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Veyne. il pane e il circo, Dispense di Diritto Greco

Prof.Corsaro

Tipologia: Dispense

2015/2016
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Caricato il 13/04/2016

Santy27
Santy27 🇮🇹

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Scarica Veyne. il pane e il circo e più Dispense in PDF di Diritto Greco solo su Docsity! Paul Veyne, Il pane e il circo Introduzione Negli ultimi tre decenni del XX secolo la storia antica e quella medievale hanno conosciuto una vera e propria rivoluzione metodologica. Tra i vari studiosi, Veyne spicca perché è un radicale innovatore delle prospettive epistemologiche delle scienze sociali. Il suo debutto come intellettuale avvenne nel 1970 con il Comment on écrit l’histoire. Essai d’épistémologie. Per Veyne la storia è un racconto verosimile, fondato certamente sullo scrupolo documentario, ma che analizza processi più che avvenimenti. Questa prospettiva epistemologica si definisce ulteriormente nell’incontro con Michel Foucault, per cui quest’ultimo giunge ad analizzare nella cultura classica i prodromi delle categorie cognitive e morali moderne, mentre Veyne radicalizza il suo metodo storiografico basato sull’idea di rarità dei fatti storici: per entrambi lo storico deve ricostruire singoli processi inevitabilmente mascherati dalle ideologie, mitologie e razionalizzazioni che il tempo e le storiografie passato hanno incrostato sui fatti. Lo storico costruisce problemi come un narratore edifica mondi: la storia è quindi un racconto scientifico, che dall’arte narrativa prende in prestito la capacità di descrivere i processi nel corso del tempo e dalle scienze umane il metodo di verifica dei singoli avvenimenti. Il problema affrontato qui è l’evergetismo: il titolo del libro riprende un celebre passo della decima satira di Giovenale (il popolo non reclama ansiosamente che il suo pane e i suoi giochi). Si tratta di un tipo di relazione sociale tipico del mondo antico, ma che a Roma dà luogo a un vero e proprio dramma sociale. È al circo infatti che, mentre si svolgono le corse dei carri o i combattimenti dei gladiatori, l’imperatore verifica la sua popolarità tra gli spettatori e i senatori spiano i segni della sua imminente disgrazia. È al circo che gli ‘imperatori folli’ (Nerone, Caligola, Commodo, ecc.) mettono in scena le proprie ossessioni o stravaganze. Anche se esistono delle analogie con il mondo presente, è bene osservare che nel mondo antico l’evergetismo costituiva un tipo particolare di legame di potere o autorità con cui il potente legava a se stesso il beneficiario. Veyne è uno studioso distante dalle ideologie, il suo sobrio relativismo e il particolare scetticismo ne fanno un pensatore controcorrente, lo dimostrano le sue affermazioni sulla questione dell’identità. Ben prima che Caracalla concedesse la cittadinanza romana a tutte le popolazioni dell’impero (212), la società romana si era dimostrata indifferente a ciò che oggi chiameremmo ‘identità etnica’ o ‘razza’; o meglio, questi concetti gravidi di effetti perversi non erano nemmeno pensabili al tempo dei romani; si tratta di un fenomeno storicamente unico, quello del disinteresse per l’identità, che si manifestava con l’accesso al soglio imperiale di Traci, Spagnoli, Arabi o Africani, insomma, un bell’esempio di universalismo politico e culturale. Argomento del libro Nei doni di un individuo alla collettività consiste ciò che si chiama evergetismo. In esso bisogna distinguere tre casi: i notabili (che la ricchezza e l’influenza pongono a capo delle città), i senatori (membri dell’oligarchia romana, classe dirigente dell’impero) e l’imperatore (che dà a Roma il pane e le procura i giochi del circo). Nel libro si tratterà compitamente dell’imperatore e dei senatori, mentre per quanto concerne i notabili, ci occuperemo solo di quelli delle città greche, sia in epoca ellenistica sia durante i secoli in cui il mondo greco fu ridotto a provincia dell’impero romano. Questo libro è un saggio di storia sociologica, se si dà alla sociologia il senso di Max Weber, per il quale tale termine è comprensivo delle scienze umane e di quelle politiche. Non esiste un metodo specificamente storico: un fatto storico non può essere spiegato, cioè narrato, senza il contributo delle varie discipline (sociologia, teoria politica, antropologia, economia, ecc.). La differenza fra sociologia e storia è puramente formale: l’una e l’altra spiegheranno gli stessi avvenimenti allo stesso modo, ma la sociologia ha per oggetto concetti generali (tipi, regolarità, principi) che servono alla spiegazione dell’avvenimento, mentre la storia ha per oggetto proprio quell’avvenimento che essa spiega utilizzando i concetti generali della sociologia. I. Gli attori e i comportamenti I comportamenti che stanno alla base della pratica del dono sono diversi (arrivismo, paternalismo, stile monarchico, corruzione, consumo vistoso, campanilismo, competizione, coscienza del proprio rango, adeguamento alla pubblica opinione, paura dello charivari1, munificenza, fede negli ideali). Ne beneficiano tutte le classi: i poveri (per carità o come clienti o a titolo di liberi cittadini), gli schiavi (per filantropia o paternalismo), i contadini (fittavoli dei ricchi proprietari ai quali vengono rimessi i canoni arretrati perché non lascino il padrone), gli avvocati (ricevevano dai loro clienti regali a titolo onorario, poiché la loro professione non era ancora riconosciuta), i ricchi (si facevano doni anche fra loro), le istituzioni pubbliche. Fin dall’inizio del periodo imperiale, fare doni allo stato romano era privilegio riservato ai soli imperatori; in compenso le città e i centri municipali ricevevano doni dalla nobiltà di stato (ordine senatoriale), dall’aristocrazia regionale (ordine equestre), dai notabili municipali (ordine dei decurioni) e dai ricchi liberti. Anche le province ricevevano dei doni. Il dono aveva un considerevole valore quantitativo (lo testimoniano gli anfiteatri). Ma attenzione, il donare non era affatto un atteggiamento da miliardari o da mecenati distinguibili per ricchezza o idealismo; anche i poveri donano, sia pure simbolicamente (per esempio, i fittavoli, oltre al canone, recano solennemente al padrone prodotti del podere per sottolineare che essi dipendono da lui e che la terra che coltivano gli appartiene). Ovviamente i ricchi erano tenuti a dare più degli altri; ciò era riconducibile all’ideologia secondo cui un’estrazione superiore alla media creava doveri pubblici, come nel caso della nobiltà di sangue. La frequenza e la varietà del dono appaiono nei testi filosofici come un fatto scontato. Prendiamo come esempio un testo del principio dell’epoca ellenistica, l’Etica Nicomachea di Aristotele. All’inizio del libro IV, Aristotele tratta delle due virtù che si riferiscono al denaro: generosità e munificenza. Il filosofo parla di regali fatti e ricevuti (noi pensiamo più al profitto e al salario!), e quando parla del guadagno, si riferisce solo a quello riprovevole del giocatore di dadi e dell’usuraio. Come dirà anche Plinio il Giovane, quattro secoli dopo, nel suo manuale per il perfetto senatore romano, noblesse oblige: la generosità è una virtù dei signori. Tre secoli dopo Plinio, quando l’aristocrazia romana sarà cristiana, essa fonderà le piae causae, libererà gli schiavi e lascerà beni ai poveri, seguendo sempre lo stesso spirito di classe. Dunque, l’evergetismo è la generosità privata in favore del pubblico. La parola è un neologismo coniato da André Boulanger e da Henri-I Marrou, derivato dalla formula ufficiale dei decreti ellenistici con cui le città onoravano coloro che, con il loro denaro o la loro attività pubblica, ‘facevano del bene alla città’ (il beneficio era evergesia). Non c’è un termine antico che corrisponda perfettamente a evergetismo: liberalitas era un termine usato per qualsiasi forma di liberalità, mentre filotimia era un concetto troppo generale che si riferiva più alle virtù (la fama di gloria e di avventura) che allo stesso evergetismo. Le spese in favore della collettività consistevano soprattutto nell’offerta di spettacoli nel circo e nell’arena, banchetti ed edifici pubblici (voluptates e opera publica). Talvolta le evergesie erano offerte dai notabili al di fuori di ogni obbligo definito (in questo caso si parla di evergetismo libero); talvolta erano offerte in occasione della loro elezione a un ‘onore’ pubblico, come una magistratura o una funzione municipale (in questo secondo caso si parla di evergetismo ob honorem, che era moralmente e persino legalmente obbligatorio). A dire il vero, la distinzione è superficiale, perché l’evergetismo libero può essere talvolta effetto di forme indirette di violenze, di charivari; in secondo luogo l’evergetismo obbligatorio non è che la codificazione, in epoca romana, dell’evergetismo libero, che fece la sua apparizione nel mondo greco all’inizio dell’epoca ellenistica e che sarà in seguito imitato dai notabili delle città romane. Ma accanto a questo evergetismo ob honorem, quello libero ha continuato a sussistere sino alla fine dell’antichità. Il nodo del problema consiste nella seguente duplicità: da un lato vediamo i notabili gareggiare in liberalità e inventare forme sempre più raffinate di munificenze, dall’altro li vediamo sollecitati dalla plebe o dai loro pari, che temono la plebe, a donare a quest’ultima dei divertimenti.                                                                                                                 1 È una forma di insolenza, spesso satirica ma anche ingiuriosa e violenta, dei poveri verso i ricchi e i nobili. Veyne osserva che non esiste scienza delle cose umane, eccezion fatta per qualche sapere privilegiato come l’economia o la politica (teoria dell’organizzazione), in cui a partire da un punto prefissato si possa svolgere il filo delle argomentazioni. A partire dalla scarsità dei beni e dalla pluralità delle coscienze si possono dedurre, se non proprio delle leggi, almeno delle norme razionali a cui è lecito confrontare la condotta effettiva degli uomini. Ma al di fuori di questo, l’uomo è una materia instabile, e non sappiamo ancora dare su di esso giudizi stabili. Dunque, se la storia vuole essere più che una semplice narrazione, non deve fare come il diritto romano, cioè non deve dedurre i suoi giudizi partendo da un codice o da una grande teoria, deve invece procedere per differenziazione, confrontando i casi concreti tra loro affini per elaborare una concettualizzazione delle invarianti (che sono sempre provvisorie, mai sistematiche, e sempre collegate ai casi concreti in base ai quali sono state elaborate). La provvisorietà si traduce in classificazioni, definizioni e regole in continuo mutamento, mai fisse. Evergetismo e carità cristiana. Uno dei vantaggi del metodo analitico è quello di farla finita con false continuità storiche. L’evergetismo e le opere pie e di carità differiscono nell’ideologia, nei beneficiari, negli agenti, nelle motivazioni degli agenti e nei loro comportamenti. L’evergetismo non ha rapporti diretti con la religione: la parola religione non ha lo stesso senso, una cosa è il ritualismo pagano d’età classica, un’altra è la religiosità etica che troviamo nel cristianesimo; anche la morale cambia nei due tipi di religiosità. L’argomento è vasto, Veyne ne dà solo un abbozzo narrativo. La storia della carità è strana. Vi converge l’amore per la mitezza (virtù cara al popolo ebraico che proibisce di esigere a fondo i propri diritti e che fa dell’elemosina un dovere) e la morale popolare pagana (a cui non era nemmeno estraneo l’amore per la mansuetudine). Nei vari testi sacri, la carità conosce uno sviluppo sempre più sistematico che lascia intravedere una società patriarcale in cui contano molto più la comunità familiare e il vicinato, e dove il clero non rimane sordo al lamento del Giusto che soffre. Il ricco fa l’elemosina perché si mette nei panni del povero: ma ciò per un ateniese poteva essere politicamente demoralizzante! In Atene non si pensava a fare l’elemosina, quanto piuttosto a costruire edifici e offrire divertimenti ai cittadini; a Roma le cose restano per lo più invariate, o comunque sulla stessa scia. La barriera protettiva che divide i ricchi dai poveri comincerà a cedere negli intellettuali anche aristocratici: lo stoicismo imperiale ha accenti di filantropia che ricordano la morale popolare e lo spirito evangelico. La morale evangelica è la fusione di morale popolare e morale ebraica; ma lasciamo da parte le costruzioni filosofiche e teologiche sulla nozione di carità e soffermiamoci sui Vangeli Sinottici e sull’immagine di Cristo. Se si leggono i Vangeli facendo astrazione dall’interpretazione che ne farà la tradizione cristiana, emerge che non c’è universalismo in Gesù. Forse perché volle essere profeta di Israele? No (egli non ha pensato di esserlo o meno, perché la sua visione non oltrepassava le frontiere del suo paese). Certamente, egli sapeva e diceva che tutti gli uomini discendono da Noè, che tutti sono fratelli e figli di Dio: l’universalismo cristiano deriva logicamente da questi atteggiamenti. Per quanto riguarda la carità il ragionamento di Gesù rientra nella dimensione della morale ebraica (perché egli riconosce il debito verso il suo popolo) e della morale popolare: l’ordine costituito è come la natura, stabile e immodificabile, ai poveri non resta che vivere solidali fra loro, nella speranza che chi esegue la volontà dei potenti non abusi del piccolo potere di cui dispone; chiunque faccia l’elemosina mitiga le dure leggi dell’ordine economico ed esercita la solidarietà. Questa morale popolare dell’aiuto reciproco e dell’elemosina diverrà una morale di setta: il cristianesimo nasce così, come una setta il cui cemento era appunto la solidarietà fra i membri. La solidarietà di setta risale a Gesù stesso, stando alla testimonianza del Vangelo secondo Giovanni, che ci dà di Gesù un’immagine così vivida, così violenta e così poco convenzionale. Nel suo ultimo viaggio a Gerusalemme, Gesù lascia il suo comandamento (amatevi l’un l’altro come io ho amato voi) ai discepoli: che restino insieme e solidali dopo la dipartita del maestro, che formino una setta per perpetuare l’insegnamento. La mutua assistenza sarà uno degli effetti di questa solidarietà che era tradizionale nelle sette ebraiche. Già uno dei manoscritti del Mar Morto, il Documento di Damasco, prescrive una tassa per costituire un fondo comune di sostegno a poveri e vecchi; anche la Chiesa, già nel II sec. d.C., non si limiterà a incitare i fedeli alla beneficenza privata, e istituirà un’istituzione, una cassa per aiutare poveri e disagiati. Quando la setta divenne Chiesa, le pratiche di carità continuarono a fiorire perché trovavano un terreno fertile nell’etica popolare pagana. Il cristianesimo provocò quindi una rimonta della morale popolare all’interno della morale aristocratica romana (le due morali infatti si erano differenziate dopo che era cominciata l’ellenizzazione di Roma): gli aristocratici ne accettarono i valori in linea di principio e nei limiti del possibile. Ora, la carità è una morale straniera che si è trapiantata a Roma, appunto, la morale di una setta diventata Chiesa, una morale imposta a tutti in nome dei principi religiosi. Veyne distingue l’etica praticata da una società (può essere un’etica cosciente o implicita nei comportamenti) e l’etica che questa società professa. Gruppi sociali diversi possono praticare la stessa morale in nome di professioni di fede nemiche. Per quanto riguarda la morale professata, invece, non era importante praticarne i principi, quanto piuttosto che questi non venissero contestati. Fu quello che accadde nel caso della carità. La carità (opere pie) sta all’origine di tre nuove pratiche: l’aristocrazia romana un tempo aveva comportamenti dettati dal prestigio e dalla responsabilità sociale, era energetica e faceva costruire edifici civici, ora farà costruire chiese; l’interesse per l’aldilà moltiplica il numero di fedeli e di opere pie; l’esercizio della carità assunse anche un significato politico e sociale. Nel IV sec. d.C. gli aristocratici di Roma e i notabili municipali continuavano a essere evergeti. Ma come dicevamo ci