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Antropologia culturale - i temi fondamentali, Dispense di Antropologia Culturale

Riassunto del manuale di antropologia.

Tipologia: Dispense

2022/2023

In vendita dal 06/04/2023

fabiana-pinna
fabiana-pinna 🇮🇹

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Scarica Antropologia culturale - i temi fondamentali e più Dispense in PDF di Antropologia Culturale solo su Docsity! ANTROPOLOGIA CULTURALE – I TEMI FONDAMENTALI PREMESSA Lo studio degli esseri umani ha due dimensioni principali: quella socioculturale e quella biologica. I due ambiti non sono facilmente isolabili e gli antropologi contemporanei ne sono pienamente consapevoli. 1) Antropologia culturale e sociale: si occupa degli esseri umani organizzati in società e dotati di specifiche visioni del mondo in modo approfondito e con spirito comparativo 2) Antropologia fisica: denominata anche Antropologia biologica, si occupa principalmente delle variabilità dei caratteri morfologici e genetici all’interno di e tra le popolazioni umane, della storia evolutiva dell’ Homo sapiens. Gli antropologi biologici interrogano il passato attraverso gli scavi in situ, rinvenendo resti fossili di ominidi e testimonianze delle prime culture materiali. È curioso sottolineare come gli antropologi biologi si definiscano tra di loro “antropologi”, così come gli antropologi culturali e sociali. Nel caso invece dell’antropologia filosofica è diverso, loro si definiscono “filosofi”, rivendicando il loro essere filosofi. Ritornando all’antropologia culturale possiamo dire che gli (1) antropologi culturali, gli (2) antropologi sociali e gli (3) etnologi facciano lo stesso mestiere. È opportuno tuttavia precisare che le tre denominazioni fanno riferimento: 1) All’interesse per la sfera simbolica, i saperi e il linguaggio. 2) All’analisi dei sistemi sociali, giuridici e delle istituzioni 3) Allo studio storico di aree culturali geograficamente limitate Esse quindi costituiscono sfumature differenti di attività che possono essere svolte da medesime persone. Nel corso del Novecento, inoltre, hanno preso corpo ulteriori sotto discipline, come ad esempio l’Antropologia politica, economica, medica ecc. o Coordinate storiche Probabilmente il paese che per primo sviluppò un interesse intellettuale nei confronti della diversità culturale è stata la Francia. Questo fu possibile grazie all’eredità dello spirito illuminista e ad alcuni sviluppi della sociologia. Nella seconda metà dell’Ottocento in Gran Bretagna e negli Stati Uniti si sviluppa maggior consapevolezza del fatto che si stava costituendo una nuova disciplina, due nazioni che, per motivi differenti, si trovano a dover riflettere intensamente sulla diversità culturale. 1) Gran Bretagna: la poderosa politica coloniale aveva orientato l’interesse di molti uomini nei confronti delle società “altre” 2) Stati Uniti: la presenza sul territorio americano di differenti gruppi nativi, i cosiddetti “indiani”, degni di essere indagati a partire dalla loro complessità linguistica, culturale e sociale. 1 Gli antropologi evoluzionisti si fine Ottocento sostenevano che tutte le culture umane seguissero uno sviluppo che le avrebbero condotte dallo stadio selvaggio a quello della civiltà. Alcune civiltà si sarebbero “sviluppate” prima, altre sarebbero rimaste attardate su livelli evolutivi inferiori. Gli evoluzionisti, sulla base di questa idea e convinti che il livello di sviluppo massimo fosse rappresentato dalla civiltà europea, contribuirono a giustificare la posizione dominante di quest’ultima sulle popolazioni colonizzate, inventando, al contempo, la categoria del “primitivo”. Nonostante l’impianto teorico gerarchizzante dei primi antropologi, occorre ammettere che essi contribuirono in modo determinate a riconoscere forme culturali significative e degne di essere studiate. Nel periodo incluso tra gli ultimi anni dell’Ottocento e gli anni Venti del Novecento, l’Antropologia culturale si consolida attraverso una risoluta critica all’impianto teorico evoluzionista e per mezzo di una decisiva revisione metodologica: la connessione tra il viaggiare fra le varie “forme di umanità” e lo studio dell’essere umano si fa sempre più stretta. Gli antropologi non si limitano a riflettere sulle diversità culturale nelle loro biblioteche, ma optano per l’osservazione diretta del proprio oggetto di studio. Ad esempio: 1) Franz Boas (1886) condusse ricerche presso i Kwakiutl della costa del Nordovest. Egli concepiva il lavoro dell’antropologo come la raccolta dei dati nell’ambito di specifici gruppi umani. L’obiettivo dell’antropologia di Boas era quello di compiere “scavi” etnografici mirati, che permettessero di delineare le particolari conformazioni sociali. 2) Bronislaw Manilowski (1884-1942), antropologo polacco formato a Londra, pubblicò nel 1922 una delle opere più influenti della storia dell’antropologia: “Argonauts of Western Pacific. Il volume, incentrato sull’analisi dello scambio cerimoniale Kula, effettuato in Malesia occidentale, si basa sui dati raccolti da Manilowski durante una prolungata ricerca sul campo. La definizione e l’applicazione di un metodo rigoroso (l’osservazione partecipante su un lungo periodo), la brillantezza della scrittura, il fascino dei mari del Sud garantiranno al volume e al suo autore un notevole successo e la stima dei colleghi. Lo scambio cerimoniale Kula permette di mantenere le relazioni sociali fra le diverse isole dell’arcipelago. Tale prospettiva, secondo la quale ogni elemento culturale è funzionale al mantenimento della coesione sociale, dominerà l’antropologia britannica per gran parte del Novecento. A partire dagli anni Venti, l’Antropologia culturale contribuisce alla conoscenza delle differenti culture attraverso la stesura di accurate monografie basate sul rigore metodologico di prolungare ricerche sul campo. Gli antropologi del Novecento contribuiscono a mostrare come la “semplicità”, la “primitività” delle altre culture siano riconducibili allo sguardo di noi occidentali, alla tendenza a giudicare e ad interpretare le altre culture sulla base della propria, considerata ideologicamente superiore. Le forme di umanità alternative alla nostra appaiono spesso come “periferiche”, rispetto alla “via maestra” segnata dalla modernità eurocentrica. L’Antropologia culturale contribuisce a smontare questa visione mostrando la pari dignità culturale di percorsi eterogenei e spesso interconnessi. La Gran Bretagna, gli Stati Uniti e la Francia siano sono stati i paesi in cui si è affermata inizialmente (dalla fine dell’Ottocento ai primi decenni del Novecento) l’Antropologia culturale. Tale disciplina si è successivamente diffusa in altre nazioni e 2 riconoscimento dell’esistenza di un senso, di un ordine, alla luce dei quali si dovrebbe considerare tanto la variabilità, quanto la regolarità di costumi e abitudini. Questo avvicinamento e questa fusione tra il concetto di cultura e il concetto di costume- abitudine hanno prodotto un inglobamento dei costumi nella cultura. La definizione di costume ha perso immediatamente terreno e si è in gran parte eclissata, infatti da diversi decenni non si utilizza più, sostituita dal ricorso al concetto di cultura. Ponendo a confronto “usi e costumi” e “cultura”, i primi rappresentano per così dire la facciata esterna, mentre la seconda si riferisce ad elementi strutturali. La cultura, avendo inglobato i costumi come propri contenuti, di è appropriata inevitabilmente di certe loro caratteristiche. Vediamo dunque un passaggio di caratteristiche in entrambe le direzioni: la cultura offre ai costumi il senso dell’ordine e della forma, mentre i costumi danno in cambio alla cultura un significato di esteriorità. o ALFRED L. KROEBER Al fine di illustrare il concetto antropologico di cultura Kroeber fa ricorso, nel saggio del 1917 The superorganic, a un esempio particolarmente significativo: si tratta del diverso modo di adattamento a un ambiente artico da parte di gruppi umani e di altri animali. Mentre tutti i mammiferi artici presentano un folto pelo, l’uomo copre il suo corpo con pellicce sottratte agli altri animali. Il processo di adattamento degli animali ha interessato un numero molto elevato di generazioni, mentre l’adattamento umano è stato assai più rapido. Le modificazioni nel caso degli animali sono organiche, mentre nel caso dell’uomo lasciano inalterato il suo corpo. Vi è però un risvolto della medaglia, poiché, mentre gli animali artici che si succedono nello stesso ambiente mantengono inalterate nei propri organismi e in quelli dei discendenti le forme di adattamento collaudate, i discendenti dell’eschimese “nascono nudi e fisicamente inermi tanto quanto lui e il suo centesimo discendente”. Il non coinvolgimento dell’organismo nei processi e nelle forme di adattamento culturale è la ragione del carattere di esteriorità della cultura. Fin dalle sue prime manifestazioni la cultura si configura come un insieme di forme e processi che si collocano tra gli organismi umani e il mondo esterno. - Il linguaggio, ad esempio, oltre alla tecnologia, è un altro grande ambito della cultura umana. Per Kroeber il linguaggio è qualcosa di completamente acquisito, non ereditario, di completamente esterno, non interno, un prodotto sociale, non il frutto di uno sviluppo organico. Kroeber pone l’esempio del neonato francese, il quale, nato in Francia da genitori e antenati francesi, acquisirà completamente la lingua cinese e non conoscerà una parola di francese, se trasportato in Cina subito dopo la nascita: la lingua, infatti, non è inscritta nell’organismo di quell’individuo. 5 - Si coniuga in Kroeber una visione stratigrafica della realtà umana: vi è prima di tutto l’uomo come “sostanza organica”, e vi è poi l’uomo come portatore di cultura. L’essere umano è perciò una tavola su cui si può scrivere. Sul piano della realtà organica si pone la realtà culturale, si tratta di due piani distinti, sovrapposti e autonomi. L’esteriorità della cultura sta a significare esattamente questa autonomia. Per Kroeber, prima l’evoluzione biologica porta a compimento la sua opera e poi su questa si innesta l’evoluzione culturale. - IL DIFFERENTE PESO DELLA CULTURA E LA SUA IMPRESCINDIBILITA’ BIOLOGICA Sviluppi più recenti relativi alla teoria della cultura hanno per lo più mantenuto l’idea del suo carattere esteriore, ma il mantenimento dell’esteriorità si coniuga con il rifiuto esplicito di una “concezione stratigrafica” della cultura e della realtà umana. Nella prospettiva primo novecentesca di Kroeber il peso della realtà umana viene Equamente ripartito tra la sua componente organica e la sua componente culturale: gli abiti culturali non sono più stranezze senza senso, ma sono funzionali e soprattutto sono forme, modelli. Con gli sviluppi più recenti della teoria antropologica della cultura si predica l’impossibilità di scoprire l’uomo nudo nella sua “purezza” originale e preculturale. I costumi sono la realtà dell’uomo, la sua vera “seconda natura”: non al di là dei costumi, ma nei o tra i costumi va ricercata l’essenza dell’uomo. Se l’esteriorità culturale concentra il senso dell’umanità, ciò significa che il centro di gravità dell’essere umano è esattamente in questa esteriorità. In questo spazio variegato ed esterno si decide ciò che l’uomo è, cio che gli uomini sono, ciò che gli uomini di volta in volta divengono. A partire dagli anni Venti del Novecento sono state compiute alcune scoperte in ambito paleontologico. Ci si è resi sempre più conto che gli ominidi disponevano di una qualche forma di cultura, nonostante che il loro cervello fosse, come capacità volumetrica, un terzo di quello dell’uomo attuale. È probabilmente più corretto considerare gran parte della nostra struttura fisica come il risultato della cultura, anziché pensare a uomini anatomicamente simili a noi, i quali piano piano scoprirebbero la cultura. La cultura appare sì come qualcosa di esterno, ma essa interviene ben prima che l’evoluzione organica produca l’uomo quale esso è attualmente. Non è più pensabile che l’evoluzione culturale prenda piede soltanto dopo che l’evoluzione organica ha prodotto l’uomo attuale, come sosteneva Kroeber, non è più accettabile uno schema di sovrapposizione di piani. o GEERTZ Le riflessioni di Geertz si svolgono nei primi anni Sessanta del Novecento, in cui Leroi- Gourhan pubblica “Le geste et la parole”. Non vi sono tra i due autori riconoscimenti reciproci, ma per entrambi è importante lo sfondo delle scoperte paleoantropologiche ed entrambi giungono, su alcuni punti centrali a conclusioni assai simili. Uno di questi punti è il ruolo del cervello nell’evoluzione biologica e culturale dell’uomo. Secondo 6 una tipica visione stratigrafica si è spesso indotti ad attribuire al cervello una posizione