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Approfondimento sulla giurisprudenza romana, Guide, Progetti e Ricerche di Istituzioni di Diritto Romano

Relazione di approfondimento su Gaio, i giuristi romani e le loro opere

Tipologia: Guide, Progetti e Ricerche

2016/2017

Caricato il 08/09/2017

paragni
paragni 🇮🇹

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Scarica Approfondimento sulla giurisprudenza romana e più Guide, Progetti e Ricerche in PDF di Istituzioni di Diritto Romano solo su Docsity! SPEI SOCIETAS INDICE Lo spirito del Diritto Romano.................................................. pag. 1 La giurisprudenza romana di Ragnotti Beatrice...................... pag. 8 Le costituzioni imperiali di Ranaldo Miriana........................... pag. 15 Le Institutiones di Giustiniano di Retucci Alessia.................... pag. 22 La legge delle citazioni di Rondina Alessandra......................... pag. 29 La Legge delle XII tavole di Santoro Gianmarco...................... pag. 40 Il Digesto di Scrudato Dalia........................................................ pag. 55 Il pretore e il diritto pretorio di Silci Camilla.......................... pag. 61 Il ritrovamento delle Institutiones di Gaio di Virzì Roberto.... pag. 68 Le Novellea di Giustiniano di Zanocchia Isabella..................... pag. 74 Le Institutiones di Gaio di Zenobi Gessica................................ pag. 81 Il Codice Teodosiano di Zinna Maria Vittoria............................ pag. 88 LO SPIRITO DEL DIRITTO ROMANO 1 un'economia basata sullo sfruttamento della terra. La ricostruzione del diritto di questo tempo è stata fortemente ostacolata dal suo carattere principale: l'oralità. Per questo era necessario un forte formalismo, per imprimere nella memoria i riti necessari a rendere validi e vincolanti i vari istituti giuridici, e, data la conoscenza esclusiva del diritto da parte dei pontefices, esso era anche caratterizzato da un elevato grado di solennità. Nonostante ciò, siamo a conoscenza del fatto che fosse un diritto piuttosto basilare, che rifletteva le esigenze della vita pastorale ed agricola del popolo romano, permeata da valori come l'austerità, il sacrificio e l'amor patriae. Esso era basato sui mores, ossia usi e costumi che il popolo stesso riconosceva come aventi un valore giuridico. Infatti, come asserisce Talamanca, si parla di un “ordinamento già dato” ed è in questo che le future leges, che andranno a costituire lo Ius Quiritium, troveranno la loro giustificazione e legittimità giuridica. Questo primo periodo fu di fondamentale importanza anche per quanto riguarda il diritto scritto romano: nel 451-450 a. C. fu pubblicata la Lex XII tabularum, che, come afferma Kunkel, rappresentò “il primo punto fermo nella storia del diritto romano”. Questo corpo di leggi sintetizzava per iscritto i precetti giuridici nei quali la civitas tutta si rispecchiava. Il secondo periodo, nominato preclassico, è compreso tra il IV secolo a. C. e l'ascesa di Augusto, nel 27 a. C. e viene considerato la “fase creativa” del diritto, poiché fu introdotta la maggior parte degli istituti giuridici. La Res Publica in questi anni si espanse notevolmente e il contatto con nuovi popoli portò alla nascita di nuove esigenze. Dal momento che il diritto rispecchiava le necessità della società, si diede vita ad un processo di trasformazione: allo ius civile, venne affiancato lo ius gentium, atto a regolare i rapporti negoziali che coinvolgevano non solo i cittadini romani, ma anche gli stranieri; alla figura del preator urbanus si aggiunse quella del praetor peregrinus, che disciplinava lo ius gentium. Un'altra grande tematica affrontata in questi anni fu la risoluzione dei conflitti tra patrizi e plebei: mediante la Lex Hortensia del 287 a. C., che prevedeva l'equiparazione dei plebiscita alle leges, le decisioni prese dal conciulium plebis divennero vincolanti anche per i patrizi; inoltre, fu data la possibilità al popolo riunito in assemblee popolari (i tributi e i comizi centuriati) di votare le leggi comiziali, con le quali si decideva in merito alla pace e alla guerra. Alla fine del II secolo a. C., con l'instaurazione della dittatura di Silla e successivamente di Cesare, la costituzione repubblicana perse completamente le sue fattezze dando così vita a lotte fratricide che vedranno come vincitore Augusto. Segue il periodo classico, che si sviluppò tra il I secolo a. C. e la fine della dinastia dei Severi, 235 d. C., o, secondo altre opinioni, l'ascesa di Diocleziano nel 285 d. C. Questo viene definito il periodo aureo del diritto romano, in quanto, fu proprio in quegli anni, che vissero i principali giuristi della storia romana: Papiniano, Modestino, Paolo, Ulpiano e Gaio. Questi furono gli autori delle più grandi opere di casistica, che sono le fondamenta del diritto romano che studiamo oggigiorno. La grandezza del diritto era il riflesso del periodo particolarmente florido che la società romana stava vivendo. Infatti, l'Impero nel II secolo d. C. raggiunse la sua massima espansione, dalle coste della penisola iberica alla Mesopotamia. Ciò permise al popolo romano di entrare in contatto con nuove ricchezze e nuove civiltà, che lo pose in condizione di sviluppare la propria economia ai massimi livelli e di arricchire le proprie conoscenze in ogni ambito della cultura. Il motore propulsivo di questo grande sviluppo fu il principato, a cui diede vita Augusto. Questi, attraverso un'intelligente e silenziosa politica di esautorazione dei poteri alla base della repubblica, quali il senato, i comizi e le magistrature, riuscì ad accentrare le funzioni governative nelle sue mani, arrivando progressivamente a ricoprire la massima carica. Un esempio è quello dei senatoconsulti, i quali potevano essere richiesti o proposti non solo dai magistrati, ma anche dal princeps mediante un oratio in senatu; col tempo, essi presero il nome, non più di senatus consultum, ma di oratio principis e la funzione del senato divenne di mera ratifica. 4 Non fu la sola fonte di produzione a divenire sterile, subirono la stessa sorte le leges, i plebiscita, i responsa dei giuristi e gli edicta dei magistrati; gli unici a mantenere una reale efficacia e validità furono le costituzioni imperiali. Nella parte finale dell'epoca classica, si assistette all'inizio della decadenza dell'Impero che nel periodo successivo, definito post-classico, portò alla fine dell'Impero romano d'Occidente nel In primo luogo, l'ampiezza dell'impero lo rese del tutto ingovernabile e la suddivisione tra pars orientalis e pars occidentalis non fece altro che indebolirlo nei confronti dei tentativi di invasione da parte dei barbari. In secondo luogo, come afferma lo storico inglese Gibbon, i figli e i nipoti di Teodosio lasciarono il governo in mano agli eunuchi, la Chiesa ai sacerdoti e l'Impero ai barbari. In terzo luogo, l'esercito si appropriò del potere politico, eleggendo e deponendo imperatori a proprio piacimento. Inoltre, con l'espansione territoriale, entrarono a far parte dell'apparato militare anche gli uomini dei popoli assoggettati a Roma, che quindi non combattevano con lo stesso spirito ed amor patriae dei cittadini romani. Conseguentemente, il periodo travagliato non permise ai giuristi di dedicarsi all'attività speculativa e di risoluzione delle controversie classiche, ma dovettero rivolgere la loro attenzione a problemi di carattere pratico. Le scuole di diritto non erano più in grado di comprendere la validità e l'importanza delle opere classiche, definite troppo complesse e non più utili a disciplinare i rapporti tra consociati. Per questo motivo, presto dei giuristi, chiamati glossatori, iniziarono a semplificarle e darne nuove interpretazioni, mentre altri si occuparono di riassumerle, dando vita alle epitome tra cui si annoverano le Pauli Sententiae, l'Epitome Gai, l'Epitome Ulpiani, le Raccolte miste di leges et iura e i Fragmenta Vaticana Consultatio. Per quanto riguarda i glossatori, essi presero il nome dalle annotazioni, le glosse, scritte direttamente sul testo giuridico utili a chiarificarne il significato agli studenti. Tutto ciò portò a quello che Kelsen definì il vulgarrecht, ossia la volgarizzazione del diritto, la sua semplificazione e appiattimento. D'altro canto, la giurisprudenza orientale continuò ad occuparsi fruttuosamente del diritto arrivando alla compilazione di tre codici: Gregoriano, Ermogeniano e Teodosiano. I primi due sono codici privati, realizzati tra il 291 e il 294 d. C. contenenti i rescripta, molto utili a livello processuale. Sotto l'Imperatore Teodosio II si ebbe la prima codificazione del diritto dopo la Legge delle XII Tavole. Il primo tentativo di elaborazione ebbe luogo nel 429 d. C., ma non trovò mai la sua realizzazione. Infatti il progetto era estremamente ambizioso e complesso e prevedeva due codici: uno con la funzione di archivio storico che avrebbe dovuto accogliere tutti gli edicta da Costantino (306 d. C.) in poi e l'altro con una finalità più pratica di raccolta degli edicta ancora in vigore, oltre ai rescripta e alle iura dei giuristi. Il secondo progetto risalente al 435 d. C. manifestò la stessa volontà del primo di raccogliere edicta, rescripta e iura. Ciò fu possibile attraverso la redazione di un unico codice contenente solo gli edicta ancora vigenti da Costantino a Teodosio, il conferimento di crisma di ufficialità ai due precedenti codici privati e il riferimento alla Legge delle Citazioni per quanto riguarda le iura. Quest'ultima fu il risultato dell'incapacità da parte dei giuristi contemporanei di comprendere i giureconsulti classici. Fu così che nel 426 d. C. Valentiniano III promulgò la oratio Valentiniani ad Senatum con la quale si circoscriveva la giurisprudenza in tale maniera: gli avvocati nel corso dei processi, al fine di argomentare la propria tesi, erano tenuti a citare solo Papiniano, Paolo, Ulpiano, Modestino e Gaio, oppure i testi che a loro volta questi avevano citato (in questo caso dovevano fornire il libro). In caso di pareri discordi, si procedeva per maggioranza; in caso di parità di posizioni, l'opinione che prevaleva era quella di Papiniano; se egli non si era pronunciato, la decisione era in mano al giudice, ma sempre sulla base del parere di uno dei cinque giuristi classici. Infine, l'ultima fase individuata dalla dottrina è il periodo giustinianeo che coincide con l'impero di Giustiniano (527 d. C. - 565 d. C.). Questo periodo, a differenza del precedente, fu caratterizzato dalla rinascita del diritto e dalla pubblicazione dell'opera alla base del diritto moderno: il Corpus Iuris Civilis. Fu riscoperta l'importanza e la grandezza delle opere dei giuristi classici, per questo le scuole orientali di diritto ripresero l'insegnamento in latino della materia e, a Berito e a 5 Costantinopoli, la maggior parte degli anni era dedicata allo studio delle opere classiche. Infatti Giustiniano, infervorato dalla cosiddetta reveretia antiquitatis, riteneva che per affrontare e risolvere efficacemente le questioni giuridiche contemporanee fosse necessaria la conoscenza dell'atteggiamento dei giureconsulti classici. Egli criticò aspramente il confusio legum dell'epoca che impediva una visione completa e veritiera del diritto romano classico, quindi, con lo scopo di restaurare e operare una sistemazione dell'ordinamento giuridico, trasse dalle leggi “il troppo e 'l vano”, come afferma Dante nel VI canto del Paradiso, e assegnò al diritto vigente immutabilità e certezza nelle fondamenta. Tutto il suo pensiero si concretizzò nella stesura del Corpus Iuris Civilis, nome attribuito dall'editore Gotofredo alla raccolta di tutte le opere di Giustiniano. Essa è una compilazione omogenea della legge romana che è tutt’oggi alla base dei moderni ordinamenti e, in particolare, dei codici civili. Ebbe un’importanza fondamentale non solo per l’ordinamento bizantino, ma, a partire dal XII secolo, anche per quello Occidentale. Fu, infatti, con la fondazione della famosa Scuola dei Glossatori di Bologna che fu riscoperta, studiata e reinterpretata l'opera di Giustiniano. I primi legislatori a recepire i suoi principi e la sua rilevanza a livello giuridico per la costituzione di un nuovo codice civile furono i francesi: il 21 Marzo 1804 fu pubblicato il Code Civil des Français sotto Napoleone. Circa sessant'anni dopo, il 2 Aprile 1865, fu emanato il Codice Civile italiano, detto Pisanelli, dal nome dell'allora Guardasigilli, che fu nell'impianto logico-sistematico fortemente influenzato da quello napoleonico, tanto che lo slogan del politico italiano Montanelli era: «Viva il Regno d'Italia! Viva Vittorio Emanuele re d'Italia! Viva il Codice Napoleone!». Il diritto romano trovò maggiore permanenza in Germania e la ragione è da ricercarsi nella frammentazione sia politica sia dell'ordinamento giuridico all'interno del paese. La Germania non avendo propri organi centrali giudiziari e politico-amministrativi, non possedeva un proprio diritto, pertanto si ebbe una totale romanizzazione del diritto tedesco, che si rispecchiò principalmente nel Bürgerliches Gesetzbuch, il codice civile. Il Corpus Iuris Civilis influenzò anche il sistema della Common Law a livello del glossario giuridico latineggiante e, soprattutto, per quanto riguarda l'importanza della iurisprudentia all'interno del diritto. Infatti, se nel mondo romano la giurisprudenza aveva la facoltà di plasmare e di innovare il diritto, difatti si parla di sistema aperto, nell'ordinamento della Common Law essa diventa addirittura vincolante, tant'è che il giudice per la risoluzione delle controversie non fa riferimento a principi e norme, ma ai casi precedenti. Il Corpus Iuris Civilis influì anche sui sistemi giuridici orientali, ad esempio nella Romania medievale si venne a creare un nuovo ordinamento consistente in una combinazione tra il diritto romano e quello locale. D’altra parte, va ricordato che l’influenza del diritto romano si è estesa ben al di là del mondo occidentale perché paesi come la Turchia, la Cina e il Giappone hanno ripreso i codici europei o si sono fortemente ispirati ad essi. Per questo esistono cattedre di diritto romano persino in Giappone. Dal momento che la conoscenza del nostro passato risulta indispensabile per essere consci della realtà in cui viviamo in ogni suo aspetto, da quello religioso a quello politico, ed essendo il diritto lo specchio di tutti questi aspetti è, quindi, essenziale lo studio di questa disciplina. Come asserisce Cicerone: <<La storia, è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra della vita, nunzia dell’antichità>>. Dato che dal 753 a. C. ad oggi, il diritto romano ha mantenuto il primato di modello per eccellenza per la costituzione di un ordinamento giuridico efficiente ed efficace, si può tranquillamente affermare che sia un modello insuperato ed insuperabile. 