sono delle differenze: per esempio, nell’Africa romana non si costruiscono più edifici civici ma basiliche romane; dunque, l’evergetismo cambia oggetto. Altre volte cambia d’intenzioni: Sant’Ambrogio invita il ricco a distribuire pane presso i poveri per spirito di carità, Sant’Agostino contrappone l’evergetismo pagano, che elargisce piaceri, alla carità che provvede ai reali bisogni dei poveri. Così le elemosine si sostituiscono alle evergesie. I notabili cristiani sono caritatevoli e costruiscono chiese. Sappiamo, per esempio, come fosse diffusa la moda dei banchetti funerari in memoria dei martiri: nella Vita di Porfirio di Gaza si legge di un vescovo che, per celebrare la consacrazione della chiesa, ‘non risparmia alcuna spesa’ (è la formula usata per parlare della munificenza degli evergeti) e invita a banchetto tutta la popolazione. I notabili cristiani erano obbligati alle opere pie e alla carità dalla loro stessa condizione economica e dalle responsabilità civiche: non essere caritatevoli significa essere disprezzabili a se stessi. La pratica dei legati alla Chiesa e delle pie elargizioni deve tutto alla fede religiosa e quasi nulla all’ostentazione sociale: gli evergeti pagani dell’epoca precedente donavano per acquistare prestigio sociale, oppure per patriottismo e senso civico; i legati alla Chiesa invece sono destinati a riscattare i peccati del testatore e guardano al futuro. Ma non si tratta di paura dell’aldilà, quanto piuttosto di amore verso la Chiesa; dunque, le pie elargizioni fatte nel timore dell’aldilà, e che spesso portano al sacrificio delle ricchezze, quasi in diretto contrasto con i veri interessi materiali del testatore, si spiegano proprio col fatto che queste donazioni avvenivano in testamento, entravano in vigore dopo la morte, cioè quando il testatore non avrebbe più potuto usufruire dei suoi beni. [L’elemosina come compromesso] Bolkenstein ha mostrato quale fosse la differenza tra l’assistenza civica nell’antichità pagana e l’assistenza cristiana ai poveri. La parola ‘povero’ è propria del vocabolario degli ebrei e dei cristiani, è una nozione che il paganesimo ignora. In Grecia o a Roma ciò che noi chiameremmo assistenza, ridistribuzione o evergetismo era destinato al popolo come tale, all’universo dei cittadini e ad essi soli. Gli schiavi ne erano esclusi per principio: leggi agrarie, evergesie, distribuzione di pane a buon prezzo erano provvedimenti civici (ciò non di meno erano i cittadini poveri a beneficiare di questi provvedimenti o ad emigrare nelle nuove colonie). Quando un pagano istituiva un fondo destinato all’educazione dei cittadini, ovviamente di quelli poveri, i giuristi romani non sapevano sotto quale etichetta classificare questo fondo e decidevano che era destinato a onorare la città e che si trattava dunque di un’evergesia. Ogni collettività ha i suoi poveri, quelli del paganesimo erano cittadini privi di patrimonio, mentre per i cristiani i poveri sono tutti coloro che hanno bisogno di elemosina. Il paganesimo non conosce il povero che nella sua forma più quotidiana, quella del mendicante che incontra per strada; gli atti filantropici di cui si vantano un Demostene o un Cicerone consistono nell’offrire la dote a orfane di cittadini: la filantropia non è grande se non soccorre sventurati socialmente degni. L’elemosina quindi era sì un gesto quotidiano, ma non un dovere di stato, né un’azione altamente morale. I filosofi ne parlano pochissimo. Con il cristianesimo le cose cambiano, la carità diviene un comportamento profondamente significativo e un dovere di stato (al posto della munificenza). L’elemosina è un imperativo centrale della nuova morale religiosa, essa è garanzia del disinteresse e la più semplice prova di fede sincera che un fedele possa dare. Essa è anche un atto simbolico in quanto il credente può mettere d’accordo a poco prezzo le sue azioni con le parole e moltiplicare le prove della sua sincerità, donando poco alla volta ma spesso. L’epistola agli ebrei dice che la beneficenza è un ‘sacrificio’, mentre San Cipriano la considera l’unico mezzo che l’uomo ha di riscattare i suoi peccati dopo il battesimo (a quel tempo non c’era ancora il sacramento della penitenza). Non per ultimo, le opere pie e caritatevoli stabiliscono un compromesso tra l’ascesi e la vita mondana. Nel terzo secolo il realistico e moderato Clemente Alessandrino afferma che non è la ricchezza che conta ma la maniera in cui se ne fa uso: nel trattato Come può salvarsi il ricco? egli prescrive ai ricchi di essere stoici nei confronti della loro ricchezza. Dio ha permesso l’uso di tutti i beni, ma ne prescrive un limite che è il bisogno; il peccato consiste nel desiderare indefinitamente la ricchezza per se stessa e non per il bisogno che se ne ha. Ciò conduce nel quarto secolo a una doppia morale: i perfetti cristiani fuggono il mondo e la carne, mentre altri cristiani restano nel mondo e dovranno riscattare la loro anima attraverso l’elemosina e i legati alla Chiesa. Le origini dell’elemosina nel Nuovo Testamento sono almeno due: la morale popolare e l’ideale ascetico. Analizzando la questione, si capisce che l’ascesi non ha nulla a che fare con la filantropia: chi dona i suoi beni ai poveri per ritirarsi dal mondo, si preoccupa più di sbarazzarsi dei suoi beni per la sua salvezza che di soccorrere il suo prossimo. L’ascesi passa così a una ‘morale di classe’ per cui l’elemosina è un merito del ricco, ma non un diritto del povero. Con il trionfo del cristianesimo la morale evangelica, ‘irresponsabile’ perché popolare, diventava un’etica professata piuttosto che praticata. Nel paganesimo la carità era sì un merito, ma non una virtù canonica: si rischiava di generare nuove inquietudini politiche, lo stesso evergetismo era criticato per le stesse ragioni; ma il cristianesimo ha dimostrato che si poteva essere misericordiosi senza compromettere le fondamenta della società. In effetti esso rese i poveri una categoria naturale, verso la quale i diritti e i doveri furono ben definiti. Prigioniera del sistema del pensiero civico l’umanità pagana non poteva anticipare la carità. Questa constatazione ci porta a un estremo non particolarmente apprezzato dall’accademismo, e secondo cui ci sarebbe esclusivamente l’attività dei sistemi di pensiero: ciò negherebbe l’esistenza di un agente umano (ridotto a pura passività). Più cautamente diciamo che l’uomo esiste come agente, ma non è completamente tale, e nemmeno l’unico. Questo discorso è tranquillamente applicabile alla dimensione politica, un po’ meno invece alle opere pie o all’arte; tornando all’evergetismo e alla carità, Veyne delinea il dualismo fra opere e intenzioni. Dove l’invariante, nelle opere o nelle intenzioni? La solidarietà civica pagana riservava i benefici del mutuo soccorso e dell’assistenza a tutti i cittadini, e a loro soltanto (quindi ai cittadini poveri, ignorando quei poveri che non erano cittadini). Questo limite non è dovuto all’azione degli agenti, bensì alla ristrettezza dell’ottica civica, cioè, non sono le intenzioni insufficientemente buone che limitano quest’ottica, ma è l’ottica che limita oggettivamente le intenzioni. [La carità: falsi concetti e religiosità reale] Il rapporto fra virtù della carità e opere di misericordia non è così diretto e coerente come si potrebbe credere. Intanto, bisogna dire che, a differenza del paganesimo, la carità cristiana ha vincolato la morale alla religione: i pagani riconoscevano l’esistenza di un ordine morale, ma non erano incaricati di farlo regnare; essi si accontentavano, mediante l’autorità delle leggi consacrate nei templi, di sbarrare la porta agli esseri impuri, là dove ne avevano l’autorità, cioè nei loro santuari. Con i cristiani è diverso: il Dio cristiano era creatore e legislatore, per salvarsi bisognava rispettare la sua legge, rispettare il prossimo e fare la carità; di conseguenza, spettacoli come quello dei gladiatori, il teatro e il circo, saranno vietati perché allontanano dall’amore di Dio (in cambio i supplizi pubblici de i condannati continueranno, perché correggere gli uomini è opera di carità, come afferma Sant’Agostino). Ma qual è il rapporto fra l’amore di Dio e l’amore per il prossimo? Il primo consiste nell’appassionarsi al piano provvidenziale divino, in questo senso il cristianesimo è un proselitismo militante; invece, una cosa è appassionarsi per la salvezza del prossimo, un’altra è interessarsi alle sue disgrazie. Resta comunque il fatto che la salvezza è più importante delle miserie transitorie di questo mondo. Si ha l’impressione che la nozione di carità riunisca verbalmente, in un termine vago, due blocchi storici non logicamente connessi: partecipare alla realizzazione dei disegni spirituali di Dio, e praticare le opere misericordiose ereditate dal giudaismo. Offrendo in dono il prodotto che si vuole barattare, si prendono due piccioni con una fava, poiché si immette una merce sul mercato e si annoda con il compratore eventuale del legame personale che è la sola garanzia di uno scambio leale. In breve, ogni regalo implica una relazione personale. Gli interessi degli uomini sono molteplici e si desumono dalle azioni più che dalle parole: ‘interesse’ non è interesse di classe, bensì un qualcosa che ricorda un suo vecchio sinonimo, il Bene; in questo senso, ogni uomo cerca il proprio bene, è un egoista poiché non fa altro che il proprio interesse, ma anche altruista poiché è in grado di interessarsi agli interessi e ai piaceri altrui non meno che ai propri. [Il regalo come simbolo e come indice. Il doppio denso del ‘simbolico’] Il dono è perciò un indice del carattere personale di un rapporto. Posto che l’indice prova e il simbolo afferma, il dono diventa simbolo non perché si formi un legame personale con qualcuno, ma per affermare il carattere personale del legame. Ma bisogna essere cauti con l’aggettivo ‘simbolico’: esso ha due sensi. Facciamo l’esempio di un re che governa e che riceve gli omaggi sinceri dei suoi sudditi: la sua autorità è reale, i doni sono indice del suo potere. Ma supponiamo che gli succeda un re debole: l’autorità del re comincia a incrinarsi perché la comunità non ha chiaro chi sia a governare veramente, nonostante ciò, le offerte continuano e si moltiplicano; ciò accade (non perché è indice, quanto) per affermare simbolicamente un’autorità la cui realtà è divenuta dubbia. Si potrebbe dire che queste offerte sono dei regali simbolici, ma si può anche sostenere che sia divenuto simbolico lo stesso potere del re (un potere che si riduce soltanto ai suoi simboli). Dunque, simbolico può significare ‘che simboleggia un’altra cosa’ oppure ‘che è in se stesso platonico’. Ma è possibile pensare che la realtà e l’apparenza si equivalgano, che ogni fatto sociale esista in due forme, l’una reale e l’altra simbolica (o platonica)? Sì e no. Veyne cita tre esempi in cui i doni simbolici hanno il privilegio di sostituirsi alla realtà. - può avvenire che la realtà politica sia diversa dai valori che tuttavia continuano a sussistere, come nel caso del passaggio dalla Roma repubblicana a quella imperiale: in questo contesto, le evergesie dei candidati oligarchi ai loro elettori, cos’ come gli atteggiamenti repubblicani dei buoni imperatori, affermano simbolicamente che i valori permangono, che l’oligarchia ama il suo popolo e che l’imperatore conserva la sua modestia repubblicana (anche se i tempi non gli consentono di agire nel completo rispetto di quei valori, affermandoli simbolicamente, l’imperatore promette di non andare oltre a ciò che i tempi esigono, promette cioè di non diventare un cattivo imperatore); - nella relazione fra padrone potente e clienti, il dono supplementare da parte del padrone afferma simbolicamente la sua paternità, creando un’opinione favorevole nei suoi clienti. - nel terzo caso, il simbolo è quasi la realtà, perché tutto si svolge nella mente degli attori. Consideriamo il disprezzo e i simboli del disprezzo: chi disprezza lo fa nella mente, mentre i disprezzato soffre per quello che si pensa di lui. Chi disprezza lo dice e lo afferma con un gesto simbolico. Dunque, i simboli hanno lo strano potere di rimpiazzare la realtà simboleggiata, e ciò avviene quando essi sono più che simboli: nel caso del re debole e fannullone, egli può accontentarsi platonicamente degli omaggi simbolici che sono resi al potere di cui non dispone, perché il prestigio del potere evidentemente sarà per lui più importante del suo esercizio. Veyne si chiede: che origine ha il fatto che la società antica abbia accettato il dono come simbolo? Di quali episodi personali le evergesie erano episodi o simboli? Con l’evergetismo ci troviamo agli antipodi del dono come forma primitiva dello scambio; l’evergetismo era questione di rapporti personali tra l’evergete e la plebe, nelle evergesie l’atto di donare importava forse più che il valore materiale di ciò che veniva donato. [I trasferimenti di reddito] e se l’evergetismo fosse una ridistribuzione, intesa non nel senso di Polanyi, bensì nel senso che il termine ha nella contabilità nazionale? Cioè come ridistribuzione del reddito tra le famiglie. In questo senso non è né dono, né scambio, né simbolo, ma prestazione. A prima vista, la ridistribuzione è una categoria sociologia. La contabilità nazionale permette di distinguerla dagli altri tipi di trasferimento obbligatorio di reddito (come le tasse e la carità privata): dal lato di chi paga essa implica l’obbligatorietà del tributo, dal lato del beneficiario invece il carattere individuale del consumo. La nozione ridistribuzione è convenzionale e storica. Innanzitutto bisogna distinguere, tra i servizi pubblici, quelli intermedi e quelli finali: i primi sono servizi che l’amministrazione pubblica rende gratuitamente alle imprese, mentre i secondi migliorano il benessere dei consumatori (istruzione, giardini pubblici, impianti sportivi, spettacoli). I primi si integrano nel prodotto nazionale con il prodotto delle imprese, mentre i secondi si assommano alle risorse individuali e dovrebbero integrarsi al reddito nazionale come trasferimenti di reddito. La ragione di questa differenza è storica: l’amministrazione pubblica è vecchia quanto lo stato liberale; i servizi sociali sono invece un’innovazione del Welfare State. La definizione contabile della ridistribuzione non è trasponibile storicamente. Si scivola perciò verso una concezione etica: in nome della giustizia, della carità, del civismo, della solidarietà, si deve sopperire ad alcuni bisogni quando le risorse personali degli individui non bastano e quei bisogni sono ritenuti indispensabili. Veyne dà una definizione convenzionale e formale: vi è ridistribuzione in una società, se nel suo ambito alcuni trasferimenti sono obbligatori e senza contropartita, e se lo scopo di questo trasferimento è quello di assicurare agli individui svantaggiati la soddisfazione di bisogni che la società ritiene indispensabili. Quanto al contenuto della nozione, esso sarà sempre storico: ciò che, in una determinata epoca, sarà ridistribuzione, in un’altra farà parte della ripartizione tradizionale del reddito. Parleremo di ridistribuzione in presenza sia di un obbligo sia di un ideale di giustizia. In questo senso la carità cristiana non era ridistribuzione, ma libero dono, mentre l’evergetismo era del tutto estraneo alla ridistribuzione: l’evergetismo non consisteva nell’affermare che alcuni bisogni dovessero essere soddisfatti, ma nel lasciarli soddisfare dai mecenati che, anche se soggetti a una dolce violenza, avevano comunque motivazioni personali validissime per mostrarsi munifici. Ma possiamo vedere il fenomeno anche da un’altra angolazione: non come rivendicazione imposta dal popolo ai più privilegiati, ma come un tentativo, da parte dei più privilegiati, di corrompere il popolo. Panem et circenses. Il popolo romano si è fatto più modesto, ora si accontenta di pane e circo: sono le famose parole con cui Giovenale deplora la decadenza di Roma. Queste parole sono divenute proverbiali in due sensi: il pane e il circo sarebbero stati donati a Roma sia in cambio del potere della classe dirigente, sia in cambio dei privilegi della classe possidente. Siamo giunti alla confusa idea della spoliticizzazione. [spoliticizzazione] secondo