prioritaria e una funzione trainante, o addirittura creativa, rispetto alla formazione della cultura (prima il cervello umano perfettamente abilitato e poi la produzione della cultura). Leroi-Gourhan scombina questo schema ponendo il cervello nelle ultime posizioni dello sviluppo organico, anziché nelle prime. Per Leroi-Gourhan non si può far a meno di ritenere che il cervello “segua” il movimento generale, ma non ne sia l’istigatore. Dall’inizio della stazione eretta allo sviluppo attuale della massa cerebrale umana si estende un lunghissimo periodo di alcuni milioni di anni, durante i quali gli antenati dell’Homo sapiens sfruttano le mani, che la posizione eretta rende totalmente libere dalla funzione locomotoria, per la costruzione di utensili. In questo lungo periodo di tempo si collocano non solo gli utensili, ma anche il linguaggio, che viene ricondotto anch’esso alla posizione eretta. Tale posizione, infatti, ha liberato completamente la mano dalla funzione locomotoria e la mano, a sua volta ha liberato gli organi facciali dall’attività di prensione, rendendoli disponibili per la formazione e l’uso della parola . L’impressionante sviluppo cerebrale che caratterizza l’evoluzione umana ( da 500 a 1500 centimetri cubi nell’arco di pochi milioni di anni) è avvenuto in un ambiente già culturale. È ovvio che quella cultura (utensili e parole) sia il prodotto di un cervello, ma il modello d’interazione profonda tra la componente organica e quella culturale suggerisce anche che il cervello sia a sua volta il prodotto di quella cultura. - Il modello interattivo sostiene che quella cultura era vitale, non un abbellimento di cui si sarebbe potuto fare a meno. Geertz si incarica di chiarire questo punto, scartando l’ipotesi kroeberiana. Per una specie fisicamente inerme sul piano organico qual è l’uomo si è molto facilmente indotti a ritenere che la cultura sia stata qualcosa di estremamente utile. Per un ominide, il cui organismo era privo di armi come zanne e artigli, la capacità di costruire utensili fu indubbiamente un grosso vantaggio evolutivo. La cultura non si limita a fornire comodità, ad agevolare l’adattamento, ma è un elemento indispensabile per la loro stessa vita. “Privati della cultura gli uomini sarebbero inguardabili mostruosità con pochissimi istinti utili, ancor meno sentimenti riconoscibili e nessun intelletto, casi mentali disperati” Il modello interattivo non soltanto ritiene che il nostro sistema nervoso centrale sia cresciuto in gran parte in interazione con la cultura, ma da ciò trae una grave conseguenza, ossia l’incapacità del nostro apparato nervoso e cerebrale a dirigere il nostro comportamento e a organizzare la nostra esperienza “senza la guida fornita dal sistema dei simboli significanti. La cultura non è un aiuto, è la base della stessa sopravvivenza biologica dell’uomo. Il modello interattivo sottolinea il carattere della cultura come ambiente vitale degli esseri umani, ma proprio in base al presupposto dell’interazione ritiene altresì che questo ambiente impregnato di simbolismo sia a sua volta il prodotto degli organismi umani. Vi è quindi una circolarità tra cultura e organismo umano. Senza dubbio l’intervento della dimensione simbolica, rappresentata soprattutto dal linguaggio, abbia costituito una fase decisiva di non ritorno. Secondo Geertz, questo processo può essere descritto come un “crescente affidamento a sistemi di simbolici significanti” per il controllo del comportamento umano e quindi come una sempre minor presa del controllo genetico. Affidarsi sempre di più alla cultura e sempre meno alla base genetica per orientare gli esseri umani nel mondo ha comportato uno iato tra quello che “ci dice il nostro corpo” e quello che dobbiamo sapere per funzionare. Si tratta di un vuoto che dobbiamo riempire noi stessi, e lo riempiamo con le informazioni fornite dalla nostra 7 Sembrano esservi due opzioni fondamentali per determinare il senso della cultura umana: 1- La prima ritiene giusto rimanere all’interno delle correnti culturali indagandone le forme, ricostruendone la storia (Kroeber) o interpretandone i simboli e i significati (Geertz) 2- La seconda ritiene inevitabile prima o poi un’uscita dalla cultura verso realtà che in qualche modo la precedono o ne sono fondamento. Qualunque tipo di strada si prenda non è evitabile quella sensazione di precarietà che proviene dalla sostanza simbolica della cultura. Possiamo registrare una convergenza tra due prospettive tanto opposte nello studio della cultura, ossia tra la prospettiva di Geertz e quella di Lévi-Strauss. Ciò che entrambe le prospettive ci trasmettono è l’idea della cultura come un’elaborazione fittizia e precaria di cui l’uomo non può fare a meno e a cui rimane tenacemente aggrappato per garantirsi una sopravvivenza. - LA DIMENSIONE CULTURALE (saggio di Arjun Appadurai) Cultura/Culturale: Appadurai definisce l’antropologia come archivio di realtà vissute. Afferma quanto provi disagio nell’utilizzare il sostantivo cultura, mentre sostiene di essere molto affezionato al termine culturale. Ciò, per lui, ha a che fare con il preconcetto che la cultura sia un qualche oggetto, una cosa. L’aggettivo culturale, invece conduce verso il più fertile campo delle differenze, dei contrasti e delle comparazioni. Il tratto più prezioso del concetto di cultura è proprio il concetto di differenza, differenza che consente di evidenziare punti di somiglianza e di contrasto tra tutti i tipi di categorie: classi, generi, ruoli, gruppi e nazioni. Ogni qualvolta indichiamo una distinzione, stiamo sottolineando l’idea di differenza in rapporto a qualcosa di locale. Piuttosto che considerare la cultura una sostanza è più utile considerarla una dimensione di fenomeni, utile per parlare della differenza. Ma ci sono molti tipi di differenze e solo alcune sono culturali. Appadurai, infatti, considera culturali solo quelle differenze che esprimono o formano la base per la mobilitazione di identità collettive. La cultura diviene quindi una questione di identità collettiva costituita da alcune differenze tra le altre. Siamo passati dalla cultura in quanto sostanza, alla cultura in quanto dimensione della differenza, alla cultura come identità collettiva basata sulla differenza, alla cultura come processo di naturalizzazione di un sottoinsieme di differenze che sono mobilitate per articolare l’identità di gruppo. Culturalismo: di rado questa parola si trova da sola, spesso è accompagnata da alcuni prefissi come multi-, inter-, ma può essere utile ad usare culturalismo per designare un tratto di quei movimenti che implicano consapevolmente le identità nel loro formarsi. L’apparente rinascita dei nazionalismi e dei separatismi etnici non è in realtà quel tribalismo cui troppo spesso fanno riferimento giornalisti esperti. La violenza etnica a cui assistiamo in molte zone del mondo è invece parte di una trasformazione più vasta che è indicata dal termine culturalismo. Il culturalismo è la deliberata mobilitazione delle differenze culturali al servizio di più vaste politiche nazionali e transnazionali. Movimenti culturalisti: sono sensibilissimi ai temi dell’identità, della cultura e dell’eredità, termini che spesso diventano parte del linguaggio dei movimenti 10 culturalisti quando lottano contro gli Stati o altri gruppi o centri culturalisti. I movimenti culturalisti che riguardino afro-americani negli USA o pakistani in Gran Bretagna, tendono a essere antinazionali e metaculturali. Il culturalismo è la forma che la differenza culturale tende ad assumere in un’epoca di mediazione di massa, emigrazione e globalizzazione. - ABITARE O COSTRUIRE (saggio di Tim Ingold) Questo saggio è parzialmente autobiografico, poiché descrive i tentativi di Ingold, nel corso degli ultimi anni, di trovare un modo soddisfacente di comprendere le relazioni tra gli esseri umani e l’ambiente. L’aspetto fondamentale della vita è che non comincia qui e finisce lì, ma che continua sempre. Per la stessa ragione un ambiente è sempre in costruzione. Molto comune in antropologia è la premessa che gli esseri umani abitino mondi culturalmente costruiti. Ingold era sicuro che i modelli sviluppati dagli ecologisti e dai biologi evolutivi per spiegare le relazioni tra gli organismi e ambiente potessero essere applicati anche agli esseri umani come alle altre specie, tuttavia in questi modelli non c’era spazio a quella che sembrava la più importante caratteristica dell’attività umana, ossia che essa è motivata e intenzionale. Partendo da due affermazioni ragionevoli, ossia che gli esseri umani sono organismi e che l’azione umana è intenzionale, Ingold arriva alla conclusione che gli esseri umani conducono un’esistenza a metà nella natura e metà no, metà organismi, metà persone, metà corpo e metà mente, un dualismo. Ciò di cui Ingold aveva bisogno era un modo nuovo di pensare gli organismi e le loro relazioni con i loro contesti ambientali, una nuova ecologia. Si ispira a tre fonti principali, la prima viene biologia che sfida il pensiero neodarwinista, la seconda consiste nella psicologia ecologista e la terza viene dai filosofi fenomenologi. Benché si siano sviluppati indipendentemente l’uno dall’altro questi tre approcci hanno molto in comune: 1- Capovolgono l’ordine normale (ossia nel pensiero occidentale) delle priorità di forma e processo. La vita non è il dispiegamento di una forma preesistente, ma il processo stesso attraverso cui la forma si genera e si mantiene. 2- Pongono come punto di partenza l’agente nel suo contesto ecologico, ciò che la fenomenologia chiama “nel mondo”, di contro a un’idea dell’individuo separato dal mondo “là fuori”. Essi quindi sostengono che è attraverso il suo essere abitato, e non costruito, che il mondo diventa un contesto ricco di significato. La “Prospettiva dell’abitare”, di contro alla “Prospettiva del costruire”. Il pensiero di Ingold, quindi, si sposta da una prospettiva del costruire a quella dell’abitare. o EDIFICARE AMBIENTI,COSTRUIRE MONDI Benché si possa sostenere che gli esseri umani sono costruttori di mondi, questo lascai in sospeso la questione di come gli atti umani di costruzione del mondo differiscano dai processi attraverso i quali gli animali non umani si costruiscono i loro mondi. Immaginiamo la conchiglia di un mollusco, la tana di un castoro e una casa umana. Tutti e tre sono stati presi come esempio di un certo tipo di architettura. Alcuni autori applicherebbero il concetto di “architettura” solo alla casa, altri includerebbero la tana del castoro, in quanto “architettura animale”, ma escluderebbero la conchiglia, mentre altri accetterebbero tutti e tre gli esempi. La ragione per escludere la conchiglia potrebbe essere che essa fa parte del mollusco, 11 mentre il castoro, ad esempio, lavora sodo per costruire la sua tana. I castori però costruiscono sempre le stesse tane, gli esseri umani, invece, costruiscono case diverse, anche se certe forme di case esistono già da diverso tempo, è documentato che anche queste hanno subito importanti cambiamenti nel corso della storia. La differenza, quindi, tra tana e casa, sta proprio nel progetto. Il castoro non è un progettista della tana più di quanto non lo sia il mollusco per la sua conchiglia, gli esseri umani, invece, sono gli autori dei loro progetti, costruiti attraverso processi di decisione. Si può affermare che si possono costruire cose, anche senza alterarne la forma fisica. Se vogliamo mettere un chiodo al muro, ma non abbiamo il martello, cerchiamo tra gli oggetti intorno a noi e selezioniamo qualcosa che si possa adattare allo scopo. Prendiamo una pietra, in questo caso la pietra è “diventata” un martello, senza mutare la forma. Allo stesso modo una grotta può diventare una casa, o una striscia di terreno piatto può diventare una pista di atterraggio. La pietra è stata scelta, o come viene scritto nel libro, cooptata, non costruita, per diventare martello. Ne segue quindi che esistono due modi di fare: cooptativo e costruttivo. Jacob von Uexküll sostenne che considerare l’animale solo come un assemblaggio di organi sensori e motori, significa dimenticare il soggetto che usa tali organi come strumenti, per la percezione e l’azione. Gli animali non sono macchine, ma soggetti la cui essenziale attività consiste nel percepire e nell’agire. Von Uexkull invita il lettore ad immaginare i molteplici abitanti di una quercia (la volpe tra le radici, lo scoiattolo che percorre i rami, saltando da una parte all’altra, la civetta in equilibrio sul ramo ecc.). Ogni creatura, conferisce all’albero una funzione differente: riparo e protezione per la volpe, un sostegno per la civetta, una strada per lo scoiattolo ecc. Ora consideriamo il boscaiolo, per lui l’albero figura come fonte potenziale di preziosa materia prima. Questa percezione non è legata, come