6 Il termine giurisprudenza deriva dal latino jurisprudentia ed è composto dal genitivo di jus, juris, “diritto” e da prudentia, “cognizione, perizia”, indicando, quindi, la pratica di giudicare fondata sopra un modo costante di interpretare le leggi.1 Il termine può essere interpretato secondo due accezione: romana e moderna. In base alla prima, il lemma poteva essere inquadrato con due diverse angolature: sotto un punto di vista soggettivo stava a significare l'insieme dei iuris prudentes, ossia dei giuristi tutti; mentre dal profilo oggettivo indicava l'opera di elaborazione scientifica dei giureconsulti che, oggi, chiamiamo dottrina. Invece, oggigiorno, il termine indica sia le sentenze promulgate degli ordini giuri-dicenti sia la scienza del diritto.2 Nell'ambito del diritto romano, la jurisprudentia ricoprì un ruolo di fondamentale importanza per due principali motivi. In primo luogo, questa venne ad identificarsi come motore unificatore e coordinatore delle numerose fonti di produzione che caratterizzavano il diritto romano: le leges, i plebis scitum, i senaticonsulti, le constitutio principis, gli edicta dei magistrati e i responda dei giuristi. In secondo luogo, l'interpretatio prudentium, ossia l'attività interpretativa svolta dai giureconsulti, rappresentò la vera e propria spinta innovatrice e progressista dell'ordinamento romano. I giudici, infatti, dovevano e devono, tutt'ora, essere consci della realtà socio-economica del loro tempo e capire che le norme generali hanno indiscutibilmente una loro validità intrinseca, ma devono, necessariamente, essere applicate in relazione alla società e ai mutamenti di questa. « Le leggi, come afferma il giurista tedesco Gustav Hugo, non sono l'unica fonte di verità giuridiche3». Tutto ciò, attribuì al diritto romano quelle caratteristiche e peculiarità che fecero la sua “fortuna”, che gli permisero di sopravvivere per oltre due millenni e che lo plasmarono come un diritto tutt'ora insuperato e insuperabile: l'aequitas, il formalismo, la laicizzazione, l'astrattezza e la generalità. Queste particolarità resero il diritto romano universale (dal latino universalem) cioè che concerne la totalità degli individui e degli elementi, in ogni tempo e in ogni spazio. Infatti, l'esperienza giuridica romana ebbe una rilevanza capitale sia all'interno dell'ordinamento sia per quanto riguarda la costruzione della giurisprudenza medievale e moderna, tant'è che si parla addirittura di scientia iuris, ossia un'autonoma forma del sapere, organizzata in modo razionale, secondo una propria logica, delle proprie regole, delle definizioni flessibili e un proprio rigoroso linguaggio che faceva progredire il diritto, ricercando il miglior diritto in assoluto. I giuristi seguivano, appunto un metodo molto logico e razionale nell'affrontare le questioni: l'approccio al caso risultava essere completamente scevro dalla pregiudiziale ricerca del principio di autorità, essi, infatti, avevano la mente completamente libera da qualsiasi retro-pensiero e preoccupazione, con l'accezione latina del termine “occuparsi prima, prevenire”. Individuavano precisamente quale fosse il punto nodale, tracciandone i limiti entro i quali si potevano muovere e, successivamente, attraverso un ragionamento innegabilmente induttivo, svisceravano tutti gli elementi e ricercavano quelli essenziali per la risoluzione del caso, basandosi sulla iurisprudentia. Proprio perché la soluzione era peculiare e specifica al caso si parla di metodo, appunto, casistico, che è una delle più grandi eredità che questo popolo ci ha lasciato. Infatti, l'approccio alla caso giuridico, che risulta avere un'impostazione prevalentemente scientifica, aveva come fine ultimo il continuo impegno nella ricerca dello iustum, della giustizia, dell'imparzialità, lascito basilare per entrambi gli ordinamenti (di Common Law e di Civil Law) moderni. Nonostante la risoluzione era specifica e circoscritta a quel particolare caso, ben presto si resero conto che, nel momento in cui si sarebbe presentato una situazione simile, la soluzione sarebbe dovuta essere la stessa, sempre sulla base del principio di equità tanto caro ai giuri-dicenti. Quindi, iniziarono a compiere un'operazione di astrattezza sulle sententiae e tentarono di accordare il loro timore delle definizioni generali, in quanto prodotto di ragionamenti molto più complessi, alla necessità di sveltire il procedimento giuridico e di renderlo il più giusto possibile. L'attività del giurista, in ogni caso, non era strettamente legata alla metodologia e al fornire risposte riguardo i casi giuridici, ma trovava un respiro più ampio. 1 L'Etimologico minore, edito Zanichelli. 2 Enciclopedia Treccani. 3 Die Gesetze sind nicht die einzige Quelle der juristischen Wahrheiten. 9 Come afferma Cicerone nella Repubblica, l'ufficio del giureconsulto si articolava nel respondere, agere e cavere. Il respondere consisteva nel dare ai privati cittadini una risposta sui quesiti che essi ponevano al giurista. L'agere verteva sul suggerire i principi del diritto e le decisioni delle controversie ai difensori delle parti e nel coadiuvarli personalmente durante la difesa oppure era inteso nella prestazione di aiuti e suggerimenti ai magistrati nell'amministrazione della giustizia. Il cavere riguardava il consiglio di clausole dei contratti e le cautele atte ad assicurare i diritti che ne derivavano, e a prevenire le controversie che ne potessero sorgere.4 Successivamente a queste tre funzioni si aggiunsero anche lo scribere e lo instruere, rispettivamente, nel momento in cui i giureconsulti si dedicarono ad attività più propriamente scientifiche di redazione di opere relative alla materia e, dal respondere a cui assistevano i giovani auditores, ebbe origine l'insegnamento, con la relativa stesura di testi per la didattica. Praticamente tutte le notizie riguardo la storia della giurisprudenza ci sono pervenute grazie all'opera Liber singularis enchiridii di Sesto Pomponio, di cui ci rimangono solo pochi frammenti contenuti nella monumentale opera di Giustiniano, il Corpus Iuris Civilis e un lungo frammento delle prime settanta pagine riscritto da un monaco amanuense del'800, sotto il nome di De originibus iuris. L'autore espone la nascita del diritto a Roma, parlò delle Leggi delle XII Tavole ed affrontò poi la narrazione della storia dei giuristi. La nascita della iurisprudentia romana potrebbe essere fatta coincidere con l'inizio dell'attività dei pontefices. Il termine deriva dalla locuzione pontem facere, dal latino “costruttore di ponti” ed indicava, appunto, colui che “faceva da ponte”, da tramite da l'umano e il divino. Nella Roma arcaica, i pontefici, riuniti nei collegi sacerdotali, avevano il compito di indicare e suggerire, sia alle autorità che ai privati, il giusto comportamento da assumere al fine di salvaguardare la pax deorum e di detenere il monopolio dell'ars magica, mantenendola segreta attraverso i libri pontificales.5 Ciò attribuiva al pontefice un potere praticamente assoluto sulla vita pubblica e, in particolare, sull'ordinamento giuridico. difatti, nella fase primitiva, l'organizzazione giuridica era fortemente permeata del fervore religioso, tanto che le delibere dei pontefici non avevano un valore generale ed astratto, ma si pronunciava sulla precisa fattispecie. Infatti, come afferma Pomponio: << Omnium tamen harum et interpretandi scientia et actiones apud collegium pontificum erant.>> Il monopolio pontificale cominciò a subire un duro colpo con la pubblicazione, da parte di Cneo Flavio, segretario di Appio Claudio Cieco, dei fasti e dei formulari delle legis actiones, che erano esclusiva assoluta dei pontefices. L’evento venne riferito durante un processo da Cicerone, il quale avrebbe sostenuto di tutto pur di arrivare alla vittoria, ma esistono numerose testimonianze storiche sulla sua attendibilità. Lo scriba riuscì ad entrare in possesso dei procedimenti processuali, servendosi di un archivio pontificale, evidentemente non ormai non più inespugnabile e determinò un evento senza precedenti. Infatti le leggi in materia davano indicazioni su come elaborare le formule, che, poi, erano ritualmente e pubblicamente pronunciate durante i processi, ma nulla era mai stato espresso sui criteri via via adottati per risolvere i casi. Inoltre con il passare degli anni e con l'allargamento dei confini di Roma, sorsero nove istanze culturali, che caratterizzarono la civiltà romana a partire dal III secolo. Quindi la nobilitas iniziò a riconoscere l’autorevolezza dei primi giuristi che, pontefici o laici che fossero, mostravano di voler agire più liberamente, fuori dagli schemi procedimentali e sostanziali del passato che non si mostravano abbastanza sensibili ai mutamenti della società. Altro evento fondamentale fu l’ingresso dei plebei nel collegio pontificale, sancito nel 300 a. C. con la lex Ogulnia, strenuamente avversata dai patrizi, da sempre depositari della tradizione sacrale. Questa legge contribuì fortemente anche alla ulteriore diffusione del sapere giuridico, ma 4 Enciclopedia Treccani, definizione giureconsulto. 5 Linee di storia giuridica di W. Kunkel 10 avvenimento di maggior rilievo, sotto questo aspetto, fu rappresentato dalla decisione di Tiberio Coruncanio, primo pontefice massimo plebeo, di dare i suoi responsi in pubblico, così che gli ascoltatori più interessati potessero costantemente assistervi. Con quest'episodio si pose definitivamente fine alla segretezza dell'interpretatio pontificale e la conoscenza dell'ordinamento giuridico divenne materia fruibile a tutti. Il periodo arcaico era, però, caratterizzato dall'oralità del giurisprudenza, per questo non ci sono pervenute alcuna testimonianza scritta. Infatti la nascita della letteratura giurisprudenziale avviene in età repubblicana e viene attribuita Sesto Elio Peto di Catone, soprannominato “il furbo” per le sue abili doti di giurista. Questi fu il superstite figlio minore di Quinto Elio Peto, uno dei numerosi senatori uccisi a Canne nel 216 a. C., e fu eletto come console repubblicano nel 198 a. C. insieme a Tito Quinzio Flaminio. Le poche notizie note sulla sua vita derivano dalle citazioni di Tito Livio e dalla lode di Cicerone. Sesto Elio fu l'autore della Tripertita, opera presa a modello da Pomponio per l'Enchiridion e che, come si intuisce dal titolo, era suddivisa in tre parti: la prima trattava della Legge delle XII Tavole, la seconda dell'interpretaio pontificium e la terza le legis actiones. Egli fu considerato il primo vero giurista romano poiché i precedenti scritti che si perdevano nella tradizione si limitavano a elencare i vari atti normativi mentre lui fu il primo a fare una vera e propria analisi comparata. In epoca repubblicana, i giuristi videro notevolmente accresciuto il proprio ruolo grazie all'instaurarsi di nuove forme processuali, in particolare, con l'istituzione del Processo per formulas. Questo sistema processuale venne introdotto dai pretori per dare tutela a situazioni per le quali non era possibile utilizzare gli schemi del più antico lege agere, infatti questo non si basava sulla pronuncia di precise ed immutabili parole (certa verba), bensì sulla pronuncia di verba concepta, parole concepite di volta in volta dal pretore giusdicente e modellate sulla controversia concreta, grazie alle quali si perveniva ad affidare il giudizio ad un giudice o collegio di giudici. Quindi, i giuristi si trovarono nel ruolo di accrescere notevolmente il ius civile, grazie all'attività consulenziale svolta per i magistrati, nella redazione della formula adatta al caso in questione Tra gli altri giuristi dell'età repubblicana si annoverano quelli che, Pomponio sostiene, fundaverunt ius civile, ossia “rinnovarono il diritto civile”: Publio Mucio Scevola, console nel 133 a. C., Marco Giunio Bruto, pretore nel II secolo a. C. e Manio Manilio, console nel 149 a. C. Publio Mucio Scevola abolì l'uso degli Annales Pontificum, ossia il catalogo ufficiale di tutti gli avvenimenti dell'anno, redatti in ordine cronologico, e fu l'autore della raccolta di questi in ottanta libri, detti Annales Maximi. Egli fu l'autore di numerose opere, di cui, purtroppo, non ci è pervenuto nulla. Marco Giunio Bruto partecipò alla congiura per la morte di Cesare e morì suicida per opera di Antonio. Tra le sue numeroso opere si annoverano le orazioni De dictatura Cn. Pompei, di cui è sopravvissuto un solo frammento riportato da Quinitiliano; la Pro Milone, esercitazione retorica in difesa di Milone, in cui si sosteneva la legittimità dell'assassinio in quanto era stato ucciso un cattivo cittadino, andata perduta; la Pro rege Deiotaro, pronunciata davanti a Cesare in favore di Deiotaro re di Galazia, anch'essa andata perduta; la Contio Capitolina, pronunciata in Campidoglio dopo la morte di Cesare, andata perduta. Infine, Manio Manilio, ricercatissimo come esperto, lasciò un'opera in sette libri, intitolata Manilii monumenta e gli si attribuiscono pure le Manilianae venalium vendundorum leges, ricordate da Cicerone, e le Manilianae actiones di Varrone. Fu sempre nel periodo classico del diritto romano, che si sviluppò tra il I secolo a. C. e la fine della dinastia dei Severi, 235 d. C., o, secondo altre opinioni, l'ascesa di Diocleziano nel 285 d. C., che nacquero le due più importanti scuole di giurisprudenza romana: una detta dei Proculiani, l'altra dei Sabiniani. La fondazione della scuola dei Sabiniani è molto incerta: Plinio il Giovane sostenne che l'istitutore fosse Cassio, mentre secondo Pomponio fu Capitone. Probabilmente la scuola fu fondata non da quest'ultimo, ma da Cassio e Sabino, in quanto le scuole di diritto del I secolo si occupavano esclusivamente di diritto privato e Capitone non si occupò di tale branca del diritto. 