfr. G. Rigamonti, Corso di logica, Bollati Boringhieri, Torino, 2005, p. 17. 161M. L. Facco, Metafisica, logica, matematica. Leibniz, Boole, Rosmini, Marsilio, Venezia, 1997, p. 9. 46 L’uso corretto delle facoltà razionali dà la possibilità agli uomini di percorrere tutta la strada che conduce alla verità, alla cosiddetta conoscenza fondata. Questa doppia movenza, ontologica e logica, con ogni probabilità dovuta al retaggio culturale dell’epoca di Parmenide, costituisce di certo una svolta che avrebbe segnato per lungo tempo e in profondità l’intera filosofia occidentale, restando viva ed operante fino ai giorni nostri. Anzi, è proprio ai nostri giorni che si realizza una sorta di rinascenza, una rinascita, possibile solo attraverso una ripresa del registro filosofico parmenideo 162 , compresa quell’iniziale trattazione delle modalità163. Però, in fin dei conti, Parmenide non fa altro che compiere quella sferzante attività filosofica di “scavo” nella realtà di quelle caratteristiche che la rendono tale, ovvero la “possibilità”, e le sue varie declinazioni. 2.3. Il divenire di Eraclito e l’essere di Parmenide In Περίϕύσεως, “Sulla natura”, Eraclito sembra affrontare quel complesso di problemi che alla nascente riflessione erano posti dalla convinzione arcaica di una immediata corrispondenza tra la realtà, il pensiero in cui la realtà è concepita, e il linguaggio in cui si esprime il pensiero della realtà stessa. I concetti di nome e natura sono di conseguenza aspetti egualmente oggettivi di ciascuna realtà, e se βιός (cioè l'arco) ha dunque per nome βίος (cioè la vita) e per opera morte164, questo non può che voler dire che la stessa realtà dell'arco deve essere intrinsecamente contraddittoria. Allo stesso modo può far evincere come l'unità degli opposti sia il tema fondamentale della filosofia di Eraclito (come già visto). Ciascuna realtà non può essere sé stessa se non opponendosi alle altre, in una guerra eterna, che poi è la madre di tutte le cose, cioè il logos del mondo. Che in questa filosofia, anche per la sua opposizione a quella di Parmenide, si accentuassero motivi tendenti a presentare il mondo come un perpetuo divenire (il famoso πάντα ῥεῖ, “tutto scorre”, che a dire il vero non ricorre mai nei frammenti di del maestro 162Cfr. C. Arata, Dio oltre il principio di non contraddizione, Brescia, Morcelliana, 2009, p. 21. 163Cfr. A. Pizzo, Argomento ontologico. Una storia convergente per un’interpretazione divergente, Aracne, Roma, 2009, p. 82. 164Cfr. https://www.treccani.it/enciclopedia/eraclito-di-efeso consultato il 12/06/2022. 47 efesino) e che codesto divenire fosse tradotto in una cosmologia incentrata nell'idea del fuoco come principio, è questione che riguarda realmente quella che è la storia dell'eraclitismo. Il divenire, inteso come mutamento, movimento, lo scorrere senza fine del reale, l’imperscrutabile perenne nascere e morire delle cose, è stato uno dei concetti filosofici più importanti su cui si sono contrapposte molte visioni ontologiche di tipo statico e di tipo dinamico. Il termine divenire [dal latino devĕnire composto di de (che indica moto dall'alto) e venire (ovvero venire) quindi praticamente “venir giù”] in ambito filosofico implica un cambiamento non solo nello spazio, come nel significato originario, ma anche nel tempo. Il problema della definizione del “divenire” inizialmente nasceva dalla considerazione che la sostanza primigenia doveva concepirsi come unica, immobile ed immutabile: ma se così era, come si sarebbe potuta spiegare la nascita da essa della molteplicità delle cose? Se all'inizio, come ad esempio in Talete, l'essenza unica era l'acqua, tale doveva rimanere per sempre e non dar luogo alla molteplicità degli esseri. Questa difficoltà, realmente non esplicitamente affrontata, si presentava al pensiero dei primi filosofi della Ionia che cercano di superarla parlando di una sostanza vivente, ma sempre identica a sé stessa. Tutto vive, ed è la vita della sostanza che spiega la molteplicità degli esseri che divengono, nascono e muoiono. Ma è chiaro che parlare di vita della sostanza corrispondeva a una contraddizione, perché si definisce sempre identica a sé stessa, e logicamente immutabile, qualcosa che invece vivendo diviene e muta continuamente. Secondo Eraclito, il divenire è la sostanza dell'Essere, poiché ogni cosa è soggetta al tempo e alla trasformazione. Anche quello che apparentemente sembra statico alla percezione sensoriale, in verità è dinamico e sempre in continuo cambiamento. È nel fuoco (πῦρ, in greco) che si concretizza questo concetto. Il fuoco individua il simbolico principio di tutte le cose. Questo elemento quindi simboleggia per antonomasia il movimento, la vita e la distruzione. 50 quella che è la verità, mentre l’esperienza ci fornisce solo opinioni che risultano inaffidabili e fuorvianti170. Per Severino, Parmenide è il primo testimone del senso autentico dell’essere 171 . In realtà prima di lui, è stato forse avvertito in un certo senso il richiamo alla verità originaria dell’essere, ma non è stato testimoniato: come la poesia omerica, la cosmologia esiodea, la Genesi, il patrimonio sapienziale della cultura orientale, tutte queste immense opere dell’uomo certamente parlano dell’essere e del non essere, ma il linguaggio con il quale lo fanno risulta ancora ambiguo. Come già detto in precedenza, il frammento delle due vie pensabili, quello dell’è, che non può non essere, e del non è, che non può che non essere172 viene considerato da Angelo Tonelli il frutto di un’esperienza mistica. L’iniziato esce fuori di sé173 per giungere a diretto colloquio con la fonte esterna di conoscenza, la dea, theà, che secondo Parmenide illustra il contenuto della conoscenza, due vie e le uniche possibili, odoì moûnai dizhèsiós eisi nohêsai, che si possono intuire, pensare. La traduzione di Angelo Tonelli insiste sempre sul carattere “misterico” del linguaggio di Parmenide, mentre tutte le altre traduzioni preferiscono rendere “nohêsai” con “pensabili”, “che si possono pensare”. Questo passo è molto importante perché, sempre secondo Tonelli, Parmenide formula per la prima volta nella storia del pensiero occidentale una delle sue strutture fondamentali, ovvero il principio di non contraddizione, che è insito nel significato greco di “dízhesis”, cioè “separazione”, “distinzione”. E Parmenide va a distinguere tra due vie di ricerca: l’una che “è”, e che non è possibile che non sia; il “sentiero della Persuasione”, dal greco ‘Peithó’, uno degli attributi della divinità dell’Amore, fascinazione, seduzione, convinzione. Simbolicamente, nella parola “iniziatica”, “misterica”, “sciamanica”, si fa strada la cosiddetta necessità razionale174, ovvero la convinzione conduce alla verità, la via che afferma che l’essere è e non può non 170Ibidem. 171«Parmenide non è colui che pensa per primo il positivo, l’essere, ma è colui che per primo rende testimonianza al pensiero come pensiero dell’essere. Ogni uomo è tale proprio in quanto è portatore del pensiero dell’essere» (E. Severino, La parola di Anassimandro, in Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano, 2010, p. 396). 172 Cfr. Parmenide, Sulla natura,Bompiani, Milano, 2001, p. 45 (fr. 29). 173Frammento DK 1 B 28. 174Ivi, p. 31. 51 essere. Buona parte del lessico riguardante la via dell’essere ruota attorno al concetto di necessità, che per Parmenide ha valenza logica e, indifferentemente, ontologica 175 . L’altra strada pensabile è quella che non è, e che è necessario che non sia, he d’os ouk éestin te kai os chreón esti mhè eînai. Quindi, in questo modo, l’essere si contrappone al non-essere, l’uno è, l’altro non è, il primo è esistenza, il secondo, di conseguenza, è non esistenza. Qui Parmenide forgia un nuovo registro linguistico dal quale il nostro Occidente non potrà più prescindere, ossia gli usi della copulazione, cioè dell’è, praticamente la struttura base delle frasi. Nelle parole di Andrea Moro, che vengono apprezzate anche in senso filosofico, pur denunciando la loro appartenenza al registro linguistico, si può leggere che infatti non ci si deve sorprendere che il verbo essere sia diventato una chiave della riflessione filosofica nella tradizione greca, latina e anche moderna176. Pensare, considerare qualcosa come pensabile, o anche solo intuibile, passa sempre attraverso l’uso della copula “è”. In altri termini, Parmenide fonda il “logo occidentale”. Come afferma Guido Calogero, Parmenide è appunto il fondatore del logo antico, perché è stato il primo la pone che legge reale. Così facendo, impone al reale una norma che risulta assolutamente valida intrinsecamente, la norma della cosiddetta pura pensabilità177. In questo modo, cosa ci insegna Parmenide? Ci insegna di certo che il pensare avviene attraverso la distinzione tra distinti dell’essere, cioè attraverso l’uso ragionato della “copulazione”. Di ciò è avvertito anche Aristotele quando afferma che Parmenide ragiona più oculatamente, perché ritiene che accanto all’essere non si possa trovare il non essere. Secondo Parmenide l’essere non può essere altro da sé stesso178. 