lo è per l’animale, al modus operandi dell’organismo, gli uomini non costruiscono in virtù di ciò che sono, ma in virtù delle loro concezioni delle possibilità, possibilità limitate dal potere dell’immaginazione. Mentre l’animale percepisce questi oggetti come pronti all’uso, agli esseri umani essi appaiono come fenomeni i cui usi potenziali devono essere assegnati prima di utilizzarli. o LA CASA COME ORGANISMO Supponiamo che la quercia a cui fa riferimento von Uexküll non sorga in una foresta, ma entro i confini di una casa. Di primo acchito non esiteremmo a considerare la casa, ma non l’albero, come una costruzione, un esempio di architettura, poiché l’albero è cresciuto interamente per conto suo. Osservando più attentamente, però, la distinzione tra queste parti dell’ambiente come “costruite” e “non costruite” di fa confusa. La forma dell’albero, è data adi suoi abitanti: tutti loro attraverso le loro forme di attività di abitazione creano le condizioni in cui l’albero cresce e assume la sua particolare forma e le sue particolari proporzioni. Anche la casa ha molti diversi abitanti, più di quanti tendiamo a pensare. A volte si dispone per alcuni di loro una cuccia, altri trovano riparo e cibo nei suoi angoli e nelle sue fessure. Tutti a loro modo contribuiscono a plasmare continuamente la sua forma, come fanno gli abitanti umani riparandola, decorandola ecc. Le case sono organismi viventi. Le case, così come gli alberi, hanno storie di vita, che consistono nelle relazioni con le componenti umane e non umane dei loro ambienti. Quando prevale la componente umana le caratteristiche dell’ambiente sembreranno più costruite, mentre quando prevale la componente non umana le caratteristiche dell’ambiente sembreranno meno costruite. Costruire, 12 fenomeno varia, varierà anche quello (o quelli) con cui il fenomeno è statisticamente associato. Qualora si possa provare che in un certo numero di casi due fenomeni variano in modo analogo, si può essere certi che ci si trova in presenza di una legge. Questo metodo ha goduto di notevole fortuna nell’ambito dell’antropologia ed è quello che più di ogni altro ha contribuito a consolidare l’idea di antropologia come sapere fondato sulla comparazione. Non può però stupire che tale stile comparativo abbia costituito un procedimento d’indagine adottato dagli antropologi a un certo livello di distanza dal punto di vista del nativo o dai “significanti indigeni”. COMPARAZIONI CONTROLLATE Nel 1965 Evans-Pritchard pubblicò un saggio sul metodo comparativo divenuto in seguito assai celebre. Evans-Pritchard spostò l’accento sulla ricerca delle differenze. Per lui, infatti, più che le somiglianze l’antropologia doveva spiegare le differenze. Egli è consapevole del fatto che l’antropologia, in seguito agli sviluppi della ricerca sul campo, procede a un progressivo avvicinamento ai “significati indigeni”. Più questo avvicinamento prosegue, meno sembrano possibili le generalizzazioni. Evans- Pritchard allora propone l’esercizio di un metodo comparativo su scala limitata, che prenda in conto società di un solo tipo (cacciatori, nomadi etc.) o tematiche circoscritte. In questa prospettiva si intravede un cambiamento importante della dimensione comparativa: essa non è più la condizione di un metodo per la formulazione di leggi generali, ma è uno strumento di migliore comprensione della specificità sociale e culturale. La pratica di un metodo comparativo circoscritto, “limitato”, era per la verità già in atto presso quei ricercatori particolarmente sensibili a una utilizzazione “critica” degli strumenti metodologici dell’antropologia. Tra questi vi è Siegfried F. Nadel , che in un saggio sulla stregoneria in quattro società africane, non si proponeva di formulare una teoria generale della credenza nella stregoneria in queste quattro società, ma mirava piuttosto a spiegare le differenze esistenti in questa credenza presso i popoli presi in considerazione. CLASSIFICAZIONI POLITETICHE E RETI DI CONNESSIONE Negli ultimi trent’anni il metodo comparativo dell’antropologia è stato oggetto di attacchi sempre più decisi. Rodney Needham partiva dal fatto che non vi sono ovunque classi di fenomeni omogenei a cui poter attribuire la qualifica di “fenomeni di parentela”. Il suo rifiuto derivava dal fatto che ciò che noi chiamiamo parentela non trova corrispondenze nelle società diverse dalla nostra. Needham rilevava che in antropologia non esiste un accordo su che cosa sia una società a discendenza patrilineare, questo perché non possiamo accomunare tra loro società diverse per il semplice fatto che esse sono patrilineari. Esempio: prendiamo il caso di tre società: A, B e C, ciascuna costituita da tre tratti variabili compresi tra p e v: A p q r B r s t C t u v Poniamo adesso che r e t rappresentino ognuno un modo di trasmettere due tipi di diritti differenti secondo lo stesso modello, per esempio dal padre al figlio. Vi sarà allora una somiglianza in r tra A e B, e una somiglianza in t tra B e C, ma non vi sarà alcuna somiglianza tra A e C, tuttavia, gli antropologi tendono a classificare A,B e C nella stessa classe delle società. Tali evidenze dimostrano che le comparazioni degli antropologi tendono a produrre tipologie solo apparentemente fondate su classificazioni di tipo monotetico. Leach aveva messo in guardia contro questo tipo di comparazioni ( “la raccolta di farfalle”) perché, di fatto, a una classificazione 15 monotetica se ne possono aggiungere quante se ne vuole, con l’effetto di distinguere sempre nuove società, quasi all’infinito. Needham sceglie allora di considerare ciò che i naturalisti chiamano classificazioni politetiche, ossia classi composte da individui che non condividono tutti uno o più tratti specifici, ma che ne condividono alcuni variamente distribuiti. È il caso dell’esempio prima citato, delle tre società A,B e C ciascuna comprendente tre stratti tra p e v. Tra queste società non c’è coincidenza ma, potremmo dire, una specie di continuità progressiva (una somiglianza seriale). Queste classificazioni politetiche ricordano le “somiglianze di famiglia” di Ludwig Wittgenstein. Nelle Ricerche filosofiche egli aveva invitato a non pensare ma a osservare, alludendo al fatto che piuttosto che forzare i dati dell’esperienza entro categorie precostituite, meglio era legare tali dati mediante connessioni, per quanto fluide tali connessioni potessero essere. Le somiglianze si famiglia sono proprio quelle che si possono rintracciare negli individui appartenenti ad una stessa famiglia: colore dei capelli, statura, corporatura, colore degli occhi ecc. Nessun individuo possiede le stesse identiche caratteristiche di un altro, anzi, certi individui non ne possiedono alcuna in comune, ma “in mezzo” a questi vi sono individui che ne possiedono alcune, le quali fanno si che anche individui tra loro del tutto diversi risultino evidentemente appartenenti alla stessa famiglia. Needham si dimostra scettico nei confronti della comparazione, ma si rivela fiducioso nel fatto che il riconoscimento dei limite delle nostre capacità di categorizzazione e di classificazione sia in grado di aprirci la via al riconoscimento degli stessi “limiti politetici” che caratterizzano il nostro modo di cogliere la realtà. Sembra insomma che noi possiamo capire meglio gli altri nel momento in cui siamo consapevoli dei nostri limiti. Nel nostro paese Francesco Remotti, Carmela Pignato e Leonardo Piasere hanno affrontato le problematiche della comparazione dell’antropologia. Secondo Remotti gli antropologi avrebbero sempre messo in pratica uno sguardo wittgensteiniano. Per Remotti vale difatti l’idea di poter stabilire dei “fasci di relazioni” tra fenomeni, reti di connessioni, che l’antropologia va tessendo nei e tra i più svariati contesti. I “fasci di relazioni” che andiamo costruendo nelle nostre descrizioni delle culture sono “sempre di numero decisamente inferiore a quelli potenzialmente ricostruibili”. Ciò ci rende consapevoli che le reti di connessioni non esauriscono mai una totalità, per quanto piccola e omogenea essa possa apparirci. Il fatto di poter attraversare le culture stabilendo fasci di relazioni e reti di connessioni non di per sé ad ovviare al problema della traduzione dei significati indigeni nel linguaggio dell’antropologo. Rimane quindi il problema che nasce quando un significato è tradotto da un linguaggio a un altro, inglobato in un altro sistema di significato. COMPARAZIONE COME TRADUZIONE Goodenough si interroga sul senso della comparazione ed emerge il problema della definizione degli oggetti che si intende studiare e della traduzione dei concetti della loro descrizione. Goodenough procede alla ricerca di un metodo comparativo che renda possibile formulare una definizione di matrimonio in termini non etnocentrici. Goodenough procede nella sua comparazione alla ricerca di una definizione universalmente valida di matrimonio. Egli si domanda su “come tradurre”, nello specifico su come tradurre con la parola “matrimonio”. Le istituzioni “matrimoniali sono analizzate nel loro contesto significante, ma non dal “punto di vista del nativo”, un punto di vista che può essere colto adottando una prospettiva di tipo “emico”. La prospettiva emica, però, più che facilitare forme di generalizzazione come quelle attuate da Goodenough, consente di descrivere meglio i contesti particolari, in quanto la presa in considerazione del punto di vista del nativo consente un ulteriore 16 avvicinamento ai “significanti indigeni”. Un esempio di questo tipo comparazione ci è offerto da Clifford Geertz sull’idea di “persona” a Java, a Bali e in Marocco. Geertz non tenta di trovare una definizione universale di persona ed è azzardato ritenere che l’individuo sia pensato ovunque sul modello della persona della tradizione occidentale. Geertz dunque, preferisce interrogarsi piuttosto su cosa si trovi nell’idea che i javanesi, i balinesi e i marocchini hanno di sé, o di cosa sia un essere umano, in contrapposizione a una roccia, un animale, un temporale o un dio. Nella analisi di Geertz la dimensione descrittiva è ciò in cui si risolve la comparazione stessa. L’obiettivo dell’antropologia è quello di giungere a una descrizione densa di ciò che l’antropologo coglie sul campo, non una definizione generalmente valida dell’idea di persona. Deve consistere nel continuo rinvio tra quelli che Geertz chiama concetti vicini e “concetti lontani” dell’esperienza. È solo grazie a questo rinvio dall’uno all’altro che diventa possibile riconoscere la differenza piuttosto che la somiglianza. Geertz non ci propone una definizione generalmente valida di che cosa sia la “persona” o il sé in tutte le culture. Il suo punto di approdo non è, al contrario del caso di Goodenough, una regola universale. Geertz non ci garantisce che grazie alla comparazioni fondate sul confronto tra concetti vicini all’esperienza del nativo e concetti vicini all’esperienza dell’antropologo giungeremo a tradurre completamente le culture, ma questo modo di accostarsi al problema facilita il compito perlomeno di “cogliere le differenze” senza cadere troppo nei tranelli dell’etnocentrismo. - L’ETNOGRAFIA E LA POLITICA DEL CAMPO (saggio di Jean-Pierre Olivier de Sardan) L’inchiesta di tipo antropologico vuole avvicinarsi il più possibile alle situazioni naturali dei soggetti, come ad esempio la vita quotidiana, le conversazioni ecc., in una situazione di interazione prolungata tra il ricercatore stesso e le popolazioni locali, al fine di produrre delle conoscenze in situ. L’inchiesta sul campo non si può imparare in un manuale. Il fatto è che la ricerca sul campo innanzitutto è una questione di “abilità” e procede a colpi di intuizioni, improvvisazioni. Chi apprende, lo fa innanzitutto facendo. Bisogna aver imparato a padroneggiare i codici locali di cortesia per sentirsi infine a proprio agio nelle chiacchierate e conversazioni improvvisate, che sono spesso le più ricche di informazioni. Bisogna aver dovuto spesso improvvisare con goffaggine per diventare poco alla volta capaci di improvvisare con abilità e bisogna, sul campo, aver perduto tanto tempo, per capire che questi tempi morti erano tempi necessari. Molto schematicamente la ricerca sul campo si basa sulla combinazione di quattro grandi forme di produzione di dati: 1- L’osservazione partecipante (l’inserimento prolungato del ricercatore nell’ambiente di vita delle persone oggetto della ricerca 2- Il colloquio (le interazioni discorsive suscitate dal ricercatore) 3- Le procedure di censimento (il ricorso a dei dispositivi costruiti per l’indagine sistematica) 4- La raccolta di fonti scritte 1. L’OSSERVAZIONE DEL PARTECIPANTE Attraverso un soggiorno prolungato presso i soggetti di una ricerca (e attraverso l’apprendimento della lingua locale), l’antropologo si scontra con la