11 BIBLIOGRAFIA La nozione di laicità nella giurisprudenza romana di Lorenzo Franchini Riflessioni sul valore canonico della giurisprudenza di Eduardo Baura Il diritto casistico: esperienza romana arcaica e ‘common law’ di Lorenzo Franchini L’evoluzione e la cosiddetta “consolidazione” del diritto imperiale romano da parte della giurisprudenza: brevi osservazioni di Maria Gabriella Zoz Appunti del prof. Briguglio SITOGRAFIA www.wikipedia.it www.treccani.it 14 LE COSTITUZIONI IMPERIALI di Ranaldo Miriana 15 1. LE FONTI DEL DIRITTO ROMANO Importanti per la formazione del diritto romano sono state le fonti del diritto. Per 'fonti' del diritto si intendono tutti quegli atti e quei fatti a cui va collegata la nascita di un qualunque fenomeno giuridico. Essendo creato per disciplinare i rapporti umani, il diritto, ha bisogno non solo di essere prodotto, ma anche di essere divulgato. Pertanto, si distinguono due forme di fonti del diritto: le fonti di produzione e le fonti di cognizione. Le fonti di produzione sono gli atti e i fatti che determinano la produzione di una norma giuridica. La Costituzione, che rappresenta la legge fondamentale dell'ordinamento giuridico italiano, è una fonte di produzione. Per fonti di cognizione, invece, si intendono quei mezzi e quei documenti che forniscono la conoscibilità legale della norma e sono, quindi, i documenti che raccolgono i testi delle norme giuridiche, come la Gazzetta Ufficiale. Nell’ambito delle fonti di cognizione bisogna, poi, distinguere tra quelle che hanno valore legale (Gazzetta Ufficiale e le altre pubblicazioni ufficiali) e quelle che hanno valore meramente conoscitivo. Fra queste ultime si segnala la banca dati Normattiva, creata per offrire gratuitamente su Internet tutto il complesso delle norme statali vigenti. E’ necessario precisare che la dicotomia fonti di produzione – fonti di cognizione talvolta non è così netta. Spesso una medesima fonte giuridica può essere tanto di produzione quanto di cognizione. Tuttavia nel nostro sistema tale bipartizione ha rilievo soprattutto teorico, la distinzione è di grande rilievo, invece, nel mondo antico. ESEMPIO Oggi è la norma stessa, si pensi alla legge e, con visione più ampia al diritto legislativo, a prevedere nel proprio iter formativo la pubblicazione. La legge è, fra tante, una fonte di produzione in quanto identifica un meccanismo che crea la norma giuridica. (FASE GENETICA) Essa, tuttavia, poiché fornisce una conoscenza della norma è anche una fonte di cognizione. (FASE STATICA) 2. CLASSIFICAZIONE DELLE FONTI DI PRODUZIONE. CONSTITUTIONES PRINCIPUM Nel II secolo d.C., all’inizio delle Istituzioni, Gaio enuncia che l’ordinamento giuridico romano deriva da leggi, plebisciti, senatoconsulti, costituzioni dei principi, editti, responsi dei giuristi, fornendoci, secondo la nostra terminologia, l’elenco delle “fonti di produzione”. Non tutte le fonti sopra citate, però, hanno avuto la stessa vigoria nel corso del tempo. Con Augusto la vitalità delle fonti di produzione è apparentemente attiva, ma in realtà iniziano a decedere, meno che le costituzioni imperiali. E’ proprio su queste che porremo maggiore attenzione: sulle constitutiones principum, ossia i decreti dell’imperatore. Gaio, Institutiones “Constitutio principis est, quod imperator decreto vel edicto vel epistula constituit. Nec umquam dubitatum est, quin id legis vicem optineat, cum ipse imperator per legem imperium accipiat.” La costituzione del principe è ciò che l’imperatore stabilisce con decreto o con editto o con epistola. Né mai si dubitò che ciò fosse equiparato a una legge, dal momento che lo stesso imperatore riceve per legge il potere. Nelle Institutiones di Giustiniano la costituzione imperiale non ha più valore pari alla legge, ma è 16 l’influenza che il diritto romano esercitò sulle idee del Medio Evo, e ci rivela l’origine di molti istituti di quest’epoca che altrimenti non si potrebbero in alcun modo comprendere. - CODICE DI GIUSTINIANO. Nel primo anno del suo regno Giustiniano, imperatore romano d’Oriente, elesse una commissione di dieci giuriconsulti, alla testa dei quali pose Giovanni, ex questore del sacro palazzo, e fra i quali vi erano Triboniano e Teofilo, professore di diritto a Costantinopoli. I nuovi decemviri ebbero l’incarico di rivedere tutte le costituzioni degli imperatori, come erano contenute, da Adriano in poi, nei codici Gregoriano, Ermogeniano e Teodosiano, di purgarle dagli errori e dalle contraddizioni, di reciderne quanto era andato in disuso o superfluo e di porre a ciascuna di esse i nomi degli imperatori che le promulgarono, il luogo, il tempo e le persone a cui furono indirizzate e di compendiare il tutto in una raccolta di dodici libri. In quattordici mesi l’opera fu mandata ad effetto ed è probabile che, con l’eleggere una commissione di dieci membri e con il prescrivere il numero di dodici libri, Giustiniano intendesse imitare i decemviri dell’antica Roma che composero la legge delle dodici tavole. Con la pubblicazione del codice di Giustiniano vennero abrogati i codici precedenti, e di conseguenza in Oriente si oscurò il codice di Teodosio, non però nell’Impero di Occidente, dove quest’ultimo continuò ad avere vigore. Del Codice di Giustiniano furono redatte due edizioni: la prima, il Codex Iustinianus primus o vetus del 529, è andata perduta, mentre la seconda, il Codex Iustinianus repetitae praelectionis del 534, ci è pervenuta integralmente, ed è appunto questa seconda edizione, corretta nel suo codice, che fa parte del Corpus Iuris Civilis. 3d. SUDDIVISIONE DELLE COSTITUZIONI IMPERIALI Le costituzioni imperiali sono di diversi tipi. Vengono tradizionalmente distinte in generali e particolari. Alla prima categoria appartengono gli edicta, formalmente indirizzati al senato e al popolo romano. Rientrano invece nella seconda categoria gli atti con cui il principe risolveva singoli casi o questioni sulla base di criteri giuridici che però, per il solo fatto di provenire da lui, erano considerati suscettibili di applicazione immediata a tutti i casi analoghi: tali erano i mandata la cui applicazione avveniva per il tramite dei governatori provinciali, i decreta, in realtà sentenze con cui l’imperatore decideva vertenze giudiziarie, i rescripta, pareri dati ai privati su questioni giuridiche, e le epistulae, pareri dati a funzionari e magistrati. In epoca post-classica sorsero nuove tipologie di costituzioni, quali le pragmaticae sanctiones, utilizzate anche al fine di trasmettere leggi da una parte all’altra dell’impero (occidentale e orientale), e le orationes, derivanti dai discorsi tenuti dal principe in senato, la cui approvazione, da parte dell’assemblea, si era ormai da tempo ridotta a una pura formalità. Oggi conosciamo le leges soprattutto attraverso i codici, nei quali infatti esse (e soltanto esse: non altre fonti del diritto) furono a quel tempo raccolte. EDITTI (Dal latino edicta) Nel 367 a.C. venne creata un’apposita magistratura, la pretura, con il compito di amministrare la giustizia tra i cittadini romani. Il pretore non era un giurista, era un uomo politico. Non emettendo sentenze, non era legislatore, non poteva formalmente far leggi né abrogarle, quindi era poco interessato alle sottigliezze giuridiche. In origine ciascun pretore aveva il compito di emanare, all’inizio del proprio anno di carica, un editto. Gli editti, fondati sullo ius edicendi, caratteristica dell’imperium, ripropongono lo schema dell’editto dei magistrati, sia nella struttura del provvedimento che nella modalità di affissione. Si differenziano tuttavia per ragioni sostanziali. Mentre l’editto del pretore, rappresenta un programma, ovvero l’indicazione dei criteri cui egli dovrà conformarsi nella giurisdizione, l’editto 19 imperiale impone norme generali e astratte, rivolte immediatamente a tutti i soggetti: magistrati, funzionari, sudditi. Inoltre, l’editto del magistrato vale per la durata della carica di chi lo ha emanato, mentre l’editto del princeps, per il suo carattere di astrattezza e generalità, vale anche per i successori, fino a fatti abrogativi. Nonostante la loro importanza complessiva, gli edicta hanno nel principato un significato piuttosto scarso per il diritto privato. L’edictum veniva pubblicato dai vari magistrati giusdicenti all’inizio dell’anno di carica per preannunciare e rendere pubbliche le linee programmatiche alle quali si sarebbero ispirati nel corso dell’anno di carica. Il successore non era giuridicamente vincolato alle disposizioni edittali emanate dal predecessore; tuttavia, in linea di massima, vi era una certa uniformità tra i vari editti ai quali, su una base immutata, venivano apportate le modifiche ed i correttivi, di volta in volta, ritenuti necessari. Si parlò, in proposito, di edictum tralatìcium. Il susseguirsi degli editti magistratuali determinò la formazione di un complesso considerevole di norme che si tramandavano di magistrato in magistrato. Nell’età del principato, la potenzialità creativa dell’edictum si inaridì: anzi, se si deve credere a talune fonti l’imperatore Adriano avrebbe addirittura commissionato al giurista Salvio Giuliano una “codificazione dell’editto”, che assunse così una forma definitiva dalla quale i magistrati non potevano in alcun modo discostarsi. Gli editti si distinguevano in: — edictum perpetuum: Ogni volta che veniva eletto un nuovo pretore, questi emanava il proprio editto perpetuo in cui elencava quali azioni l'attore poteva chiedere, o, in seguito all'istituzione del processo formulare, quali formule tutelava da parte dell'attore e quali situazioni invece tutelava da parte del convenuto con una exceptio; gli editti venivano emanati pubblicamente per farli conoscere al popolo ed erano destinati a rimanere in vigore per tutto l’anno; — edictum repentìnum, era un editto emanato dal pretore in circostanze particolari, quando l'editto perpetuo non era sufficiente. Grazie all’editto repentino il pretore poteva apportare correzioni e modifiche. Al di fuori di ogni pronuncia edittale il magistrato poteva anche adottare una decisione specifica ed estemporanea con un decretum. Questo tipo di editto era valido solo per quella fattispecie o per quel dato periodo di tempo, ovvero rimediava alle lacune dell'editto perpetuo che in una circostanza si erano verificate o magari anche per uniformarsi a una nuova costituzione dell'imperatore appena emanata. Questo editto perciò poteva avere anche un limite di tempo scaduto il quale, o venuta a mancare la fattispecie, non era più valido. Lo stesso nome repentinum suggerisce l'idea di veloce o immediato. MANDATA I mandata (letteralmente mandati) costituiscono essenzialmente delle istruzioni inviate dall’imperatore ai propri funzionari periferici e ai governatori delle province, in forza dell’ imperium proconsulare, in merito alle modalità di conduzione ed esercizio della loro attività amministrativa. Anche il valore dei mandata sembra essere in un primo momento limitato: temporalmente alla durata della vita dell’imperatore emanante e soggettivamente rispetto ai soli destinatari; successivamente, tuttavia, anche queste limitazioni vengono presumibilmente a cadere. DECRETO (Dal latino decretum, participio passato di decernere, ossia deliberare, decidere) 20 Nel diritto costituzionale italiano, si definisce decreto l'atto avente forza di legge, emanato dal governo in seguito a delega del parlamento (decreto legislativo delegato) o in attesa dell'approvazione del parlamento stesso (decreto legge). I decreti, nel diritto romano imperiale, erano invece pronunce o sentenze emesse dall'imperatore, in qualità di detentore del potere giudiziario, al termine dei processi straordinari da lui presieduti. Il decreto si inseriva nella quotidianità, limitandosi ad applicare il diritto vigente; altre volte invece doveva misurarsi con le norme. In questo caso l’imperatore, decidendo, creava veramente il principio di diritto, che, collegandosi alla sua autorità, andava pienamente ad assumere valore di legge. Per quanto infatti la decisione valesse solo per il caso concreto, la sostanza della pronuncia costituiva un exemplum da cui gli altri giudici, in forza dell’autorità imperiale, evitavano di discostarsi, condizionando i giuristi e le ulteriori decisioni imperiali. Si diffuse in seguito la consuetudine di equiparare tali sentenze alle costituzioni imperiali, le leggi emanate dall'imperatore. RESCRIPTUM ed EPISTULA (Rescritto e lettera) Il rescriptum è una risposta data ad un quesito, attinente a questioni giuridiche, rivolto all'imperatore da parte di un privato o un pubblico funzionario. Il parere, apposto in calce all’istanza, diveniva un indirizzo giuridico generale. In genere conteneva la clausola “Si vera sunt ea quae complexa es” ("Se sono vere le affermazioni che hai riassunto"). Il rescritto imperiale, che affrontava i problemi dal punto di