175Cfr. I. A. Licciardi, Necessità e persuasione in Parmenide, in Rivista di filosofia neoscolastica, CXII, 4, Milano: Vita e pensiero, 2020. 176A. Moro, Breve storia del verbo essere. Viaggio al centro della frase, Milano, Adelphi, 2010, p. 24. 177Cfr. G. Calogero, Studi sull’eleatismo, Firenze, La Nuova Italia, 1977, pp. 64-65. 178Aristotele, Metafisica, Milano, Bompiani, 2000, pp. 31-33. 52 Parmenide, procedendo alla distinzione tra essere e non essere179, deve conseguentemente caratterizzare i caratteri ontici della realtà, per evitare pericolose contraddizioni come l’attivazione della negazione dell’essere180. L’unica via percorribile per sciogliere l’ambiguità, sembra quella di supporre che vi sia fra i termini in questione una certa forma di comunicazione che consenta di stabilire che, “alcuni sì e altri no”, comunicano in modo reciproco. Se infatti nulla non può possedere alcuna capacità di comunicare181, non sarà possibile affermare neanche che il movimento o la quiete o qualunque altra cosa “siano”, perché, non comunicando con l’essere, appunto non “saranno” 182 . In questa particolare prospettiva, risulterà quindi impossibile pensare stabilendo connessioni fra termini diversi e si dovranno utilizzare parole come essere, “separatamente”, “in sé” e così via, sempre indipendentemente le une dalle altre, perché la stessa possibilità dell’attribuzione di qualcosa all’altro da sé sarà a questo punto contraddittoria183. Se invece, al contrario, tutte le cose avessero la capacità di comunicare reciprocamente le une con le altre, si realizzerà una condizione assurda di generale e contemporanea 179Cfr. F. Fronterotta, Il non essere e la strategia dello straniero di Elea: deduzione o rimozione?, in Rivista di storia della filosofia, LXX, 1, Franco Angeli, Milano, 2015. 180Cfr. A. Pizzo, Ontologia in Parmenide: come e cosa si pensa quando si dice «è», inDialegesthai. Rivista telematica di filosofia, anno 14, 2012. 181F. Fronterotta, Il non essere e la strategia dello straniero di Elea: deduzione o rimozione?, in Rivista di storia della filosofia, LXX, 1, Franco Angeli, Milano, 2015, p. 148. 182Ibidem. 183Se non si dà nessuna capacità di comunicazione, per nessuna cosa, con nessuna cosa e nei riguardi di nessuna cosa, l’esito finale di una simile prospettiva sarà l’assoluto e totale annientamento di ogni possibile connessione fra termini distinti, sul piano delle cose, delle nozioni e dei nomi, un esito che produce, secondo una suggestiva formula diJ.M. E.Moravcsik, Being and meaning in the Sophist, in «Acta PhilosophicaFennica», 14, 1962, p. 59, un sostanziale atomismo semantico e ontologico. In primo luogo, infatti, riprendendo l’esame delle relazioni fra essere, quiete e movimento sfociato poco sopra nei più acuti paradossi, senza nessuna “capacità” di comunicazione, non si darà nessuna comunicazione fra gli enti, sicché nessun ente potrà innanzitutto entrare in relazione con l’essere, parteciparne e quindi trarre da esso, in virtù di questa partecipazione, il proprio essere: tutte le cose che sono, in tal caso, privi di relazione con l’essere, non saranno affatto se è vero che chiunque, ponendo qualunque principio, stabilisce una relazione con l’essere di questo principio. A questa prima conseguenza, comunque di per sé esiziale per ogni possibile dottrina, anzi già per il pensiero stesso, se ne accompagna naturalmente un’altra: non solo con l’essere, come è ovvio, sarà impossibile porre una comunicazione, ma con tutte le cose che sono e fra tutte le cose che sono, senza eccezione; se dunque, per assurdo, si potesse “fare a meno” dell’essere, ogni punto di vista e ogni riflessione sarebbero comunque «sottosopra» in una condizione di generale dissolvimento logico che coinvolgerebbe qualunque forma di espressione linguistica e concettuale. 55 Calogero propende proprio per questa ultima lettura anche se quasi nessuno l’ha seguito, per cui traduce che la stessa cosa è il pensare e il pensiero che è. Per chiarire ciò Calogero aggiunge un commento ancora più nebuloso del verso dell’Eleate. Afferma infatti che pensare qualcosa equivale a pensare che essa di per sé sia. Dire questo vorrebbe dire che si afferma l’essere dicendo che è192. Una lettura veloce di queste parole potrebbe portare a pensare che Calogero faccia compiere a Parmenide un passo indebito per cui nel momento in cui si va a pensare che qualcosa è, in un cento senso se ne starebbe provando la propria esistenza. In realtà questa esistenza di cui si sta parlando qui è quella meramente nel pensiero, in cui il verbo essere ha la funzione di collegare un dato ente ad un concetto appropriato. In poche parole si sta dicendo semplicemente che il pensiero, con il verbo essere come tramite, ci dice cosa è qualcosa193. Parmenide, partito dal riconoscimento logico e metodologico delle esigenze del pensiero e del discorso, giunge al culmine a dichiarare, l’impensabilità, l’inesprimibilità e l’inesistenza del non-essere, e, parimenti, l’assoluta esistenza dell’essere, che condiziona la possibilità di pensare e di dire il vero. All’essere non potrà venir riferito alcun attributo, che possa in qualche modo diminuirne la positività, assimilandolo in tal modo al non-essere. Ci si dovrà limitare a dire che esso è uno, invariabile, immobile ed eterno 194 . D’altra parte, essendo conoscibile soltanto mediante l’intelletto, l’essere, in questo modo, non potrà risultare oggetto di esperienza, e neanche coincidere con qualcosa che si osserva. Allora come si può conciliare la concezione parmenidea dell’essere col fatto incontrovertibile che l’esperienza ci presenta degli esseri molteplici, variabili, temporanei? Hartley Coxon, Richard D. McKirahan, e Malcolm Schofield, The fragments of Parmenides: a critical text with introduction and translation, the ancient «Testimonia» and a commentary(Las Vegas; Zurich; Athens: Parmenides, 2009). 192G. Calogero, Studi sull’Eleatismo. Nuova Edizione accresciuta di due appendici, La nuova Italia, Firenze, 1977, p. 13. 193M. Seregni, Il problema dell’unità in Parmenide: storia della critica e analisi del testo, tesi di Dottorato in Studi umanistici. Tradizione e Contemporaneità, Università Cattolica di Milano, a. a. 2017/18, Coordinatore C. Bearzot. 194 Cfr. https://www.lacittafutura.it/unigramsci/parmenide-e-l%e2%80%99origine-della-scienza-della- logicaconsultato il 12/06/2022. 56 Risponde Parmenide che di fronte a questo stato di cose non possa esserci altro da fare se non respingere la nostra spontanea fiducia nell’esperienza, così, riconoscendo che essa costituisce per l’uomo una via verso la conoscenza, che però risulta ingannevole e illusoria, di certo opposta alla scienza195. Confutate le opinioni dei mortali, quali si erano espresse nelle precedenti cosmologie naturalistiche basate sul divenire, Parmenide non rinuncia a costruire una propria personale spiegazione di questo mondo, di cui aveva dichiarato la radicale inconsistenza dinanzi all’assoluto essere. Capitolo III Evoluzione del pensiero logico 3.1. Falsa opposizione tra Parmenide ed Eraclito Seguendo un’affermazione aristotelica196, tra gli studiosi è sorta la congettura di una polemica di Parmenide contro Eraclito. Tutto ciò nasce da una presunta opposizione diametrale nei due filosofi tra i concetti di divenire ed essere, e su questo interessante argomento si sono misurati i più importanti studiosi, spesso senza ottenere una conclusione davvero convincente. In molti manuali scolastici di storia della filosofia, il pensiero di Eraclito e quello di Parmenide vengono presentati assolutamente come opposti. Così, in base a questa lettura, il primo è considerato come il filosofo del “divenire”, in continuo movimento, mentre il secondo sarebbe il teorizzatore dell’“immobilità” dell’Essere. Questa interessante, ma anche errata, come si vedrà in seguito, interpretazione nasce dalla semplice (ma altrettanto superficiale) contrapposizione di diversi frammenti appartenenti ai due autori; questi frammenti, confrontati fra loro, dovrebbero avvalorare la suddetta tesi. In questo caso l’errore è essenzialmente quello di ritenere – e anche in questo Aristotele non è completamente estraneo – che i due pensatori arcaici fossero soprattutto dei fisici, mentre erano perlopiù degli ontologi, e di riferire alla cosmologia ed ai fenomeni naturali quanto in realtà riguarda la metafisica197. 