realtà che intende studiare. La può così studiare il più vicino possibile a quelli che la vivono e in 17 guida al questionario rischia di limitare il ricercatore a una lista di domande standard e programmate, a discapito dell’improvvisazione che ogni vera discussione richiede. Una distinzione tra guida al colloqui e un canovaccio di colloquio è che la guida organizza in anticipo le domande che uno pone, mentre il canovaccio diventa una sorta di promemoria personale che permette di non dimenticare gli argomenti importanti. c. La ricorsività del colloquio Un colloquio di ricerca deve anche permettere di formulare nuove domande, aprire nuove piste. Ammettere i giri di parole e le digressioni dell’interlocutore, come pure le sue esitazioni o le sue contraddizioni, non è solo una questione di “mettere a proprio agio”, ma in realtà quando l’interlocutore è fuori tema, o quando le sue risposte sono confuse, il ricercatore tenderà ancora più l’orecchio, ascolterà i vari aneddoti e li solleciterà, aprendo nuove piste e nuove domande. Si potrebbe parlare di ricorsività del colloquio sul campo, in quanto si tratta di basarsi su ciò che è stato detto per produrre nuove domande. Ciò che permetterà di riformulare un problema, di riorganizzare un insieme di fatti, è il cuore stesso del saper fare il ricercatore sul campo. d. Il colloquio come “negoziazione invisibile” L’intervistato non ha gli stessi interessi del ricercatore, né le stesse rappresentazioni di quel che è il colloquio. L’informatore è lungi dall’essere una pedina mossa dal ricercatore. Non rinuncia a utilizzare strategie attive miranti a trarre profitto dal colloquio, come ad esempio aumento di prestigio, retribuzione economica ecc., o strategie di difesa miranti a ridurre al minimo i rischi della parola, dando poche informazioni o informazioni errate. Il problema del ricercatore è che deve allo stesso tempo mantenere il controllo del colloquio e lasciare l’interlocutore esprimersi come gli pare e a modo suo. e. il realismo simbolico nel colloquio Il ricercatore è in qualche modo professionalmente tenuto ad accordare credito ai discorsi del suo interlocutore (per quanto estranei e sospetti possano apparire). È la condizione d’accesso alla logica e all’universo di senso di coloro che l’antropologo studia, ed è prendendo questo sul serio che può combattere i propri pregiudizi e i propri preconcetti. È quello che Bellah chiama “realismo simbolico”. Dall’altro lato, però, non deve prendere per oro colato tutto ciò che gli viene detto. Come mettere insieme empatica e distanza, rispetto e diffidenza? Durante il colloquio si da credito alle affermazioni sul senso dell’interlocutore: in effetti non si può accedere a questo senso se non prendendo sul serio quello che gli viene detto. Il colloquio è dunque gestito partendo da questo pregiudizio favorevole. Successivamente, la decifrazione critica, perfino sospettosa, verterà sul senso di questo senso e sul rapporto di chi enuncia con l’enunciato, con il referente e con il contesto. f. il colloquio e la durata Il colloquio è l’inizio di una serie di colloqui, di una relazione. Diversi colloqui con lo stesso interlocutore sono un modo per avvicinarsi alla modalità della conversazione. In ciascun nuovo colloquio con lo stesso interlocutore, quest’ultimo riconosce all’intervistatore una maggiore competenza: questo riconoscimento è per il ricercatore una carta vincente. Più si ha la sensazione di avere a che fare con un estraneo incompetente, più gli si possono raccontare storie 20 3. I PROCEDIMENTI DI CENSIMENTO Sia nel quadro dell’osservazione, che in quello del colloquio si fa talvolta appello a delle particolari operazioni di produzione di dati chiamati qui procedimenti di censimento, ma perché si tratta di produrre sistematicamente dei dati intensivi in numero finito: conteggi, inventari, nomenclature, piani, liste, genealogie ecc. 4. LE FONTI SCRITTE Non devono essere dimenticate o sminuite, per quanto siano più classiche e non specifiche della ricerca sula campo. Alcune di queste fonti sono raccolte in parte, prima della ricerca sul campo, e in questo caso premettono una “familiarizzazione” e l’elaborazione di ipotesi esplorative e di domande particolari. Altre sono inscindibili dalla ricerca sul campo e sono ad esse integrate, come ad esempio quaderni di scuola, lettere, diari personali, volantini ecc. Altre, invece, possono costituire corpus autonomi, distinti e complementari a quelli prodotti dalla ricerca sul campo (archivi, stampa). 5. LA POLITICA DEL CAMPO È una sorta di strategia scientifica del ricercatore. Le ricerche non sono tutte uguali, non tutti i dati sono validi in modo uguale, non tutti gli enunciati hanno la stessa veridicità e la plausibilità delle asserzioni interpretative varia anche in funzione della qualità dei riferimenti su cui si fondano. È proprio per questo che è necessaria una politica del campo. Essa è caratterizzata da: a. La triangolazione È il principio di base di ogni inchiesta, che sia poliziesca o etnografica: le informazioni devono avere dei riscontri! Ogni informazione proveniente da un’unica persona è da verificare. Con la triangolazione semplice il ricercatore fa un confronto incrociato tra gli informatori, per non essere prigioniero di un’unica fonte. Con la triangolazione complessa, invece, si tenta di analizzare la scelta di tali molteplici informatori. La triangolazione complessa vuole incrociare i punti di vista ,non si tratta più di “confermare” o di “verificare” delle informazioni per arrivare a una “informazione veritiera”, quanto a rendere l’eterogeneità delle argomentazioni un oggetto di studio, di basarsi sulle variazioni piuttosto che volerle cancellare, una strategia di studio sulla ricerca delle differenze significative. Si giunge così al concetto di “gruppo strategico”. Con ciò si può intendere un’aggregazione di individui che hanno globalmente uno stesso atteggiamento, determinato in larga misura da un rapporto sociale simile rispetto a questo problema. I gruppi strategici variano a seconda dei problemi considerati. Talvolta rinvieranno a delle caratteristiche statutarie o socio-professionali (sesso, casta, mestiere ecc.), talvolta a dei percorsi biografici e a delle appartenenze a fazioni. b. L’iterazione La ricerca sul campo procede per iterazione, cioè per andate e ritorni, va e vieni. Il ricercatore va da X, che gli dice di andare da Y dall’altra parte del villaggio o della città, poi ritorna da Z che abita vicino a X. Il fatto è che i suoi interlocutori non sono scelti in anticipo con un metodo di selezione, ma prendono posto secondo un continuo compromesso tra i piani del ricercatore, le disponibilità dei suoi interlocutori, le 21 occasioni che si presentano ecc. Da ogni nuovo colloquio nascono nuove piste, nuovi interlocutori possibili. La ricerca sul campo si adegua quindi ai diversi circuiti sociali locali, alla loro complessità, ai loro intrecci, alle loro distorsioni. Non ha niente di lineare. L’iterazione però, è anche in un senso più astratto, un va e vieni tra problematica e dati, interpretazione e risultati. Ogni colloquio, ogni osservazione, ogni interazione sono altrettante occasioni di trovare nuove piste di ricerca , di modificare ipotesi, di elaborarne nuove. c. La saturazione Quand’è che si può mettere fine alla fase del campo? Non c’è un vero e proprio segnale di fine, ma ci si accorge che decresce la produttività delle osservazioni e dei colloqui e si ottengono sempre meno informazioni nuove. d. Il gruppo sociale testimone Risulta utile, in alcuni casi necessario, darsi un luogo intensivo di ricerca, che possa in seguito servire da base di riferimento per delle ricerche più estensive. Questo “gruppo testimone” varia evidentemente secondo i temi della ricerca e può essere di dimensioni diverse, benchè sempre ridotte: una famiglia, un villaggio, una banda di giovani, un quartiere ecc. Però, la trappola in cui molti sono caduti è ovviamente quella di rinchiudersi in questo “gruppo testimone” e limitarsi a produrre monografie di microcomunità. Il lavoro anteriore presso il gruppo del testimone, però, permette di rendere redditizio un lavoro estensivo, fornendo un calibro di riferimento. e. Gli informatori privilegiati L’informatore privilegiato può essere considerato un caso estremo di gruppo sociale testimone, ristretto a un solo individuo. Molto spesso chi fa ricordo ricorso a un informatore privilegiato considera un solo individuo, considerato esperto, il depositario di un’intera cultura. Si combina, spesso, con una strategia di ricerca pigra. Il ricorso preferenziale a questo o a quell’interlocutore può e deve combinarsi con il principio di triangolazione. Bisogna distinguere vari tipi di informatori privilegiati: alcuni sono dei generalisti, che danno comodamente accesso alle rappresentazioni usuali, altri invece sono tramiti, che aprono la strada verso altri attori-chiave o scene culturali di difficile accesso. Altri invece sono gli esperti. Cercare un mediatore, un tramite su cui appoggiarsi è certamente una necessità all’inizio di una ricerca, ma non deve essere l’unico testimone su cui fare affidamento. 6. LA GESTIONE DEI “FATTORI DI DISTURBO” La ricerca sul campo ha evidentemente i suoi fattori di disturbo, l’importante è cercare di padroneggiarli e controllarli. o 1° problema : l’inclinaggio L’inserimento del ricercatore in una società non si fa mai con la società nel suo insieme, ma attraverso dei gruppi particolari. Si inserisce in certe reti e non in altre. Il ricercatore può sempre essere assimilato a una “fazione” locale, il che comporta due inconvenienti : 22 Le metafore sono analizzate come meccanismi in grado di fornire schemi concettuali attraverso i quali comprendiamo il mondo. George Lakoff e Mark Johnson ipotizzano che 1) il nostro linguaggio quotidiano è ben più ricco di metafore di quanto potremmo credere, 2) che le metafore sono mezzi per configurare un tipo di esperienza nei termini di un’altra. Concetti metaforici consentono di creare connessioni tra ambiti non necessariamente simili. Es. la metafora “le idee sono cibo” crea delle somiglianze fra due ambiti (pensare e mangiare) che altrimenti non sarebbero affatto connessi tra loro. o Linguaggio, lingue e varietà linguistiche È importante distinguere fra “linguaggio” e una “lingua”. Il “linguaggio” fa riferimento alla facoltà umana di comunicare facendo uso di particolari tipi di segni (per esempio, suoni, gesti ec..), mentre la “lingua” denota un particolare prodotto sociostorico, identificabile mediante un’etichetta come “inglese”, “polacco”, “cinese” ecc. Gran parte della ricerca condotta in sociolinguistica ha messo in luce come l’identificazione di una lingua, intesa come sistema linguistico usato da un gruppo di persone, possa essere alquanto problematica. Ogniqualvolta sottoponiamo una lingua a una ricerca sistematica, scopriamo che essa mette in luce una notevole variazione fra i diversi parlanti e situazioni; in altre parole, non possiamo esser certi di quanto stiamo descrivendo riferendoci a un piccolo numero di parlanti o persino a un gruppo più ampio di persone, che abbia effettivamente una distribuzione sociale più ampia di quel gruppo. Non solo vi sono luoghi nei quali è possibile identificare moltissime lingue diverse in un territorio relativamente piccolo (es. Malesia), ma persino in vasti ambienti urbani potrebbero esservi forme linguistiche alquanto diverse, ciò significa che nelle indagini abbiamo bisogno di essere consapevoli delle variazioni. I sociolinguisti utilizzano il termine varietà, ossia l’insieme di forme comunicative limitato a un particolare gruppo. o Comunità di parlanti Nella scienza, quella dell’omogeneità è un’idealizzazione molto comune: alla base della ricerca vi è un’idea di ordine e uniformità, e la variazione è di solito messa da parte, considerata come “eccezione alla regola”. Chomsky, che sostiene questa teoria, ritiene perciò che ci dev’essere una proprietà della mente umana che consente a “una persona di acquisire una lingua a partire dalle condizioni di un’esperienza pura e uniforme. Il tipo di idealizzato di esperienza menzionato da Chomsky viene studiato analizzando le intuizioni di un parlante nativo, che giudica se una determinata dorma linguistica o frase sia o meno accettabile, se “suona corretta”. I giudizi di accettabilità perciò forniscono la base per le generalizzazioni compiute dai linguisti riguardo a particolari grammatiche. Queste generalizzazioni sono utilizzate per postulare dei principi che dovrebbero essere applicabili a ogni lingua (quella che Chomsky chiama “Grammatica Universale”). Hymes ha messo in luce come la stessa definizione di accettabilità sia problematica, dato che conoscere una lingua non significa solo conoscere ciò che è grammaticalmente accettabile, ma