vista generale, non si pronunciava sul merito della questione. Quindi il principio trovava applicazione nella fattispecie concreta, solo se i fatti riassunti nel quesito corrispondevano a verità. L’epistula è invece la risposta a una richiesta, proveniente da funzionari o magistrati. Essa è uno scritto diretto ad una persona o ad un gruppo di persone, normalmente una lettera formale ed elegante. A parte il diverso destinatario, il che implica differenze formali, entrambe perseguono lo stesso scopo: risolvere una questione di diritto. BIBLIOGRAFIA Istituzioni di diritto romano. Danilo Dalla, Renzo Lambertini. Istituzioni di diritto romano comparato al diritto civile. Filippo Serafini. SITOGRAFIA www.wikipedia.it www.brocardi.it www.treccani.it 21 servile, non poteva accedere alle condizioni di ingenuo in quanto insite dalla nascita, il liberto doveva rispetto e gratitudine a chi lo aveva liberato. Egli è comunque in condizione di sottomissione nei confronti del padrone pur non essendo più in una condizione di schiavitù. Giustiniano elimina con la novella ''78'' queste distinzioni : uno schiavo liberato diviene direttamente ingenuo, gli obblighi di gratitudine non vengono però sciolti. Il liberto dunque è colui che passa dalla condizione di servo a quella di uomo libero, inizialmente è soggetto a mano e potestà, in seguito è liberato da essa. Ciò deriva dal diritto delle genti, per il diritto naturale invece tutti nascerebbero liberi, non sarebbe dunque nota la manomissione (atto con cui il padrone rinuncia alla potestà sul servo), essendo sconosciuta la schiavitù (la schiavitù è un istituto del diritto delle genti secondo il quale un individuo è assoggettato ad un altro contra naturam, da Fiorentino si riprende la definizione di schiavo, per Aristotele la schiavitù è giusta in quanto voluta dalla natura stessa per la conservazione del genere umano, vi deve essere il dominato e il dominatore, questa idea sua è un’eccezione). Tutti i tipi di manomissione devono essere tipizzati, devono essere conformi a delle norme, non possono essere dettati dalla volontà del padrone, ve ne sono di diversi modelli: per mensa, per testamento, per fedecommesso, per adozione (il servo viene adottato dal padrone, che non diventa suo padre ma è libero). Vi sono però dei casi in cui non è possibile manomettere. I divieti derivano da due leggi , la lex Fufia Caninia , abrogata con la salita al trono di Giustiniano, fissava un numero massimo di manomissioni di servi per testamento, ritenuta mal disposta per il rispetto della libertà e la lex Aelia Sestia. Queste leggi disponevano che i padroni di età inferiore ai vent'anni potevano manomettere solo nel caso in cui una commissione riconosceva la causa. Le manomissioni erano nulle in frode dei creditori o del patrono, in ragione delle sue aspettative successive. Io metterei tutti i verbi al passato,, quando possibile -Il matrimonio Introduciamo la definizione di Nozze che, ci viene fornita nel capitolo dedicato alla patria potestà, in quanto essa è esercitata sul presupposto di procreazione in costanza di matrimonio conforme al diritto. Le nozze erano strumento per una discendenza legittima e non avevano una data di scadenza in quanto erano pensate come unione duratura e la possibilità di divorzio era esclusivamente per mutuo consenso. Le nozze erano legittime se convenivano fra cittadini romani, uniti secondo legge, e se vi era il consenso di entrambe le parti (affectio maritalis); tuttavia erano legittime se raggiunti i quattordici anni per i maschi e i dodici anni per le femmine ed era inoltre necessario il consenso degli ascendenti. Vigeva il divieto assoluto di endogamia, ovvero matrimonio fra parenti in linea collaterale, e il divieto di matrimonio in via retta che costituiva incesto. Nell'antica Roma il divieto di matrimonio era molto rigoroso e rigido, non potevano sposarsi padre e figlia, madre e figlio o ancora ava e nipote, poiché erano considerate nozze empie ed incestuose. Era rigido a tal punto che il vincolo di nozze si estendeva anche sull'adozione, pur disciolta, continuava a valere la medesima negazione, il figlio adottivo infatti pur non avendo un legame di sangue era del tutto equiparato a un figlio naturale. Questa rigidità si attenua però nelle nozze fra persone unite da parentela collaterale (riguardo l'adozione ad esempio, una volta compiuta emancipazione veniva meno la proibizione di matrimonio). Anche per rispetto all'affinità, che lega un coniuge ai parenti dell'altro coniuge, bisognava astenersi dalle nozze con alcune persone: era proibito sposare la suocera o la matrigna, in quanto svolge il ruolo di madre, dunque costituisce un impedimento anch'essa, anche se il divieto viene meno una volta sciolta tale affinità. 24 -L'adozione Il Titolo dieci del libro primo riguarda l'adozione. L'adozione era possibile in due modi, o per rescritto del principe mediante arrogazione (consisteva nel poter adottare dei soggetti che già giuridicamente autonomi) o per imperio del magistrato (si trattava di un finto processo preceduto da emancipazione). L'adozione doveva tuttavia imitare la natura, non poteva esserle ostile, andarle contro (per medesimo motivo uno più giovane non poteva adottare uno più vecchio, era necessario che l'adottante superasse l'adottato di una piena pubertà, ovvero diciotto anni). Sono presentati da Giustiniano vari casi di adoptio: il padre naturale che dà in adozione il figlio ad un non estraneo, un figlio che viene adottato da un soggetto estraneo che dispone esclusivamente di diritti successori. Viene spiegato il caso in cui un figlio venga adottato da un avo: diversamente dalla situazione precedente l'adottato rimane in famiglia, quindi in esso convivono tutti i diritti. Lo scopo di Giustiniano è di tutelare al massimo i vincoli naturali. Fatto principale e motivo di enorme cambiamento riguarda l'arrogazione dell'impubere, consentita in età giustinianea. Si valorizza il potere pubblico nel constatare l'onestà dell'adozione e la convenienza del pupillo. Nel caso in cui questo morisse prima di esser giunto a maggior età e prima che sia stato stipulato un testamento, si arriverebbe alla tassativa restituzione dei beni da parte dell'arrogatore a coloro che sarebbero stati eredi in caso di non arrogazione. Giustiniano risolve inoltre un saliente quesito di Gaio, che sostanzialmente si chiedeva se le donne potessero adottare. L'imperatore giunse alla conclusione che la donna potesse adottare, ma solo in determinate circostanze. Per esempio, se avesse perso un figlio, l'imperatore per conforto e benevolenza avrebbe potuto conferirle il diritto di adottare. Elemento chiave per comprendere i rapporti familiari è il diritto di potestà. La patria potestà spetta solo all'uomo, sono in potestà solo i procreati da figli maschi, i discendenti della figlia invece appartengono al padre di essa. Vi sono diversi modi per estinguere tale potestà, la morte naturale dell'ascendente, la capitis deminutio, o quando il padre avendo perso la cittadinanza romana, rende giuridicamente autonomi i discendenti. Il secondo libro Il secondo libro è dedicato alle res (cose), le quali alcune sono comuni a tutti, ad esempio l'aria, l'acqua piovana, il mare e i conseguenti lidi, in cui a nessuno è dunque vietato andare, altre sono pubbliche, mentre altre ancora non appartengono a nessuno, come ad esempio le cose sacre e religiose. Ci viene presentata una distinzione tra cose corporali e incorporali, tra cose che quindi sono tangibili e non. Si parla di cose incorporali con allusione a usufrutto, eredità etc. e si riscontra una breve trattazione del concetto di servitù, la quale è bipartita in servitù urbane e servitù rustiche. Le prime interessate ai rapporti funzionali con gli edifici, le seconde sono più antiche e riguardavano per lo più i fondi, i passaggi, gli acquedotti. I titoli quattro, cinque e sei sono dedicati all'usufrutto e all’uso e ai metodi di acquisto mediante esso. -Usufrutto,uso e metodi di acquisto mediante esso Per usufrutto si intende la ragione di usare, di adoperare le cose altrui. Non solo fondi, case, beni, ma anche i servi sono soggetti a usufrutto e con essi anche tutto ciò che venendo usato, non si consuma, in caso contrario non potrebbe avvenire l'usufrutto per delle ragioni naturali, in quanto non si conserverebbe la sostanza della cosa ("Usus fructus est ius alienis rebus utendi fruendi salva rerum substantia"). L'usufrutto è separato dalla proprietà in quanto l'usufruttuario gode del bene comportandosi da proprietario, ma non lo è, e proprio per questo motivo Giustiniano specificò i vari modi che lo estinguessero facendolo ritornare alla proprietà. L'usufrutto termina nel caso in cui dovesse morire l'usufruttuario, o per dei mutamenti di stato, per capitis deminutio e perdita della cittadinanza Romana, non usus e per consolidatio, momento in cui la figura dell'usufruttuario viene a coincidere con quella del nudo proprietario in caso di acquisto. Uso e usufrutto hanno simili sfaccettature, pur essendo differenti, cominciano e finiscono nel medesimo modo. Le differenze 25 sostanziali riguardano la volontà di uno e dell'altro, in quanto all'usuario spettano ad esempio solo i "frutti" da dare alla propria famiglia quotidianamente, l'usufruttuario invece riceve i frutti nella maniera in cui a lui pare più lecito. In aggiunta l’usuario non può per altro vendere, donare o affittare il bene che ha in uso. Diciamo che quest'ultimo è una sorta di "fratello minore" dell'usufrutto, che dispone di poteri ben più limitati. Mediante uso si può acquistare solo in determinate condizioni: nel caso in cui vi sia buona fede, deve esistere il giusto titolo volto a spiegare l'inizio di un possesso e quest'ultimo deve essere continuato, non si possono acquistare schiavi, fuggitivi, cose sacre oppure cose rubate, perché vietato dalla legge delle dodici Tavole e dalla legge Giulia (le cose rubate e furtive possono tuttavia essere acquistate mediante uso una volta che questo peccato sia stato "purgato"). -L’eredità Nel libro secondo ci viene illustrata l'eredità. Vengono differenziati gli eredi in base alla qualità e i vari tipi di testamento. Ne vigevano di due tipi: calatiis comitiis, forma arcaica che prevedeva l'istituzione del proprio erede innanzi al popolo in comizio e la forma in procintu che rappresentava l'unico modo di testare nella Roma antica, sempre però premettendo che il de cuius non dovesse avere heres sui, altrimenti tutta l'eredità sarebbe stata necessariamente a lui devoluta. Il primo era usato in tempo di pace, il secondo invece era utilizzato in tempo di guerra, con il passare del tempo però caddero ambedue in disuso. Era necessario per poter stipulare un testamento che le sottoscrizioni del testatore e dei testimoni a tale atto fossero concerni alle sacre costituzioni, che i sigilli convenissero per editto del pretore ed era necessario che si constatasse l'effettiva sincerità del testamento e che il nome dell'erede fosse scritto per mano dello stesso testatore. Fare testamento non era tuttavia previsto per tutte le persone, non era concesso a coloro i quali fossero sottoposti ad un altrui volere, per esempio ai figli in potestà del padre, neppure se egli stesso avesse conferito loro una licenza, in primo luogo perché il testamento non poteva dipendere da altrui volontà e in secondo luogo perché il testamento era di ragione pubblica, non bastava il consenso del padre per far sì che potesse farlo. Lo stesso valeva per i fanciulli, per i pazzi , non essendo capaci di intendere, similmente muti e sordi e ciechi, a cui però erano concesse delle eccezioni in determinati casi. Alla base del testamento vi era l'ordinazione degli eredi, classificati come necessarii, sui et necessarii e extranei. Gli eredi neccessarii erano tutti coloro che non potevano rifiutare in alcun modo l'eredità, erano schiavi che erano stati istituiti come eredi ed in seguito dichiarati liberi, la libertà veniva quindi conferita dal testamento, non potevano essere liberi al momento del testamento altrimenti sarebbero stati considerati Extranei. Sui et necessarii erano invece i discendenti in potestà del testatore, quali figli e figlie, o nipoti il cui padre fosse nel frattempo morto o uscito di potestà, i quali erano detti sui heredes, poiché eredi domestici, e necessari perché anch’essi non potevano rifiutare l’eredità, sebbene il pretore consentisse loro di non immischiarsi nelle faccende ereditarie. Infine erano Extranei tutti gli altri, quelli autonomi, usciti dalla potestà paterna e dunque nominati eredi dalla madre. Erano extranei gli schiavi manomessi dal testatore, questi erano gli unici eredi ad avere la possibilità di scegliere se accettare o meno l'eredità (detti anche eredi volontari), ammesso che abbiano avessero compiuto venticinque anni. 26 LA LEGGE DELLE CITAZIONI di Rondina Alessandra INDICE 1. Il periodo post classico 2. Le fonti del diritto romano 3. Gli intensi mutamenti del III secolo d. C. 4. La legge delle XII tavole 5. Il codice Gregoriano, Ermogeniano e Teodosiano 6. La legge delle citazioni 29 Il periodo post classico Il periodo post classico inizia con la fine dell’età dei severi, nel 230 d. C. ed è ricordata come l’età della decadenza, infatti, i confini traballano, l’esercito crolla insieme all’Impero d’Occidente, un vero e proprio periodo malato e con lui anche il diritto. Dopo la dinastia severa l’Impero romano inizia a percorrere una profonda crisi sia politica che economica, e questa decadenza si riversa anche nel settore giuridico con la sparizione della giurisprudenza e dei giuristi. Infatti, si dice che con la perdita di Modestino sia morto l’ultimo giurista classico. Le scuole non insegnavano più diritto ad alto livello, i giuristi post classici non davano risoluzioni geniali ai casi come facevano i giurisperiti