Giovenale (prospettiva di destra), le soddisfazioni materiali immergono il popolo in un sordido materialismo nel quale dimentica la libertà. In una prospettiva di sinistra, le soddisfazioni distolgono le masse dalla lotta contro le disuguaglianze. In entrambe le ottiche, non è da escludere che le soddisfazioni siano procurate al popolo dalla classe dirigente secondo un calcolo machiavellico: in questo senso, l’industria del divertimento diventa una macchinazione contro il popolo, che – come dice Veblen riferendosi alle masse americane – conserva le classi dominanti solo per farsi mantenere in un perpetuo stato di narcosi. Ma questo è un giudizio normativo che presuppone un ideale poco realistico: secondo questo giudizio, idealmente, ogni individuo dovrebbe interessarsi alla politica, ma sappiamo che non c’è cosa più lontana dalla realtà. In verità, il popolo è spontaneamente disposto a lasciare al governo la gestione delle cose. Le parole di Giovenale mettono l’accento sul fatto che sono le classi dirigenti (e non i governati) a trarre il maggior vantaggio da questo stato di cose (cioè dalla apoliticità del popolo). Ma ciò che sembra la causa è in realtà una conseguenza: non sono i governi a causare la spoliticizzazione, basta pensare al tempo di Augusto, quando dopo una serie di guerre civili, approfittando della spossatezza generale, s’impose una monarchia autoritaria. In questo contesto storico, il popolo romano preferì continuare a parlare di spettacoli, dimenticando del tutto la politica. Apoliticità. Ciò che si intende con il termine spoliticizzazione è piuttosto il fatto che i cittadini accettino la vergogna di un regime autoritario e subdolo, che corrompe il popolo offrendogli piaceri in cambio della sua passività. Se questa ipotesi fosse credibile, dimostrerebbe il contrario di quello che vorrebbe dimostrare perché, se uno scambio c’è stato (fra governo e popolo), esso è stato onesto perché il popolo lo ha tranquillamente accettato. In realtà, bisogna riconoscere che non c’è reciprocità fra stato e cittadini, poiché è il governo che sceglie per il popolo. Il popolo è governabile: perché? O il condizionamento e la violenza simbolica dell’autorità e della legge sono giudizi di valore (nel senso che tutto è ingiusto e che è deplorevole che gli uomini siano fatti così), oppure sono dei giudizi di fatto: allora il condizionamento e la spoliticizzazione sono dovunque e in nessun luogo, quindi, si avrà spoliticizzazione finché esisterà un potere politico; essa è perciò una categoria della storia universale (a prescindere dal pane e dal circo). Ma poiché l’apoliticità discende dal monopolio della società e presuppone qualche tipo di consenso, essa non è illimitata, come se fosse imputabile alla sola azione di governo, che il popolo subirebbe passivamente. Spesso i governati si adeguano all’esistente fino nei loro pensieri. Così le società sono allo stesso tempo ingiuste e relativamente stabili. In definitiva, l’idea di spoliticizzazione è confusionaria: comincia con l’idealizzare gli uomini, perché suppone che l’autonomia politica sia contenuta nella loro essenza, poi li ricaccia nella polvere, notando che basta proporre loro il circo per snaturarli, e infine li riabilita imputando la loro alienazione alla bacchetta magica del tiranno. [due modalità della disciplina] per quanto riguarda l’apoliticità e l’autoritarismo, tutti gli uomini e i regimi si equivalgono, e ogni società politica implica l’asimmetria tra stato e cittadino. Presso i romani, alcuni affermavano che bisognava lasciare al popolo i suoi divertimenti, altri che bisognava vietarglieli, ma nessuno ne prevedeva la necessità futura in quanto esso già ne godeva per consuetudine. E nessuno si sognava di spoliticizzare il popolo. Veyne elenca le varie dottrine. i) una prima politica concepibile consiste nel tenere il popolo in una repressione totale: in questo caso, circo ed energetismo sarebbero una demagogia che rende il popolo arrogante, facendogli credere che non deve vivere soltanto in funzione dei suoi doveri verso lo stato. ii) un altro metodo perché regni la disciplina può essere quello di tenere a freno il popolo fino a che il bene del servizio lo esiga, per poi concedergli le sue tradizionali ricreazioni e persino dimostrargli che i capi si degnano di interessarsi ai suoi piaceri: riguardo al circo, fu questo il metodo dell’oligarchia repubblicana romana. iii) vi è poi la vecchia ricetta monarchica: mantenere la popolazione nell’incuria, rendere felice il popolo riconoscendogli il diritto d’interessarsi al circo, non imporgli delle ideologie rilevanti; l’unica cosa era evitare di irritare la popolazione con eccessi di zelo. Fu questo il metodo ai tempi dell’Impero, durante i quali il popolo rimase nella sua naturale apoliticità. [le modalità sono contingenti] beninteso, la disciplina totale non assicura al sovrano una sicurezza maggiore della disciplina parziale o funzionale, ma può sembrare più comoda e più gloriosa. Spesso i regimi forti sono autoritari, non tanto per imporre interessi politici o sociali, ma per farsi obbedire comodamente e senza discussioni. Così l’esercizio dell’autorità può esasperare i cittadini, anche se non ne minaccia gli interessi. In altri termini, la natura di un regime pone almeno tre interrogativi: “chi comanda” (il che porta a distinguere monarchie, oligarchie e democrazie), “che cosa viene comandato” (il regime si definisce in base a quale classe sociale è favorita nei suoi interessi), “in che modo si comanda” (con stile dispotico, paterno o egualitario?). Quale sarà la modalità della disciplina? La modalità della disciplina è una tecnica dell’autorità che comporta ricette diverse i cui effetti spesso vanno oltre gli interessi che l’autorità pretende di servire. Quindi, l’autonomia di ogni tecnica spinge i regimi al di là di loro stessi. Concludendo, il governo non accordava il circo al popolo per spoliticizzarlo, ma lo avrebbe sicuramente politicizzato contro di sé nel caso che glielo avesse negato. Il pane e il circo non venivano dati in virtù di una necessità di equilibrio del contratto sociale, ma in virtù di un patto storico: questo patto non è che il punto d’arrivo dell’evoluzione dell’evergetismo e non è l’origine o la spiegazione di esso. Conspicuous consumption. Secondo Weber per gli strati dei signori feudali, il lusso non è qualcosa di superfluo, ma uno dei mezzi della loro affermazione sociale. Si parli di elargizioni, di carità, di munificenza o di mecenatismo, è sempre stato sottinteso che chiunque potesse permettersi di essere prodigo aveva il dovere di esserlo per non deludere. Variano soltanto gli oggetti della liberalità, i suoi beneficiari e le sue giustificazioni. Anche dopo il tramonto della sovranità, come entità autarchica la città trionfa in epoca ellenistica e ancor più sotto l’Impero. Per mezzo millennio vi fu quesa situazione: rassegnata sottomissione a poteri lontani che reggono imperi o regni, appassionato interessamento agli affari della città. Il potere imperiale, in quanto sovranità straniera era estraneo agli abitanti. Quindi, a seconda che l’evergetismo abbia come teatro una città autarchica o uno stato sovrano ed egemonico come Roma, sarà totalmente diverso. A questo punto Veyne definisce oligarchi i gruppi dirigenti che fanno una politica a vasto raggio, e notabili i membri dell’élite delle città autonome. Il regime dei notabili. Da un punto di vista politico i notabili sono persone che, data la loro situazione economica, sono in grado di dirigere, come attività secondaria, una qualsiasi collettività senza ricevere ricompense o ricevendone una puramente simbolica. La direzione del gruppo viene loro affidata perché godono della stima generale. Egli adempie alle sue funzioni pubbliche a titolo gratuito e persino oneroso, poiché per governare sfrutta anche le proprie risorse. I notabili vedono nella politica un dovere di stato piuttosto che una vocazione o una professione. Inoltre non sono privilegiati, nel senso che nessuna disposizione formale, scritta o meno, riserva alla sua classe l’attività politica escludendone i plebei: molti gruppi, diretti da notabili, sono ufficialmente democratici. Il regime dei notabili è particolarmente adatto alla comunità urbana, perché funziona nelle collettività ristrette, nell’amministrazione locale o negli stati minuscoli. Esso presuppone che i compiti direttivi non siano eccessivi: le cariche devono essere brevi, per evitare la formazione di un gruppo specializzato che metta in ombra gli altri notabili. Infine, la competenza dei magistrati deve essere limitata dall’assemblea dei notabili: nelle città romane, per esempio, i quattro magistrati a capo dell’amministrazione erano nominati per un anno tra i membri del consiglio municipale, che comprendeva un centinaio di notabili; tutte le decisioni importanti erano oggetto di decreti del consiglio. Divenuti padroni esclusivi della città, i notabili, da classe che erano, diventano un ordine, formale o informale. Via via che la direzione della città si consolida nelle loro mani, l’opinione finisce per considerare legittima questa situazione ed esclusivo il ruolo dei notabili. Questo privilegio diviene così parte dell’interesse di classe dei notabili, i quali trasformano la loro superiorità sociale in dovere e dottrina. [autorità sociale e mecenatismo] i notabili sono al potere grazie al prestigio della ricchezza. Il libero mecenatismo dei notabili è un fenomeno pressoché universale. Ma da cosa deriva il fatto che, specie nella società preindustriale, il potere politico e sociale sia nelle mani dei proprietari terrieri? Il potere dei possidenti deriva naturalmente dai loro vantaggi ‘materiali’ ma le ragioni di questa derivazione sono molteplici. La ricchezza fa sì che essi dispongano di tempo libero, che acquisiscano delle competenze e soprattutto naturalezza e sicurezza nel comandare. La loro superiorità deriva dal fatto che hanno appreso fin da giovani a considerarsi investiti di tale diritto. Inoltre i notabili hanno imparato a gestire i loro affari non mediante l’insegnamento ma in famiglia, come degli apprendisti artigiani. In ogni raggruppamento la cui organizzazione non sia strettamente funzionale è l’uomo più vigoroso, il più intelligente o il più ricco, che diventa capo, non appena viene assicurato un minimo di imparzialità, ovvero di omogeneità, degli interessi individuali. Essere governati da chi è più competente nelle sue funzioni è una nozione tipica di una cultura sviluppata; in epoche primitive si è meno razionali, si vuol essere governati dal migliore, e l’eccellenza a cui si è più comunemente sensibili è la ricchezza. Il prestigio produce quindi degli effetti non funzionali e di diseguaglianza. L’esistenza di una sola gerarchia di prestigio e l’assenza di competenze, combinata con i mezzi di pressione economica, conferiscono ai notabili un’autorità che non si limita alla politica ma si estende, grazie al prestigio, all’intera vita sociale. Solo l’uomo di prestigio avrà il diritto di prendere l’iniziativa o di legittimarla, nei più diversi campi della vita sociale. Il mecenatismo affidato ai notabili dura fino a quando gli individui non si organizzano fra loro. [le tre fonti del potere] riflettendo sul potere sociale dei notabili si arriva all’idea di una società che sussisterebbe da sola, senza un apparato dello stato, grazie ai suoi ‘capi naturali’. In generale l’autorità può essere conseguita in tre modi (dei quali solo due contemplano l’evergetismo). 1. talvolta si detiene un potere per semplice delega: essendo a scadenza, l’autorità delegata non è mai circondata dall’aureola del carisma, essa non ha carattere personale poiché si tratta di una funzione (l’individuo è subordinato alla funzione; questo caso non rende possibile l’evergetismo). 2. talvolta si detiene il potere grazie al diritto soggettivo, come dicono i giuristi: un re ereditario deve esercitarlo per il bene di tutti e tuttavia lo possiede di fatto come se fosse un bene materiale; i sudditi sono solo l’oggetto di quel diritto. Questo proprietario del suo regno comanda di persona e non è al servizio di una funzione più elevata in cui si annulla, quindi, è circondato da un’aureola carismatica. È il caso dell’imperatore romano che, a suo modo, sarà evergete. 3. talvolta l’autorità cade con naturalezza nelle mani dei ‘capi naturali’; essi la devono a cause oggettive, alla potenza economica, al loro prestigio, al talento politico (ovvero al carisma). Nessuno delega ai notabili la responsabilità della loro regione o città, poiché essi la detengono di fatto. Non sono stati designati a una funzione, nei cui limiti devono mantenersi, in cambio dei mezzi finanziari necessari per adempierla: la città è affar loro, è la realtà stessa che prescrive ciò che devono fare, essi quindi sono coinvolti, è necessario che divengano evergeti. [accumulo delle funzioni o specializzazioni] la responsabilità sociale dei notabili sorpassava talmente il loro potere politico, che ne è solo la conseguenza, da poter esistere anche senza quel potere. Ora, secondo Dahl, nelle società preindustriali le forme di superiorità sono cumulative, chiunque detenga la proprietà fondiaria detiene anche il potere, la cultura e l’influenza. Quando, con lo sviluppo economico, i vantaggi sono ripartiti più diffusamente e più differenziati, e la specializzazione più avanzata, l’accumulo non è più possibile. Inoltre, c’è una differenza: nelle società antiche la disuguaglianza era in rapporto alla proprietà del suolo e al prestigio, mentre in quelle moderne dipende dalla divisione del lavoro. La prima classe di proprietari a non detenere il potere è stata la borghesia: nel mondo moderno vi è una separazione fra ricchezza, potere, prestigio e influenza. Qual è il motivo di questa evoluzione? Quando arriva il momento in cui l’accumulo dei ruoli diventa schiacciante per gli attori, le attività si specializzano mentre si moltiplicano le scale di prestigio (non si può pretendere in epoca moderna la superiorità in ogni campo, come avveniva un tempo, quando un nobile sapeva tutto senza averlo imparato). Quando le diverse attività divengono esclusive, esse si separano, non sono più dignità bensì specializzazioni: ogni attore si accontenterà di eccellere nella sua gerarchia di prestigio. Dignità o specialità? La prima è una sinecura, un compito dilettantesco, che i notabili esigono poter esercitare in quanto dovere di stato, mentre la seconda è una competenza. La più recente delle professioni è l’economia, mentre la più antica è quella militare. L’attività politica è stata a lungo una semplice dignità, ogni notabile era tenuto a occuparsene, perché la politica non era una professione esclusiva. Ma essa comportava il prestigio del comando. Lavoro, tempo libero. Un notabile è un uomo che dispone di tempo libero per i suoi svaghi e se ne compiace; e allora si dedica alla politica. Ma Veyne si chiede: cosa significa lavorare? Non sappiamo di che cosa vivessero i notabili antichi: non lo dicono gli epitaffi né le iscrizioni incise sui piedistalli delle statue, e i testi letterari non dicono di più. È indubbio che la loro principale fonte di reddito fosse la proprietà fondiaria, ma era la sola? Dal silenzio delle fonti, dal disprezzo quasi universale per i profitti commerciali, bisogna trarre la conclusione che i notabili non s’immischiassero nei commerci e che l’agricoltura fosse ai loro occhi il solo modo di vivere senza lavorare? Si dice che le rappresentazioni sociali, come il disprezzo per il lavoro e l’idea che la politica fosse l’unica dignità, abbiano frenato il capitalismo antico. Secondo Sombart esistono due tipi fondamentali, l’uomo che spende e l’uomo che tesaurizza, cioè il temperamento signorile e il temperamento borghese. Il signore sarebbe indifferente ai beni esteriori che respinge, poiché è cosciente della sua ricchezza, mentre il secondo accumula quei beni. Quindi, signori e notabili non cercano il guadagno (in senso capitalistico) bensì la grandezza politica del loro casato. Cerchiamo ora di precisare il rapporto fra l’idea di tempo libero e quella di lavoro. [essenza, attività, dignità, professione] con il termine ‘lavoro’ non si designa un’attività ma la dura fatica poco remunerata della massa