vuol dire anche conoscere ciò che è socialmente e culturalmente accettabile. Chomsky afferma che una comunità di parlanti all’interno della quale la gente faccia uso di un miscuglio di due lingue, non sarebbe abbastanza pura per poter fungere da oggetto di studio ideale della linguistica teorica, ma un’affermazione simile potrebbe voler dire che la linguistica escluderà dal proprio studio la maggior parte, se non addirittura tutte le comunità reali del mondo. Infatti, tutte le comunità dei parlanti, evidenziano un qualche grado di differenziazione linguistica, sociologica e culturale. I sociolinguisti e gli antropologi del linguaggio credono che esista sempre un certo grado di “mescolanza”. La variazione è 25 la norma e quindi dobbiamo andare in cerca di modi per documentarla, se vogliamo comprendere la lingua come parte della condizione umana. Sia gli antropologi del linguaggio che i sociolinguisti sono interessati alla definizione della comunità di parlanti, intesa come un gruppo reale di persone che condividono qualcosa del modo in cui utilizzano la lingua. o Comunità di parlanti multilingui - Catalano: lo studio condotto a Kathrin Woolard sull’uso e il prestigio del catalano a Barcellona ci presenta un caso in cui è possibile osservare in che modo una lingua di una minoranza possa sopravvivere come simbolo di identità etnica. Nonostante la graduale imposizione della lingua di Stato, il castigliano, come lingua dell’istruzione scolastica, il catalano è sopravvissuto in Catalogna come prima lingua di buona parte della popolazione. Secondo Woolard ciò è dovuto al fatto che la lingua minoritaria, ossia il catalano, è la lingua della borghesia dominante sul piano economico, al contrario il castigliano è la lingua dei lavoratori provenienti dall’Andalusia e da altre zone meno ricche del Paese. La lingua trae la propria forza da chi la parla, piuttosto che dal luogo in cui è parlata. - Messicano: Jane e Kenneth Hill si occupano dello studio del messicano, discendente moderno della lingua degli aztechi e di molte altre popolazioni del Messico e dell’America centrale. Lo spagnolo e il messicano sono intrecciati l’uno all’altro. Sino a tempi recenti i parlanti del messicano sono riusciti a controllare la forza dello spagnolo, ma quest’ultimo sta prendendo il posto del messicano, che in molte città non è più in uso e sta diventando una lingua segreta. - LA CONOSCENZA DEL CORPO (saggio di Micheal Jackson) Micheal Jackson si pone contro le tendenze a spiegare il comportamento umano in termini di modelli linguistici, schemi di organizzazione sociale, istituzioni o ruoli, strutture della mente ecc. e si è sforzato di avanzare un approccio dotato di una base solida, che parte dalle interazioni e dai movimenti delle presone in un ambiente organizzato. Egli sostiene che l’analisi antropologica debba essere consonante con i punti di vista dei nativi che sono spesso radicati in pratiche (fatti) piuttosto che spiegati in idee astratte (detti). Esempio: Quando Jackson viveva in un villaggio kuranko si accendeva il fuoco da solo per bollire l’acqua da bere o per lavarsi. Questo semplice gesto, scaturiva risate e scherzi. Un giorno osservò il modo in cui le donne kuranko accendevano il fuoco e se ne prendevano cura, e cominciò a imitare la loro tecnica. Attraverso l’imitazione dell’azione si rese conto dell’intelligenza della tecnica da loro usata, che otteneva il massimo da poca legna, produceva esattamente la quantità di calore richiesta per cucinare, e permetteva un controllo istantaneo della fiamma. Egli afferma che molte delle sue intuizioni di maggior valore sulla vita sociale kuranko sono arrivate da una simile imitazione ed esercizio di abilità pratiche: zappare in campagna, ballare, intrecciare una stuoia ecc. Mentre parole e concetti distinguono e dividono, la corporeità unisce e forma la base per una comprensione empatica. Potrebbe essere questa la ragione per la quale il corpo così spesso prende il posto del discorso nei rituali. 26 (“schemi della pratica” da pag.156 a 168, leggere, ma non mi sembra importante) COSMO-LOGIE/SOCIO-LOGIE Cosmologie e Sociologie, accostate, portano alla luce la duplice natura dell’antropologia come disciplina dedicata alla “cultura” e alla “società”: da questa duplicità derivano le due denominazioni più diffuse della disciplina, l’ “Antropologia culturale” e l’ “Antropologia sociale”. Vediamo da un lato le visioni del mondo e le riflessioni su di esso, cioè le cosmologie, mentre dall’altro lato le forme d’istituzione, organizzazione e legittimazione delle relazioni e delle gerarchie sociali, cioè le sociologie. - Il primo brano, intitolato “Cosmologie”, propone un percorso a vasto raggio sul modo in cui l’antropologia ha trattato questo tema. La riflessione umana sul posto che occupiamo nell’universo. Parlare di cosmologie al plurale significa in primo luogo percepire le differenze, in secondo luogo accoglierle, in terzo luogo valutarle in termini paritari o disporle in una gerarchia di valore. È proprio il terzo punto, la valutazione accompagnata dalla gerarchizzazione, a costituire un elemento critico. Questo ci porta al tema dell’evoluzionismo sociale. La convinzione che esistano culture/società superiori e inferiori, in quanto poste su gradini differenti di una scala evolutiva, è stata rigettata da tempo dall’antropologia culturale, ma rimane parte del senso comune, come idea data per scontata e autoevidente. - Il secondo brano, di Maurice Godelier, affronta il tema dell’organizzazione sociale a partire dalla prospettiva dei sistemi di scambio tra gruppi e popolazioni. Da Malinowski a Boas, a Mauss, i sistemi di scambio sono stati analizzati per mettere in rilievo i principi costitutivi di un sistema di relazioni sociali e illustrarne le peculiarità. Godelier aggiorna questo classico tema alla luce degli studi più recenti, ed emerge che non è più la stretta identificazione tra tipi di società e specifici sistemi di scambio, ma una riflessione sui modi in cui i diversi sistemi di scambio si articolano e combinano entro ogni società. - Il terzo brano, realizzato da Lila Abu-Lughod, rappresenta la vocazione monografica dell’antropologia, mostra al lettore il caso dei beduini del deserto libico-egiziano per mettere in luce una dialettica di identità e differenze, apparenze e contrasti, eguaglianze e diseguaglianze. Lo fa in primo luogo affrontando la nozione di identità collettiva, per chiarire la sua duplice natura: in primo luogo l’identità si presenta come una nozione chiuda all’interno dei confini di un gruppo, il “noi”, ma questo noi in realtà è necessariamente costruito in rapporto alla diversità dell’altro. 1. COSMOLOGIE (saggio di Michael Herzfeld) La cosmologia si riferisce al posto che occupiamo nell’universo. Essa pertanto ha a che fare in modo cruciale con la definizione dei confini tra natura e cultura. Quando gli antropologi si interessavano di più alle forme di pensiero “semplici” o “primitive”, essa implicava qualsiasi cosa che appartenesse al dominio della religione e alla categoria di “superstizione”. Tecnicamente, però, il termine abbraccia sia la religione, che la scienza, rivelandosi perciò molto più utile agli obiettivi di un’antropologia esaustiva, come studio di tutte le società umane, più 27 gli aztechi, ma costruendo un elaborato sistema di monarchia , per il ripristino e il mantenimento dell’ordine. Il concetto di pachacuti era associato non soltanto al cataclisma che aveva prodotto la rottura tra i periodi, ma anche al re divino (inca), che da solo era capace di ripristinare l’ordine. Questo ruolo della monarchia inca come dispositivo per sfidare la storia attraverso la sua capacità di introdurre l’ordine, sostiene Ossio, diventò successivamente un importante quadro cognitivo per l’incorporazione del cristianesimo tra le popolazioni indigene. Considerato anche come un re divino, Cristo, fu assimilato alla figura dell’inca. Di conseguenza, l’attrazione che il cristianesimo ha esercitato sulle popolazioni indigene è stata per lo più dovuta alla sua associazione con l’idea di ordine. La mortalità è il fulcro intorno al quale spesso ruota la cosmologia. Frazer osservò che la monarchia divina era impostata in modo che la figura del monarca simbolico morisse, ma che fosse sostituita da un simulacro. Essendo la morte l’ultima distanza, il controllo sull’accesso alla morte può conferire un enorme potere simbolico. (Dovremmo osservare, inoltre, che i mausolei edificati in memoria di leader del passato hanno assunto un ruolo di centralità nel consolidamento simbolico del potere totalitario nel ventesimo secolo.) o Rituale e ordine cosmologico I rituali possono essere ritenuti come un modo per opporsi alla degenerazione tramite la routine. La ripetizione e la ridondanza caratterizzano la maggior parte delle forme di quello che potremmo ritenere un rituale. Sebbene alcuni rituali siano finalizzati al cambiamento di specifiche situazioni (es. rituali di guarigione), essi agiscono allo scopo di ripristinare l’ordine. Il rituale è un particolare momento con una fare iniziale, una centrale e una finale. Esso riferisce, inoltre, al tempo: al suo passaggio, al suo significato e alla sua inesorabile associazione con la decadenza e la morte, oltre che con le immagini di rinascita, di reincarnazione o rinnovamento. In un certo senso, tutti i rituali si riferiscono a un passaggio. - DONARE, SCAMBIARE, CUSTODIRE: COME DI CREANO LE SOCIETA’ (saggio di Maurice Godelier Maurice Godelier esplora le distinzioni esistenti tra le cose che si vendono, quelle che si donano e quelle che si custodiscono per poi trasmetterle. Per fare ciò si fa riferimento a il “Saggio sul dono” di Marcel Mauss, pubblicato nel 1921. Questo saggio è stato scritto subito dopo la prima guerra mondiale, e Mauss aveva perso la metà degli amici. Socialista, noto professore universitario, Mauss scriveva tutte le settimane sul giornale popolare L’Humanité. Proprio nel 1921 redige un programma “socialdemocratico” che prevede che lo Stato apporti a coloro che lavorano un aiuto materiale e una protezione sociale che il salario non permette. Ma chiede anche a ricchi e potenti di mostrare la stessa generosità “interessata” praticata dai nobili Kwakiutl e che secondo Mauss era stata praticata in Europa dai capi celtici e germanici. Che cos’è un dono per Mauss? È un atto che instaura un doppio rapporto tra colui che dona e colui che accetta, tra donatore e donatario. Donare significa condividere volontariamente ciò che si ha o ciò che si è. Un dono forzato non è un dono. Il dono volontario avvicina colui che dona a colui che riceve, ma allo stesso 30 tempo, il dono, crea un debito, degli obblighi. Avvicina, ma al contempo, allontana le due parti. Instaura una gerarchia tra colui che dona e colui che riceve. Il dono fa parte di una serie di rapporti che si allacciano tra gli individui e i gruppi per via della concatenazione di tre obblighi: quello di donare, quello di accettare il dono e quello di ricambiare il dono. Come spieghiamo quest’ultimo fenomeno? Quello di ricambiare il dono? I maori credevano nell’esistenza di uno spirito (hau) presente nella cosa che si dona, spirito che spingerà colui che ha ricevuto il dono a restituire l’oggetto donato, o uno equivalente. Mauss però aveva avanzato delle ragioni sociologiche: si è obbligati a donare perché donare obbliga, e si è obbligati ad accettare perché rifiutare significherebbe entrare in conflitto con colui che offre. Ma quando si esamina il terzo obbligo, Mauss propone un altro tipo di spiegazione e mette l’accento su credenze mistico-religiose, come l’azione di uno “spirito”. Sembrerebbe che gli oggetti siano abitati da ben due spiriti, dallo spirito di colui che dona (1) e lo spirito proprio dell’oggetto (2), come se l’oggetto avesse un’anima. Mauss però non si è occupato di tutte le forme di dono, non si è occupato ad esempio di quelle che avvengono tra amici, ma ha privilegiato quelle che ha definito “prestazioni totali”, che impegnano gruppi o persone che rappresentano gruppi. Egli considera queste prestazioni “totali”, termine che per lui indica due cose diverse: (1) il fatto che il dono è un atto a più dimensioni (economica, politica, religiosa, artistica), e quindi lega in se un gran numero di aspetti della società, e (2) il fatto che i doni provocano continuamente controdoni, mobilitano le ricchezze e l’energia di molti gruppi e individui, mettendo in movimento realmente tutta la società. Mauss sottolineava inoltre che esistono due tipi di prestazione totale, un tipo non agonistico (1) e un tipo agonistico (2). 