classici, addirittura, non esistono proprio nomi di giuristi vissuti nel III secolo d. C., proprio perché il diritto divenne volgare, di basso profilo, per questo motivo sarà anche l’epoca dei riassunti, perché è a questo che si limitavano i giuristi di quel tempo, a riassumere e semplificare le opere dei grandi giuristi classici, infatti, nasceranno opere come “Epitomi Iuliani”, “Epitomi Gai”, “Le sentenze di Paolo” . La giurisprudenza perde dunque definitivamente la sua mansione creativa, il suo incarico, viene sostituita direttamente dall’imperatore passando così da un diritto giurisprudenziale ad un diritto legislativo. L’età postclassica vede al suo levarsi la scomposizione dell’Impero in 2 parti: La parte d’Oriente con capitale Costantinopoli e la parte d’Occidente con capitale Roma. Da questo momento in poi abbiamo imperatori d’Oriente ed imperatori d’Occidente, Costantino e Diocleziano e si andò così affermando l’assolutismo imperiale in base al quale si presuppongono come uniche fonti del diritto le leges imperiales, quindi le costituzioni emanate da ciascun imperatore erano valide solo per la propria patria ed avevano forza di legge. Precisiamo che il diritto scaturito dalle costituzioni imperiali, chiamate leges è lo ius novum mentre lo ius vetus sono gli iura, cioè gli scritti dei giuristi classici. Le fonti del Diritto Romano L’ordinamento giuridico dell’antica Roma, apparato dotato di un alto e notevole grado di compiutezza e completezza, si fonda su un vigoroso sistema di fonti di produzione del diritto. Differentemente tuttavia dagli ordinamenti giuridici coevi, tale sistema non considera un rapporto gerarchico tra le varie fonti in maniera che alcune siano subordinate o sovra ordinate ad altre. La legge è sia fonte di produzione, perché riconosce un meccanismo che crea la norma giuridica, che fonte di cognizione, intesa come documento che somministra la conoscenza della norma. Vengano osservate ora solo le fonti di produzione del diritto, identificate secondo le classificazioni eseguite da Gaio. Egli sostiene che l’ordinamento giuridico romano derivi da Leggi, Plebisciti, Senatoconsulti, Costituzioni dei principi, editti dei magistrati e dai responsi dei giuristi. Le leggi sono norme giuridiche approvate dal popolo riunito nelle assemblee popolari (comizi centuriati e tributi) e vennero introdotte nel mondo romano come strumento dell’adeguamento. Le sue comparse sono state definite dal bisogno di parità della classe plebea. Nel periodo di Augusto è stata realizzata una politica di cambiamento delle strutture istituzionali, l’imperatore si impossessò dei poteri degli istituti romani, vuotando gradualmente, anche se comunque formalmente tutti questi organi risultavano ancora attivi. I plebiscita sono norme giuridiche approvate formalmente dalla plebe riunita nei concilia plebis tributa su proposta del tribuno plebis. In origine Gaio spiega che i patrizi sostenevano di non essere tenuti all’osservanza dei plebisciti in quanto approvati senza la loro partecipazione: la distinzione fra legge e plebisciti esaurisce la sua rilevanza nella pratica successivamente alla Lex Hortensia (286 a. C.) grazie alla quale si equipararono i plebisciti alle leggi comiziali, restituendo le deliberazioni della plebe vincolanti 31 anche a tutto il resto della popolazione romana. Successivamente, quei principi che avevano avuto via nei mores li misero per iscritto dando via alla prima codificazione dei romani: la legge delle XII tavole. I senatoconsulta sono norme giuridiche emanate dal Senato per assegnare direttive politiche ai magistrati in forma di consiglio non vincolante, ma somministrando un potente strumento di pressione. Le costituzioni imperiali sono la diretta espressione della volontà imperiale, il baluardo del potere normativo dell’imperatore. Furono dette anche leges, in età tardo-antica, allorché per la sparizione delle leggi popolari ed essendo state a queste uguagliate, le costituzioni imperiali rimasero in effetti l’unica fonte del diritto di rango propriamente legislativo. Vengono tradizionalmente distinte in generali e particolari. Alla prima categoria appartengono gli atti con cui il principe disponeva in modo generale e astratto per la disciplina delle fattispecie-tipo individuate; Esse comprendevano gli edicta, norme generali ed astratte rivolte a tutti i consociati quindi al senato ed al popolo romano, i mandata che erano norme speciali, istruzioni che dava l’Imperatore ai funzionari della provincia, ai governatori regionali. Rientrano invece nella seconda categoria i decreta, gli atti con cui il principe deliberava singoli casi o faccende sulla base di criteri giuridici che però, per il solo fatto di provenire da lui, erano considerati suscettivi di applicazione tempestiva a tutti i casi analoghi (sentenze emanate dall’Imperatore in veste di giudice), i rescripta, risposte fornite dall’Imperatore su questioni giuridiche sottoposte da un privato cittadino e infine le epistulae, che fondamentalmente erano simili ai rescripta, ma la questione è posta non più da un privato ma da un funzionario o magistrato su una questione giuridica controversa ed inoltre vengono scritte su un diverso documento. Gli editti dei Magistrati, e questi hanno avuto un’ampia rilevanza perché la figura del pretore prese provvedimenti per migliorare quegli aspetti del diritto civile romano che apparivano contrari e inadeguati ai criteri e alle esigenze di equità e giustizia a cui doveva permeare il diritto Romano: il pretore quindi apporta modifiche a questi istituti rendendoli più moderni, bloccandone per il momento gli effetti. Il pretore è un magistrato urbano, al quale spetta per l’appunto il compito di amministrare la giustizia tra cittadini romani. Venne poi creato anche il pretore peregrino il quale aveva il compito di amministrare la giustizia tra i romani e gli stranieri fra gli stranieri. Esso non è né un giudice e nemmeno un legislatore. Ogni magistrato all’inizio della sua carriera emana un programma che prende il nome di editto perpetuum, il quale indica i principi ai quali il pretore stesso si atterrà nell’amministrazione della giustizia. Il pretore tendenzialmente conservativo, rimpiazzando un collega, si riserva di conservare quella parte dell’editto emanato dal predecessore che aveva operato in maniera ideale, ovvero un nucleo immutato chiamato editto tralaticium. Altra tipologia di editto emanato dal pretore è l’editto repentinuum, ovvero quell’editto che poteva essere emanato durante l’anno di carica. Per evitare che il pretore non rispetti i criteri da lui stesso fissati durante il mandato, venne emanata una legge chiamata Lex Cornelia de Edictis (67 a. C.) che ordinava che i pretori dovessero risolvere le controversie in modo conforme all’editto. Questa forza propulsiva del pretore non era ben vista dall’Imperatore poiché riteneva che il pretore potesse ottenere nelle sue mani tutto il potere giuridico, in seguito a questo l’attività creativa del pretore venne fossilizzata, l’Imperatore Adriano incaricò nel 130 d. C. Salvio Giuliano, un giurista affinché codificasse un solo e definitivo editto al pretore e da quel momento l’editto perpetuum divenne immodificabile: vi possono essere applicate variazioni solo nel caso in cui un imperatore emani una costituzione imperiale che lo muti. I responsi dei giuristi sono l’attività giurisprudenziale nel suo complesso che può qualificarsi fonte del diritto. La parola giurisprudenza è la scienza del diritto, in senso soggettivo sono i giuristi mentre in senso oggettivo sono le opere dei giuristi. 32 appellarsi erano i rescritti, ovvero le suddette risposte fornite dall'imperatore su questioni giuridiche controverse: i rescritti però non erano facili da trovare perché essi venivano inviati unicamente a chi ne avesse fatto richiesta. Considerata l’utilità di questi rescritti si sente il dovere di eseguire una raccolta di queste risposte dell’imperatore: i giuristi si misero alla loro ricerca in modo da formare opere di raccolta di rescritti, fra le quali spicca quella di Papirio Giusto, prima opera di raccolta dei rescritti di circa un ventennio (161-180 d. C.). Nel III secolo vennero realizzati sotto il governo di Diocleziano altri due codici: il Codice Gregoriano e il Codice Ermogeniano. Successivamente nella più propizia situazione orientale nel 429 l’imperatore Teodosio II imbocca la via per un disegno innovativo: l'idea era quella di realizzare due codici distinti, il primo contenente solo edicta sottoforma di archivio storico, quindi vi inserì anche quelli abrogati, mentre il secondo consisteva in una riedizione del primo eliminando gli edicta abrogati ed inoltre contenente anche rescripta e iura. Il primo codice era teoretico, mentre il secondo più pratico. Dopo vari esiti negativi il decisivo progetto partì nel 435, individuando una soluzione per il problema degli iura e dei rescripta: per i secondi si ufficializzano le stesure dei due codici privati Ermogeniano e Gregoriano mentre per quanto riguarda gli iura si adoperò la legge delle citazioni. La legge delle XII tavole È la più lontana opera legislativa di Roma, fu stilata negli anni 451 e 450 a. C., per volere della plebe, al fine di rendere più conoscibile e indiscusso il diritto, fino allora tramandato oralmente e applicato di volta in volta, caso per caso, in forza dell’interpretazione segreta dei giuristi-pontefici, questi appartenevano al solo patriziato, e il fatto stesso che gli usi venissero messi per iscritto avrebbe rappresentato, a prescindere dal loro effettivo contenuto, un trionfo della componente plebea della popolazione. In particolare, chiedevano un'attenuazione delle leggi contro i debitori insolventi e leggi scritte che limitassero l'arbitrio dei patrizi nell'amministrazione della giustizia. Furono considerate dai Romani fonte di tutto il diritto pubblico e privato. Sono mere elencazioni di prescrizioni, esse già consentono di individuare i germi di un sistema giuridico, sostanziale e processuale, che cerca di organizzarsi su di una base razionale. I redattori non introdussero grandi novità, si limitarono a redigere per iscritto gli antichi mores. Intorno al VI secolo a. C., i Romani dimostrarono di avere seri problemi di coesione interna. Il rapporto tra patrizi e plebei andava inasprendosi sempre di più, a causa delle condizioni difficili sotto il profilo economico in cui versava la plebe, condizioni che erano notevolmente peggiorate proprio a causa delle continue guerre che Roma aveva dovuto affrontare contro i suoi tanti oppositori. Cicerone ci narra che ancora ai suoi tempi (I secolo a. C.) il testo delle Tavole veniva studiato a memoria dai bambini come una sorta di poema d'obbligo. Il linguaggio delle tavole è ancora un linguaggio arcaico ed ellittico e ci è giunto solo in pochi frammenti e si stima che le disposizioni giunteci, in forma diretta o indiretta, coincidano a meno di un terzo del testo completo. Quindi è molto incerto il contenuto delle singole tavole . Stando alla tradizione il tribuno Terentilio Arsa propose fin dal 461 la nomina di una magistratura speciale a cui affidare la redazione di queste leggi. Vista l’opposizione del Senato, nel 451, sospese tutte le magistrature ordinarie, si nominò un collegio di decemviri legibus scribundis, concepito tutto da patrizi che avevano già rivestito la magistratura suprema. Furono opera loro 10 tavole di leggi, poi sottoposte all’approvazione dei comizi centuriati. Nel 450 fu eletto un nuovo decemvirato, dove, accanto a vecchi membri patrizi rieletti, vi furono anche 3 plebei. Opera di questo secondo decemvirato furono altre due tavole, le quali però – per alcune disoneste disposizioni contenute, perché non sottoposte all’approvazione dei comizi e del popolo e perché il decemvirato allo scadere dell’anno di carica si rifiutò di dimettersi, assumendo portamenti tirannici – provocarono sommosse di popolo con relativo allontanamento della plebe. Restaurate le 35 magistrature ordinarie, nel 449 i consoli fecero incidere le leggi su 12 tavole di bronzo, poi esposte al popolo. Si ritiene che la meta di questa magistratura straordinaria sia stato quello di annientare il contrasto tra patrizi e plebei e di portare le leggi alla comprensione di tutti. Si sarebbe trattato dunque soprattutto di una riforma costituzionale. Le XII tavole ebbero quindi il carattere di una legislazione accettata unilateralmente dal patriziato alla plebe. La sua grandezza non fu tanto nel contenuto delle norme, bensì sulla saldezza normativa, ottenuta attraverso la stesura in forma scritta, che garantiva certezza. I patrizi riuscirono a custodire i loro privilegi, ma la plebe ottenne una raccolta di leggi che salvaguardava una loro maggiore difesa legale. Cicerone afferma che le XII tavole superano, per il peso dell’autorità e per la ricchezza del suo valore pratico intere biblioteche di filosofi. (De Oratore 1.4.195) Codice Gregoriano, Ermogeniano e Teodosiano Le prime raccolte di costituzioni imperiali discendono dall’epoca di Diocleziano (284-305 d. C.) e giungono quasi tutte dalla pars occidentalis; la giurisprudenza in vigore nell’area orientale non si indirizzò alla produzione di antologie, favorendo lo studio diretto delle opere classiche e sostenendone la codificazione. Si parla dunque di Codice Gregoriano integrato dal Codice Ermogeniano, istantaneamente seguente che venne largamente impiegato anche in seguito. In particolare, Teodosio II pubblicò nel 438 una nuova raccolta, per le sole materie non ancora regolate dai codici anteriori, dei quali pertanto ammetteva implicitamente il valore. Il Codex Gregorianus risalente al 293 d. C. circa è una raccolta non ufficiale di costituzioni imperiali, in particolare di rescripta compresi fra l’età Adrianea e quella Diocleziana, ossia pareri ufficialmente rilasciati dal