della popolazione. ‘tempo libero’ non è sinonimo di far niente e nemmeno di nobile indolenza, ma di ricchezza; ‘disprezzare il lavoro’ non significa trascurare gli interessi economici, bensì essere indipendenti grazie alle proprie fortune. Il notabile aveva oggettivamente un’attività (lo stereotipo esigeva che l’unica consentita fosse l’agricoltura) ma che tuttavia non era lavoro. Il notabile poteva scegliere però di realizzarsi in una professione (retore, filosofo, poeta, medico, atleta). Generalmente intraprendeva una carriera politica, che era la sua sola dignità, conquistando così dei titoli socialmente riconosciuti, gli unici che figuravano poi nel suo epitaffio. Nella sua essenza, il notabile è padrone del suo tempo, ha un’attività economica, una dignità politica ed eventualmente una professione culturale. [parliamo di dignità quando un’attività non comporta solo il riconoscimento sociale, come le professioni, ma delle istituzioni pubbliche; essa può essere esercitata a tempo pieno, e tuttavia non sarà una professione, perché l’aspetto della responsabilità pubblica eclissa la scelta individuale]. Tutto ciò in opposizione al tipo del mercante che, in quell’epoca, è definito dall’attività economica, che non è una professione socialmente riconosciuta, ma una semplice specialità. Solo gli uomini padroni del loro tempo sono cittadini per eccellenza: fino a Kant e a Hegel, la concezione dominante era che la virtù del cittadino non appartiene a tutti, e neppure all’uomo soltanto libero, bensì a quanti sono liberi dai lavori necessari. Poiché tempo libero significa indipendenza economica, l’elogio antico dell’agricoltura è elogio della proprietà fondiaria. Non esistono grandi famiglie senza fortune cospicue. Chiunque appartenga a questa classe non lavora (lavorare significa piegare il proprio tempo al lavoro fisico). L’attività economica del notabile non è una professione né una specialità. L’attività inessenziale che permette ai notabili di essere indipendenti è una necessità senza valore biografico, le fonti ne parlano poco, a meno che l’attività non sia particolarmente pittoresca o ingegnosa. L’attività è spesso agricola, ma può essere anche commerciale o altro. [stile di vita, classificazione, stereotipo] il notabile sceglierà quindi una specialità socialmente riconosciuta (anche quando esercita la semplice specialità del commercio, questo non diventa professione perché nella vita del notabile costituisce un aneddoto inessenziale). Il problema non è lo stile di vita o la definizione delle attività, bensì la classificazione degli individui. Gli antichi epitaffi ci offrono un’idea erronea delle attività reali e una esatta delle rappresentazioni collettive. Rari i cenni ai mestieri, esatta l’enumerazione dei titoli politici: la stessa attività economica era considerata una specialità o ritenuta essenziale, a seconda che l’uomo che l’esercitava fosse classificato o no tra i notabili. Lo sviluppo della modernità ha moltiplicato i criteri di classificazione a cui gli individui si attenevano. Secondo Cicerone il commercio non andava disprezzato se praticato su vasta scala, ma nonostante questa apertura, tra le fonti di ricchezza, la più degna di un uomo libero rimaneva pure sempre l’agricoltura. E se il notabile ricavava il suo reddito dal commercio o dall’industria? In questo caso, la classificazione diventa uno stereotipo: poiché il nostro uomo è un notabile, non farà del commercio che in modo aneddotico e inessenziale. I moderni hanno perciò tratto la conclusione che i notabili disponessero soltanto di proprietà fondiarie: ma alcune fonti ci dicono che l’agricoltura antica non si limitava all’autoconsumo, infatti, i proprietari terrieri vendevano ai negozianti specializzati i prodotti della loro terra o il surplus di quei prodotti; inoltre, alcune produzioni come le miniere, le cave e le ceramiche, erano considerate attività annesse all’agricoltura, in quanto venivano impiegate le materie prime estratte nella proprietà e i tempi morti dei lavoratori agricoli. Quindi si possono fare affari restando ugualmente agricoltori. Non mancarono quindi notabili specializzati nel commercio, anche perché non tutte le città erano uguali: alcune città erano dei veri e propri centri commerciali. [il disprezzo degli affari] si tratta di un ulteriore stereotipo, un disprezzo millenario che durerà fino a quando i settori secondario e terziario diventeranno la più importante fonte di ricchezza. Lo svilimento universale delle attività mercantili è un fenomeno che interessava già Platone, il quale si chiede cosa sia disprezzabile in quel tipo di attività. Le risposte non mancano: l’agricoltura vive della natura, il commercio vive a spese degli altri; l’impresa agricola non è speculativa, mentre il commercio sì. Esso mira a guadagnare del denaro, considera cioè il mezzo come fine: per guadagnare denaro, il mercante falsa il valore delle cose. Solo il valore del lavoro permette di stabilire il justum praetium: il mercante falsa il giusto prezzo, perché lo gonfia senza incorporare nell’oggetto alcun valore supplementare. Insomma, l’agricoltore è padrone della sua sorte, il mercante invece è come un giocatore, costretto dalla concorrenza, è obbligato a guadagnare sempre di più, perché non può abbandonare il tavolo da gioco se non rischiando la rovina. Il mercante è schiavo del suo mestiere. Analisi economica delle spese suntuarie. Queste spese, così come lo ‘sperpero’, furono possibili al tempo dei greci e dei romani grazie alla crescita economica. Come sia avvenuta questa crescita e se le evergesie l’abbiano favorita o frenata, è un quesito a cui Veyne risponde tracciando le direttrici di una crescita preindustriale in generale. [sperpero e focalizzazione] Come dice Picard, i Romani hanno pietrificato il loro surplus in addobbi monumentali che, dal punto di vista economico, appaiono come un magnifico ma sterile epifenomeno. Ma almeno in agricoltura non mancavano le occasioni di investire: insomma, le possibilità di investimento creativo esistevano ma nessuno ne approfittò. I Romani fecero sperpero, ma questo non deve essere un giudizio di valore, poiché è facile dire che le piramidi non permettono di produrre altri beni, ma è fuori dalla portata dell’economista tener conto degli scopi finali che muovevano il faraone in questo tipo di attività. La disuguaglianza comporta un effetto di focalizzazione: quando una frazione del reddito globale di tutta una società è concentrata su un obiettivo determinato (per esempio un monumento), i risultati sembrano giganteschi su scala individuale, anche se la società in questione è contadina e povera. Gigantismo ingannevole: infatti è meno costoso erigere un monumento che sfamare un’intera popolazione. Lo splendore dei monumenti desta sospetto, anche gli edifici destinati a usi volgari hanno un aspetto imperituro che è un indice della loro irrazionalità. Tutto sembra costruito per l’eternità, cioè è troppo solido per la sua funzione; il più banale acquedotto diventa un’impresa prestigiosa che rivela come una classe di notabili faccia un uso vanitoso delle sue risorse. Ecco, l’evergetismo è fondato sulla diseguale ripartizione del surplus e sul diseguale potere di decidere la sua destinazione. La ricchezza delle vecchie società ci sembra enorme, a giudicare dal loro lusso e dai loro monumenti, perché esse consumavano tutto. Ma cos’è il surplus? Esso è ciò che supera il minimo di sussistenza che permette alla specie di sussistere. [sussistenza, surplus, crescita] nelle economie antiche la crescita consiste nell’aumentare il prodotto agricolo, per liberare manodopera e investimenti destinati ad altri settori. L’agricoltura è la fonte di ogni ricchezza (vedi il Tableau économique di Quesnay). Lo sviluppo dell’evergetismo non sarebbe stato possibile sena una parallela crescita economica. Come spiegare questa crescita? La crescita presuppone sempre che una parte del consumo o del tempo perduto sia risparmiata per essere investita in capitale produttivo o in lavoro; laddove la maggioranza della popolazione supera appena il livello di sussistenza, il risparmio non potrà costituirsi che a carico del consumo dei notabili e delle loro spese suntuarie. Davanti a un processo di crescita, dovunque si produca, si pensa in primo luogo alla spiegazione classica: la società che si considera ha investito un’improtante frazione del suo surplus, la proporzione della popolazione attiva è aumentata, la funzione di produzione è migliorata. [un paradosso: crescita senza investimento] prima di estendere all’antichità lo schema classico, tentiamo di immaginare la possibilità di una crescita senza ricorrere a ipotesi forti: quindi possiamo pensare a una crescita paradossale, senza miglioramenti del tasso di risparmio o delle tecniche, e senza aumento demografico. 1. l’occupazione delle terre vergini, le espulsioni e i massacri delle popolazioni sconfitte, la colonizzazione dei paesi conquistati, sboccano spesso in un accrescimento assoluto del prodotto a vantaggio del gruppo vincitore, mediante un’allocazione più ‘razionale’ della popolazione attiva. La ripartizione della popolazione attiva si adegua allora all’impiego locale delle risorse naturali e non si spiega più soltanto con la storia del popolamento. 2. senza propriamente trasformare la tecnica, si può aumentare la produttività con miglioramenti di tipo ‘manageriale’, che sono imputabili all’uso di criteri razionali (risparmiare sforzo, razionalizzare le tecniche del corpo, ricomporre i fondi agricoli, disporre in modo migliore gli edifici rurali per eliminare perdite di tempo, usare attrezzi o edifici di migliore qualità). 3. la storia di ogni crescita è storia di lavoro e di costrizione al lavoro. I tempi morti del lavoro agricolo restano la grande risorsa: non si può far crescere più velocemente le piante, ma si possono costruire piramidi nel periodo in cui la natura si riposa. Un proprietario terriero, per esempio, deciderà di conservare una parte del raccolto per nutrire gli operai che dissoderanno nuove terre, piuttosto che coltivare la terra per rimpiazzare il grano che essi consumano. [l’antico elogio del lusso] il surplus prodotto dalla crescita resta nelle mani della classe possidente e dirigente, che lo spende nel lusso o in altri investimenti. Ora, l’evergetismo ha frenato la crescita economica o ha supplito parzialmente all’insufficienza di investimenti? 1. tutto contribuiva ad aumentare il prezzo dei terreni (pressione demografica, ricerca della distinzione sociale, desiderio di sicurezza): i beni liquidi dei ricchi erano destinati all’acquisizione di terreni. La conseguenza temuta era la concentrazione della proprietà nelle mani dei ricchi. Alcuni stati cercavano di combattere questo pericolo sociale, aumentando d’autorità i tassi di interesse. 2. senza la sontuosità dei ricchi, mercanti e artigiani sarebbero morti di fame (ricorda l’Acropoli con cui Pericle diede lavoro a buona parte della popolazione ateniese): la sontuosità consiste nel fatto che i ricchi spendono il loro surplus per il lusso, e grazie al lusso la domanda dei beni equivale alla domanda di lavoro (con la tesaurizzazione invece il surplus dei ricchi si cristallizzerebbe in riserva monetaria o in oggetti preziosi). Per gli avversari del lusso questo non era vero: far vivere gli artigiani significava togliere braccia all’agricoltura; far costruire edifici significava diminuire la produzione del grano e togliere il pane di bocca ai poveri. [l’economia classica e il lusso] quando l’illusione microeconomica viene dissipata, ma sussiste l’illusione secondo cui il prodotto totale è un dato di fatto, si giunge alla ‘legge degli sbocchi’: sono i prodotti a venire scambiati con tutti i prodotti. Questa legge è il fondamento della macroeconomia o della contabilità nazionale, secondo cui il prodotto e il reddito nazionali sono due facce della stessa medaglia. Essa è anche la base della teoria quantitativa: la moneta è un velo neutro che copre la realtà del baratto senza procurare alcun tipo di distorsione. In virtù della legge degli sbocchi, l’economia classica non approva il lusso. In realtà non è in grado di distinguere i beni in eccesso dai beni di sussistenza: i prodotti si scambiano con i prodotti, che siano di lusso o no. Ora, le spese suntuarie hanno l’effetto di modificare la ripartizione della popolazione attiva e la ripartizione del prodotto. Le cattedrali non hanno né impoverito né arricchito il Medioevo, piuttosto hanno nutrito degli artigiani a spese dei contadini (perché il surplus dei ricchi era speso lì e non lì). 3. su scala macroeconomica la tesaurizzazione è anch’essa solo un’illusione. Un individuo tesaurizza e ritira dalla circolazione una frazione del suo reddito, ma siccome i beni di cui si priva non vengono distrutti, coloro che non tesaurizzano ottengono una maggiore quantità di beni per il loro denaro e si dividono la frazione del risparmiatore. Il ragionamento vale anche se dall’istante passiamo a considerare un arco temporale esteso (una serie di istanti): importa poco che qualcuno spenda milioni o tesaurizzi una cifra annua che dopo trent’anni lui o i suoi eredi spenderanno tutta in una volta, poiché non faranno altro che riappropriarsi di tutte le frazioni di consumo che avevano differito. Dal punto di vista monetario la tesaurizzazione macroeconomica esiste in ogni istante: una frazione della massa monetaria resta congelata in permanenza; di conseguenza il gioco dello scambio dei beni si farà con meno fiches, e i prezzi nominali si abbasseranno. Dunque, non esistono tesori, ma solo contante che circola più o meno velocemente. La velocità media dell’insieme diminuisce, ma la sola conseguenza sta nel fatto che la stessa quantità di beni sarà scambiata con una minore quantità di numerario. Questo perché l’equazione generale dei prezzi relativi è omogenea in rapporto alla moneta disponibile. [l’economia classica e il tempo] che un individuo tesaurizzi non ha alcuna importanza, poiché nello stesso istante qualcun altro mette in circolazione la ricchezza. Riassumendo secondo le ipotesi statiche: quando il surplus dei ricchi serve per acquistare della terra, ne risulta un rialzo del costo relativo dei terreni in rapporti agli altri beni; quando il surplus viene completamente consumato, ne risulta una modificazione della ripartizione del reddito nazionale a profitto dei settori secondario e terziario; quando il surplus viene tesaurizzato non risulta niente, poiché l’ammontare assoluto dei prezzi e dei salari si abbassa in modo uniforme, e i loro rapporti restano invariati. Per il pensiero classico il prodotto nazionale è dato, ma chi lo stabilisce? Nel costo delle annate, buone o cattive, il prodotto è il risultato di tutta l’economia passata. Questo passato è sempre congiunturale e mai in equilibrio. La produzione dipende dai consumi e dagli investimenti, che a loro volta dipendono dalla produzione; il valore della moneta dipende dalla quantità dei prodotti, che a sua volta dipende dall’impatto monetario. L’economia dinamica (temporale) non esiste ancora, è in gestazione (fu concepita da Keynes e dalla teoria dello sviluppo), ma ne sappiamo abbastanza per capire che il prodotto nazionale è prestabilito e può crescere; sappiamo anche che non si può generalizzare: talvolta la domanda accresce la produzione, talaltra non accresce che i prezzi; una brusca messa in circolazione di denaro tesaurizzato può incoraggiare la produzione o avere effetti inflattivi. Tornando a noi, il lusso e l’evergetismo sono la migliore e la peggiore delle cose: sviluppano i consumi, inducono a investire, ma per investire bisognerebbe consumare meno e risparmiare di più. [Keynes e le piramidi] a seconda della congiuntura, gli uomini d’azione troveranno quindi opportuno fare qualche volta l’elogio del risparmio, altre volte quello della spesa privata o pubblica, come fa Keynes. Questi cercò di reagire alla tendenza esclusiva di lodare il risparmio come fonte di prosperità e si oppose alla politica di risanamento delle finanze pubbliche a tutti i costi; ma Keynes avrebbe ugualmente elogiato il risparmio puritano, se la situazione l’avesse richiesto. Per stimolare gli inglesi a restaurare il pieno impiego Keynes finge di appropriarsi