195Ibidem. 196 Cfr. Aristotele, Metafisica, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano, 2000. 197 A. Somigliana, La presunta polemica Parmenide-Eraclito ed un errato principio interpretativo, in Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, Vol. 58, No. 2, 1966, p. 210. 57 Tale equivoco, sia per gli antichi che per gli studiosi moderni, è favorito anche dal fatto che i due filosofi si servono entrambi di espressioni che si possono considerare “polivalenti” e nella loro speculazione abbondano le immagini tolte alle più elementari cose della natura. Per poter discutere a dovere delle loro asserzioni, è fondamentale conoscere la loro particolare terminologia, sulla quale, tra l’altro, permangono ancora delle incertezze che possono portare anche a errori di traduzione e, di conseguenza, interpretativi. La chiave di lettura di questo linguaggio e la spiegazione delle idee che esprime non si devono cercare solo nell’ambito della cultura ellenica, ma in un quadro più vasto, che è quello della koiné198 filosofico-religiosa, che a quell’epoca abbracciava tanto culture di paesi mediterranei, quanto la lontana India199. Questa era il risultato di un processo storico molto complesso, ed alla sua formazione hanno contribuito diversi fattori, tra i quali: la speculazione indo-europea e anche fatturi etnici, culturali e sociologici. In questo difficile compito di interpretazione, ci aiutano anche i testi vedici 200 , che presentano delle interessanti concordanze con i filosofi arcaici greci, dal punto di vista teoretico e lessicale. In questi testi troviamo inoltre la spiegazione di alcuni severi giudizi dei pensatori greci riguardo ai loro simili, che rispondono invece a un particolare atteggiamento filosofico. Così il disprezzo e quella che si considera la superbia di 198 Cfr. E. G. Jay, Grammatica greca del Nuovo Testamento, BE Edizioni, Firenze, 2011. 199 Cfr. A. Somigliana, Il Dio ignoto, in Sophia, luglio-dicembre 1963, pp. 238-25e, e A. Somigliana, Denominativi di Dio nel linguaggio teologico degli antichi, in Sophia, gennaio-giugno 1965, pp. 73-83. 200 I Veda sono i testi religiosi che informano la religione dell'Induismo (anche nota come Sanātana dharma, "Ordine eterno" o "Eterno cammino"). Il termine veda sta per “conoscenza”, in quanto si ritiene i testi contengano il sapere fondamentale circa la causa efficiente e finale della personale risposta all'esistenza. Sono considerati, se non i più antichi, tra i più antichi testi religiosi a noi pervenuti. Quantunque il riferimento ad essi quali “sacre scritture” sia accurato per la sacralità attribuita al loro contenuto circa la natura del Divino, diversamente dai testi sacri di altre religioni, i Veda non sono attribuiti dai praticanti a una rivelazione a una o più persone in un preciso momento del passato: è infatti credenza siano piuttosto sempre esistiti ma appresi, ascoltati, captati, per così dire, da uomini saggi durante profondi stati meditativi, prima del 1500 AEC (avanti Era Comune), anche se non c'è consenso circa una datazione. Storicamente, i Veda erano già esistiti in forma orale e tramandati da maestro a studente per generazioni, quando tra il 1500 e il 500 AEC circa (il cosiddetto Vedismo/Periodo Vedico) furono messi per iscritto in India. La loro forma orale era stata accuratamente preservata dalla sollecitudine con cui i maestri avevano esatto i discepoli li mandassero a memoria da cima a fondo, con particolare enfasi sull'esatta pronunzia, così da preservare intatto anche il suono originario. Per approfondimenti https://www.worldhistory.org/trans/it/1-11715/i-veda/ consultato il 17/06/2022. 60 dell’anima, che nel linguaggio simbolico dei testi orientali indicano mondi e sfere planetarie, chiamati loka (dal latino locus). Parmenide non elenca questi loka, ma ritiene opportuno descrivere il passaggio dalla zona dell’aria a quella del sole oltre il quale sorge la porta al confine del giorno e della notte, cioè del limitato in opposizione all’eterno e universale214. Questo passaggio è sicuramente importante dal punto di vista metafisico, perché in questi testi, l’uomo è talvolta paragonato al mozzo di una ruota di carro, cioè ad un asse fisso intorno al quale girano incessantemente due cerchi, che simboleggiano il divenire delle cose contingenti215. Tornando all’affermazione aristotelica di cui si parlava in apertura, egli si mostra abbastanza incredulo riguardo all’asserzione che alcuni hanno fatto su Eraclito: essi sostengono che il maestro efesino abbia affermato che essere e non-essere siano la stessa cosa, e in effetti si può tendere ad escludere che Eraclito abbia potuto formulare una tale proposizione. Ma il libro dell’Efesio in buona parte si è rivelato opera di metafisica, dove, in armonia con la dottrina di cui si è parlato, si vedono contrapporsi la stabilità dell’”Uno”, al continuo mutamento del contingente. Il Termine “Uno”, come in questo caso, viene talvolta usato per indicare l’ente primordiale, in sostanza l’Assoluto. Quest’ultimo, per il fatto che rappresenta la totalità assoluta, che comprende in sé ogni possibilità, e non è soggetto a mutamenti. Di conseguenza il mondo sensibile non può essere il risultato della trasformazione dell’Uno, perché “ne postulerebbe la relatività come condizione della sua esistenza”216. Melisso scrisse che è normale che non si possa vedere nel modo giusto e che tali cose non ci possano apparire in modo corretto sotto forma di pluralità217. Quest’unità è affermata anche da Eraclito con le parole che Tutte le cose sono l’Uno218, confermata poi dal frammento 57, nel quale egli dice che Esiodo, di cui è nota la concezione dualistica, non conosceva il giorno e la notte che, nel linguaggio metafisico in questione, sintetizzano il mondo fenomenico nell’insieme delle sue manifestazioni. Poi spiega appunto che è l’Uno219 . 214 Nei vari testi vedici che parlano del Deva-yâna ci sono delle varianti nell’ordine degli stadi intermedi, che non hanno grande importanza, perché il filosofo non indugia su di essi. 215 A. Somigliana, La presunta polemica Parmenide-Eraclito ed un errato principio interpretativo, p. 213. 216 Ibidem. 217 Ibidem. 218 Oppure «sono una sola»: frammento 50 di Eraclito. 219 Vedi nota precedente. 61 Parmenide, nel frammento 17, spiega chiaramente che la maggior parte degli uomini non possono intendere ciò che gli si presenta davanti, e non riusciranno ad intenderle neanche che qualcun altro gliene vada ad insegnare, anche se a loro in realtà sembrerà di aver capito220. E nel frammento 28 torna sull’argomento dicendo che solo il saggio (che è colui che sarà il più degno di stima) sa osservare davvero le apparenze221. Parmenide, il cui pensiero a riguardo è in piena armonia con Eraclito, nel proemio del libro dove descrive il suo viaggio immaginario verso la Dea222 lungo il cammino della conoscenza che porta i saggi verso la luce attraversando gli stati superiori dell’essere, nell’accennare ad alcuni assiomi fondamentali della dottrina metafisica, si esprime dicendo che sarà necessario che si dica che ogni cosa apparente (cioè che appare) penetra nel Tutto223. Le due espressioni essere e non-essere sono connesse con questo concetto: l’essere va riferito all’ente primordiale, immutabile ed eterno; il non-essere indica ciò che è contingente, caduco ed in continua trasformazione, il quale non è, ma è continuamente in divenire224. Convinti che la storia del pensiero non possa essere considerata come un confuso groviglio di idee, che possono essere addirittura più o meno bizzarre, e che si sono susseguite nel tempo, per giunta anche in contrasto reciproco, di modo che ogni dottrina sia in contrasto con tutte le altre, in una caotica mescolanza in cui sembra si possa affermare tutto e il contrario di tutto, bensì uno sviluppo coerente che, mediante la ragione, progredisce verso quella che è la verità della cosa, si propone in questo studio una lettura del tutto differente della questione e, attraverso una serie di semplici considerazioni, mostreremo che Eraclito e Parmenide affermano in realtà la stessa cosa, e che quindi il loro pensiero non è così lontano come si crede, o addirittura in contrapposizione. 220 Cfr. anche Anassagora: «Noi non siamo in condizione di distinguere la verità a causa della debolezza dei nostri sensi» (frammento 21) e Melisso: «Da ciò si conclude che non vediamo le cose quali sono, né ne prendiamo coscienza» (VIII, 3). 221 Cfr. E. Zeller, R. Mondolfo, La filosofia dei greci, La Nuova Italia, Firenze, 1961. 