principe su pretesa dei cittadini, in materia di diritto privato. La maggior parte di essi promanavano dallo stesso imperatore allora regnante e utilizzato dai compilatori giustinianei, ci sono giunte documentazioni indirette contenute nelle leggi romano-barbariche e in alcune raccolte miste di leges e iura, per esempio nei Vaticana Fragmenta. L'opera, non sopraggiunta direttamente fino a noi, è strutturata in almeno quattordici o quindici libri, divisi in "titoli", e "rubriche" in ordine cronologico. Si tratta di un modello strutturale che verrà adoperato da tutte le consecutive raccolte di leges. L'opera è stata in parte ripristinata grazie alla Lex Romana Wisigothorum (che ne contiene un riassunto) e ad altre opere che ne contengono alcuni frammenti, come la Lex Romana Burgundionum, la Mosaicarum et RomanarumlegumCollatio, e i Vaticana Fragmenta. Il Codex Hermogenianus emanato e compilato in Oriente potrebbe forse accertare con l'omonimo giurista che fu autore delle iuris epitome, e che fu funzionario della cancelleria imperiale sotto Diocleziano, infatti, raccoglieva principalmente rescritti dell’imperatore Diocleziano emanati dopo il 291 d. C.; non ci è giunto direttamente e anch’esso fu alla base del Codex Iustiniani. Non era diviso in libri ma in titoli, nei quali le costituzioni andavano secondo un ordine cronologico. Entrambi i Codici ebbero estesa espansione e vennero impiegati sia nella prassi che nelle scuole. Il Codice Teodosiano (Codex Theodosianus,) è una raccolta ufficiale di costituzioni imperiali voluta dall'imperatore romano d'Oriente Teodosio II (408-450). L’originario progetto di codificazione risale al 429. Nel marzo di quell'anno Teodosio II emanò a Costantinopoli una costituzione imperiale con la quale diede l'incarico ad una commissione di otto membri di dare vita a due codici: il primo, destinato agli studiosi del diritto, avrebbe dovuto accogliere le costituzioni imperiali, anche non più in vigore, emanate dall'epoca dell'imperatore Costantino I in poi, mentre il secondo, rivolto agli operatori del diritto, avrebbe dovuto racchiudere le costituzioni imperiali vigenti esperite dai codici Gregoriano ed Ermogeniano e dal codice appena creato. Ad integrazione di esse si sarebbero dovuti annettere i brani giurisprudenziali tratti dalle opere dei giureconsulti romani più considerevoli. Nel dicembre del 435 Teodosio II, rendendosi conto dell'insuccesso di questo progetto, emanò una nuova costituzione con la quale commissionò ad una commissione di 16 membri il compito di stilare un solo codice, comprendente costituzioni imperiali da Costantino in avanti. Questa volta i commissari ebbero la concessione di introdurre le costituzioni raccolte al fine di adattarle alle nuove 36 esigenze dell'impero. Il Codice Teodosiano era disgiunto in sedici libri, ognuno ulteriormente suddiviso in titoli e le costituzioni erano riportate per materia e in ordine cronologico. Fra i libri il primo si occupava delle fonti del diritto e delle competenze dei funzionari imperiali; quelli dal secondo al quinto trattavano del diritto privato, mentre il nono riguardava il diritto criminale. Nello stesso anno Teodosio II inviò il codice a Valentiniano III (imperatore d'occidente) come regalo di nozze. Ci si aspettava che Valentiniano III emanasse una pragmatica sanctio per l'entrata in vigore del codice, ma non fu così; egli si servì di un certo Fausto (prefetto d'Italia) il quale deteneva una copia del codice e la lesse al Senato affinché fosse approvata. Il Senato romano l'accolse per acclamazione della seduta, ed il codice entrò in vigore il primo giorno dell'anno 439, in tutto il territorio imperiale. Il Codice teodosiano fu un avvenimento epocale, dato che prima della sua divulgazione vi erano solo il codice Gregoriano ed Ermogeniano, che ben si discernono dal Codice Teodosiano, dato che furono composti da privati e che quasi certamente servivano ai funzionari imperiali per meglio amministrare la giustizia, mentre il Codice Teodosiano fu voluto da un imperatore. La sua entrata in vigore non determinò l’abrogazione del Codice Gregoriano e del Codice Ermogeniano, anzi il Codice Teodosiano aveva carattere supplementare delle precedenti compilazioni. Inoltre esso conteneva quasi esclusivamente leges generales, mentre negli altri due erano presenti per lo più rescritti ed epistole. Il Codice Teodosiano, giuntoci imperfetto attraverso vari manoscritti, stette in vigore in Oriente fino al 529 d. C., anno di pubblicazione del primo Codice Giustinianeo, mentre in Occidente sopravvisse molto più a lungo poiché venne in gran parte trasfuso nella Lex Romana Visigothorum, emanata nel 506 d. C. ed estesa all’Italia nel 568 d. C. La legge delle citazioni Il 7 novembre del 426 d. C l'Imperatore d'occidente, Valentiniano III emanò una constitutio principis emanata per risolvere lo ius controversum dovuto all'applicazione del diritto classico in epoca post classica, conferita anche a Teodosio II, nota ai moderni come "legge delle citazioni" che venne in seguito inserita nel Codice Teodosiano. In questo periodo siamo appunto di fronte ad una situazione di grande caos dovuta ad una presenza incalcolabile di fonti, a danno della certezza del giudizio. La legge delle citazioni dunque impone delle regole che regolano l'utilizzo in giudizio degli iura. In quell'epoca di effettiva decadenza della cultura giuridica, le opere dei giuristi erano divenute vere e proprie fonti del diritto (iura, contrapposto nella terminologia post classica alle leges, emanate dall'imperatore). La pluralità di soluzioni offrite per i casi concreti dei singoli giureconsulti, metteva a dura prova i giudici, tra l'altro non certo sempre esperti di diritto, interpellati ad esercitare un potere discrezionale spesso smisurato nel decidere la controversia scegliendo di attenersi alla soluzione enunciata da un giurista piuttosto che a quella sostenuta da un altro. La costituzione del 426, in tale contesto mirava chiaramente a limitare, selezionare e razionalizzare le allegazione in giudizio degli scritti giurisprudenziali. La legge delle citazioni contraddistingue un momento significativo, anche se non certo il più sfavillante, nel lungo processo evolutivo che aveva conosciuto la giurisprudenza romana, con attenzione in particolare all’ideazione del valore degli scritti dei giuristi. Come noto nell'età arcaica, e ancora sino al III secolo a. C. la giurisprudenza era stata monopolio esclusivo dei potifices, negli ultimi due secoli del periodo repubblicano alla giurisprudenza pontificale si era poi affiancata quella laica, che giunse a poco a poco a surrogarla. I giureconsulti, oltre a quella del cavere, svolgevano l'attività dell'agere e la più rilevante del respondere, da cui deriva il termine responsum: risposta ad un quesito riguardante l'applicazione di norme giuridiche a un caso concreto. 37 DUODECIM TABULARUM LEGES di Santoro Gianmarco Indice (1) Il contesto storico-politico (2) Palingenesi delle XII Tavole (3) Il contenuto (4) Interpretazioni delle XII Tavole 40 Le XII Tavole rappresentano il più antico codice di leggi scritte nella storia di Roma. Compilato nel 451-450 a. C., esso raccoglieva il diritto romano pubblico e privato sino ad allora conosciuto e trasmesso solo oralmente. Le norme, come indica il nome stesso, erano incise su dodici tavolette di bronzo o legno ed esposte nel Foro romano. Sebbene con numerose modifiche, esse rimasero in vigore per quasi mille anni. Le dodici tavolette andarono presumibilmente distrutte durante il sacco di Roma compiuto dai Galli nel 390 a. C., ma una parte del loro contenuto ci è pervenuta grazie alle citazioni presenti nella letteratura latina e greca successiva. 1. Contesto storico-politico Come sottolinea Michel Humbert6, la codificazione di leggi a Roma non risulta essere il frutto naturale di una evoluzione pacifica. A differenza delle città della Magna Grecia, infatti, Roma non ricorre a legislatori qualificati per riorganizzare le regole della vita sociale o per modificare i costumi vigenti alla ricerca di una nuova moralità. Così la redazione delle XII Tavole appare, piuttosto, come una conquista, raggiunta al termine di una violenta tensione fra due diversi gruppi: patrizi e plebei. Secondo la ricostruzione dell’annalistica (pensiamo ad autori come Tito Livio e Dionigi di Alicarnasso), le prime rivendicazioni di un diritto scritto provenivano esclusivamente dalla plebe. Queste esigenze si sarebbero scontrate con la sistematica opposizione dei patres, i quali si possono definire, senza rischio di errore, piuttosto che patrizi (termine equivoco all’inizio del V secolo a.C.) senatori, ovverosia l’oligarchia che deteneva il potere. 1.1 Alle origini del conflitto patrizio-plebeo Nel 509 a.C. la cacciata di Tarquinio il Superbo segnò la fine della monarchia a Roma e l’instaurazione della Res pubblica. Fra il V e il IV secolo a.C., la formazione delle istituzioni repubblicane si intrecciò con un elemento centrale della storia romana: il conflitto di interessi tra patriziato e plebe. In realtà la carica monocratica del rex, contrariamente a quanto riferisce la tradizione, non si estinse subito, ma si suppone che perse gradatamente le sue caratteristiche, come la durata vitalizia e l’irresponsabilità. Quando, nel corso del V secolo a.C., la carica apicale della res publica divenne diarchica, le funzioni sacrali proprie del rex, legate alla monocraticità e alla durata vitalizia, furono assunte da un apposito sacerdote chiamato rex sacrorum, considerato garante della pax deorum7, ma al quale era interdetta la carriera politica (cursus honorum). Al contrario questa era consentita ad un’altra carica sacerdotale a vita: il Pontifex Maximus. In origine la gestione delle magistrature e dei sacerdozi era esercitata dai patrizi, ai quali era riservato il requisito della nobilitas sanguinis, indispensabile per accedere alle cariche pubbliche. Con il passare del tempo, il ricorso sempre più ampio ai proletarii (proletari), sia nella vita civile sia nell’esercito, con l’acuirsi dei conflitti e con l’espansione di Roma nel Lazio, e nell’Etruria, rese la plebe consapevole del proprio ruolo e, di conseguenza desiderosa prima di limitare la propria esclusione dai diritti politici, poi di condividere con i patrizi la candidatura alle magistrature. 6 M.Humbert, Le Dodici Tavole, Dai Decemviri agli Umanisti, IUSS Press, pag. 5 7 situazione di concordia tra i cittadini e le divinità della religione romana 41 Nel frattempo, infatti, accanto ai proletari emerse un ceto urbano di plebei benestanti o arricchiti, che deteneva il monopolio delle attività commerciali. Furono proprio questi ultimi a pretendere una maggiore condivisione della vita politica. In realtà nell’ambito urbano, i plebei costituivano un universo isolato rispetto a quello patrizio. Diverse sono le tesi che hanno tentato, nel corso dei secoli, di dare una possibile spiegazione a tale contrapposizione, tenendo conto dell’origine dei plebei. La prima pone alla base della divisione tra patrizi e plebei differenze etniche, come peraltro fa sospettare l’estraneità dei plebei all’organizzazione gentilizia, il divieto di connubium (matrimonio) e il fatto che la sua violazione fosse considerata una sorta di congiunzione carnale bestiale, indegna del genere umano (concubitus ferarum ritum). Inoltre alle divinità “patrizie” per eccellenza -come Giove, Giunone, Minerva, Marte, Apollo- la plebe contrapponeva delle divinità proprie, venerate sull’Aventino: Cerere, Diana, Bacco (Libero) e Libera, legate alla caccia e all’agricoltura, attività tipicamente plebee. In particolare Diana costituiva la tutela foederis Latini, ovvero il nume tutelare dell’alleanza dei popoli Latini. Secondo la tradizione l’Aventino sarebbe stato assegnato da Anco Marzio ai Latini scampati dalla distruzione di Alba Longa. Sicché tali argomenti sono sembrati, ad una parte della dottrina moderna, una prova sufficiente della diversità etnica della plebe in età arcaica e della prevalenza dell’elemento latino nella sua composizione. La dottrina più antica, invece, già tra Settecento ed Ottocento sosteneva che i plebei fossero i clientes dei patrizi. Con il termine clientes si indicavano generalmente quei cittadini poveri che venivano sostenuti materialmente dai loro patroni (protettori), i quali ricevevano in cambio sostegno elettorale quando si candidavano alle cariche pubbliche. Tuttavia esistevano anche clientes ricchi, o che non erano cives Romani (cittadini Romani), dunque privi del diritto di voto, e che potevano essere tenuti perfino a soccorrere economicamente il loro patronus, qualora questi ne avesse avuto bisogno. Tra i clientes abbienti potevano esserci anche dei dediticii, cioè esponenti delle aristocrazie dei popoli arresisi, o addirittura dei liberti, ovvero schiavi liberati, che potevano acquisire l’elettorato passivo (diritto di votare). Spesso costoro venivano liberati dai loro domini (padroni) perché si dedicassero al commercio e ai prestiti di denaro (usurae), per i quali il ceto senatorio soffriva di forti limitazioni sia in base alla legge sia, maggiormente, in base al costume sociale. I liberti erano tenuti all’obsequium e alle operae nei confronti dei loro patroni, che potevano così ripagare per i benefici ricevuti. Una parte della dottrina moderna è però orientata a riconoscere, in età arcaica, una differenza meramente economica tra patrizi e plebei. Secondo questa teoria fin dall’origine alcune gentes (clan che comprendevano più famiglie) sarebbero state detentrici di una ricchezza fondiaria maggiore rispetto ad altre, e se ne sarebbero avvalse per riservare a sé privilegi e il monopolio del potere politico, affrontando tutti gli obblighi che questo comportava come l’armamento individuale, le distribuzioni alimentari, l’edificazione di opere pubbliche. Dunque all’interno delle curiae8 si sarebbe venuta a formare una nobilitas ricca ed inaccessibile agli esclusi, che andarono a costituire la plebe. La plebe, inoltre, restava esclusa dalle assegnazioni di ager publicus, il cui dominium (la proprietà vera e propria) spettava alla res publica, ma la cui possessio (il possesso e lo sfruttamento), era concessa a chi disponesse di armenti e mandrie da pascolare, ovvero il patriziato. In tal modo si andava delineando una ulteriore distinzione tra plebe urbana, che aveva acceso alle attività commerciali, e una plebe rustica ridotta alla coltivazione di appezzamenti ottenuti dal patriziato, appena sufficienti al sostentamento. 