dell’antico elogio del lusso e fa l’esempio dello sperpero faraonico. Keynes costruì una teoria dei tempi brevi che prefigura il tempo economico reale, chiedendosi perché in determinati momenti il sistema si trova in stato di sottoccupazione, e quali forze in tempi brevi potrebbero condurlo alla piena occupazione. Ora, le forze che ristabiliscono la piena occupazione nella congiuntura sono simili a quelle che assicurano la crescita. Il colpo di genio fu di non ritenere più il prodotto come un dato fisso dell’enunciazione; inoltre Keynes ha liberato l’analisi economica dalla tirannide dell’equilibrio e dell’istante. [gli effetti della costruzione delle cattedrali] vediamo un esempio concreto. Mettiamo che la moda dell’evergesia si estenda e che si costruiscano annualmente più edifici di prima. Il tasso medio di tesaurizzazione generale diminuirà, mentre il nuovo impiego di denaro non equivarrà a un consumo ritardato ma a una creazione di nuova moneta: sarà necessario dunque che la produzione aumenti per rispondere alla offerta monetaria. Può darsi che il conio non aumenti e la quantità di moneta sia la stessa, ma si accresce la velocità di circolazione. Di fronte alla costruzione di nuovi templi, notabili e artigiani possono pensare che abbia inizio un periodo di prosperità, così sceglieranno di investire (e qui c’è la crescita); ma nel caso in cui non avessero nessuna intenzione di guadagnare denaro, perché la produttività rimane bassa e la produzione non elastica, allora i templi porteranno solo inflazione, mentre gli acquirenti si disputeranno i pochi beni disponibili. Dunque, in quest’ottica l’elogio keynesiano delle piramidi risulta errato, così come la teoria del moltiplicatore: il consumo può fare scattare, psicologicamente, gli investimenti ma non li rimpiazza realmente; insomma, non esiste un sostituto dell’investimento, perciò ogni elogio incondizionato del consumo suntuario è retorico. [sociologia dell’investimento] la crescita economica in epoca ellenistica è un fenomeno, lo sfoggio di monumenti e l’evergetismo sono un altro. Il primo ha reso possibile il secondo, e questo non ha distrutto il primo. La suddivisione del surplus avvenne in modo conveniente tra i due settori. L’investimento e il risparmio sono uguali ex post, ma a seconda delle società, coloro che investono e coloro che risparmiano non sono dappertutto gli stessi. Potrà esservi crescita se coloro che producono e detengono il surplus fanno investimenti, e si avrà crescita se essi consumano; ma il trasferimento di reddito conseguente alle loro spese, suntuarie o no, reca beneficio agli agenti la cui propensione all’investimento è superiore a quella dei consumatori di lusso. Anziché pronunciarci pro o contro le cattedrali o le piramidi, bisogna chiedersi piuttosto com’erano organizzati i mestieri attinenti la loro costruzione, e chi ne pagava la costruzione. L’analisi economica deve lasciare il posto a una storia sociale. [ottimizzare e soddisfare] ci sono state società ricche e società povere: chi ha preferito crescere (ottimizzando il guadagno) e chi ha preferito di no (ritenersi soddisfatti di ciò che si ha). Non tutte le classi possidenti hanno avuto lo spirito d’iniziativa e la mentalità capitalistica dei notabili antichi. Peraltro, i timori dei notabili influivano sulla condotta degli imprenditori: per esempio, c’è una guerra contro i barbari, la guerra lontana, i contadini continuano a lavorare, ma i notabili aspettano giorni migliori, perciò non portano avanti la produzione e interrompono le costruzioni monumentali. Questo è un esempio di crisi morale. Per paura dell’avvenire politico succede allora che i notabili cominciano a tesaurizzare, a danno delle evergesie. [sociologia delle liturgie. Platone] in effetti il sistema liturgico partecipa di molte spinte morali che saranno tipiche dell’evergetismo: voglia di mostrare la propria ricchezza, di esprimere la propria personalità, di distinguersi dal volgo, di lasciare la propria impronta, e infine, spirito competitivo. Ma la liturgia è anche mecenatismo. Insomma la liturgia partecipa della stessa equivocità su cui giocherà l’evergetismo: talvolta obbligatorio, talaltra volontario. Non vi è nulla di più frequente nella storia del legame tra il dono alla collettività e il gusto di rivaleggiare; il mecenatismo nasce più spesso dal gusto di distinguersi che dall’amore per determinati valori. Con grande sorpresa dei contemporanei, anche in epoca democratica ci sarà lo stesso tipo di competizione: ne La Repubblica Platone afferma che la competizione è un tratto del carattere aristocratico, ma Senofonte ha giustamente osservato che anche i mercanti possono essere mecenati. Nei libri 8 e 9 Platone fa sociologia (se con questo termine intendiamo la filosofia politica che pone in relazione un regime politico con la materia sociale cui dà forma) e distingue quattro tipi ideali di società: aristocrazia (timocrazia), plutocrazia (oligarchia), democrazia, tirannia. Distingue anche i quattro tipi umani di base, seguendo un ragionamento di causa-effetto, per cui un tipo di società produce a sua immagine la personalità del tipo umano di base: così l’aristocrazia definisce una personalità autoritaria, avida di concorrere per la vittoria e di essere onorata, l’oligarchia un uomo che si disinteressa della collettività e non vive che per il denaro, ecc. Tornando al mecenatismo e alla competizione, quali sono i regimi che favoriscono queste tendenze? Soltanto l’aristocrazia è capace di stimolare queste tendenze, l’oligarchia invece ha troppa paura di andare in rovina per essere magnifica. Gli oligarchi preferiscono accumulare più che brillare. In quanto alla democrazia, essa non sogna neppure di rivaleggiare, questo regime fa piuttosto trionfare una virtualità diversa dall’ardore aristocratico e dall’avarizia oligarchica: una folla di desideri indistinti. La democrazia è un regime anarchico, e così le anime che essa definisce: non essendoci un ordinamento morale, ognuno in democrazie sperpera per soddisfare i propri appetiti. Platone ragiona al livello della società globale. Spingiamo ora l’analisi fino ai sottogruppi e alla condizione individuale: vedremo riapparire la possibilità di una virtù agonistica anche nelle democrazie. Il Socrate di Senofonte afferma infatti che più di un mercante ateniese si distingueva e si rovinava con le liturgie. Stessa constatazione in riferimento al comando militare: un aristocratico poteva dubitare dei mercanti, a suo modo di vedere, interessati più ad accumulare che a comandare; ma il Socrate di Senofonte precisa che anche un mercante può aver voglia di vincere, e questa è una qualità in generale. [gli oligarchi] gli oligarchi ateniesi (buoni, nobili, ricchi, in opposizione a cattivi, poveri, popolo) non hanno nulla in comune con l’avidità di ricchezza di cui parla Platone, né sono gli eredi della vecchia aristocrazia ateniese vittima della democrazia, e neppure si preoccupano della difesa dei beni materiali della loro classe. Essi tendevano invece a soddisfare il desiderio di potenza: essi consideravano odioso e disastroso che chiunque ad Atene s’immischiasse nel governo; secondo questa concezione, la ricchezza dà diritto al possesso del potere. L’atteggiamento degli oligarchi nei confronti delle liturgie è equivoco: da un lato le considerano una tirannia in più, dall’altro constatano sarcasticamente che il popolino non sa fare a meno della loro ricchezza. Non essendo le liturgie un’imposta ma un tributo o un onore (a seconda che il liturgo fosse oppresso o stimato), un oligarca sarebbe stato onorato d’essere liturgo se lui stesso e i suoi pari fossero stati onorati come un’élite. Questo è il concetto di governo come diritto di una classe, un principio che sarà tipico dell’evergetismo. Ma intanto, al tempo della democrazia non era così, gli oligarchi non erano un’élite, perciò le liturgie apparivano più come tirannia che altro. Ma in un certo senso, deprimendo le entrate dei ricchi con liturgie, i poveri e i demagoghi non fanno che riconoscere la loro superiorità, ammettono cioè che i notabili sono indispensabili. Proprio per questa ragione, in un certo senso, il popolo assenteista e incapace farà scivolare il potere nelle mani dei notabili: il regime dei notabili dominerà l’epoca ellenistico-romana, sarà l’era dell’evergetismo. L’oligarchia dei notabili. Si ebbe così il passaggio dalla democrazia all’oligarchia dei notabili. Max Weber afferma che ogni democrazia diretta tende a diventare ‘amministrazione di notabili’. In realtà, ogni democrazia diretta è onerosa, ed essendo le disuguaglianze cumulative, la classe ricca tende naturalmente a essere la classe dirigente. [i notabili] la vecchia casta guerriera, l’aristocrazia dei cavalieri, si era eclissata; la classe possidente ora al vertice della società aveva una fisionomia meno caratterizzata, cosicché gli storici dell’epoca ellenistica la definiscono volentieri una borghesia. L’epoca dell’oligarchia militante che cercava il potere con la forza è ormai superata: ora il potere cade naturalmente nelle mani di questa borghesia urbana, per la quale diventa scontato che il potere spetti alle capacità materiali e morali che sono normalmente privilegio della ricchezza. La facciata delle istituzioni resta democratica, ma il consiglio o l’esecutivo si rafforzano gradualmente a scapito dell’Assemblea. Anche se il funzionamento del sistema diventa meno democratico, la carriera politica continua a basarsi sul merito, cioè sul confronto oratorio e sulle abilità retoriche, né il sangue, il censo, la boria dei ricchi sbarrano la strada, tuttavia sono comunque necessari tempo libero, cultura ed evergesie per dare al merito un abito degno: insomma, il merito è accessibile solo a coloro che abbiano ereditato l’agiatezza o che se la siano creata. La democrazia cade così nelle mani dei notabili, mentre il popolo cade nel disinteresse. [mancanza di partecipazione] oltre alla disuguaglianza sociale il sistema dei notabili si spiega dunque con la spossatezza politica delle masse. Per la maggior parte dei cittadini la politica consisteva in una semplice delega: essi ne lasciavano la cura agli specialisti secondo il principio della divisione del lavoro. Ad Atene il tasso di assenteismo in assemblea era nell’ordine dei tre quarti, a volte anche dei nove decimi. L’indifferenza si spiegava con la mancanza di tempo disponibile e la mancanza d’interesse. Mancanza di tempo significava mancanza di denaro: esigere, per spirito civico, la partecipazione gratuita dei cittadini equivaleva a riservare questa partecipazione ai ricchi, proprio perché i poveri avevano bisogno del gettone di presenza per recuperare il tempo perso in assemblea. Pericle istituì prima un’indennità per i giurati (secondo Platone ciò rese gli ateniesi pigri, vili, pettegoli e cupidi). All’inizio del quarto secolo fu istituita un’altra indennità per coloro che assistevano alle sedute dell’Assemblea del popolo. Secondo Platone il peso dell’indennità da pagare ai poveri ricadeva sui ricchi sotto forma di tassa, inoltre l’indennità serviva ad attirare persone che non avevano voglia di partecipare. L’assenteismo aveva una ragione psicologica: l’individuo si sentiva impotente nel mezzo dell’assemblea, spesso si ritrovava responsabile di decisioni comuni prese contro la sua personale opinione, il suo contributo personale non era direttamente visibile, insomma, era una voce anonima in una massa anonima. In Grecia fu dunque la massa dei cittadini a far cadere in disuso i suoi diritti politici, e così fu possibile ristabilire senza contraccolpi un’oligarchia basata sul censo. [mancanza di universalismo] questo cambiamento di regime si compì senza scosse anche perché le società greche, sebbene democratiche, non erano universalistiche. Agli occhi dei greci la polis, l’insieme dei cittadini, era un gruppo costituito e non un gruppo naturale. La cittadinanza era considerata ovunque un privilegio riservato a dei titolari più o meno numerosi, non era quindi lo statuto inevitabile della popolazione di un luogo. Ora, poiché non era ovvio che ogni indigeno appartenesse al corpo civico (anche se vi apparteneva di fatto), e poiché la cittadinanza esisteva ‘per convenzione’ invece che ‘per natura’, questa convenzione era suscettibile di variazioni, essa poteva allargarsi ma anche restringersi. Al tempo dei greci nessuna società era universalistica: Aristotele giunge persino a considerare cittadini solo quelli attivi. In epoca moderna è diverso: in primo luogo, l’universalismo deriva dalla monarchia (e non dalla chiesa), per cui i cittadini moderni discendono dai sudditi del re, rientrando così nel gregge del pastore regale; in secondo luogo, alla base di ogni costituzione moderna c’è il corpo civico inteso come dato naturale, appunto, l’insieme di tutti i cittadini, attivi e passivi (l’esercizio del voto sarà ovviamente una funzione di alcuni, non un diritto soggettivo di tutti i cittadini; presso i greci invece il corpo civico era un’istituzione). Ecco la differenza fra le due concezioni: quando fabbrica la sua utopia politica, Platone parte da una selezione dei tipi umani che vuole rendere felici (cittadini) e relega nella condizione di lavoratori forzati, privi di personalità giuridica, la maggior parte della popolazione; le utopie moderne invece prendono in considerazione tutto il gregge dei sudditi (populus christianus se si vuole). [la politica come trustee] la disuguaglianza sociale trasformò quindi le città ellenistiche in repubbliche nobiliari, anche quelle che un tempo erano state democratiche. Ma come dice Tocqueville, dietro le istituzioni meno libere si cela il principio della sovranità del popolo. Perciò il regime dei notabili deve cercare di meritare la sua fiducia, insomma deve moderarsi, malgrado la tendenza delle oligarchie agli abusi, alla solidarietà di clan, a reprimere i dominati più di quanto non controllino se stesse. In un’epoca in cui lo stato non controllava l’economia e in cui i cittadini non pagavano imposte dirette, il vizio più diffuso (a sentire Polibio) consisteva nel saccheggiare i fondi pubblici. Aristotele auspicava la creazione di nuove leggi perché le magistrature non diventassero fonti di guadagno: infatti al popolo non dispiaceva cedere il governo agli oligarchi, ma si incazzava se i magistrati depredavano i beni pubblici, poiché si rendeva consapevole del fatto di essere escluso non solo dagli onori, ma anche dai guadagni. I notabili devono dunque moderare l’esercizio del proprio potere, cioè esercitare onestamente il mandato degli amministratori fiduciari che è loro affidato, o meglio abbandonato. In questa ottica, l’evergesia può svilupparsi a causa di un aspetto secondario della politica, assumendo una funzione più simbolica che altro. Le origini dell’evergetismo. L’evergetismo è l’unione di tre temi: il mecenatismo, le elargizioni simboliche che i politici fanno di tasca propria data la carica che ricoprono (ob honorem), e le donazioni e le fondazioni funebri. Gli albori di queste pratiche nel mondo greco appaiono verso il 350 a.C. [nascita del mecenatismo] si partecipa alla spesa pubblica contribuendo personalmente alle spese del culto della città, sia per religiosità che per mecenatismo. A ciò si aggiunge il fatto che i personaggi pubblici incaricati di una funzione religiosa aggiungevano qualcosa di tasca propria ai crediti pubblici che amministravano. Vedi la grande processione delle Dionisiache, finanziata da contribuenti volontari (liturghi) e organizzata dai commissari; teoricamente, i commissari non erano contribuenti, ma sta di fatto che anch’essi sostenevano le spese (energetismo ob honorem). Un altro esempio. era costume che i vincitori dei giochi consacrassero agli dèi il premio vinto. Ad Atene i liturghi vincitori ricevevano un tripode che consacravano a Dioniso o ad Apollo Pizio: i tripodi erano sistemati all’aria aperta su un piedistallo in cui era inciso il nome del vincitore o della sua tribù. Questa base di sostegno diventerà la cosa più importante e acquisterà dimensioni monumentali. Insomma, per il vincitore la consacrazione del tripode non è che un pretesto per illustrare il proprio nome nell’abbellimento della città. Forse la prima costruzione che porta per inciso il