1- I controdoni non annullano i debiti creati dai doni, creano altri debiti che bilanciano e non annullano i primi. Questo genere di doni-controdoni equivalenti finisce col ridistribuire, in modo relativamente egalitario, le risorse di cui i gruppi che compongono la società dispongono. Secondo questa logica, una donna vale una donna, la morte di un guerriero viene compensata dalla morte di un altro guerriero. Non serve a nulla accumulare ricchezze per avere delle donne o delle donne per accumulare ricchezze. 2- Il potlatch (più generalmente i doni e controdoni agonistici), segue una logica completamente diversa. Esso è una vera e propria guerra di ricchezze, condotta per conquistare o conservare titoli, status, potere, e in cui lo spirito di rivalità ha la meglio su quello di generosità. Il potlatch è quindi una pratica di potere, che implica l’accumulo di grandi quantità di oggetti preziosi e di beni di sussistenza per ridistribuirli in occasioni di festini e di competizioni cerimoniali, o distruggerli con ostentazione. Nel potlatch un debito può essere annullato con un controdono, mentre ciò non avviene nei doni-controdoni equivalenti. Un debito viene annullato quando si dona più di quanto si è ricevuto, e l’ideale sarebbe che un clan doni così tanto che nessuno possa donargli di più, rimanendo così senza possibili concorrenti. Mauss però su una cosa non si è interrogato: in una nota a piè di pagina dice che presso i kwakiutl gli oggetti in rame più belli e i titoli più importanti rimanevano fissi all’interno dei clan e delle tribù. Questo punto cambia tutta la prospettiva sugli oggetti donabili, poiché introduce la categoria delle cose che non si devono né vendere né donare, bensì custodire, come ad esempio gli oggetti sacri. Essi si presentano spesso come doni, doni che dei o spiriti avrebbero fatto agli antenati degli uomini, e che i loro discendenti devono custodire gelosamente e non devono né vendere né donare. 31 Infine, un oggetto sacro è un oggetto materiale che rappresenta il non rappresentabile, che rimanda gli uomini all’origine delle cose ed è un testimone della legittimità dell’ordine cosmico e sociale, succeduto al tempo e agli eventi delle origini. Un oggetto sacro non è necessariamente bello. Nei racconti relativi alle circostanze nelle quali un dato oggetto è stato donato agli antenati, gli antenati paiono al tempo stesso più potenti e più deboli dei loro discendenti. Più potenti perché possedevano la capacità di comunicare continuamente in modo diretto con gli dei e di ricevere doni dalle loro mani, ma anche più deboli, perché i primi uomini non sapevano fare nulla di ciò che gli uomini d’oggi sanno fare. Maurice Godelier conclude il saggio affermando che per creare una società, sono necessarie tre basi e tre principi. Bisogna donare certe cose, venderne o scambiarne altre e custodirne sempre alcune. Vendere e comprare ormai sono le attività dominante. Vendere significa separare completamente le cose dalle persone. Donare significa mantenere sempre qualcosa della persona che dona nella cosa donata. Custodire significa non separare le cose dalle persone perché nell’unione si afferma un’identità storica che bisogna trasmettere. Gli oggetti si presentano in tre diversi contesti, come cose alienabili e alienate (merci), come cose inalienabili (doni) o come cose inalienabili e inalienate (gli oggetti sacri o i testi giuridici). - L’IDENTITA’ NELLA RELAZIONE (saggio di Lila Abu-Lughod) Gli Awlad ‘Ali abitano la fascia costiera lungo il bordo settentrionale del Deserto libico e, nonostante la sua vicinanza al mare, quest’ultimo aveva poca parte nella vita dei beduini che riservavano il loro apprezzamento alla bellezza naturale del deserto. Eppure, nonostante il loro apprezzamento dei doni naturali del deserto, i beduini pensano al territorio in cui vivono principalmente nei termini delle persone e dei gruppi che lo abitano. Il loro è un mondo intensamente sociale. Lila Abu-Lughod notò che alcuni beduini indossavano lucenti orologi da polso e scarpe di gomma, ascoltavano radio e viaggiavano sui pickup Toyota, ma non consideravano queste cose come segni allarmanti del fatto che stessero perdendo la loro identità, che non fossero più beduini, perché loro si definiscono tali non tanto sulla base di un modo di vita, ma piuttosto sulla base di alcuni principi-chiave di organizzazione sociale: la genealogia e un ordine tribale fondato sulla vicinanza degli agnati e legato a un codice morale, quello dell’onore e della modestia, Tali principi sono riuniti nella nozione che gli Awlad ‘Ali hanno di “sangue”. o “ASL”: il sangue delle origini Il sangue lega le persone al passato e allo stesso tempo le unisce nel presente. Il sangue è fondamentale per la definizione dell’identità culturale. La nobiltà di origine o di discendenza (asl) è un motivo di grande preoccupazione per gli Awlad ‘Ali. Il senso di identità collettiva dei beduini si definisce per opposizione agli egiziani o ai contadini, raggruppati insieme come “la gente della valle del Nilo”. Dal punto di vista dei beduini le differenze vanno al di là della lingua e del vestiario, si estendono fino ai fondamenti dell’origine, definiti dalla genealogia, dall’organizzazione sociale, dai modi di interazione interpersonale e da una sorta di natura morale. Il sangue, nel senso della genealogia, è la base dell’identità degli Awlad ‘Ali. Coloro che possono collegarsi genealogicamente a una qualsiasi delle tribù del Deserto Occidentale sono “arab” (arabi), non egiziani. Gli Awlad ‘Ali si riferiscono a se stessi più spesso come “arab” 32 cariche né titoli, sebbene ci sia una leadership informale. Vediamo come però coesista autonomia e gerarchia nella divisione più ambia tra le tribù sa’adi, i veri e propri Awlad ‘Ali, e le tribù loro tradizionali clienti, i mrabtin. Le sa’adi sono conosciute come le tribù libere e la parola, mentre i mrabit, parola che significa “legato”, in passato pagavano un tributo ai loro patroni Awlad ‘Ali e dipendevano da loro. Nonostante l’eguaglianza, vediamo enormi disuguaglianze di status e di autorità all’interno del lignaggio, cosi come all’interno della tribù. Queste equivalgono al grado di autonomia e sono legate, come la distinzione tra sa’adi e mrabti, al controllo delle risorse. (1) Anziani e giovani: gli anziani del lignaggio controllano risorse come ad es. pozzi e la terra, prendono decisioni e combinano i matrimoni per i giovani. I giovani servono gli anziani, ascoltano e intervengono raramente durante le riunioni. (2) Patriarca e le persone che dipendono da lui all’interno della famiglia: il patriarca controlla le risorse, le persone che dipendono da lui sono più deboli e non controllano le risorse autonomamente (3) Fratelli maggiori e minori: i fratelli maggiori hanno la precedenza Chi ha potere ha obblighi e responsabilità di protezione e cura del debole. I membri più deboli dipendono da chi è forte. Questa responsabilità di chi è forte è motivata non solo da un senso di dovere, ma anche da interessamento e affetto. Una spiccata qualità morale di obbligo e affetto reciproco caratterizza queste relazioni di diseguaglianza. I beduini sostengono che queste non sono relazioni di dominazione e subordinazione, bensì di protezione e dipendenza. Naturalmente questo costrutto maschera il controllo arbitrario delle risorse che consente a un gruppo di essere autonomo e costringe l’altro in una posizione di dipendenza. IDENTITA’/APPARTENENZE L’antropologia culturale insiste da tempo nel sottolineare che le identità e le appartenenze, come ad esempio quelle etniche e quelle di genere, sono costruzioni culturali modellate dalla storia e non realtà granitiche, fisse. L’interesse antropologico è motivato dalla preoccupazione che queste costruzioni culturali dal carattere mobile, sfumato ed eterogeneo possano essere ingabbiate in caselle rigide dai confini netti, a supporto di forme di discriminazione, sfruttamento e violenza. Vediamo come in tre saggi presenti nel libro vengano affrontati tre temi fondamentali: quello della razza (1), dell’etnia (2) e del genere (3) (1) Le razze umane non esistono e su questo tema ci si affida agli scritti degli antropologi biologi Olga Rickards e Gianfranco Biondi, i quali spiegano con chiarezza come il concetto di razza sia del tutto privo di fondamento. Biondi e Rickards ricostruiscono le tappe storiche attraverso cui il concetto di razza ha acquisito un’illusoria consistenza nel pensiero scientifico occidentale e il lavoro che è stato necessario per giungere a decostruire tale illusione. Far fuori la razza, purtroppo, non significa far fuori il razzismo, poiché la volontà di 35 classificare e gerarchizzare i gruppi umani persiste attraverso l’uso “razzista” di un insieme di concetti di rimpiazzo come “civiltà”, “etnia”, “nazione”, “cultura”. (2)Anche quando si parla di “etnia” si ha a che fare con un’illusione, tale è infatti quella dei confini tra gruppi e della loro pretesa nettezza. Le identità etniche sono finzioni costruite storicamente. Non si intende che sono false, bensì sono il risultato di un processo di plasmazione culturale che si dipana nel tempo. Durante questo percorso le identità etniche possono mutare, in quanto i loro confini si muovono e le relazioni con gli altri gruppi cambiano. Questo argomento viene trattato da Anne-Christine Taylor, Patrick Williams e Jean-Paul Razon. (3) Il testo di Sherry Ortner e Harriet Whitehead si colloca al seguito di una serie di ricerche prodotte a partire dagli anni Settanta dell’antropologia femminista statunitense volte ad indagare i sistemi di costruzione culturale del genere e della sessualità e a rappresentare la voce delle donne all’interno delle scienze sociali. La discussione antropologica ha evidenziato come la divisione del lavoro sociale in base al sesso, che spesso è organizzata gerarchicamente a favore del polo maschile, non derivi dalle caratteristiche maschili/femminili, ma sia il frutto di specifiche forme di organizzazione socioculturale che istituiscono sulla differenza una forma di gerarchia. - LA RAZZA: UN ERRORE SCIENTIFICO E UN ABOMINIO SOCIALE (saggio di Gianfranco Biondi e Olga Rickards) Nel Settecento nasce la Biologia moderna, quando Carlo Linneo ha definito le modalità per classificare gli esseri viventi e su quella base ha fondato la Tassonomia, ossia la disciplina che definisce i rapporti di parentela tra le diverse entità e l’essere umano è stato considerato un animale tra gli altri. Non è difficile immaginare quanto possa essere stato difficile per Linneo mettere l’uomo nello stesso ordine delle scimmie, dato che all’epoca si era convinti appartenesse a un regno tassonomico differente. La razza in biologia non è altro che una categoria tassonomica che deve identificare il rapporto di parentela che unisce gli individui. Molte specie viventi possono essere suddivise al loro interno in razze, ma non quella umana. Il termine razza è stato coniato nel Cinquecento per indicare la discendenza, ma è entrato nella letteratura scientifica solo a metà del Settecento. La suddivisione dell’umanità in razze rispondeva alla necessità di mettere ordine nella variabilità morfologica osservata nella nostra specie e i caratteri prevalentemente usati dagli studiosi riguardavano il volume e la forma del cranio, posti erroneamente in correlazione diretta con l’intelligenza, e il colore della pelle. Fino alla metà del Novecento la variabilità biologica poteva essere analizzata solo a partire dalla morfologia, ma la manifestazione di quei tratti che si osserva è determinata dall’ interazione tra geni e ambiente ed è per tanto di natura ecologica. La morfologia, infatti, consente di individuare la connessione che esiste tra le popolazioni e gli ambienti in cui vivono, ma non permette di ricostruire le relazioni di parentela tra i diversi gruppi umani. La Razziologia non ci ha fornito il quadro della parentela tra le popolazioni umane, ma quello della condivisione ambientale. Questa è la spiegazione teorica dell’affermazione: le razze umane non esistono. Prendiamo in considerazione il colore della pelle. Vediamo come il colore della pelle più scuro di un gruppo chiaro si sovrappone con il colore della pelle più chiaro di un gruppo scuro. Ciò evidenzia come sia impossibile separare in modo netto i gruppi umani. o Le classificazioni razziali 36 François Bernier ha proposto verso la fine del Seicento la prima classificazione raziale individuando quattro gruppi: nativi americani, nordafricani, sudasiatici ed europei. Da quel momento iniziarono a definirsi classificazioni nuove che criticavano le precedenti e le sostituivano: es. Linneo ci divise in europei, americani, asiatici e africani, mentre Richard Bradley in bianchi, neri e intermedi, ma è stato senza dubbio durante la prima metà del Novecento che la fantasia antropologica ha raggiunto il vertice con Lorenz Oken che ci suddivide in: negri (uomini del tatto), australiani (uomini del gusto), americani (uomini dell’olfatto) ed europei (della vista), oppure con Carl