8 ai primordi della monarchia romana erano le tribù in cui era suddivisa la popolazione; in seguito il termine passò ad indicare il luogo di adunanza delle singole tribù. 42 Per tale ragione nel 462 a. C. il tribuno della plebe Gaio Terentilio Arsa presentò una legge, chiamata appunto Lex Terentilia, nella quale proponeva la creazione di un comitato di cinque cittadini con l’incarico di redigere un codice di leggi scritte, per sopperire all’oralità delle consuetudini (mores), allora vigenti. La proposta, naturalmente, trovò l’opposizione del Senato, e anche se venne presentata più volte negli anni successivi non riuscì ad essere approvata. Infine nel 454 a. C., il Senato votò l’invio di una commissione triumvirale, nominata dai concilia plebis (assemblee della plebe), ad Atene per studiare le leggi di Solone. Tito Livio ci fornisce i nomi dei tre componenti della commissione: Spurio Postumio Albo Regillense, Aulo Manlio Vulsone e Servio Sulpicio Camerino Cornuto. Il racconto del viaggio in Grecia è stato però ritenuto leggendario nel XIX-XX secolo per la constatazione che non si individuano punti di contatto sostanziale tra le due legislazioni, e sulla presunzione che alla metà del V secolo a. C. l’orizzonte di Roma era ancora ristretto al Lazio. Anche l’ipotesi che dietro il nome di Atene, si celi un rapporto con le città della Magna Grecia, per esempio con Turi (sulla costa ionica della Calabria), non trova riferimento nelle fonti e non è supportata da somiglianze fra i contenuti delle legislazioni greche e romane. L’unica eccezione è costituita dai limiti imposti al lusso funerario, che però sono stati spiegati attraverso l’intermediazione dell’Etruria. Fondamentale a tal proposito è il contributo fornito dalle ricerche di Oliviero Diliberto. Tornando al racconto liviano, al rientro dei triumviri, nel 451 a. C. sarebbero state sospese le magistrature patrizie e plebee e sarebbe stata istituita una commissione di dieci magistrati con l’incarico di stendere un corpus di leggi, perciò definiti decemviri legibus scribundis. Si decise inoltre che le loro decisioni non sarebbero state soggette ad appello. Sempre secondo Livio, furono nominati decemviri i tre della commissione inviata ad Atene, in qualità di "esperti" e "Gli altri furono eletti per far numero" (Supplevere ceteri numerum). I magistrati al termine del loro mandato presentarono un codice di leggi scritte in dieci tavole che fu approvato dai comizi centuriati10. Visto il risultato ottenuto e poiché non era stato ancora del tutto ultimato il lavoro, si decise di nominare un secondo collegio di decemviri per l’anno 450 a. C. Venne cambiata la composizione della commissione, eletta nuovamente dai comizi centuriati. Secondo Dionigi di Alicarnasso, sarebbe entrati a far parte del collegio anche due plebei; ma la notizia non trova riscontro in Livio. Il secondo decemvirato non fu all’altezza del primo. Da un lato produsse due sole nuove leggi, che aggiunte alle precedenti formarono le cosiddette Duodecim Tabularum Leges, dall’altro fu caratterizzato da un comportamento violento e dispotico, soprattutto nei confronti della plebe. Protagonista della seconda commissione fu il patrizio Appio Claudio (l’unico decemviro ad essere stato rieletto), ricordato per un triste episodio. Livio riferisce che Appio Claudio si era invaghito di una fanciulla plebea, Virginia, figlia di Lucio Virginio, un ufficiale dell’esercito, e promessa in sposa a Lucio Icilio, tribuno della plebe. Respinto dalla ragazza Appio Claudio decise di ottenerla con l’inganno, ordendo un piano con l’aiuto di un suo cliente, Marco Claudio. Il decemviro fece dichiarare a quest’ultimo che la ragazza era una sua schiava, e che da piccola era stata rapita dal centurione Lucio Virginio: Marco Claudio ne esigeva ora la restituzione. Appio Claudio istruì un processo, di cui si nominò lui stesso giudice, anche se fu costretto, su pressione del popolo riunito nel Foro, a rinviarlo di un giorno per permettere al padre della ragazza di raggiungere Roma dal campo militare dove si trovava in quel momento e poter quindi assistere al processo. 10 una delle tre assemblee con compiti deliberativi in cui il popolo romano saltuariamente si raccoglieva; essa comprendeva sia patrizi che plebei. 45 In assenza del padre, Appio e Marco Claudio sostenevano che spettasse loro custodire la ragazza per la notte, ma il fidanzato di Virginia, conoscendo il terribile trattamento al quale sarebbe stata sottoposta, si oppose dicendo: "Sto per sposare Virginia e intendo avere una vergine come moglie. Voi avete reso schiavo il popolo, privandolo dei suoi diritti, ma questo non significa che possiate comportarvi come padroni ed esercitare la vostra lussuria sulle nostre mogli e sui nostri figli”. In questo modo Virginia poté trascorrere la notte in libertà. Il giorno seguente il processo si svolse alla presenza di Lucio Virginio. Nonostante il suo arrivo, la sentenza continuò ad essere a favore di Appio Claudio. Allora il padre della giovane pur di non farla cadere nelle mani del decemviro e mantenere alto il suo onore, preferì ucciderla, maledicendo pubblicamente Appio Claudio per quella morte. Il fatto scatenò una una serie di tumulti tra la folla presente, ma poi questi raggiunsero anche l’esercito, accampato fuori Roma, che marciò verso la città prendendo possesso dell’Aventino. Intanto il senato, convocato da uno dei decemviri, cercava una soluzione. Si decise di inviare sull’Aventino tre ex-consoli per chiedere ai secessionisti quali fossero le loro richieste. Ma questi risposero che avrebbero parlato solo con propri rappresentanti. Il senato, fece pressione su i decemviri, il cui mandato era già scaduto, affinché si dimettessero, ma questi resistettero. Non avendo ricevuto risposta dal senato, i secessionisti nominarono dei loro rappresentanti e decisero di uscire dalla città e ritirarsi sul Monte Sacro, a ricordo dei fatti accaduti nel 494 a. C. A questo punto, sotto la spinta dei senatori, i decemviri accettarono le dimissioni chiedendo che fosse loro garantita la protezione dalla rabbia della folla. Furono inviati due senatori, Lucio Valerio Potito e Marco Orazio Barbato, sul Monte Sacro con l’obiettivo di stabilire le condizioni per la cessazione della rivolta. Si decise che sarebbero stati ripristinati il potere dei tribuni della plebe e il diritto d’appello, entrambi sospesi con il primo decemvirato. La plebe tornò in città dove, sul colle Aventino, elesse i propri tribuni, fra cui Lucio Virginio, Lucio Icilio e Publio Numitorio, rispettivamente padre, fidanzato e zio materno di Virginia. Furono poi eletti consoli Lucio Valerio e Marco Orazio, che emanarono diverse leggi a sostegno dei diritti della plebe. Fra queste, in particolare, le Leges Valeriae Horatiae che riguardavano il diritto di appello, l’inviolabilità dei tribuni della plebe e la modalità delle loro elezioni. Secondo alcuni storici, l’episodio di Virginia, anche se riportato da Livio e altri autori, non è da considerarsi completamente storico. Infatti gli autori delle epoche successive dovettero basarsi su notizie tramandate secondo una tradizione orale in quanto, a causa del sacco di Roma del 390 a.C., la documentazione scritta antecedente quel periodo andò persa. Per tale ragione è probabile che nei fatti raccontati ci sia un base di verità che poi si è andata arricchendo nella tradizione orale con elementi tesi a darle dei connotati più eroici. 46 2. Palingenesi delle XII Tavole I primissimi tentativi di ricostruire il testo decemvirale vennero compiuti dai giuristi romani fin dalla fine del III secolo o dai primi anni del II secolo a. C. La fase moderna dello studio delle Dodici Tavole non può però ricollegarsi direttamente a queste rielaborazioni. Le versioni prodotte dalla cultura romana, infatti, non erano più disponibili in un testo completo, quando agli inizi del Cinquecento apparve il primo tentativo palingenetico dell’età moderna: il commentario alle XII Tavole di Aymar de Rivail, pubblicato nel 1515. Un secolo più tardi, nel 1616, vide la luce ad Heidelberg la palingenesi di Jacques Godefroy. Quest’ultima rimase fino all’Ottocento il principale punto di riferimento, dal quale trasse poi sviluppo il canone moderno ad opera prima di Dirksen11 e poi di Schoell12. 2.1 Criteri e documentazione impiegati per la palingenesi Le testimonianze delle XII Tavole giunte sino a noi mediante tradizione indiretta, pur non essendo scarsissime, non consentono di ricostruire direttamente l’ordine e la successione interna delle norme. Pertanto i numerosi tentativi volti a ripristinare il testo decemvirale nella sua interezza sono il risultato di ipotesi, solo in minima parte, fondate sui dati testuali a nostra disposizione. Difatti la dottrina, al fine di realizzare le diverse proposte palingenetiche, si è avvalsa non soltanto della documentazione antica, ma anche di due criteri metodologici legati a moderne idee codificatorie. Il primo trova la sua origine in un’idea che risale già al Gothofredus13, secondo la quale nella ricostruzione dell’antico codice si potrebbe adottare la successione dei frammenti conservati del commento di Gaio alle XII Tavole. Questo sulla base della convinzione generale per cui il commento di un’opera segua l’ordine dell’opera commentata. Tale criterio è stato applicato di volta in volta in maniera più o meno rigorosa. In modo particolare esso appare il fondamento delle ricerche del Lauria14, riprese poi dal Tondo e dall’Amirante. Viene invece seguito solo parzialmente da quegli autori le cui ricostruzioni hanno avuto maggiore fortuna nelle opinioni della dottrina. Ricordiamo tra gli altri Dirksen e Shoell, ampiamente influenzato dal primo, e il Lenel, il quale riteneva che in alcuni punti Gaio si fosse discostato dall’ordine decemvirale. Il secondo criterio metodologico cui si è affidata la parte più consistente della dottrina si fonda su un’idea “continuatistica” della storia delle fonti giuridiche romane: essendo le XII Tavole il fondamento del diritto romano ad esse successivo, sia l’editto del pretore sia alcune opere giurisprudenziali dedicate allo ius civile (ad esempio i 18 libri iuris civilis di Quinto Mucio e i libri tres iuris civilis di Masurio Sabino) avrebbero seguito l’ordine delle XII Tavole. Per cui l’ordine edittale così come la successione delle materie nelle opere giurisprudenziali civilistiche rappresenterebbero una sorta di guida da seguire per una palingenesi del codice decemvirale. Ma è necessario osservare che un simile assunto metodologico, pur essendo di notevole utilità nelle indagini palingenetiche, conduce inevitabilmente a dei risultati congetturali, proprio per la ipoteticità stessa delle ricostruzioni edittali e delle opere giurisprudenziali citate. 11 H.E.Dirksen, Uebersicht der bisherigen Versuche zur Kritik und Herstellung des Textes der Zwölf-Tafel-Fragmente Lipsiae 1824. 12 Legis Duodecim Tabularum Reliquiae, edidit constituit prolegomena addidit Rudolfus Schoell, Lipsiae 1866. 13 Gothofredus, Fragmenta XII tabularum, Praefatio [1616-1617], poi in Fontes Quattuor Iuris Civilis [1653], in Otto, Thesaurus juris Romani, III, Basilae,1744,19 ss. 14 Lauria, Ius romanum, I.1,Napoli,1963, e più recentemente Id., Iura leges, cit.21, ss. 47 Come asseriscono U. Agnati e O. Diliberto, l’interprete moderno che si propone di affrontare lo studio delle XII Tavole, non può che far riferimento all’ordine contenuto nei Tripertita di Sesto Elio Peto, console nel 198 a. C., dove il testo decemvirale era interpretato e completato con le relative legis actiones15. Ciò è confermato dal fatto che l’ordine eliano fosse il solo noto a quegli autori che, dal I sec a.C. in poi, ci offrono le notizie sopra richiamate. Quanto al fatto che non si possa valutare in che misura Sesto Elio si fosse discostato dall’ordine originario del codice, O. Diliberto afferma: “Personalmente ritengo di poter concordare con l’opinione anche recentemente ribadita dal Talamanca, secondo cui lo stesso Sesto Elio non avrebbe modificato in modo sensibile, nella sostanza, l’ordine del testo originale.”16 Analoga è l’opinione dell’Amirante, secondo il quale: “I Tripertita sono certo il primissimo frutto dell’influenza letteraria ellenistica, ma sono ancora espressione di un modo di fare diritto alieno da qualsivoglia esigenza speculativa”; da ciò deriva che “l’ordine di Sesto Elio non dovette essere troppo diverso da quello dei decemviri, almeno nello spirito e nelle esigenze”17. Ciò anche in relazione alla struttura dell’opera stessa, articolata come indica il titolo in tre parti: un’esposizione iniziale delle XII Tavole, l’interpretatio pontificium (ovvero l’elaborazione successiva del testo da parte dei pontefici), e infine la parte conclusiva dedicata alla legis actiones. Tuttavia non mancano pareri discordi. Guarino attribuisce a Sesto Elio una sostanziale indipendenza nel comporre la struttura della sua versione: “il coacervo di norme messo insieme dai decemviri, in modo a noi assolutamente inconoscibile, si era riversato finalmente con Sesto Elio, in un ordine certo, che lasciò tracce profonde nella giurisprudenza posteriore sino a Pomponio e Gaio” 18. 