222 Cfr. https://www.zestletteraturasostenibile.com/la-dea-di-parmenide-il-nominalismo-come- degenerazione-epistemologica/ consultato il 18/06/2022, e L. Ruggiu, Parmenide-Poema sulla natura (commentario), Bompiani, Milano, 2003. 223 A. Somigliana, La presunta polemica Parmenide-Eraclito ed un errato principio interpretativo, p. 214. 224 Ibidem. 62 Ovviamente il linguaggio utilizzato dai due pensatori è differente. Diversa è anche la prospettiva da cui essi guardano la realtà: però l’oggetto pensato è lo stesso e, perché il pensare in modo retto si riferisce alla verità della cosa, allora identica è anche la considerazione di questa stessa cosa225. Secondo Popper, nel rapporto di Parmenide con Eraclito si può trovare una possibile risposta al problema della presenza della cosmologia relativa al mondo dell'opinione all'interno della rivelazione eleatica. Nell'addendum di Una congettura storica sull'origine della cosmologia di Parmenide226, del 1969, Popper, basandosi su due lettere inviate ad Arne F. Petersen, ipotizza che Parmenide possa essere venuto a conoscenza del problema eracliteo per quanto riguarda il mutamento, ma soltanto dopo aver completato le proprie ricerche sulla cosmologia, che appaiono di certo più articolate di quelle realizzate da Anassimandro. Popper ipotizza una precisa ricostruzione cronologica. In prima istanza Parmenide avrebbe composto i propri frammenti da B 10 in poi, escludendo B 16 – che va collocato dopo il frammento B 8 –, nel modo vicino possibile, e forse dopo il frammento B 9 o, addirittura, prima del B 8227. Secondo Popper, la più importante ipotesi cosmologica che è stata elaborata in questo periodo riguarderebbe la sfericità della Luna dei frammenti B 14-15, tradotti grazie al commento di J. Beaufret228. Si riferisce alla teoria delle fasi lunari e della luce riflessa che implica la sfericità del satellite. La teoria eleatica potrebbe quindi aver concepito l'ipotesi della sfericità del Sole, andando così a costituire un progresso decisamente importante rispetto ad Anassimandro dei frammenti DK 18 e A21, che immaginava il Sole come una ruota di carro colma di fuoco. Adesso si commenteranno brevemente, anzitutto, alcuni brani di Eraclito, cercando di mostrarne il senso più profondo. E in questo modo poterne confermare l’ipotesi di falsa 225 Cfr. A. Damiani, La falsa opposizione tra Eraclito e Parmenide, in https://sites.google.com/view/quadernidifilosofia/la-falsa-opposizione-tra-eraclito-e-parmenide consultato il 17/06/2022. 226 Cfr. K. R. Popper, Una congettura storica sull'origine della cosmologia di Parmenide, ne Il mondo di Parmenide, pp. 188-200. Il saggio è pubblicato come addendum a Il mondo di Parmenide. Note sul poema di Parmenide e sulla sua origine agli albori della cosmologia greca, del 1973. 227 Ivi, nota 1 p. 199. 228 K. R. Popper, Una congettura storica sull'origine della cosmologia di Parmenide ne Il mondo di Parmenide, p. 189 il rif. a J. Beaufret, Le Poème de Parménide, Paris, 1955, p. 8. 65 nominare la molteplicità che la conoscenza sensibile testimonia, conduce di certo fuori strada236. Parmenide dice che si tratta soltanto di parole che hanno stabilito i mortali stessi, convinti che rappresentassero il vero: nasce e morire, essere e non essere mutano il luogo e cambiano il luminoso colore237. Tutto ciò di cui si è parlato sinora, il divenire, la molteplicità, il nascere e il morire degli enti sono soltanto parole, che non coincidono con la verità dell’Essere. Questa verità è immutabile ed immobile unità del tutto. Così Parmenide aggiunge che non c’è nulla al di fuori dell’essere, e niente ci sarà, perché è stato incatenato dal destino in modo che rimanga assolutamente intero e immobile. L’essere è necessario, è una realtà necessaria, qualcosa che non può non essere o essere diversa da com’è238. La ragione, perciò, riconosce un unico Essere che tende a presentare le stesse caratteristiche del Logos di Eraclito, al di là di quelle che per noi sono le apparenze sensibili, perché l’Essere è anche imperituro, illimitato, indeterminato, quindi è unico, immobile e anche senza fine239. In questo modo, come il Logos di Eraclito non è mai stato creato, e mai si distruggerà, analogamente l’Essere di Parmenide è eterno e immutabile. Le caratteristiche peculiari di un sistema filosofico, sono importanti documenti, al pari di un reperto archeologico o di un oggetto d’arte. Così vale la stessa cosa nei riguardi di una dottrina che si distingua per singolari aspetti di concezioni e di forme espressive. Ma è ovvio che bisogna saper leggere in questi documenti e non lasciarsi quindi trarre in inganno da analisi e interpretazioni che si presentano come splendenti erudizioni, ma che poi vanno a trascurare elementi che si rivelano fondamentali per una esatta esegesi dei testi antichi. In conclusione, si può affermare che l’intuizione filosofica di fondo sia per Eraclito che per Parmenide, possa essere la medesima. La realtà vera, il Logos, l’Essere (nomi diversi 236 Cfr. A. Damiani, La falsa opposizione tra Eraclito e Parmenide, in https://sites.google.com/view/quadernidifilosofia/la-falsa-opposizione-tra-eraclito-e-parmenide consultato il 17/06/2022. 237 Cfr. I Presocratici, Testimonianze e frammenti, a cura di P. Albertelli, Laterza, Roma-Bari 1981, vol. I, pp. 271-277. 238 https://percorsidellumanita.wordpress.com/2013/07/15/parmenide-di-elea/ consultato il 06/07/2022. 239 Cfr. Parmenide, Sulla natura, DK 28 B8, trad. it. in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 1990, vol. 1. 66 con i quali i due autori indicano poi la stessa cosa) è uno soltanto: questo non è stato creato, né cesserà mai di esistere, ma è eternamente, nella sua assoluta immutabilità. Ciò che invece si vede mutare, nascere e morire, sono le singole cose che possono essere considerate ontologicamente consistenti. I due filosofi sono stati spesso, si potrebbe dire inevitabilmente, e talvolta in maniera non appropriata, messi a confronto. Chiaramente ci sono delle, anche profonde, diversità di pensiero. In particolar modo la differenza emerge quando si analizza la natura delle cose contingenti (che dunque non sono la vera realtà). In Parmenide, esse sembrano relegate all’ambito della mera parvenza; in Eraclito, invece, pare che costituiscano comunque le differenze all’interno dell’Unità, senza le quali nulla potrebbe esistere. Tuttavia il fulcro di queste due dottrine sembra assolutamente identico. 3.2. Dalla logica arcaica alla logica classica La filosofia non è una scienza empirica e si regge in buona misura sull’argomentazione, cioè sulla capacità di giustificare determinate affermazioni, tesi, sulla base di altre che vengono ritenute vere. Sin dall’antichità la teoria dell’argomentazione ha pertanto occupato una posizione sicuramente di rilievo nella ricerca filosofica, già a partire da Aristotele, che ha contribuito a definire quel settore disciplinare che oggi chiamiamo logica (dalla parola greca logos, che può avere anche i significati di ‘discorso’, ‘ragionamento’)240. Aristotele stesso definì la materia in maniera sistematica, secondo schemi e principi determinati che rimasero insuperati per oltre due millenni. Poi, partire dal XIX secolo la teoria logica subì mutamenti molto profondi. Nel XX secolo si è assistito a sviluppi ancora più eccezionali, che hanno portato all’applicazione della logica in diversi campi, non solo in filosofia ma anche in altri ambiti di ricerca (dalla linguistica al diritto, fino all’informatica). La logica quindi si occupa dello studio e anche della classificazione delle diverse forme di argomentazione. Andando ancor di più nel particolare, i principi centrali ai quali si ascrive l’interesse della logica sono quelli di argomentazione valida. Un’argomentazione può definirsi valida quando le premesse da cui essa muove, forniscono effettivo sostegno alla tesi che si vuole giustificare. 240 Cfr. A. C. Varzi, J. Nolt, D. Rohatyn, Logica, McGraw-Hill Education, New York, 2007. 