nome di un evergete risale al 320: si tratta del ponte sul Cefiso, tra Atene ed Eleusi. L’epigramma dedicatorio (iscrizione) è riportato dall’Antologia greca (… al santuario di Demetra, andateci, o iniziati, senza più temere la piena del fiume durante il temporale: vedete com’è solido il ponte che Senocle ha gettato per voi sul largo fiume). Il ponte è veramente esistito, ad Eleusi è stato trovato un decreto che onora Senocle per quella costruzione, insieme ad altri documenti epigrafici relativi ad altre opere dell’evergete. Da qui in poi, in epoca ellenistica, si vedranno ricchi, magistrati e liturghi sostituirsi, a causa del loro patriottismo, alla città per costruire edifici pubblici di culto e civili, a condizione che vi fosse iscritto il loro nome. [elargizioni politiche] il patriottismo è la terza motivazione degli evergeti: essi donano per religiosità, per venire onorati, e anche perché s’interessano a una causa. Questo atteggiamento patriottico trova uno sbocco, all’inizio dell’epoca ellenistica, in una nuova istituzione: le pubbliche sottoscrizioni o epidoseis semivolontarie, che sono lo strumento di un mecenatismo collettivo e organizzato. Le epidoseis sono volontarie nel senso che non sono imposte che dalla coscienza individuale e dall’opinione pubblica. D’altronde le epidoseis ci mostrano allo stato nascente una delle massime istituzioni dell’evergetismo ellenistico: le promesse d’evergesia o pollicitazioni. In epoca ellenistica molte evergesie venivano precedute dall’annunzio, o promessa solenne, proclamato in assemblea o in consiglio, e venivano generalmente confermate per mezzo di una lettera che la città conservava accuratamente negli archivi come prova scritta della promessa, il cui adempimento si faceva talvolta aspettare a lungo. Queste dichiarazioni d’intenzione erano persino divenute un rito un po’ teatrale, a cui si ricorreva anche quando l’evergesia doveva aver luogo senza indugio. Col nome di pollicitatio l’istituzione sarà anche adottata dall’evergetismo romano. Fin dall’inizio del quarto secolo, le epidoseis presentano già uno sdoppiamento tra promessa e adempimento. Per prima cosa alcune promesse di sottoscrizione erano condizionate dalla pressione del popolo: molte promesse avvenivano in assemblea, sotto forma di progetto di decreto! Ciò avveniva per mettere i ricchi con le spalle al muro; una volta promessa l’evergesia, però, il ricco avrebbe dimenticato volentieri la promessa fatta, ma non mancava mai un oratore improvvisato che accusava pubblicamente il ricco che tentava di passare inosservato. - intrattenere delle relazioni politiche utili - manifestare arbitrariamente lo splendore della monarchia - simboleggiare una relazione di dipendenza. L’evergetismo internazionale poteva avere delle cause e degli interessi (per esempio fornire denaro e grano per finanziare la guerra e pagare i mercenari), ma spesso i doni dei re e dei popoli erano anche disinteressati (Tebe, distrutta da Alex Magno, fu ricostruita grazie a un’epidosis a cui partecipò la Grecia). Rifiutare un dono è rifiutare un’amicizia che può diventare invadente (vedi il rapporto fra Focione e Alex Magno, questi gli fece sapere che non considerava amici quelli che non accettavano i suoi doni). Accettare un regalo e non obbedire equivaleva a non mantenere la parola. [i notabili e l’obbligo di donare] la magnificenza dei notabili è al contempo spontanea e forzata, libera e obbligata. Ogni evergesia si spiega al contempo con la generosità dell’evergete, che ha le sue motivazioni, e con la costrizione esercitata su di lui dalle aspettative degli altri, dall’opinione pubblica e dal suo stesso ruolo. Se fossero soltanto obbligatorie, le evergesie sarebbero una tassa o una liturgia; se invece fossero spontanee, nulla distinguerebbe un evergete antico da un mecenate americano, che dona a suo piacimento, senza che il suo mecenatismo sia un obbligo morale. Come si conciliano spontaneità e costrizione? Nel fatto che la costrizione è informale, e non comporta né regole né sanzioni, ma biasimo ed eventuali ritorsioni. Se instaurare l’evergetismo fu più facile che fondare un sistema fiscale, ciò era dovuto alla disposizione dei mecenati a donare con ostentazione: i notabili erano più disposti a fare elargizioni che un corpo civico a pagare le tasse. La costrizione informale, l’aspettativa degli altri si distingue da un altro genere di costrizione, la lotta di classe, in quanto essa non fa che incoraggiare i notabili a manifestare la generosità che posseggono per nascita: la costrizione evergetica esige dai ricchi lo stesso tipo di elargizioni che essi erano spontaneamente disposti a fare, e non di più; essa si guarda bene dall’interferire con i loro interessi di classe (l’evergete vende il proprio grano a un prezzo più basso, ma non distribuisce le proprie terre né distrugge i propri titoli di credito). Come classe però, gli evergeti si costringono a vicenda perché se anche solo uno di loro tradisse le aspettative, ciò colpirebbe l’immagine dell’intera classe notabile. [il mecenatismo dei notabili] spontaneo e costretto, l’evergetismo, che sia ostentazione gratuita o pagamento simbolico ob honorem, ha sempre due caratteri: è civico e riguarda una classe (quella dei notabili) che dona perché si sente superiore alla massa del popolo. Nella democrazia ateniese questa superiorità era individuale: Alcibiade esprimeva la sua eccellenza personale o la dignità di un gruppo sociale in via di estinzione, la vecchia aristocrazia cui apparteneva, quando si incaricava della coregia con tale magnificenza da farsi invidiare da tutti i suoi concittadini. Nelle città ellenistiche invece l’evergetismo esprime la superiorità dell’intera classe dei notabili; questi però si distingueranno non con il consumo vistoso ma con il mecenatismo vistoso; spenderanno individualmente a fini collettivi, e questi saranno sempre civici, cioè donati alla città (e non ai poveri o alle arti). I notabili sono tali perché partecipano al governo: nel decreto onorifico di Mileto, viene celebrato il ricco Irenia, che faceva da intermediario fra la sua città e il re Eumene di Pergamo; Irenia seppe ottenere da Eumene non solo che aumentasse le elargizioni promesse ma anche che pagasse di tasca sua gli onori che Mileto gli aveva tributato. Questa corsa alla magnificenza era nello stile politico dell’epoca. Dunque, un evergete soccorre il tesoro pubblico, nutre e distrae la popolazione, come nel caso di Moschion, famosissimo per aver distribuito il proprio grano, per aver soccorso le finanze pubbliche in periodi di difficoltà, per aver contribuito alla costruzione del ginnasio e alla ristrutturazione del santuario di Alex Magno. Pur non rivestendo mai cariche pubbliche, egli riveste in compenso cariche onerose: per tre volte è nominato ambasciatore sacro (offre sacrifici di tasca sua e condona alla città le spese della sua rappresentanza); infine, riveste la dignità di sacerdote di Zeus Olimpico, supremo onore, in quanto a Priene gli anni prendevano il nome da quel sacerdozio. Questi esempi danno l’idea del carattere abituale delle evergesie, evidente soprattutto nella fraseologia dello stile epigrafico, dove ricorrono formule consacrate che si ripetono più o meno testualmente in tutti i decreti: questa prosa epigrafica era chiara, colta e priva di ampollosità, abbonda di formule automatiche (i decreti d’età imperiale avranno invece uno stile alquanto barocco). Redatti sotto gli occhi del Consiglio, cioè dei notabili, i decreti fanno trasparire il concetto che quella classe ha di sé e dei doveri di stato che si impone. Ma non è che ci avviciniamo alla clientela? Prendiamo il decreto di Olbia in onore di Protogene. La città di Olbia, sita sul Mar Nero, è minacciata dai barbari e paga al loro re un tributo. A pagare è il cittadino Protogene, che si interessa anche di procurare grano a basso prezzo e di rinforzare i bastioni contro il pericolo dei Celti. Man mano che si prosegue nella lettura del decreto, si comprende che Protogene è più ricco di tutta la città messa assieme, in verità ne è il padrone assoluto. Nonostante ciò, dal decreto traspare solo che la città onora un benefattore, un bravo cittadino (dal quale in realtà dipende). [motivi del mecenatismo] che rapporti sociali sottintendeva allora l’evergetismo? In primo luogo diciamo che l’evergetismo era un fenomeno che coinvolgeva la città: l’antichità non ha ignorato né la carità né l’elemosina, ma il dovere di Stato dei notabili era la magnificenza. Questa magnificenza è sociale ma soprattutto politica: oltre a essere un capo politico, ogni notabile era anche l’organizzatore e l’animatore della vita collettiva. Il libero evergetismo si spiega con la non-specializzazione dell’autorità dei notabili. Infine, lungi dal calmare le tensioni sociali, l’evergetismo le fa ricadere sull’evergete. [patriottismo] i decreti ellenistici fanno derivare l’evergesia da due virtù: l’emulazione o competizione (philotimia) tra buoni cittadini che vogliono distinguersi ed essere onorati, e il patriottismo. La nozione di patriottismo però maschera degli atteggiamenti molto diversi. Una cosa è l’atteggiamento del governante che si identifica con una grande causa, quella della sua città, e che aggiunge il suo orgoglio personale al vivo nazionalismo delle città greche; un’altra è il sentimento comune, e altra ancora la benevolenza di un padre del popolo per i suoi figli, di cui si sente responsabile. Patriottismo è un’etichetta che copre una realtà molto varia. Ufficialmente, il patriottismo greco è quello del buon cittadino, pari tra i pari. L’ideale di questo patriottismo del “noi” potrebbe essere rappresentato dal momento di unanimità e di emulazione alla partenza della spedizione ateniese contro Siracusa: quel giorno, il più modesto dei cittadini poteva sentirsi evergete. Ma questo “noi” è proprio dei momenti in cui c’è uguaglianza e individualizzazione del pericolo, ma non delle circostanze politiche normali. Nella quotidianità politica ogni individuo poteva sparire fra la folla, su tutto dominava la distinzione governanti/governati, in base a chi stava al potere cambiava il contenuto del patriottismo. Si ricordino le liturgie della democrazia ateniese: la versione ufficiale le fondava sulla devozione patriottica, ma gli oligarchi vedevano in esse il riconoscimento della loro superiorità sociale, riconoscimento che rendeva più amaro constatare che questa superiorità non bastava a mettere nelle loro mani il potere politico. [l’evergetismo funerario] l’evergetismo greco contrasta radicalmente con le opere caritatevoli del mondo cristiano. Vediamo l’esempio delle fondazioni testamentarie. Mecenatismo postumo, civico o cosa? Preoccupazione per l’aldilà? In primo luogo, un evergete può fare doni da vivo, e può anche lasciare in testamento dei beni alla città. Il legato può essere in favore di una determinata persona o di una persona indeterminata (gruppi o associazioni), oppure destinato a uno scopo determinato e durevole (fondazione perpetua). Non tutte le fondazioni sono energetiche, molte hanno una finalità religiosa (le più antiche), altre non sono istituite a beneficio di una città ma di un’associazione. A ogni modo, le fondazioni testamentarie aumentano a partire dall’età ellenistica: i cittadini patriottici offrono alla città, in dono o in testamento, un capitale destinato alle fortificazioni; vengono istituiti dei fondi o legati perché i club dei giovani cittadini dispongano dell’olio necessario all’igiene. Insomma, il sistema giuridico della fondazione lascia molto spazio all’inventiva, e permette ai mecenati di assicurare servizi pubblici per i quali non esistevano norme istituzionali. I moventi di questi benefattori sono il patriottismo, l’amore per la fama e il desiderio di lasciare un grande ricordo di sé. Il ricordo si perpetua perché il nome dell’evergete che istituisce il fondo perpetuo prende appunto il suo nome (per es. il Themis di Leonida). Per quanto concerne la preoccupazione dell’aldilà, nella Grecia classica vi erano alcune usanze (i discendenti dovevano tributare al defunto il culto dovuto ai morti, offrire ogni anno sacrifici o libagioni sulla sua tomba, deporre accanto al corpo gli oggetti che accompagneranno nell’oltretomba) alle quali verso il 300 a.C. si aggiunge una nuova procedura che si diffonde nelle classi alte: le fondazioni funerarie. Perciò si costituisce un capitale la cui rendita permetterà di offrire un sacrificio annuale in onore del defunto. Ai sacrifici si aggiunge un ricevimento o un banchetto per i membri dell’associazione cui è stata affidata la cura di tributare al defunto il culto da lui fondato. Così, le fondazioni funerarie prendono il posto del culto familiare dei morti. La fondazione può essere affidata anche a gruppi specifici: la città, il Consiglio, il club degli anziani (gerousia), associazioni professionali. Verso la fine del terzo secolo, il filosofo Licone, successore di Aristotele e Teofrasto a capo della setta dei peripatetici, stabilisce nel testamento che la rendita di alcune terre sia destinata agli scolari “affinché, grazie all’utilità della cosa, la memoria di lui perduri come si conviene”. L’essenziale non è il culto dei morti ma il ricordo, che i beneficiari manterranno vivo, del defunto o della sua generosità. Che analogia c’è tra evergetismo e fondazioni funerarie? La risposta dipende da come intendiamo la genesi delle fondazioni: o si pensa (Bruck) che esse erano la continuazione del vecchio culto familiare dei morti (dove città e associazioni si sostituivano ai discendenti, di cui non ci si fidava troppo perché, dato il declino della religiosità, il culto dei morti era sempre più trascurato); o si crede piuttosto che le fondazioni fossero un’innovazione e quindi non tanto una prova di declino della religiosità, ma di un mutamento di mentalità, in cui il gusto del lusso e la sensibilità hanno svolto un ruolo importante. [l’atteggiamento di fronte alla morte] le fondazioni funerarie non derivano dal culto dei morti di una volta ma dalle vecchie fondazioni per il culto degli dèi propriamente detti. Perciò nel culto funebre da lui fondato per il ricordo di sé, il testatore associava se stesso agli dèi. Un dato non trascurabile è che si può pensare che la fondazione perpetuasse un costume (appunto il culto familiare dei morti da parte dei discendenti) ormai quasi in declino, e che perciò il testatore non si fidasse della sua discendenza e perciò si affidasse alle associazioni o alla città per la gestione del fondo istituito: in realtà la sua preoccupazione era piuttosto di rendere il suo culto funerario più sontuoso di quanto non comportasse il vecchio costume. Peraltro sono proprio le leggi suntuarie che continueranno a limitare il lusso dei funerali e delle tombe. Prendiamo la fondazione di Epicteta. Questa dama di There affida la fondazione alla sua famiglia che trasforma in associazione, ne nomina sacerdote il nipote e dopo di lui il maggiore dei suoi discendenti; il sacrario in cui avrà luogo il culto è consacrato alle muse, che ricevono il sacrificio insieme alla fondatrice, diventata un’eroina; né si dimentica il banchetto. Quindi, creazione di eroi, lusso e banchetti, ma nessuna sfiducia nei riguardi dei discendenti. Vediamo ora la più antica fondazione conosciuta costituita in onore degli dèi. Essa ha per autore Nicia, l’uomo politico ateniese celebrato per la sua religiosità, e risale alla guerra del Peloponneso. In missione a Delo, Nicia comprò un terreno e lo consacrò; i cittadini dovevano usare la rendita per sacrifici e banchetti, chiedendo agli dèi di accordare molti favori a Nicia. Ecco il punto di partenza delle fondazioni funerarie. Al tempo di Nicia, si credeva ancora che gli dèi fossero persone reali, Nicia credeva nell’efficacia del rito, non si assimilava agli dèi e chiedeva loro di accordargli il loro favore in questa vita. In epoca ellenistica tutto cambia: i morti e gli dèi partecipano a una sfera superiore, quella divina, ed è per questo che le fondazioni pie possono diventare funerarie e i defunti essere onorati come eroi. Ecco, la nuova religiosità non si affidava più al valore automatico dei riti, esigeva sentimenti vissuti (la memoria dei vivi, assicurata da una fondazione, la esprimeva