Gustav Carus che divideva in: etiopi (popoli notturni), caucasici diurni, mongoli dell’aurora e americani del tramonto. Verso la metà del Novecento, finalmente, al teoria della razza ha iniziato a sgretolarsi sotto la spinta delle conoscenze genetiche che si andavano affermando. La nostra origine è unitaria. Siamo nati da una popolazione più antica e africana, che si è poi diversificata e frazionata fino ad andare ad occupare tutti i continenti della Terra. Vediamo come da uno studio sui rapporti parentali tra le popolazioni del mondo attuato verso la fine del Novecento emerge che i popoli dell’Africa e dell’Europa si ponevano da una parte dello schema, risultando molto simili, e dall’altra parte si collocavano quelli dell’Asia e dell’Australia, tra loro geneticamente affini. Questo accostamento appariva inusuale poiché precedentemente, per morfologia, gli europei erano stati accostati agli asiatici e gli africani agli australiani. Se la razza fosse stata un fatto di natura la filogenesi morfologica avrebbe dovuto coincidere con quella genetica e così non era. Vediamo che la maggior parentela tra africani e europei è stata dimostrata del fatto che i gruppi di Homo sapiens che hanno colonizzato l’Europa sono emigrati dall’Africa dopo quelli che hanno preso la via dell’Oriente. Questo significa che per un tempo più lungo gli africani e noi siamo stati un’unica popolazione. o Il razzismo Il razzismo ha radici non nella scienza, ma nell’atteggiamento psicologico di rifiuto nei confronti dell’altro, di chi non appartiene al gruppo in cui ci si riconosce. Nel corso dell’Ottocento e nella prima metà del Novecento la Razziologia purtroppo è stata usata per definire una gerarchia di tipo intellettivo e morale all’interno della quale disporre i popoli, ponendo gli europei al vertice e gli africani al fondo. Non era sufficiente il dominio sulle altre culture, ma anche gerarchizzare al suo interno la questione di genere e riservare a quello maschile un ruolo di superiorità rispetto a quello femminile. La razza è l’alibi per il dominio dei popoli “superiori”, su quelli “inferiori”. Vediamo come ad esempio alcuni studiosi hanno avvallato ipotesi prive di ogni base scientifica, come ad esempio il fatto che le coppie miste sarebbero state sterili o avrebbero generato figli pervertiti dal punto di vista psicologico e morale. Solo alla fine del secondo conflitto mondiale è iniziato nel mondo occidentale è iniziato un movimento per chiarire e denunciare l’alibi pseudo-scientifico del razzismo. L’uomo non può essere suddiviso in categorie perché non esistono e non sono esistite popolazioni geneticamente omogenee e pure e non ha base biologica la pretesa di superiorità o inferiorità di alcuni popoli rispetto ad altri. - L’ETNIA E LE MINORANZE ETNICHE (Anne-Christine Tylor. Patrick Williams, Jean- Paul Razon) o Il concetto di etnia Scientificamente il termine “etnia” designa un insieme linguistico, culturale e territoriale di una certa grandezza, essendo il termine tribù generalmente riservato a 37 1) un sistema di genere è in primo luogo una struttura di prestigio in sé. I concetti usati per distinguere gli uomini dalle donne in termini di valore sociale sono spesso gli stessi che si usano per distinguere altri tipi sociali valutati in modo differenziale, e sono identici anche ai concetti usati per classificare individui dello stesso genere. (l’egoista/l’altruista, il raffinato/il rozzo). Le posizioni di prestigio fuori dall’ambito specifico del genere sono spesso rappresentate in termini di genere: le donne piegan la cui età e ricchezza accumulata permettono loro di assumere una posizione di generale dominio sociale sono rappresentate come “dal cuore d’uomo”. Nella nostra stessa cultura il ragazzo a cui non piace praticare sport violenti viene considerato come una ragazza. 2) È possibile trovare dei sistemi sociali in cui il genere e qualche altra dimensione del prestigio siano non differenziati. In molte società della Nuova Guinea, per esempio, lo status di genere è perfettamente in armonia con lo stato di età grazie all’importanza simbolica delle sostanze riproduttive come il sangue mestruale. In molte società del nord America indigeno, invece, era in parte fuso con la specializzazione professionale. Vediamo però che quella di genere non è l’unica gerarchia che si amalgama con altre strutture di prestigio, infatti molto spesso vediamo un’unione delle strutture politiche e ecclesiastiche e di conseguenza si trovano preti-re, sovrani divini ecc. 3) Le categorie fondamentali del maschile non provengono semplicemente dalla sfera pubblica, ma specificamente da quella delle relazioni di prestigio. Essere un guerriero o un anziano non significa semplicemente svolgere un certo ruolo nella sfera pubblica, ma essere collocato in un punto determinato di uno schema gerarchico. La tendenza a definire le donne in termini relazionali deve essere considerata un riflesso della loro esclusione dal mondo del prestigio maschile e nello stesso tempo dei legami cruciali che mantengono con esso. 4) Vediamo, inoltre, come le relazioni tra i sessi possano influire sul prestigio maschile. Analizziamo ad esempio le credenze sulla contaminazione femminile in parti diverse della Nuova Guinea. In aree come Sepik, il prestigio maschile si produce per mezzo di attività come la caccia o la guerra, indipendentemente dalle donne, mentre nelle Highland il prestigio maschile dipende fortemente dal lavoro produttivo femminile: le donne allevano maiali che servono agli uomini nei loro rapporti di scambio che generano prestigio. In risposta alla contaminazione femminile gli uomini eseguono pratiche cerimoniali contro la contaminazione e per riaffermare la loro autosufficienza. Non sono tanto le attività produttive delle donne a minacciare il prestigio maschile, ma piuttosto il comportamento complessivo delle donne e l’interesse di conservare il suo onore. Nella maggior parte dei casi il prestigio maschile è profondamente collegato alle relazioni tra i sessi. Le donne possono essere assegnato come premio per il coraggio o il successo dell’uomo, avere una moglie può essere il requisito indispensabile per il pieno status di maschio adulto, lo status di una madre può influire sullo status del figlio alla nascita ecc. 40 Da vari saggi emerge che in sistemi culturali differenti, i diversi ruoli relazionali femminili (madre, moglie, sorella) tendono a dominare la categoria del femminile. Nelle società “brideservice” il ruolo dominante è quello di moglie (1), in Polinesia, invece, quello di sorella (2), mentre nella società americana del ventesimo secolo è stato quello di madre (3). (1) Forse nella maggior parte delle società, il legame tra i sessi più cruciale per la posizione sociale di un uomo è il matrimonio. In molte società la moglie è spesso una risorsa produttiva, produttrice di beni utilizzati nelle attività di scambio che generano il prestigio maschile o nelle occasioni in cui si offre ospitalità, che permettono a un marito di essere considerato un uomo grande e generoso. Le mogli, inoltre, mettono al mondo figli, che sono spesso risorse produttive, ma che possono anche rappresentare la continuità della discendenza e dell’onore di un uomo. (2) In Polinesia, invece, le sorelle dominano la categoria femminile, e tutte le donne, anche le mogli e le amanti sono considerate in qualche misura sorelle. Questo fatto presenta conseguenze sia positive che negative, poiché, dato che vengono considerate come sorelle, come tali vengono rispettate, ma il fatto di considerare tutte le donne come sorelle può essere in parte causa dell’elevata incidenza di stupri in Polinesia, poiché è difficile trasformare una relazione asessuata (sorella) in una sessuata (moglie). (3) La figura della madre domina la categoria femminile nella maggior parte delle culture cattoliche e negli Stati Uniti del ventesimo secolo. In questo caso si può affermare che le mogli sono considerate principalmente come madri. Si può affermare che poiché le mogli di norma sono partner sessuali e le madri e le sorelle di norma non lo sono, un’enfasi sulle mogli tenderà a dare maggior importanza ideologica all’aspetto sessuale delle donne. Ortner amplia questo punto e suggerisce che laddove l’enfasi sulla sessualità femminile domina sulla nozione di femminilità, le donne, in genere, vengono considerate e trattate con meno rispetto di quanto non accada nelle culture in cui esse sono viste principalmente come consanguinee. MOBILITA’/MIGRAZIONI 41 Celebri studi sono stati dedicati a popolazioni il cui modo di vita si è strettamente legato alla pratica della pastorizia nomade o a comunità itineranti di cacciatori- raccoglitori. Gli antropologi hanno prestato particolare attenzione proprio a quei gruppi marginali che hanno costruito forme di relazione mobile col territorio, mettendo in luce pregiudizi e ostilità proiettati su quest’ultimi dal sistema degli Stati, con conseguenti politiche coercitive volte alla loro sedentarizzazione. - L’EMIGRAZIONE E LO STUDIO DEGLI AFRICANI IN CITTA’ I flussi migratori vanno e vengono attraverso i confini degli Stati. Il luogo in cui è più facile iniziare lo studio degli emigranti e dell’emigrazione è la città, per la più densa concentrazione di emigranti rispetto alla parte rurale e per la disponibilità di gruppi differenti, utile per un’analisi comparativa. L’obiettivo dello studio dell’emigrazione richiede una forte attenzione ai legami extraurbani degli emigranti che risiedono in città. La definizione di legami extraurbani non ha esattamente lo stesso significato di legami “tribali”, ma indica quei vincoli che durante il periodo di permanenza in città continuano a collegare l’individuo a specifici sistemi tribali fuori dalla città e gli permettono di riprendere il suo posto in una specifica comunità tribale. Sono questi meccanismi che gli conservano il suo posto particolare nelle società dell’hinterland rurale. Verrà trattata la ricerca condotta dagli autori in una città del Sud Africa, East London, nella Provincia del Capo, tra il 1955 e il 1959. East London è un importante porto marittimo e un centro industriale e commerciale con circa 50.000 bianchi e circa 70.000 altri abitanti i cui 10.000 sono servi domestici, mentre gli altri vivono segregati nelle “locations”, ossia i quartieri dei non bianchi, composti per lo più da africani emigrati per lavoro. o Modelli di alternanza e di cambiamento In alcune ricerche urbane, i doppi ruoli dell’emigrante di lavoro sono stati ricomposti sul piano teorico con l’uso del concetto di alternanza o di movimento anti e indietro. Così un individuo, che si trova ora in città, quest’anno svolge ruoli nella città urbana, il prossimo anno tornerà in campagna e svolgerà ruoli nella società tribale e così via. In contrasto con i modelli di alternanza si è posto un altro tipo di modelli che possiamo chiamare del cambiamento unidirezionale. Qui vi è l’idea che l’emigrante, sotto l’influenza della città, possa gradualmente abbandonare insieme sia i ruoli che le norme tribali. Rifiutando questo concetto di lentezza del mutamento, Gluckman afferma che nel momento in cui un africano attraversa i confini tribali egli si detribalizza, è al di fuori della tribù, ma non al di fuori della sua influenza. Analogamente, quando un uomo ritorna dalla città nell’area della tribù egli si tribalizza di nuovo, è al di fuori della città, ma non al di fuori della sua influenza. Il movimento dell’ipotesi del cambiamento unidirezionale era quello che portava da una condizione culturale, ad un’altra, lungo un binario unidirezionale che partiva dalla condizione tribale come punto zero e finiva con la completa detribalizzazione. Il modello di alternanza proposto da Gluckman, al contrario, postula un’alternanza tra campi sociali: uno ogni volta che l’emigrante è in città e l’antro ogni volta che è nell’hinterland. I lavori di Epstein e Mitchell hanno introdotto un altro modello: un individuo, anche quando si trova in città, può ancora comportarsi in modo alternante: può muoversi avanti e indietro tra comportamenti urbani e comportamenti tribali a seconda della situazione. Può seguire modelli tribali nella sua vita domestica urbana, ma seguire modelli urbani a lavoro. Questo principio operativo è stato definito selezione situazionale, ossia l’individuo seleziona modelli di comportamento appropriati all’insieme delle relazione in cui la situazione lo pone in un dato momento. Si ha qui il riconoscimento che un individuo può essere alternativamente urbanizzato in alcune 42 soggetti-rifugiati in cittadini normalizzati in grado di integrarsi nella società ospitante. Quando i cambogiani arrivarono negli Stati Uniti, al loro condizione di rifugiati non venne meno neanche mentre venivano risocializzati per diventare americani. Determinate attività