67 Il termine λογικός (loghikòs) compare in tutta la storia della filosofia antica, precedente e successiva alla dottrina di Aristotele (da Eraclito a Zenone di Elea, dai sofisti a Platone) con il significato, in realtà abbastanza generico, di ciò che riguarda il λόγος (logos, di cui si è molto parlato precedentemente), nel senso molteplice di ragione, discorso, legge ecc. che ha questa parola in greco241. Alla logica aristotelica fu attribuito anche il termine di Organon (cioè strumento), che si può trovare invece per la prima volta in Andronico di Rodi (I secolo a.C.) e ripreso poi da Alessandro di Afrodisia (II-III secolo d.C.)242 che lo riferì agli scritti di Aristotele che hanno come tema l'Analitica, che è il termine usato proprio da Aristotele per indicare la “risoluzione” (analisi, dal greco ἀνάλυσις - analysis - derivato di ἀναλύω - analyo - che significa “scomporre, risolvere nei suoi elementi”) del ragionamento nei suoi elementi costitutivi. Dopo Aristotele, nella scuola stoica i termini ἡ λογική (τέχνη) (e loghiké tékne), τὰ λογικά (tà loghikà) assumono in realtà un significato più tecnico: cioè di teoria del giudizio e della conoscenza, intendendo non solo la filosofia della conoscenza, ma anche la struttura formale del pensiero. Ed è grazie a questo ultimo valore di cosiddetta organizzazione scientifica delle leggi che assicurano non la verità, ma il pensiero in modo corretto, che Aristotele si dedicò all'elaborazione della logica, termine che però lui non utilizzò ancora243. Nel 1925 venne pubblicata un’interessante monografia che era destinata a segnare un’epoca nell’ambito degli studi dell’antichità greca: si tratta dell’opera di Ernst Hoffmann, Die Sprache und die archaische Logik244. Quest’opera, produce una gran quantità di contributi importanti sul linguaggio di Parmenide ed Eraclito, e sulle posizioni dei due filosofi (di cui si è discusso nel paragrafo precedente)245. Nella filosofia preplatonica, fisica, etica e logica, non hanno ancora quella distinzione che successivamente avrà gran peso. Quello che si ritrova nella filosofia preplatonica e, in 241 Secondo i Kneale il termine logica sarebbe stato usato nel senso moderno solo a partire da Alessandro di Afrodisia (II-III secolo d.C.); in W. e M. Kneale, Storia della logica, Einaudi Editore, Torino, 1972, p. 33. 242 F. Volpi, Dizionario delle opere filosofiche, Milano, Bruno Mondadori, 2000, pag. 78. 243 Cfr. https://www.treccani.it/enciclopedia/logica/ consultato il 18/06/2022. 244 E. Hoffmann, Die Sprache und die archaische Logik, Verlag J.C.B. Mohr, 1925, tr. It., E. Hoffmann, Il linguaggio e la logica arcaica, Spazio Editori libri, Ferrara, 1991. 245 Cfr. F. Lo Piparo, Il linguaggio in Aristotele. Cosa fa di una lingua una lingua, Laterza, Roma-Bari, 2003. 70 Questo “parlante”, che si può approssimare al tipo del Greco arcaico, è da presupporre appartenente a un ambito linguistico, che può essere, solo per fare qualche esempio, quello neolatino ο germanico, in cui l'uso delle forme del gruppo “essere” sia decisamente intenso e molto vario: egli dice “è” e “fu”, e “sarà” e “sono” e “sarebbe”, e così via, a seconda di ciò che deve esprimere256. Egli dice che una cosa è in un modo e non è in un altro, così come dice che questa cosa ha uno e non ha altro aspetto. Così facendo non riesce ad avvertire quella convivenza dell'essere col non essere come meno congrua di quella dell'avere con il non avere. Ma tuttavia, spontaneamente sente come entrambe quelle forme non siano altro che dei modi di dire, utili a significare più esattamente, ο probabilmente più rapidamente, i singoli aspetti di quel mondo veduto che egli riesce a tradurre nel parlato. E addirittura può anche, aggiungendo il suo patrimonio linguistico, parlare insieme di essere, come di ente e di entità, senza problemi, al singolare e al plurale. E può inoltre rivolgersi con il termine essere a un vivente, chiamare enti determinate istituzioni giuridiche, e parlare anche di entità a proposito di oggetti più ο meno identificati e indeterminati della propria esperienza257. Quei termini non vanno a trapassare significanti in significati, e quindi non ha ancora senso chiedere quello che sia, in assoluto e in universale, l’essere ο l’ente ο l’entità258. Così, il Greco arcaico — più generalmente, il Greco ingenuo, spontaneo — contava delle forme di είναι in quella stessa diversità di usi che, successivamente, e per risolvere le incertezze eleatiche dal punto di vista della sofistica e della socratica, doveva discernere e classificare Aristotele, per cui il principio del πολλαχώς γεσϋαι το δν259, cioè della molteplicità dei sensi in cui si poteva parlare di essere e dire che una cosa era, istituiva uno dei motivi assolutamente basilari fra quelli che gli facevano sentire la necessità di un'analisi semasiologica della precedente terminologia speculativa260. Nell’uso linguistico greco, le forme di είναι servivano ad ogni possibile assegnazione ο esclusione di attributi ad ogni asserzione di sussistenza, realtà, verità, che sono in ordine a date cose ο opinioni, così come a qualsiasi altro uso. Si tratta del caso di tentare con 256 Ivi, p. 144. 257 Ibidem. 258 Ibidem. 259 Cfr. Aristotele, Metaphysics, a cura di W. D. Ross, Oxford University Press, Oxford, 1924. 260 Cfr. https://www.riflessioni.it/dizionario_filosofico/metafisica.htm consultato il 19/06/2022. 71 esempi questa pluralità di funzioni, perché gli esempi si incontrano ovunque e basta leggere una pagina del maestro greco per farne esperienza immediata261. Sin dagli inizi del '500 e fino alla fine del '600, si realizza una sorta di rottura, che funge da spartiacque, con la tradizione della logica scolastica, la quale intendeva inquadrare ogni conoscenza entro quello che è il sillogismo di Aristotele (di cui si vedrà a breve). L'importanza che si dà allo sviluppo di un metodo sperimentale ha avuto un impatto imponente, e questo anche sull'organizzazione della filosofia e sulla stessa logica. La crisi della cosmologia aristotelico-tolemaica non è altro che un chiaro segnale di uno sconvolgimento culturale, che era latente, e che richiedeva un assolutamente necessario rinnovamento intellettuale che la vecchia guardia, ancora pienamente intrisi di cultura scolastica, non aveva la forza di reggere262. Alla logica del sillogismo viene opposto un uso completamente nuovo, cioè quello di un metodo prettamente matematico e sperimentale (il metodo galileiano), che viene preso a modello da alcuni filosofi. I casi più esemplari sono Cartesio e Locke. Entrambi a stretto contatto con la scienza moderna. Cartesio addirittura contribuì in modo fondamentale alla formulazione della geometria analitica. Locke si presenta più come conoscitore di Boyle e Newton e delle nuove vedute della fisica moderna. Non solo la logica, ma anche la scienza aristotelica, basata su quella logica, è messa seriamente in crisi: vengono messe in discussione la fisica e la cosmologia di impianto aristotelico 263 : della cosmologia aristotelica cade in qualche modo l'idea del cosmo formato come una serie di sfere cristalline concentriche dove la terra è al centro - sostituita invece dalla visione della terra che gira intorno al sole; della fisica di Aristotele scompare l'idea delle ‘cause finali’ che vanno a determinare il movimento dei corpi e la rivoluzionaria idea che la velocità di caduta dei corpi sia proporzionale al loro peso264265. 261 G. Calogero, Parmenide e la genesi della logica classica, pp. 143-144. 262 Cfr. T. S. Kuhn, J. Sneed, J. D. Sneed, W. Stegmüller, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Armando Editore, Roma, 2015. 263 La parte più valida della scienza aristotelica sembra a questo punto essere la biologia: come biologo Aristotele può essere letto ancora oggi come un buon naturalista (anche se si tende ad abbandonare la sua visione della vita animale incentrata sulle "cause finali"); il suo metodo di osservazione portò alla classificazione di 540 specie animali e a diverse analisi interessanti (sull'embriologia del pulcino, lo sviluppo dei cefalopodi, la descrizione dello stomaco quadripartito dei ruminanti, o sviluppo dei pesci, ...). Il libretto introduttivo di J. Barnes, Aristotele, Einaudi, Torino, 2002, aiuterà studenti e docenti ad avere una visione meno stereotipata del grande filosofo. 264 C. Penco, Logica antica e logica moderna, in Quaderni di Ricerca in Didattica, n. 19, 2009, p. 185. 