più dei gesti ritualistici) e era meno mitologica (gli dèi non erano più antropomorfici, il divino è una forza, una protezione, una semi-astrazione che pervade ogni cosa). Quando a questo fervore quasi poetico si aggiunge una mancanza di fiducia nei riti, la distinzione fra culto e venerazione tende a svanire. I defunti vogliono vivere nella pietà di coloro che sopravvivono, e l’automatismo dei riti non basta più per loro: essi devono vivere nelle memorie. È questo il primo movente delle fondazioni, anche se ce n’è un secondo molto più prosaico: il desiderio del lusso. Quindi: desiderio di memoria e dono ostentatorio. Veyne individua quattro temi che possono avere la dignità di “oggetto storico”: - il desiderio di immortalità o piuttosto la mancanza di consapevolezza del confine temporale che limiterebbe gli interessi umani: in questo senso si è evergeti a titolo postumo. - la morte come evento metafisico, al quale si riferiscono credenze contraddittorie che per Bruck generano “incongruenza”; eppure, nonostante le diversità delle credenze sull’aldilà e nonostante lo scetticismo ellenistico, il culto dei morti continua a sussistere imperturbabile – come dice Santayana – tutte le dottrine fiorite intorno all’immortalità dell’anima hanno influito appena sul sentimento naturale dell’uomo di fronte alla morte (le diverse credenze contrastano con l’esperienza del cadavere). - la morte come evento sociale, da qui il fasto funerario (consumi e doni vistosi). - il disagio davanti alla cosiddetta oscenità della morte (Ariel): se una società ammette quindi che i morti facciano parlare di sé e che il morire e i funerali si conformino a un rituale, il pensiero della morte diviene addomesticabile, non più imbarazzante né osceno; la socializzazione e la ritualizzazione della morte erano delle difese contro la paura dei morti, che non è paura della morte ma del soprannaturale. Durante l’impero, grandi evergeti come Opramoa faranno trascrivere sulle loro tombe monumentali veri e propri dossier epigrafici, composti da tutti i decreti e lettere onorifiche che hanno meritato durante la loro vita di mecenati (una tomba del genere varrà quanto una fondazione funeraria). I decreti onorifici terminano regolarmente con ciò che gli epigrafisti chiamano la formula esortativa: la città, recita il testo, ha onorato così il suo evergete per dimostrare che essa non ignora la riconoscenza, che sa rendere omaggio ai buoni cittadini, per esortare ciascuno a fare come loro e per invitarli a dare ulteriori prove di abnegazione in avvenire. La città non ringrazia umilmente un potente benefattore, ma agisce come se fosse superiore a ogni cittadino, anche notabile o evergete che sia; essa si aspetta da ogni cittadino che faccia del suo meglio, e onora i buoni come castiga i cattivi. Per trovare uno stile più deferente bisogna leggere i decreti con cui le città onorano non uno dei loro cittadini ma le autorità imperiali. [il vero motivo di tanti onori] tanti onori non potevano servire a distinguere i cittadini meritevoli, ma un ordine come tale, proprio come i titoli di nobiltà. Dunque si trattava di distinzione di classe. Il privilegio dei notabili di essere a capo della città poteva anche essere accettato dall’opinione, ma non contraddiceva l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Gli onori agli evergeti hanno permesso di aggirare questa difficoltà (di non poter abusare della superiorità) creando una disuguaglianza di prestigio. Il carattere irrazionale e simbolico di questa superiorità (un ordine contraddistinto dagli onori) segna una rottura con l’abituale razionalismo della politica antica. Non si trattava di mera vanità ma di ben altro: mantenere il proprio rango. Lungi dallo spiegare l’evergetismo, la passione per gli onori si spiega mediante l’evergetismo. I fatti in dettaglio Distingueremo tre tipi di evergesie. Da un lato le rivendicazioni popolari ottengono dai ricchi delle elargizioni sulle quali tutti i plebei sono facilmente d’accordo, cioè feste, spettacoli e divertimenti. D’altro canto i dirigenti delle città, per far funzionare la macchina, sono costretti ad assumere a loro carico le spese pubbliche, sia che queste spese siano destinate a procurare divertimenti al popolo sia che abbiano uno scopo più utilitaristico. Ne consegue che ogni funzione pubblica tende a diventare una liturgia: si paga per governare. Ben presto la funzione non sarà che un pretesto per pagare: si governa per pagare. Ne consegue che presto sarà difficile distinguere l’evergetismo libero dall’evergetismo ob honorem, e distinguere le magistrature dalle liturgie: governare e donare saranno la stessa cosa. Vediamo i fatti dell’epoca imperiale, apogeo economico dell’Oriente greco. [dalle spese di rappresentanza al prezzo dell’onore] a partire dall’epoca ellenistica, i magistrati sempre più spesso esercitano la funzione a loro spese; una liberalità dello stesso genere era quella per cui molti ambasciatori rinunciavano volontariamente alle loro indennità di missione, e molti funzionari volontari rinunciavano ai loro emolumenti. È il compimento di un processo iniziato ai tempi di Demostene. Le città mancavano spesso di denaro, ciò dipendeva in parte dalla loro cattiva amministrazione del bilancio; la frammentazione del bilancio e la moltiplicazione di finanziamenti speciali faceva mancare una visione d’insieme delle entrate, e induceva le città a vivere giorno per giorno. Di conseguenza, le spese straordinarie costituivano delle difficoltà insormontabili. È così che diventa normale per le città vivere alle spalle dei loro magistrati. A tutto ciò si aggiunge un’evoluzione quantitativa: la città si attribuisce il diritto di ricevere delle evergesie dai successori del magistrato anche se questi ultimi, dal canto loro, vogliono comunque non essere da meno dei loro predecessori. Si tratta di agonismo. Quindi, gusto del dono e gusto della corsa al rialzo sfociano insieme in elargizioni a cascata, secondo il seguente schema: l’evergete riveste un onore in cambio della promessa di un’elargizione, mantiene più di quanto abbia promesso, riceve di conseguenza dalla città l’onore di una statua, prende a suo carico l’erezione della statua e dà una festa pubblica per celebrarne la dedica. Questo schema si troverà identico nell’evergetismo romano. Da tutto questo deriva che è impossibile ormai distinguere magistratura e liturgie, è inutile distinguere l’evergetismo libero da quello ob honorem. Ogni funzione pubblica implica ormai un’evergesia, fatta o promessa. Gli strateghi aiutano la città in caso di difficoltà finanziarie; i preti e gli stefanefori offrono feste al popolo; gli agonoteti erigono a loro spese statue agli atleti vincitori, i ginnasiarchi distribuiscono l’olio necessario ai bagni; gli agoranomi vendono il grano a basso prezzo al popolo, decorano il mercato o ricostruiscono edifici pubblici. Alla fine, sotto l’influenza romana, l’accesso al Consiglio (il titolo di consigliere) sarà ritenuto un onore e pagato di conseguenza. In queste condizioni non è più possibile distinguere la magistratura dalla liturgia. Ecco, le liturgie ellenistiche, ginnasiarchie e agonotesie, diventano le tappe di ogni carriera politica, accanto alle vecchie magistrature: gli stessi uomini, i notabili, assumono le une e le altre. In genere si dice che le liturgie sparirono all’inizio dell’epoca ellenistica, quando Demetrio Falereo le soppresse ad Atene. Non è esatto: le liturgie esistono in epoca greca e in epoca romana, ad Atene e ovunque. Demetrio aveva soppresso la trierarchia (a meno che questa liturgia non fosse sparita spontaneamente insieme alla potenza politica di Atene) e aveva riorganizzato i concorsi teatrali finanziandoli con i fondi pubblici e facendoli dirigere da un commissario, l’agonoteta; quest’ultimo, a sua volta, aggiungeva qualcosa di suo ai crediti pubblici. È così che la liturgia continuò ad esistere, seppure in diversa forma. A ogni modo, in epoca ellenistica tutti i personaggi ufficiali, magistrati o commissari, sono liturghi. In un simile contesto, le funzioni pubbliche diventano un pretesto per far pagare i ricchi, per cui il problema non è più scegliere l’amministratore adatto ma vendere la funzione a chi è in grado di sostenerne economicamente il fardello. Questa vendita delle funzioni pubbliche diventa abituale e viene citata spesso soprattutto nelle iscrizioni. L’aspetto finanziario domina ormai il diritto pubblico, tanto che le magistrature all’occasione vengono assegnate a dèi, bambini, defunti o sovrani: in mancanza di candidati, la città riusciva talvolta a convincere il clero di un tempio a sostenere le spese delle evergesie attingendo al tesoro del dio; i bambini diventano magistrati se il padre pagava per preparare loro una vita politica brillante; i genitori di un giovane defunto lo facevano nominare a una carica pubblica perché il suo nome restasse iscritto per sempre nei fasti; infine, i re ellenistici e gli imperatori romani assumevano talvolta la magistratura suprema della città che in quell’occasione colmavano di favori. Tuttavia non sempre si trovavano i mecenati e le magistrature restavano vacanti: in questo caso era “anarchia”. Si arrivò a creare anche nuovi onori per venderli. Per es. i greci datavano gli anni col nome di un determinato magistrato: essere magistrato eponimo era altamente onorifico. In epoca ellenistica l’eponimia viene quasi sempre attribuita al sacerdote di un grande dio locale che porterà la corona del suo dio come simbolo della sua eponimia (da ciò il titolo di stefaneforo, portatore di corona): in cambio egli deve offrire banchetti al popolo o dimostrarsi magnifico in qualche altro modo. La stefaneforia è una liturgia imposta alla vanità dei ricchi. [“indurre” a pagare] le funzioni pubbliche diventano merce, ma i compratori non sono sempre ansiosi di acquistarle e bisogna sempre far loro una blanda violenza per “indurli” a pagare. La città non può costringere i ricchi, ma essi non possono rifiutare decisamente di fare il loro dovere: devono trovare un buon pretesto. A ogni modo, il ricco non deve difendere fino in fondo il suo diritto a non essere magistrato, perché questo cavillo giuridico sarebbe scortese verso i concittadini; egli deve sacrificare una parte del suo diritto per rendere più facile la concordia: nessuno deve appellarsi contro l’opinione pubblica. Vediamo alcuni documenti. Quando si doveva nominare un magistrato o un liturgo la scelta, in epoca imperiale, era limitata ai membri del Consiglio municipale, ed era lo stesso Consiglio a decidere. Questo Consiglio aveva ugualmente la responsabilità delle tasse che i proprietari cittadini versavano allo stato: tutti i consiglieri avevano un’idea esatta del patrimonio di tutti gli altri. Il Consiglio sa benissimo chi sono i più ricchi, chi dovrebbe sacrificarsi per primo, ma la decenza vieta di dirlo apertamente; si preferisce quindi fare allusione alla prosperità dell’Impero: il richiamo alla generale ricchezza è in realtà una delicata allusione alla ricchezza privata dell’interlocutore. Il ricco poteva replicare alle allusioni ma senza mentire spudoratamente (tipo “malgrado la mia apparente ricchezza sono povero, e se voi mi costringete a fare elargizioni rischio di ridurmi come un vagabondo”). Di contro, non si mancherà di esaltare quelli che (rispetto a chi rifiuta) si sono candidati “volontariamente” o “spontaneamente”; e da parte loro, i candidati modello non mancheranno di vantarsi della loro spontaneità negli epitaffi in cui riassumono la loro carriera politica o nell’iscrizione incisa sul piedistallo della statua. Quando finalmente il ricco si è lasciato convincere ad accettare una funzione pubblica, la commedia non è finita perché le evergesie ottenute da lui non sono che allo stadio di promesse, di pollicitazioni. La maggior parte delle evergesie ob honorem si presentano come delle polli citazioni mercanteggiate e ottenute dalla città il giorno stesso della nomina. La sola garanzia (non essendoci legge che regolasse il mantenimento delle promesse) per la città era la dichiarazione ufficiale dell’evergete, che veniva depositata in archivio. Il problema era “indurre” il ricco a pagare e farlo pagare in contanti. In generale (come dimostra il caso di Achille a Ermopoli, in Egitto, anno 192 d.C.) sono i notabili che tentano di liberarsi del fardello scaricandolo sulle spalle degli altri, o che tentano di impedire agli altri di scaricarlo. [la “somma legittima”] ma visto che i contrasti fra i notabili erano vivaci, non stato più comodo introdurre un regolamento, istituire dei turni e creare una tariffa delle evergesie ob honorem (come fecero poi i Romani)? Questo in realtà accadde: è quello che i Romani chiameranno “somma onoraria”, che ogni dignitario versa alla città per ringraziarla dell’onore conferitogli, o “somma legittima” perché la legge crea l’obbligo di versarla e ne determina l’ammontare. Cosa accade quindi? Una volta calmierata, la mancia non è più una forma di energetismo: nei loro epitaffi i notabili non si degnano nemmeno di vantarsi di averle versate (analogamente, nell’occidente romano, la somma legittima è menzionata solo se viene superata); per di più, la mancia non verrà più richiesta solo ai magistrati o ai sacerdoti, ma l’obbligo sarà esteso ai semplici consiglieri, quindi, per diventare membro del Consiglio della città (e ricevere così la qualifica di notabile) si dovrà versare una somma legittima. Una volta fissata, la somma onoraria viene superata dai notabili generosi, così la somma legittima finirà per rappresentare soltanto un minimo legale. Furono i Romani a fissare la tariffa. Verso la fine del regno di Traiano, gli arconti di Ermopoli, in conformità a un ordine del prefetto dell’Egitto, segnalano all’epistratega quali economie sarà possibile fare sulle spese della ginnasiarchia. Il prefetto regolamenta così il tariffario della carica. Nel corso del secondo secolo, la somma legittima è ormai obbligatoria in tutte le città. L’evergetismo si era sviluppato attorno alle funzioni pubbliche, magistrature, liturgie e sacerdozi; quando si allarga alla dignità di consigliere, viene confermato il fatto che l’attività politica è segno di distinzione sociale. Poiché le somme legittime dei consiglieri erano diventate una risorsa ordinaria, le autorità cercano di farle pagare a più gente possibile. Insomma i consiglieri sono le mucche da mungere della città, non solo grazie alla tassa d’ammissione al Consiglio, ma anche perché essi sono destinati a essere i futuri magistrati e i futuri liturghi. Accordare a una città il diritto di creare nuovi consiglieri, equivale ad assegnarle nuove risorse: la prosperità di una città si misura in base a quella dei suoi consiglieri e prima di fondare una città l’imperatore controllava se le persone benestanti della regione fossero abbastanza numerose per formare un Consiglio. [pubbliche esultanze] in generale il mecenatismo libero continua a esistere, raggiungendo il culmine nel II secolo, l’epoca d’ora dell’Oriente greco. Distribuzioni e banchetti da una parte, edifici profani o sacri dall’altra, sono gli oggetti favoriti dai mecenati in bassa epoca ellenistica o in epoca romana; l’evergesia più grande era la philotimia (le grandi feste del culto imperiale, celebrate su scala provinciale, durante le quali il dignitario, che era al contempo sacerdote o asiarca, dava in onore dei sovrani lo spettacolo dei gladiatori). Le origini delle elargizioni sono varie. La religiosità per esempio esigeva da sempre che un sacerdote o un commissario facesse sfoggio di generosità per onorare gli dèi (per esempio egli comprava di tasca sua la vittima del sacrificio). Altre elargizioni sono folcloristiche e si spiegano con le relazioni fra il mecenate e la collettività concreta. Come traspare dal decreto di Acraifia sulla magnificenza del ricco notabile Epaminonda, il festino è un’autentica istituzione, dove spesso la religione è la motivazione principale o il pretesto. Ma ricordiamo che in epoca ellenistica e romana, l’autentica religiosità si allontana progressivamente dalla religione collettiva e si rifugia nelle sette. La generosità invece diventa l’essenza di molte cariche pubbliche, lo dimostra l’esempio della ginnasiarchia: in origine