dello Stato sono come impegnate in un progetto di regolamentazione morale che cerca di dare un’espressione unitaria e unificante a quelle che sono esperienze molto sfaccettate e peculiari. L’obbligo morale di offrire asilo ai rifugiati è stata una caratteristica della politica degli Stati Uniti fin dal 1945. Dal 1945 l’ascesa americana a potenza globale ha costretto il Congresso ad abbandonare le politiche isolazionistiche e a compensare il vergognoso abbandono in cui erano stati lasciati i rifugiati ebrei dopo la guerra. Successivamente, nel 1956-57 l’insurrezione ungherese causò l’afflusso, via Austria, di migliaia di rifugiati, i quali vennero poi definiti individui in fuga dalle persecuzioni di uno Stato comunista. Nel ’65, quando divenne chiaro che i rifugiati dei paesi comunisti erano veri e propri immigrati (e non semplici esiliati politici che prima o poi sarebbero rientrati nel loro paese), furono formalmente riconosciuti come categoria speciale di immigrati. Lo status di rifugiato, viene conferito solo quando le richieste d’ingresso vengono presentate al di fuori degli Stati Uniti, ai funzionari dell’immigrazione che si trovano in stati terzi. Nel momento in cui i rifugiati decidevano di diventare residenti permanenti, perdevano la loro aurea di combattenti per la libertà. Nel corso degli anni Settanta, l’immagine dei rifugiati come attivisti politici contro il comunismo globale iniziò a sbiadire e nel clima di crescente distensione, si prestò maggior attenzione al controllo dell’afflusso di rifugiati, che finirono per rappresentare un pericolo più che un’opportunità. Nel 1980, fra i rifugiati comparve per la prima volta un certo numero di cubani di colore, e questo loro ingresso cominciò ad alterare la percezione americana dei rifugiati provenienti dai paesi comunisti, rappresentati fino ad allora da europei ben istruiti, soprattutto ebrei. Le sommosse dei rifugiati cubani contribuirono a formare un’immagine di “migranti difficili”. La compassione si esaurì rapidamente e il crescente afflusso di rifugiati di colore provenienti dall’Asia, dall’America Latina e dall’Africa fu presto avvolto da un clima di ostilità. Entrò in uso l’espressione rifugiato economico per descrivere le persone che non scappavano dalle persecuzioni politiche, ma semplicemente da condizioni economiche avverse. o Salvare i figli Man mano che la maggior parte delle famiglie cambogiane-americane povere si adattava alle esigenze di vita nell’America urbana, il conflitto tra genitori e figli diventava una questione sempre più ricorrente in alcune di esse. Molti ragazzi cambogiani-americani avevano l’impressione che non avrebbero potuto imparare come essere moderni seguendo il modello dei loro genitori. Di conseguenza i figli di genitori rifugiati cercavano con ogni mezzo di liberarsi dai codici di famiglia cambogiani. Spesso il nucleo familiare aveva a capo una donna povera e sola. Molti genitori non erano autosufficienti e non potevano lavorare, oppure vivevano grazie ai sussidi, o facevano lavori a basso reddito che li tenevano occupati per molte ore al giorno. La loro autorità morale come genitori poteva essere facilmente messa in discussione dai figli, che crescevano in fretta e che erano ansiosi di entrare a far parte 45 del mondo esterno. Le relazioni genitori-figli si focalizzavano spesso sui modi in cui i figli avrebbero potuto risparmiare e usare il tempo e il denaro. In modo molto americano i ragazzi prendevano, come metro di misura dell’amore dei genitori verso di loro, il modo in cui questi dedicavano loro tempo e denaro. Qualunque cosa i figli imparassero a scuola riguardo al comportamento americano del ceto medio, non la ritrovavano dentro casa, e questo aumentava il loro senso di alienazione. Naturalmente, non tutte le famiglie cambogiane avevano difficoltà di questo tipo, alcuni giovani erano soddisfatti della loro situazione familiari e andavano anche molto bene a scuola. Ma a volte, crescendo, i figli iniziavano a vergognarsi dei propri genitori e della loro incapacità di fare loro da guida nella vita in America. Nelle divergenze tra genitori e adolescenti il consumismo e il sesso erano ambiti che si intrecciavano tra di loro. Soprattutto per i maschi, il denaro, i beni di consumo e il sesso erano parte integrante del processo per diventare americani e per guadagnarsi l’approvazione della società. o Ragazze a rischio Forse più che la perdita dei figli a causa del crack e delle rapine a mano armata, era la perdita del controllo sulla sessualità delle figlie a produrre una profonda angoscia e rabbia nei genitori . Era come se si pensasse che fosse comunque possibile rimettere in riga un giovane che aveva violato la legge, mentre una figlia che perdeva la verginità prima del matrimonio assestava all’onore della famiglia un colpo talmente duro da non poter essere facilmente superato. I genitori continuavano a trattare ragazzi e ragazze secondo metri diversi. Le ragazze dovevano conservare la loro purezza sessuale perché era ciò su ciò su cui si basava l’onore della famiglia. Le avventure sessuali dei ragazzi erano tollerate, ma le ragazze che uscivano con i ragazzi o praticavano il sesso prima del matrimonio causavano l’umiliazione dei genitori. Gli studiosi hanno osservato che la pratica americana dell’uscire con il ragazzo sarebbe emersa nel corso degli anni Venti del Novecento come forma di corteggiamento tipica del ceto medio. Una pratica che si basava su una specie di gara in cui gli uomini esibivano pubblicamente il loro denaro e le donne il loro fascino. Gli appuntamenti tra adolescenti divennero una condotta standard per il ceto medio. I genitori delle ragazze erano molto più preoccupati per l’onore della famiglia di quanto non lo fossero le loro figlie ormai americanizzate, e non vedevano proprio alcuna ragione per cui le figlie avrebbero dovuto esplorare e mettere alla prova la propria responsabilità di soggetti sessuali in età evolutiva. GLOBALIZZAZIONE 46 - Storia dello zucchero ( Sidney Wilfred Mintz) La regione caraibica è stata fin dal 1492 controllata da un insieme di potenze che vanno da Amsterdam a Londra, da Parigi a Madrid e altri centri di potere mondiali europei e nordamericani. Facendo ricerca nei Caraibi in modo approfondito ci si chiede in quali modi il mondo esterno e quello europeo siano diventati interconnessi o addirittura congiunti ed anche le storie dei prodotti che le colonie forniscono alle metropoli, destano curiosità. Per quanto riguarda i Caraibi si parla di prodotti tropicali, come ad esempio spezie, basi per bevande (caffè, cacao) e soprattutto zucchero e rum. A questi però bisogna aggiungere anche le tinture e coloranti, come ad esempio l’indaco e vari amidi e farinacei. Tra tutti questi però, il bene più richiesto di tutti, è lo zucchero, un prodotto che ancora oggi sembra mantenere una posizione di dominio nel settore commerciale dei dolcificanti. L’antropologo Sidney Mintz, quando andò a fare la sua ricerca sul campo a Barrio Jauca, in Portorico, vide che la maggior parte dei lavori nei campi veniva svolto principalmente dall’uomo, senza l’aiuto delle macchine. Lo zucchero veniva consumato dappertutto, le persone masticavano la canna da zucchero per strada, tanto che vennero presi provvedimenti per impedire alle persone di raccogliere e mangiare le canne. Nessuno parlava però del processo di raffinazione o di chi fossero i consumatori di una così grande quantità di zucchero, erano solamente consapevoli dell’esistenza di un mercato dello zucchero. Nel corso dei secoli la produzione saccarifera ha mostrato e monstra ancora tutt’oggi, la più notevole curva di crescita tra tutti i prodotti alimentari apparsi sul mercato mondiale. Gli abitanti di Barrio Jauca erano braccianti agricoli che non possedevano né terra né alcun’altra proprietà produttiva e che dovevano vendere il loro lavoro per mangiare. Erano dei lavoratori salariati che vivevano come operai e lavoravano in una fabbrica, ossia i campi. Compravano nei negozi quasi tutte le cose di cui avevano bisogno e queste cose provenivano per la maggior parte da altri luoghi (vestiti, quaderni, scarpe ecc.). Tutto ciò che consumavano era quasi sempre prodotto da qualcun altro. - Le piantagioni di zucchero inglesi Le piantagioni di zucchero furono impiantate per la prima volta nel Nuovo Mondo all’inizio del XVI secolo (1500) e furono riempite per la maggior parte da schiavi africani. Infatti, lo stesso Mintz, durante la sua ricerca sul campo in Portorico, trovò i discendenti di quegli schiavi, ma anche i discendenti dei Portoghesi, Giavesi, Cinesi e Indiani, che furono portati nella regione per coltivare, tagliare e macinare la canna. Il saccarosio estratto dalla canna da zucchero si impose nelle preferenze alimentari degli europei come la sola fonte di soddisfazione per quel desiderio di dolce che legò l’Europa a diverse regioni coloniali del XV secolo (1400) in poi. Allo stesso tempo, le metropoli producevano ciò che quelle colonie consumavano, tutti gli altri beni di consumo. Verso il 1680, subito dopo aver sconfitto commercialmente i Portoghesi e i Francesi, gli inglesi abbandonarono i mercati continentali appena conquistati per concentrarsi meglio sul loro mercato interno in espansione. Questi cambiamenti erano accompagnati da una crescita costante delle piantagioni e da una differenziazione dei prodotti stessi che accompagnavano o rispondevano ai bisogni dei consumatori in madrepatria. Le piantagioni erano imprese ad alto rischio, poiché potevano generare enormi profitti agli investitori fortunati, ma anche le bancarotte erano un fatto consueto. Lo zucchero non fu mai un investimento sicuro. Un mercato di massa emerse però soltanto nel 1700, 47 dei nuovi coloni e della Magna Grecia. Era un relativismo che prevedeva la scuola per tutti i figli dei cittadini a spese della città. Il principio di relatività culturale non significa che se i membri di una tribù selvaggia possono comportarsi in un certo modo, ciò dia garanzia intellettuale per tale comportamento in tutti i gruppi. La relatività culturale significa, al contrario, che l’idoneità di ogni usanza positiva o negativa va considerata in relazione alla maggiore o minore adattabilità di quest’uso alle abitudini dell’altro gruppo. L’avere molte mogli, ad esempio, ha un senso economico tra i pastori, non tra i cacciatori. Il relativismo culturale nasce nell’antropologia moderna con Franz Boas e divulgato dalla sua scuola, anche se apparentemente Boas stesso non ha mai usato tale espressione. Il relativismo culturale arriva sulla scena durante il dibattiti che ha circondato la redazione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (1947). Nato come strumento di critica all’etnocentrismo occidentale, il relativismo culturale poteva diventare un’ideologia in sintonia per il mantenimento dei rapporti di dominanza/sottomissione di vario tipo. Eppure, la storia ha mostrato che una dichiarazione sui diritti dell’uomo, per quanto Universale, non può trascendere dalla tensione insita nel fatto che un individuo vive sempre in un gruppo sociale. Un’antropologia che studia le differenze senza tenere conto dei rapporti reali di potere in cui sono immerse le differenze stesse sarebbe un’antropologia he si autoamputa. Pensare la differenza senza connotarla in termini gerarchici è impossibile e non pertinente, dal momento che gli uomini non possono pensare la differenza senza associarle un giudizio di inferiorità o superiorità. Il relativismo è quella teoria che sostiene la “molteplicità di rappresentazioni” circa un unico mondo, ma è proprio questo che non succede in Amazzonia. Abbiamo un mondo che prevede “una molteplicità di posizioni” di soggetti, umani e non umani che pensano il mondo allo stesso modo ma, avendo il corpo diverso, vedono il mondo in modo diverso. Questo non è relativismo, dice Viveiros de Castro, perché non siamo in presenza di una molteplicità di rappresentazioni, ma di una molteplicità di mondi concepiti a partire da un punto di vista, cioè da un corpo: è quello del prospettivismo amerindiano. Secondo il prospettivismo, come un X può essere padre per una persona e zio per un’altra, così in Amazzonia un X può essere verme per una persona umana e “pesce arrostito” per una persona non umana, per esempio un avvoltoio. Il prospettivismo è quindi quella forma di relativismo che si pone come “verità della relatività”, piuttosto che come relatività del vero”. Nella concezione Tyloriana di cultura che essi usavano, le culture erano viste come tante scatole con confini precisamente posti che le separavano in modo netto dalle altre, ma a questa visione discontinuista della differenza culturale oggi si sta sostituendo una visione continuista in cui le culture sono semmai pensate come sfumanti le une sulle altre, senza confini precisi. 50 51