265 Anche se si rivaluta oggi la perdurante influenza della visione aristotelica delle quattro cause, spostata a un livello metateorico; sulla causalità in generale si veda il libro di F. Laudisa, Causalità, Carocci, Roma 72 Si è parlato di crisi del paradigma aristotelico. Clemente Alessandrino266 sosteneva che gli antichi consideravano Omero principe dei poeti, Platone principe dei filosofi e Crisippo principe dei logici. Aristotele era il principe degli scienziati. Purtroppo di autori come Crisippo e gli stoici si è perso quasi ogni documento scritto, mentre di Aristotele invece si è salvato un davvero un abbondante corpus di scritti logici, che sono stati raccolti con il titolo di Organon, come già accennato in precedenza. Quest’opera durante il Medioevo fu davvero un’opera cardine per gli studiosi del tempo, così fino all'età moderna e a oggi, ritenuta opera di riferimento. Quel poco di logica stoica che si conosceva durante il medioevo, e che venne riscoperta in epoca moderna sviluppandosi come logica delle conseguenze, è stata esaminata e approfondita accanto alla logica dei termini di Aristotele. Socrate aveva due allievi molto dotati, cioè Platone di Atene e Euclide di Megara. Essi avevano sviluppato le due diverse anime del maestro Socrate: la prima, cioè quella del costruttore di concetti, e la seconda, ovvero quella del costruttore di ragionamenti e sofismi. Alla morte del maestro, i suoi allievi andarono a vivere a Megara. Dopo alcuni anni Platone tornò ad Atene fondando una scuola tra i cui allievi troviamo Aristotele, che a sua volta fondò una scuola. Ma a Megara anche Euclide ebbe una scuola di studi molto fiorente, tra i cui allievi troviamo Eubulide di Mileto. Egli è famoso nella storia della logica per aver “inventato” alcuni dei più famosi paradossi logici267. Ma della scuola dei logici di Megara si sono conservate poche fonti, e molto viene raccontato dallo stesso Aristotele, in modo perlopiù polemico, come di logici che si dedicavano all'argomentazione sofistica, senza alcun rispetto per la filosofia e per la scienza. Ma inoltre era Aristotele stesso che, a sua volta, si difendeva dai violenti attacchi che gli erano rivolti contro proprio da Eubulide268. Da questo primo momento di antagonismo durante il quale si formò una insanabile frattura tra le due tradizioni logiche, si irrigidirono le rispettive posizioni, e non si riuscì mai a raggiungere una unificazione tra le due posizioni. 1999. La fisica di Aristotele è comunque oggi rivalutata come "fisica del senso comune", cioè come analisi del modo di ragionare intuitivo ingenuo dell'uomo comune, che ha anche applicazioni a livello di strutturazione del ragionamento di senso comune in intelligenza artificiale. 266 Cfr. L. Alfonsi, Motivi tradizionali del giovane Aristotele in Clemente Alessandrino e in Atenagora, in Vigiliae Christianae, Vol. 7, Amsterdam, 1953. 267 C. Penco, Logica antica e logica moderna, in Quaderni di Ricerca in Didattica, n. 19, 2009, pp. 187-188. 268 Cfr. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, vol. 2, a cura di M. Gigante, Editori Laterza, Roma-Bari, 2019, p. 109. 75 si considerano gli argomenti che precedono, sia dal fatto che il principio della dimostrazione in realtà non è una dimostrazione, quindi, di conseguenza, neanche il principio della scienza sarà una scienza. Così, se oltre alla scienza non si possiede altra conoscenza effettiva e reale, sarà l’intuizione a dover essere il principio della scienza stessa276. Negli Analitici Primi aristotelici, il maestro di Stagira invece ha esposto la logica e le leggi che la guidano. Neanche queste leggi sono dimostrabili, ma, solo in una forma immediata, sono intuibili 277 . Queste leggi sono il principio di identità, che indica l’eguaglianza di un soggetto rispetto a sé stesso, e per il quale si può affermare che A = A e quello di non-contraddizione, che afferma la falsità di ogni proposizione che implica che una certa proposizione A e la sua negazione, siano entrambe vere allo stesso tempo e nello stesso modo. Così A ≠ non-A. Dalle leggi che contengono gli Analitici Primi aristotelici, si può concludere come sia impossibile che lo stesso attributo, nello stesso tempo, possa appartenere e non appartenere allo oggetto e sotto lo stesso aspetto278. A differenza della deduzione, con il suo carattere necessario, l'induzione al contrario, muove appunto dal particolare all'universale. In questo modo non può avere pretese di consequenzialità logica: partendo da singoli casi particolari infatti, non si potrà mai giungere a una legge universale logicamente cogente. Così, in Analitici Secondi, Aristotele si chiede come colui che definisce, come potrà dunque provare l'essenza? Del definire qualcosa non si può dire che questo consista nello sviluppare un’induzione grazie a singoli casi manifesti, cioè definendo che, nella sua totalità, l’oggetto debba comportarsi in un dato modo; infatti, chi sviluppa un’induzione non va a provare cosa è un oggetto, ma dimostra solo che esso è, o non è. In verità, non si può provare l’essenza con la sensazione, è ovvio, né la si potrà mostrare. Oltre a questo, l’essenza di un oggetto sembra 276 Aristotele, Opere, vol. I, a cura di C. A. Viana, Laterza, Roma-Bari, 1973, pp. 372-373. 277 Cfr. G. Calogero, I fondamenti della logica aristotelica, La Nuova Italia, Firenze, 1968. 278 Cfr. Aristotele, Metafisica, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano, 2000. 76 che non possa essere conosciuta né grazie a un’espressione definitoria, né grazie a una dimostrazione279. La logica di Aristotele è quindi solo deduttiva, una logica induttiva sarebbe per lui una contraddizione in termini280. Il libro Gamma della Metafisica di Aristotele, è interessante a riguardo. Esso tratta della scienza dell’essere in quanto essere e del suo primo principio, con una serie di confutazioni, sia per stabilire il principio, che per confutare Protagora281. La logica aristotelica che teorizzo il filosofo di Stagira, resterà valida fino al XVII secolo. Successivamente un ulteriore contributo fu quello dello stoicismo. Per quest’ultimo la logica non è solo uno strumento al servizio della metafisica, ma essa si colloca come disciplina autonoma rispetto agli altri campi di indagine282. Per logica gli stoici intendevano non solo le regole formali del pensiero, che si improntano correttamente al Logos, ma anche quei costrutti del linguaggio con cui i pensieri vengono espressi. A differenza di quella di Aristotele, che è stata una logica dei predicati, quella stoica può essere considerata una “logica proposizionale”, perché incentrata sullo studio della coerenza che deve esserci tra proposizioni, e dei rapporti che intercorrono tra i significati. Il sillogismo aristotelico, di cui sopra, fu ampliato. Così facendo venne inteso in un senso che non è solo deduttivo, ma anche ipotetico. In questo modo per gli stoici il criterio fondante della verità è l'evidenza. Questa assegna alla verità quel carattere di scienza che è assolutamente necessario per poter distinguere correttamente il vero dal falso283. 279 Cfr. Aristotele, Analitici Secondi, in http://saggezzaatemporale.altervista.org/estovest.net/tradizione/aristotele.html consultato il 20/06/2022. 280 P. Scroccaro, Intuizione intellettuale, induzione e scienza dimostrativa in Aristotele, in https://web.archive.org/web/20130723064515/http://www.estovest.net/tradizione/aristotele.html consultato il 20/06/2022. 281 C. Cassin, Il senso di «gamma». La strategia di Aristotele contro i presocratici in “Metafisica”, IV, in Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, Vol. 85, No. 2/4, aprile-dicembre 1993, p. 533. 282 cfr. G. Calogero, alla voce "Logica", Enciclopedia Italiana, vol. XXI, Treccani, 1934, p. 394. 283 «[…] per gli stoici la scienza non è sensazione, ossia un'impressione provocata dalle cose esterne sui nostri organi di senso, e nemmeno una semplice impressione dell'anima [...]: la scienza è "criterio di verità"», E. Severino, Epicureismo e stoicismo, in La filosofia antica e medievale, BUR, Milano, 2004, p. 233. 77 Figura 1 Il quadrato logico 3.3. Le categorie di Aristotele oggi Le Categorie fanno parte del complesso corpus di opere di Aristotele e sono uno scritto che ci è stato tramandato in quindici capitoli. Sono parte integrante di quelle opere della tradizione che concernono con la logica. Tra il II e il III secolo Alessandro di Afrodisia284, a questo corpus diede il nome di Organon, cioè strumento, come già visto nei paragrafi precedenti. In questi scritti Aristotele non incluse l’oggetto trattato, quindi questa scelta è interessante, ma anche adatta, dato il silenzio aristotelico. Il fine di queste trattazioni logiche è quello di fornire i concetti e gli strumenti preliminari necessari ad affrontare, poi, ogni tipo di quella che è l’indagine scientifica285. Si è parlato ampiamente della logica di Aristotele, soprattutto nel paragrafo precedente, ma solo a titolo esemplificativo, può dire che logica espone come si comporti il pensiero quando pensa, quale sia la struttura del suo ragionamento, gli elementi di esso, come possa essere possibile mostrare dimostrazioni e quali tipi e modi di dimostrazioni esistano, ma anche che cosa e quando siano possibili286. 284 Cfr. https://www.filosofico.net/alessandrafrodisia.htm consultato il 12/07/2022. 285 Cfr. T. Waitz, Aristotelis Organon, 2 voll., Lipsiae 1844, ristampato ad Aalen 1965, vol. II, pp. 293-294. 286 G. Reale, Introduzione a Aristotele, Laterza, Roma-Bari, 1974, 1995, p. 141. 