il ginnasiarca era incaricato di dirigere il ginnasio e di sorvegliare l’istituzione e la formazione degli efebi. In epoca ellenistica, la moda dei bagni si diffonde, mentre i dignitari si addossano sempre più spesso le spese della loro funzione. La parola ginnasion, sotto l’Impero, non vorrà sempre dire ‘ginnasio’ ma anche ‘bagno pubblico’, mentre alcuni gynnasia saranno invece delle distribuzioni d’olio. La carica annuale era così onerosa, e la popolazione attribuiva una tale importanza ai bagni, che in Egitto i ginnasiarchi erano considerati i più alti dignitari della città. Demostene affermava che per far cadere ogni sospetto era necessario mostrarsi munifici nei confronti della collettività: parlando di un suo avversario, Demostene affermava che la grandezza deriva dalla condivisione dei beni con la collettività, e non dall’offesa del lusso ostentato e personale. Secondo Plutarco, i notabili esemplari evitano di offendere la folla, e preferiscono spendere in evergesie piuttosto che in lussi personali. In una commedia di Aristofane, Pluto, dio della ricchezza, rinuncia ad abitare presso questo e quel cittadino: il Tesoro pubblico sarà ormai la sua sola casa, per l’umile felicità di tutti. Questa utopia serviva a riscattare, nell’immaginario, gli ateniesi da una diseguaglianza cui si rassegnavano come a una fatalità naturale. Non è vero che Atene fosse una società in cui le liturgie e le evergesie stabilivano la concordia tacitando l’invidia. La diseguaglianza delle ricchezza non si faceva perdonare a forza di elargizioni, per la semplice ragione che non doveva affatto farsi perdonare: essa sarebbe stata altrettanto tollerata senza energetismo. Infatti, l’invidia fa la sua apparizione solo nel caso in cui una diseguaglianza sembra irrimediabile. L’invidia non è dunque un’esigenza di giustizia, non è suscitata dal fattore macrosociologico dell’ineguaglianza; essa si spiega solo a un livello microsociologico. Energetismo ed invidia non sono in un rapporto di necessità. L’invidia è quindi un atteggiamento storico. Essa è anche una reazione microsociologica che si spiega con il disagio di un ruolo sociale determinato, che dipende in primo luogo dalla collocazione relativa nella gerarchia sociale, ma anche dalla sicurezza, dalla modalità di dipendenza e così via. Dunque, non essendo né generale né di principio, l’invidia è più spesso un’impotenza acrimoniosa che un sentimento rivoluzionario. Essa diventa in genere riprovazione morale: il ricco non è condannato come sfruttatore, ma suscita disgusto per i suoi costumi corrotti. Poiché le utilità individuali non sono indipendenti, ci sarà invidia se non c’è partecipazione, se il servo non ha il sentimento di appartenere alla famiglia del padrone. Ora, l’evergetismo aveva il vantaggio di non stabilire legami personali e durevoli tra l’evergete e la folla dei cittadini. In conclusione, diciamo che il popolo oscilla tra invidia e ammirazione per la ricchezza; i notabili alternano consumi vistosi e ostentazione della generosità, sperando di calmare l’invidia con i doni; ma le loro evergesie fanno oscillare il popolo tra riconoscenza e risentimento. Il popolo non era tenuto a ringraziare l’evergete: questa ingratitudine non è dovuta alla bassezza e nemmeno all’imbarazzo di non poter restituire il beneficio ricevuto; il popolo riteneva semplicemente che l’evergete, nella sua qualità di notabile, avesse già ricevuto la sua ricompensa, e che la sua generosità fosse stata pagata in anticipo con la distinzione sociale di cui già godeva. Il popolo dunque applaudiva e non doveva più nulla. Offrendo dei doni gli evergeti facevano il loro dovere, e solo il carattere informale di questo dovere di stato permetteva loro di credere che le evergesie fossero dei favori gratuiti, e di esigere indebitamente un sentimento elettivo come prezzo della generosità che non era elettiva. Dunque, l’omaggio va dal basso verso l’alto, l’elemosina dall’alto verso il basso, la generosità è tra eguali (il gesto è simbolo della superiorità). [legittimazione e rapporti materiali] se non erano le evergesie il cemento del sistema, su cosa si basava la legittimazione della superiorità? Non serve invocare come spiegazione la materialità dei rapporti di forza, la potenza e la ricchezza dei notabili, poiché il mistero consiste nel fatto che la sottomissione prende la forma di un’obbedienza consensuale. Il popolo era spontaneamente sottomesso ai notabili, riteneva che la loro ricchezza fosse un diritto e non contestava il loro potere. In linea di principio, l’obbedienza è consensuale non quando si obbedisce a una forza più forte, ma quando la si ritiene legittima. Certo è chiaro che spesso la potenza comporta una legittimazione, e che in generale basta che un’occupazione militare si prolunghi nel tempo perché ottenga obbedienza. Ma resta il fatto che, anche se potenza e legittimazione vanno spesso di pari passo, esse costituiscono due fenomeni diversi: cedere alla costrizione e obbedire in mancanza di costrizione non sono la stessa cosa. Perché ci sia legittimazione è necessario un meccanismo particolare: la riduzione delle dissonanze. Questo meccanismo non è automatico e varia in base ai contesti. La relativa stabilità della società non dipende dal giusto equilibrio tra i membri, ma dal fatto che l’umanità si pone i problemi solo quando può risolverli. Il regime ellenistico dei notabili non perdurava grazie alla ridistribuzione evergetica ma perché, di fronte alla disuguaglianza economica, la folla dei plebei era incapace di coalizzarsi, proprio come la folla dei contadini di fronte allo straripamento di un fiume. [società basata sugli ordini e mobilità sociale] la potenza e il prestigio non sono la causa diretta dell’obbedienza: questa è resa possibile dalla legittimazione, ovvero l’accordarsi con il possibile. In una società dove la mobilità sociale era un fatto di clientelismo e di occasioni personali (che quindi non avveniva secondo criteri universalistici) il popolo si accontenta della condizione in cui nasce; questa impostazione renderà possibile lo sviluppo di una società basata sugli ordini. Nella società ellenistica il popolo si rivolge ai notabili come a un padre, e questi trattano il popolo come un figlio. I ricchi si rivolgevano al popolo con un tono di tranquilla alterigia, come fa il comandante quando ricorda ai soldati che la forza di un esercito sta nella gerarchia. Ovviamente questo rapporto di dipendenza non impediva le rivolte: abbiamo visto il caso di Dione, che rischiò il linciaggio come affamatore del popolo; ma nell’affrontare la folla Dione si rivolgeva col tono di un ufficiale che minaccia gli ammutinati invitandoli a rientrare nei ranghi. E non c’è dubbio che persino nella rivolta la plebe ha avuto un atteggiamento deferente e che parlasse ai notabili con umiltà, affetto e ammirazione. Questo paternalismo non è spiegabile coi soli rapporti materiali tra le classi. Insomma, la superiorità dei notabili era ammessa come un fenomeno di natura: in questo contesto non c’era frustrazione da parte degli strati più bassi (una spiegazione possibile: le società basate sugli ordini comportavano una specializzazione delle funzioni invece di una gerarchia di classe). In definitiva, una società basata sugli ordini è possibile solo in un contesto dove la mobilità sociale si realizza mediante clientele e patronato, ovvero secondo criteri irrazionali (naturali): una società degli ordini sarebbe impossibile se la mobilità si basasse su criteri razionali (leggi di mercato, regolamento). La riduzione della dissonanza e la rassegnazione alla realtà sono possibili solo se il criterio di mobilità è irrazionale. Un eventuale successo personale di un plebeo che entra nella classe dei ricchi è paragonabile alla vincita di una lotteria, cioè a un evento che deriva dalla sorte più che dal dominio del possibile. Queste condizioni sociali hanno il carattere immutabile e l’assurdità dei fenomeni naturali. Città greche e città romane sono fuse nello stesso stampo oligarchico. L’evergetismo è la chiave di questa oligarchia: governerà soltanto chi è abbastanza ricco per pagare. L’obbligo di essere generosi svolge un ruolo di barriera, e permette ai notabili di riservarsi il privilegio di governare, conferito loro dalla distinzione sociale e dal potere politico. L’elezione non serve più: non si sceglie più tra i candidati, si cerca una vittima più o meno consenziente; è il Consiglio che sceglie quella vittima perché i notabili, per dovere di stato, si impongano mutuamente il dovere di essere evergeti. Al Consiglio possono appartenere solo i ricchi e i loro eredi, il popolo cede loro il diritto di governare e il dovere di pagare; sotto l’Impero il diritto di proporre decreti è riservato ai soli magistrati. Nelle città romane s’impone il regime dei notabili per le stesse ragioni che in Grecia: le funzioni pubbliche avevano un’importanza limitata alla municipalità. Il regime dei notabili unifica l’organizzazione amministrativa delle città in tutto l’Impero. [interesse di classe o distanza sociale] possiamo parlare di interesse di classe perché c’era sicuramente qualcosa che interessasse ai notabili; la nozione però appare inadatta se intendiamo con interesse di classe la difesa dei rapporti di produzione: in verità ai notabili interessava preservare piuttosto la loro posizione sociale. I notabili non divenivano magistrati ed evergeti per difendere le loro proprietà fondiarie, ma perché il loro status li separasse dal popolo. Ancora una volta l’interpretazione funzionalistica è falsa: l’evergetismo non serviva a mantenere i rapporti di produzione, proprio come nono serviva a regolare la società politica. Inoltre, bisogna osservare che la città non era uno stato sovrano, bensì un comune autonomo (perciò i notabili non erano una vera e propria classe dominante). La città era semplicemente il luogo in cui si deteneva e si ostentava la posizione sociale (distanza sociale), e non il luogo in cui difendere il privilegio materiale (interesse di classe, che comunque costituiva la prima condizione, se non l’essenza di questa posizione). In realtà, i notabili come il popolo non potevano far altro che subire: fenomeni come sommosse per il grano, scioperi, conflitti per questioni di confine o di precedenza alle assemblee provinciali, erano tutti fenomeni regolati e repressi direttamente dalle autorità romane (Dione di Prusa, minacciato di linciaggio come affamatore, minacciò a sua volta di ricorrere al governatore romano). Insomma, gli interessi dei notabili come possidenti e dei notabili come evergeti non coincidevano affatto. Ovviamente i notabili saccheggiavano il pubblico denaro, si spartivano i mercati pubblici e le fattorie, e scaricavano sui poveri gran parte delle tasse imperiali. In compenso, le evergesie e le liturgie costavano loro molto care, ed erano più gravose di una tassa imperiale. Tuttavia, era proprio questa tassa imperiale che li indisponeva, poiché, a differenza delle evergesie, essa non conferiva una distinzione sociale. [l’interesse di classe è obiettivo o collettivo?] che la collettività borghese costringa i suoi membri a immolarsi a un dovere di stato può essere ovvio; che questo dovere derivi automaticamente dai rapporti obiettivi di produzione non è più vero. Il dovere di essere un politico e un evergete non derivava dai privilegi economici dei notabili. Questo è il dilemma: un interesse no soggettivo deriva da un oggetto trans-storico, i rapporti di produzione, oppure è il prodotto collettivo del contesto storico considerato? Qualsiasi sia il contesto storico, l’interesse consiste nel mantenere inalterati i rapporti di produzione. L’interesse così concepito sta alla classe come l’istinto di conservazione sta agli animali. Ma noi sappiamo che l’interesse non si situa al livello della classe e dei rapporti di produzione ma a quello dei gruppi e dei ruoli. Inoltre, gli interessi di evergete, di mecenate, di politico e di possidente, che compongono il ruolo del notabile, non coesistono senza contrasti. E ancora, non essendo una classe una specie, quegli interessi stessi dipendono da reazioni individuali. L’interesse può essere occasione di errori (Gramsci si chiede se una classe sociale non possa fraintendere i propri interessi) e di deliberazioni (in genere un gruppo sociale si divide sulla linea politica da seguire). In breve, tolta di mezzo l’interpretazione dogmatica dell’interesse come difesa dei rapporti di produzione, la nozione di interesse diventa tautologica come quella di Bene. La nozione di interesse di classe ha un’apparenza violentemente convincente: in qualsiasi epoca storica si può prevedere che la maggioranza degli uomini si interesserà ferocemente ai beni materiali, denaro o proprietà (relativi alla disuguaglianza di classe). Ma da ciò derivano due ingenuità: tutti gli interessi, persino l’amore del potere o la vanità, sembrerebbero mossi da un interesse economico; addirittura si rischia di pensare che le cause economiche siano più importanti di ogni altra causa! Abbiamo visto invece che alcune strutture sociale sono tali che le classi, per una sorta di perversione, difendono degli interessi che sono puramente simbolici e, solo in ultima analisi, economici. Qualunque sia il contesto storico, possiamo affermare che gli individui si strutturano in classi obiettive e soggettive, intorno a interessi volgari. Purtroppo non è possibile prevedere gli interessi perché non si può conoscere in anticipo quali ruoli la storia farà nascere: burocrazia e rivoluzione industriale erano imprevedibili. Dunque la storia di ogni società non è stata mai lotta di classe ma lotta di ruoli. Classi e ruoli non coincidono con gli interessi. Ora, l’interesse individuale si situa al di là del ruolo e degli interessi collettivi. [interesse collettivo e dovere di stato] un interesse individuale (distinzione sociale) finisce per apparire obiettivo perché diventa collettivo: ogni notabile aveva un interesse personale nel vedere i suoi pari adempiere ai doveri di stato. In questo senso l’evergetismo non sembra più legato agli interessi individuali, ma assomiglia a un ideale che esige dei sacrifici, un ideale fatto tanto di costrizione che di spontaneità. In questo ideale il gruppo notabile rispetta se stesso e coltiva valori altruistici: il popolo si aspetta dal canto suo, come gli fossero dovute, delle evergesie che in origine erano state libere munificenze individuali; al termine dell’evoluzione, quando è divenuto un dovere di stato di tutto un ordine, l’evergetismo acquista l’aspetto leggendario di un patto di equilibrio, dove una classe governa e offre, mentre l’altra obbedisce e riceve. Questo patto però non fu mai stipulato, nemmeno a titolo di finzione normativa. Si ha dovere di stato quando un gruppo impone ai suoi membri, nell’interesse di tutti, dei sacrifici individuali. All’interno del gruppo il dovere di stato è una coalizione di tutti contro tutti, che si forma per adattamento di tutti con tutti: ognuno, sapendo per conoscenza vaga ciò che i suoi pari sono disposti a fare, può prevedere la reazione della maggioranza, rafforzare quella maggioranza e adeguare il proprio comportamento. Intorno al 200 a.C. l’evergetismo non era ancora divenuto un dovere di stato: a quel tempo c’erano ancora notabili che stigmatizzavano gli evergeti col titolo di demagoghi, criticando e rifiutando questo tipo di generosità colpevole. Ma a un certo punto, questi discorsi di biasimo verso i propri pari cominciarono a essere ritenuti indecenti e scortesi: fu così che l’evergetismo divenne una specie di conformismo; ma non dimentichiamo che le ragioni che ora permettono all’evergetismo di perdurare non sono le stesse che lo fecero nascere. Allora si produce una riduzione di dissonanza: il popolo si adatta al governo e alle evergesie dei notabili, mentre i notabili interiorizzano il loro dovere di stato. Certo, ognuno di loro risentiva del conflitto tra l’egoismo naturale e il disinteresse che l’evergetismo esigeva: infatti, era interesse comune che il gruppo si conservasse mantenendo la propria distanza sociale, ma era interesse di ognuno non immolarsi all’ideale e lasciare che gli altri risplendessero al posto suo.
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