80 Categorie vengono anche prese in considerazione dai neoplatonici, e questo risulta essere fondamentale per il loro sviluppo e analisi. Nel III secolo d. C., ad esempio, Porfirio297 (allievo e biografo di Plotino, di cui si vedrà tra breve) protegge l’idea che l’opera aristotelica inauguri un certo insegnamento del pensiero filosofico. Egli sarà il primo dei commentatori neoplatonici a conciliare Aristotele con Platone, considerando la logica del discepolo come un’introduzione alla metafisica del maestro. Proclo Diadoco298 poi, nel V secolo d. C., definisce il percorso filosofico, che, a partire dalla prima tappa del suo tracciato, inizia con un’introduzione più generale alla filosofia; continua poi con uno studio contenente dei commenti delle principali opere di Platone e Aristotele, tra le quali, le Categorie. Plotino299 è l’unico dei neoplatonici che critica Aristotele: particolarmente rimprovera alle Categorie di rappresentare solo una classificazione delle cose sensibili, che non si può applicare alle realtà intelligibili, e quindi alle Idee: per queste è valida invece la distinzione dei sommi generi descrive Platone nel Sofista300. Così, l’unità che le Categorie formano con le altre opere logiche del corpus aristotelico e l’unità dello studio del linguaggio e del sillogismo, che ne è parte fondamentale, vengono menzionate a partire dai primi scritti dell’Organon. Ma non è finita qui. Le Categorie si avvicinano molto a quelle che dagli studiosi vengono considerate di paternità del filosofo stagirita. Questo è dimostrato dall’estrema affinità che lo scritto presenta nei confronti del libro Γ della Metafisica. Di quest’ultima si può dire, sicuramente senza incorrere in errore alcuno, che le Categorie potrebbero rappresentare una versione non scientifica e più divulgativa. E lo stesso vale per i Topici, per i quali la questione dell’autenticità è stata molto dibattuta, già a partire dall’antichità, ma anche tra gli studiosi moderni. Questi avvalorano le loro ipotesi, sostenendo che nelle opere sicuramente attribuite ad Aristotele, non ci sono chiari riferimenti a questo scritto; così come nel testo delle Categorie non ci sono citazioni di altri testi del maestro stagirita, oltre al fatto che è utilizzato uno stile dogmatico inusuale. Ma, nonostante le Categorie spesso vengano considerate come un’opera isolata, e a ragione, secondo diversi commentatori sia antichi che moderni, internamente ed 297 Per approfondimenti cfr. https://www.treccani.it/enciclopedia/porfirio-di-tiro consultato il 09/07/2022. 298 Cfr. Proclo di Costantinopoli, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. 299 P. Prini, Plotino e la fondazione dell'umanesimo interiore, Vita e Pensiero, Milano, 1992, pp. 29-30. 300 Cfr. Plotino, Enneadi, a cura di G. Faggin, testo greco a fronte, Rusconi, Milano, 1992. 81 esternamente nel corpus delle opere di Aristotele, in quanto mancano completamente chiari riferimenti e rimandi testuali appunto, esse contengono, invece, dei contenuti teorici che si possono tranquillamente ricondurre a quelli espressi dal maestro di Stagira in altre opere. Questo altro non è che la prova dell’unità del pensiero aristotelico e sarebbe quindi una dimostrazione a favore dell’autenticità delle Categorie di Aristotele. Ma per esempio non è di questo avviso il curatore di una recente edizione critica francese, Richard Bodéüs301. La tavola delle categorie di Aristotele è stata da lui esposta in questa sua opera. Oltre ad aver messo in dubbio la stessa esistenza dell’opera e del suo autore, come appena detto, si è messo in dubbio anche che Categorie fosse il vero titolo di questo scritto aristotelico. Questo è dovuto al fatto che esso non corrisponde perfettamente proprio a tutti gli argomenti che vengono esaminati, ma anche perché in alcuni commenti e manoscritti delle opere del maestro stagirita questa appare con un diverso titolo. Lo scritto è composto da 14 capitoli, e di questi, solo i primi 9 trattano nello specifico delle categorie, mentre gli ultimi 5 capitoli trattano di temi differenti: i contrari, l’anteriore e il posteriore, i tipi di mutamento. Come conseguenza, questi ultimi capitoli e vennero chiamati Post- praedicamenta302, cioè, in latino, “dopo le categorie”. Questo molto spesso portò gli studiosi di diverse epoche a considerarli non autentici303. L’altro titolo con cui l’opera è stata divulgata è Pro tôn topôn, o Pro tôn topikôn, cioè prima dei luoghi, o prima dei Topici, ovvero dell’opera in cui Aristotele tratta dei “luoghi” delle argomentazioni dialettiche. A causa di questo titolo, un editore recente l’ha quindi creduta un’introduzione alla dialettica304. In questa sede, la parte che si andrà ad analizzare, come già iniziato a fare in questo paragrafo, sarà quella inerente alle categorie, quindi i primi 9 capitoli. È importante dire che le Categorie sono un’opera particolare. È molto breve. In recenti edizioni italiane del testo, le Categorie formano un volume che conta più di 700 pagine: di queste però solo 40 pagine contengono il testo del filosofo stagirita, e addirittura i primi 9 capitoli, di cui si diceva pocanzi, sono contenuti in poco meno di 30 di queste pagine; 301 Cfr. Aristote, Catégories, texte établi et traduit par R. Bodéüs, Les Belles Lettres, Paris, 2001. 302 Per approfondimenti https://theekpyrosis.wordpress.com/2019/01/11/aristotele-le-categorie- postpraedicamenta/ consultato il 02/07/2022. 303 Cfr. E. Berti, Sono ancora utili oggi le categorie di Aristotele?, in Nuove ontologie, n. 39, 2008, pp. 57- 72. 304 Cfr. Aristote, Catégories, texte établi et traduit par R. Bodéüs, Les Belles Lettres, Paris, 2001. 82 il resto del contenuto di queste edizioni contengono introduzione, traduzione e commento305. Oltre a questo il contenuto filosofico delle Categorie risulta molto povero e addirittura si può dire elementare. Come detto precedentemente, al suo interno ci sono delle dottrine che a volte possono apparire incompatibili con quelle opere come ad esempio la sunnominata Metafisica. Ma nonostante dubbi e perplessità, le Categorie hanno avuto una enorme fortuna: queste sono sicuramente l’opera di Aristotele più ricopiata, più tradotta, più commentata, e anche più schernita. In tutti gli antichi manoscritti in cui ci è stato ricopiato il corpus delle opere aristoteliche, le Categorie occupano il primo posto, esse quindi rappresentano l’opera di apertura. Ciò probabilmente ha segnato la fortuna di quest’opera del filosofo, anche se quest’ordine potrebbe non rispettare quella che era la reale intenzione del suo autore. Aristotele trasmette l’elenco completo delle 10 categorie solo due volte, cioè nelle Categorie e nei Topici. Il filosofo in vari altri scritti ne indica solo otto, o sei, o addirittura quattro: questo dà l’impressione che il numero preciso delle categorie probabilmente non conti. Nelle Categorie il maestro di Stagira presenta la lista delle cose che vengono dette non considerando alcuna connessione ciascuna possa significare o relazione, sostanza, quantità, qualità, dove, quando, avere, agire, patire, giacere. Poi la presenta dicendo che la sostanza (ovvero, ousia) può essere, ad esempio, uomo, cavallo; o relazione, ad esempio, doppio, mezzo, maggiore, minore; o quantità, di due cubiti, di tre cubiti; o qualità, come bianco, grammatico; o, ancora, dove, nel Liceo, in piazza, in una strada; o quando, ieri, oggi, un anno fa; o avere, ha i calzari, la toga, è armato; o agire, come colpire, bruciare; o patire, ad esempio, essere colpito, essere bruciato; o, infine, giacere, sdraiato, seduto (Cat. 4, 1b 25-2a 10)306. L’essere si può dire in molti modi, quindi di un soggetto si possono predicare molte e diverse cose: quanto è alto, che cosa è, dove è, quanto è… Questi predicati rappresentano le categorie. Secondo Aristotele quindi, queste 10 categorie sono le seguenti: 1. sostanza (Socrate o uomo); 2. quantità (un metro e mezzo); 305 Cfr. Aristotele, Le categorie, introduzione, traduzione e note di M. Zanatta, Rizzoli, Milano, 1989. 306 Ivi, p. 305 85 sostanza e della quantità, la relazione può avere un contrario e, inoltre, contempla il più e il meno. (Cat. 7)313. Per quanto riguarda la qualità (poiotês), che, come si è visto, nella lista precede la relazione, Aristotele asserisce che essa si dice in molti sensi. Anche le qualità, come le relazioni, possono avere sia contrari, che ammettere il più e il meno (Cat. 8)314. Alcuni tipi di qualità inoltre coincidono con alcuni tipi di relazione: queste due categorie in parte si sovrappongono. Poi Aristotele tratta rapidamente del fare (poiein) e del patire (paschein), limitandosi a dire che queste contemplano il contrario e il più e il meno (Cat. 9)315. Non dedica alcuna parola alle categorie del giacere e dell’avere. Questo è una conferma del fatto di quanto la lista sia aperta, variabile nell’ordine, può ammettere integrazioni, riduzioni e sovrapposizioni. Queste categorie sono quindi più una preistoria del pensiero aristotelico, e non una fase della sua evoluzione. Quest’opera ha anzitutto significato polemico; la polemica è qui un fattore preponderante per quanto riguarda la dottrina. La scienza autonoma di Platone ha il suo sviluppo dalla nozione dell'essere; la concezione delle categorie di Aristotele è la critica di questo metodo. È impossibile poter muovere dall'essere e discendere alle categorie, con un processo completamente autonomo; ma anche il processo inverso, che vada a risalire, unificando, oltre che il molteplice categoriale, non coglie un genere sommo unico, ma, soltanto, delle analogie316. Dopo Aristotele la filosofia si occuperà ancora delle categorie, come si è già anticipato. Questo accadrà in tutte le correnti di pensiero, sia del mondo antico, che di quello medioevale. Si è già visto in Porfirio, Proclo Diadoco e Plotino. Da Severino Boezio317 a S. Anselmo d’Aosta, i filosofi hanno aderito all'interpretazione aristotelica delle categorie. S. Tommaso d’Aquino riprende proprio l'elenco di Aristotele, 313 Ivi, pp. 329-343. 314 Ivi, pp. 343-358. 315 Ivi, p. 359. 316 A. Galimberti, Introduzione storica al problema delle categorie, in Rivista di Storia della Filosofia (1946- 1949), Vol. 2, No. 3/4, Luglio-Dicembre 1947, pp. 221-246. 317 Cfr. L. M. Baixauli, Boezio. La ragione teologica, trad. a cura di D. Arioli, Jaca Book, Milano, 1997. 86 ordinando però le categorie secondo un criterio di distinzione. Per S. Tommaso ciò che si può conoscere di un soggetto è quello che si può predicare di esso318. La posizione di Lullo (Llull) è interessante: ritiene che se il sapere fosse presentato in modo unitario, con una rigorosa evidenza, chiunque ne potrebbe attingere. Così elabora una sorta di arte generale della quale le categorie ne vanno a costituire un alfabeto: così facendo, questa comprenderebbe i fondamenti di tutte le scienze. Ma per lo scrittore e teologo spagnolo, gli elementi fondamentali sono diciotto: di questi ultimi, nove sono riconosciuti con gli attributi divini, gli altri nove sono termini che indicano relazioni tra esseri contingenti319. Con tali elementi fondamentali, caratterizzati da lettere dell'alfabeto o altri simboli, attraverso le combinazioni di questi, si conseguono i ragionamenti tipici delle varie discipline. L'idea di un'arte combinatoria a fondamento della logica, intuita da Lullo, sarà di Leibniz. In epoca moderna ogni filosofo fornirà un suo personale elenco di categorie. Ad esempio Cartesio e Spinoza ne riconoscono tre: sostanza, attributo, modo. Con altri pensatori, come Galileo, Hobbes e Locke si può distinguere tra qualità primarie e qualità secondarie: le prime sotto la categoria della quantità, e poi su queste si sviluppa la Scienza; le seconde, la categoria della qualità320. Le qualità secondarie, non potendo misurarsi, possono esistere solo in quanto sono percepite: «Esse est percipi», cioè l'essere significa essere percepito. (George Berkeley321). Da questo si può dedurre che non esiste un unico ambito per ciò che riguarda le categorie, ma si ha certamente una molteplicità. Locke attribuirà alle categorie un aspetto di funzionalità, ovvero di strumento dell'intelletto umano, attraverso il quale si possono produrre relazioni e nessi di cui consta la complessità delle idee322.E ancora, in Hume il criterio fondamentale si basa su tipi di qualità associativa, ovvero sul modo secondo il quale da un'idea ne consegue un'altra. In 318 C. Marchini, Il problema della classificazione - evoluzione del concetto di categoria da Aristotele a Kant ed applicazioni alla Matematica dei secoli XIX e XX, Lezioni Epistemologia e Storia della Matematica I/1, 2018, p. 4. 319 Ibidem. 320 Ibidem. 321 Cfr. B. Marciano, George Berkeley. Estetica e idealismo, Nova Scripta, Genova, 2010. 322 C. Marchini, Il problema della classificazione, op. cit., p. 5. 87 questo modo gli elementi delle categorie sono posti nella soggettività empirica e, di fatto, rendono impossibile la costruzione scientifica323. A Hume, Kant324 contrappone una concezione che colloca le categorie in quella che risulta essere una soggettività trascendentale, il che ristabilisce in tal modo l'universale, però sempre nell'ambito della soggettività, che esclude la manifestazione della realtà in sé. Così, se la realtà va a trascendere il conoscere, bisogna poter concepire i nessi stessi del conoscere come prodotti dal soggetto, in quanto sue funzioni nella creazione dell'esperienza325. Le categorie assumono il ruolo di concetti fondanti della ragion pura, cioè forme a priori della nostra conoscenza, rappresentanti le funzioni essenziali del pensiero discorsivo. Dopo Kant si elimina quella limitazione delle categorie ad elemento puramente soggettivo, e vengono perciò interpretate come determinazione sia del pensiero, che della realtà. Hegel identifica con categorie ogni determinazione dello sviluppo dialettico della logica. Ma in questo caso di certo non si possono identificare con le categorie di Aristotele. Renouvier identifica le categorie con una sorta di nozioni astratte che vanno ad esprimere relazioni d'ordine più generale: da queste relazioni le percezioni sensibili traggono forme alle quali queste percezioni sono assoggettate come a loro condizioni di rappresentazione, così anche per i giudizi che vengono loro applicabili326 . Questo vuol dire assumere un'interpretazione relazionale delle categorie, così in esse si realizzerebbe la presenza di una tesi, di un'antitesi e di una sintesi. Croce327 respinge qualsiasi tavola delle categorie, perché, secondo il filosofo italiano, sono frutto di confusione tra pensiero e pensiero come scienza del pensiero. Nel pensiero individuale sono confermate le categorie, però la logica in realtà non va a formulare giudizi per affermare quelli che siano i termini predicabili, i concetti puri, le categorie insomma, con le quali viene considerata la realtà328. 323 Ibidem. 324 Cfr. https://docu.plus/it/doc/filosofia/le-categorie-kantiane/14948/view/ consultato il 30/06/2022. 325 C. Marchini, Il problema della classificazione, op. cit., p. 5. 326 Ivi, p. 7. 327 Cfr. https://www.sapere.it/sapere/strumenti/studiafacile/filosofia/La-filosofia-contemporanea/Il- neoidealismo-italiano--Croce-e-Gentile/Benedetto-Croce.html consultato il 03/07/2022. 328 C. Marchini, Il problema della classificazione, op. cit., p. 7. 90 trattazione che è focalizzata sul concetto di giustizia, che poco ha a che vedere con la categoria aristotelica. Donald Davidson (1917-2003), ha scritto uno dei saggi più interessanti, quello sulla categoria dell’agire. L’autore, che spetto si è contrapposto ad Aristotele, qui invece lo elogia come l’unico filosofo che si sia davvero occupato dell’azione prima del Novecento338, e conclude lodando di nuovo il filosofo stagirita per avere superato il dualismo platonico in merito al problema dei rapporti tra corpo e mente339. Infine Stanley Cavell (nato nel 1926), professore di filosofia ad Harvard, scrive della categoria del patire. Qui, egli vede nella concezione aristotelica, una teoria generale delle emozioni, ripresa poi da Austin con la sua teoria degli enunciati performativi, che sono, come diceva Aristotele, né veri né falsi (De int. 4, 17 a 2-4)340. A questi Cavell ha proposto di connettere gli enunciati appassionati, indicandone una serie di esempi tratti da lirica e letteratura (Don Giovanni, Tannhäuser, Carmen)341. In definitiva il valore delle categorie di Aristotele consiste certamente nel fatto che, oltre a essere una sorta di catalogo universale, essa è anche il primo tentativo di cominciare a ordinare gli oggetti che si devono classificare. Il primato che Aristotele ha dato alla sostanza sulle altre categorie, è un passo molto importante, e serve a rendere possibile una scienza dell’essere, che può anche essere chiamata ontologia, ma a condizione che essa possa essere intesa come una ricerca dei princìpi, di tutto ciò che esiste. 338 Ivi, p. 300. 339 Ivi, p. 323. 340 Aristotele, Della interpretazione, a cura di M. Zanatta, Rizzoli, Milano, 1992, pp. 83-85. 341 J. Benoist et al., Quelle philosophie pour le xxie siècle?, op. cit., p. 366-367. 91 BIBLIOGRAFIA Abbagnano, N., Fornero, G., La filosofia e l’esistenza, Pearson, Torino, 2021. Alfonsi, L., Motivi tradizionali del giovane Aristotele in Clemente Alessandrino e in Atenagora, in Vigiliae Christianae, Vol. 7, Amsterdam, 1953. 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