3. Il Contenuto Le XII Tavole si presentano come una raccolta di leggi piuttosto rudimentali e primitive. La loro importanza, pertanto, risiede nel fatto che esse fissarono per iscritto le consuetudini fino ad allora tramandate oralmente, sottraendole in questo modo all’arbitrarietà dei magistrati e assicurando la certezza del diritto. Fu questa la reale conquista della plebe romana, dal momento che molte norme, ad essa sfavorevoli, rimasero in vigore, anche dopo la pubblicazione del codice (basti pensare al già citato divieto di connubium tra patrizi e plebei). Le leggi coprivano tutti i campi del diritto: diritto privato, pubblico, penale, sacro, compreso il processo. Prestando fede alle ricostruzioni dei moderni editori il contenuto delle tabulae doveva essere il seguente: Tabulae I,II,III: il diritto civile e l’esecuzione forzata; Tabula IV: il diritto di famiglia; Tabula V: le successioni mortis causa; Tabula VI: i negozi giuridici; Tabula VII: le proprietà immobiliari ; Tabulae VIII e IX: gli illeciti e i processi penali; Tabula X: norme di diritto costituzionale; Tabulae XI e XII: avevano carattere di appendice e contenevano, oltre al divieto di connubium, norme in materia di funerali, il principio della nossalità per delitti commessi da figli di famiglia o schiavi e alcuni precetti costituzionali ( ad es. il principio secondo il quale tutto ciò che il popolo abbia da ultimo deciso è senz'altro diritto). 15 l’espressione («azione di legge») indicava, nell’antica procedura romana, il modo di agire in giudizio secondo forme determinate conformi alla legge, caratterizzato da rigoroso formalismo orale e gestuale. 16 O.Diliberto, Materiali per la palingenesi delle XII Tavole, vol.1, edizioni AV, cit. 19 17 V.L.Amirante, Per una palingenesi delle XII Tavole, Index 18, 1990, cit. pag 396-7. 18 A. Guarino, Una palingenesi delle XII Tavole?, Index 19, 1991 cit. pag.228. 50 4. Interpretazioni delle XII Tavole Il testo delle XII Tavole è stato oggetto di svariati saggi ed interpretazioni. Ciascun studioso ha scelto di analizzare un aspetto particolare di esso, esprimendo al riguardo le proprie considerazioni, e ponendosi spesso in contrasto con quanto affermato da suoi predecessori. Riportiamo di seguito tre ipotesi interpretative del codice decemvirale, proposte da M. Humbert, che si discostano in parte dalle tesi condivise dalla maggioranza della dottrina. 4.1 Le XII Tavole: registrazione del diritto vigente Le XII Tavole non sono mai state percepite, neppure dagli antichi, come un’opera innovatrice. Alla base del lavoro dei decemviri non sembra esserci né una volontà di cambiamento, né l’intento di riformare sostanzialmente i costumi anteriori o di estendere al resto della popolazione civica norme rimaste confinate ad una porzione di cittadini. Essi dunque operarono da nomografi piuttosto che da nomoteti: come afferma Diodoro, i decemviri hanno redatto ( νέγραψανἀ ) e riunito (συντελέσαι), e non svolto un’attività creatrice. Dello stesso parere sono anche Pomponio, secondo cui lo ius civile si era già formato alla fine della monarchia, sotto forma dello ius Papirianum (raccolta di leges regiae dell’età monarchica); anche per Dionigi di Alicarnasso i decemviri si sono accontentati di riprendere le consuetudini anteriori. Pertanto ciò che mosse i decemviri fu la volontà, manifestata dalla plebe, di rendere certo il diritto al fine di applicarlo per tutti allo stesso modo. Questa interpretazione trova conferma in quanto ci è noto dell’antico codice. Tra le materie da esso affrontate la trasmissione ereditaria dei beni è quella che manifesta maggiormente l’assenza di qualunque volontà di riforma. La redazione del testamento davanti ai comitia calata (la più antica delle assemblea romana, a carattere religioso) è certamente anteriore alle XII Tavole nella sua forma e nel suo contenuto (designazione dell’heres, devoluzione dei beni, designazione di un rettore, affrancazione, legato). Anche per l’ordine dei successori a causa di morte senza testamento (successio ab intestato) non si può rilevare nulla di nuovo, poiché non sembra fondata l’ipotesi dell’estensione ai plebei di una struttura familiare sino ad allora riservata ai patrizi. Tenendo conto di questi e altri esempi, le innovazioni appaiono impercettibili. Inoltre non risulta verosimile che l’apporto dei decemviri si risolva nell’avere chiarito punti controversi o incerti della diritto vigente: i versetti, in linea di massima, pongono delle norme pacifiche (come la distinzione tra i diversi tipi di furto, l’ordine degli eredi legittimi, l’efficacia giuridica del testamento o gli atti per aes et libram19) che di certo non suscitavano né incertezza, né controversie. 4.2 Le XII Tavole: una reazione anti-pontificale? Generalmente condiviso è il carattere anti-pontificale del testo decemvirale. Secondo una simile visione il diritto sarebbe stato rivelato e in tal modo sottratto alla scienza dei pontefici, che ne erano i gelosi custodi. Ma questa vittoria della plebe sull’aristocrazia pontificale sarebbe stata di breve durata o solo parziale, dal momento che i pontefici avrebbero potuto recuperato rapidamente una parte del loro contestato potere. 19 negozio formale del diritto romano con il quale un soggetto otteneva un vantaggio in cambio di una quantità di bronzo, che veniva pesata dal libripens alla presenza di cinque cittadini puberi(che avevano raggiunto la maturità) 51 Pertanto un’interpretazione politica anti-pontificale dell’opera non sembra accettabile, essenzialmente per tre motivi: 1) L’ipotesi di uno scontro aperto tra i pontefici e la plebe a metà del V secolo a. C. non trova alcun riscontro nelle fonti, come aveva anche affermato P. Jörs nel XIX secolo. Ma neppure le osservazioni di quest’ultimo sono riuscite a dissipare quello che per Humbert si deve considerare come un “mito ricorrente della storiografia moderna”. L’assenza dei pontefici dai due successivi collegi decemvirali non va certo intesa né come un boicottaggio da parte degli esperti della scienza del diritto, né come un manifesto dell’ostilità dei decemviri, intenzionati a compiere la propria missione senza l’aiuto di questi specialisti. Che i pontefici siano rimasti fuori dal collegio decemvirale o meno, la loro collaborazione per la realizzazione del codice deve essere ritenuta necessaria. I decemviri, esclusivamente con le proprie conoscenze, non sarebbero stati capaci di redigere i versetti delle XII Tavole e raggiungerne la precisione tecnica. Lo ius civile nel 450 a. C. non poteva essere inventato né improvvisato, per cui l’idea di un codice redatto senza pontefici, in quanto i decemviri erano contro di essi, appare priva di verosimiglianza. 2) Anche l’ipotesi di un conflitto tra la opera di pubblicazione del codice messa in atto dai decemviri e il collegio pontificale, amareggiato nel vedere i precetti della propria scienza svelati alla moltitudine dei cittadini, risulta essere infondata. Una prova di ciò viene fornita da Tito Livio, che descrive l’atteggiamento assunto dai pontefici, in occasione della ricostruzione dei documenti perduti durante l’incendio gallico del 390 a. C. L’autore latino denuncia sì la volontà dei pontefici di tenere la massa all’oscuro della propria scienza segreta, ma tale reticenza non si riferisce alle XII Tavole, pubblicate senza restrizioni, bensì alle prescrizioni di ordine sacro (quae autem ad sacra pertinebant). Dunque il blocco alla pubblicazione ha riguardato solo documenti religiosi, attraverso i quali si intendeva manovrare gli animi della folla 1520. 3) Il ruolo assunto dai pontefici nella interpretatio del codice non deve essere visto come la rivincita di un partito politico momentaneamente sconfitto, e quindi come la prova di una vittoria effimera da parte della plebe, la quale avrebbe ricevuto solo un documento privo di valore. È indispensabile a tal proposito comprendere a fondo il significato tecnico della interpretatio. Essa, infatti, non contrasta con il lavoro svolto dai decemviri, riducendolo ad una concessione derisoria, ma accompagna necessariamente la pubblicazione della legge. Pomponio aveva compreso questo aspetto e affermava che l’interpretatio fosse il complemento naturale e necessario di ogni legge scritta16. In essa si trova dunque il prosieguo della collaborazione dei pontefici: essi danno un senso alle norme che hanno contribuito a redigere. D’altra parte i Romani non hanno mai concepito l’interpretatio e la lex in termini conflittuali, ma sempre in termini di assoluta complementarità. Le presenti considerazioni dimostrano di conseguenza che non si può parlare di diritto svelato contro la volontà pontificale. 20 D. 1.2.2.5 52 IL DIGESTO di Scrudato Dalia 55 Il Digesto è una raccolta di testi che fa parte del Corpus Iuris Civilis, compilazione del diritto romano di grande importanza per la scienza giuridica. Oltre al Digesto, il Corpus Iuris Civilis è composto da altre tre parti: il I e II Codice, le Istituzioni e le Novelle. Questa raccolta è stata voluta dall’imperatore bizantino Giustiniano I per riordinare l’ormai caotico sistema giuridico dell’impero. Egli fu un grande imperatore e passò alla storia, oltre che per la sua politica militare e religiosa, per la sua attività giuridica che contribuì alla diffusione della cultura e del sapere dei giuristi romani classici. Il termine Digesta è utilizzato al singolare, Digesto, soprattutto per indicare la raccolta giustinianea di iura, per antonomasia il Digesto. L’espressione Digesto deriva dal latino Digesta da digerere, ovvero “riordinare”, “classificare argomenti in modo ordinato”. Un’altra ipotesi è quella che derivi dal termine greco Pandette, che vuol dire “riguardante qualsiasi materia”, “comprendere tutto”. Il Digesto è una raccolta di iura, ovvero gli scritti della giurisprudenza ed è un’opera fondamentale per la conoscenza del diritto romano. All’interno del Digesto vennero raccolti frammenti di opere dei maggiori giuristi romani vissuti tra il 30 a. C. e il 300 d. C. Con la realizzazione di quest’opera l’imperatore Giustiniano voleva raccogliere e aggiornare tutta la produzione della giurisprudenza romana e risolvere una serie di controversie esistenti, mettendo a disposizione di tutta l’umanità una sorta di antologia degli scritti dei giuristi romani classici. L’intenzione di Giustiniano era quella di ricordare questi giuristi poiché egli provava una profonda stima verso di essi tanto da parlare di una reverentia antiquitatis, ossia rispetto per l’antichità. Quindi il Digesto è un’opera che non venne realizzata per mancanza di documenti giuridici, ma per un’eccessiva abbondanza di essi. Lo studioso Bonini definì il Digesto come una “raccolta di materiali autoritativi, idonei a nutrire la convinzione del giudice”. La realizzazione del Digesto fu resa pubblica nel 530 con la Constitutio deo auctore del 15 dicembre 530 d.C., nella quale Giustiniano annunciò il suo nuovo e grandioso piano e diede incarico a Triboniano, quaestor sacri palatii, questore del sacro palazzo imperiale, ossia il ministro della giustizia, di raccogliere in un’unica opera l’enorme produzione giurisprudenziale classica, appunto una raccolta di iura. Per compiere l’opera e quindi selezionare il vasto materiale giurisprudenziale, Triboniano capì fin dall’inizio che il Digesto era un’opera realizzabile solo attraverso la cooperazione di veri e propri professionisti del diritto, una commissione di docenti universitari e avvocati. Triboniano poté scegliere personalmente sedici collaboratori. Egli dovette selezionare persone capaci di poter portare a termine questa ardua e grandiosa impresa: quali il ministro del tesoro o comes sacrarum largitionum, Costantino, i professori di Costantinopoli Teofilo e Cratino, i professori di Berytus, Doroteo e Anatolio, e undici avvocati del foro imperiale (Stefano, Mena, Prosdocio, Eutolmio, Timoteo, Leonide, Leonzio, Platone, Giacomo, Costantino, Giovanni). Triboniano, per la realizzazione del Digesto, mise a disposizione della commissione la sua biblioteca giuridica personale, dove vi erano edizioni difficilmente accessibili ai giuristi romani. La commissione avrebbe dovuto leggere oltre due mila libri (per un volume complessivo di 3 milioni di righe) anche se in realtà solo 1625 hanno fornito materiali. Riprese i testi degli iuris prudentes forniti del ius respondendi ex auctoritate principis, ossia una sorta di concessione, data al giurista, di poter dare “responsa”, pareri. Ciò rappresentava la possibilità per i giudici di basarsi sull’opinione dei giuristi nell’emettere la sentenza giudiziaria. Avrebbero dovuto poi estrapolarne i passi più significativi, riassumendoli in un unico testo, un testo coerente, una raccolta armoniosa e logica, senza far discordare tra loro i vari frammenti, senza lasciare spazio ad ambiguites e a contraddizioni. Dovettero procedere quindi ad un’accurata ed attenta lettura per estrapolare da esse il meglio. Si trattò di un lavoro colossale per fino per i parametri dei giuristi moderni. Va notato che spesso i frammenti dei giuristi, e perfino frammenti di diversi giuristi, sono riuniti in una sola frase, il che attesta come minimo una correzione stilistica e grammaticale dei testi dei giuristi classici da parte dei membri della commissione presieduta da Triboniano e dimostra quindi l’enorme mole di lavoro svolto dai giuristi. Il Digesto è composto da 9142 frammenti di scritti di giuristi classici ( iura) , dove 6137 sono riconducibili ai cinque giuristi della legge delle citazioni: Gaio, Papiniano, Paolo, Ulpiano, Modestino. L’autore più citato all’interno dell’opera è Ulpiano, circa un terzo delle opere riportate sono di quest’ultimo. Mentre gli altri ventisette giuristi forniscono solo 538 frammenti. I giuristi menzionati sono circa 38/39 , a seconda che si identifichino o meno le figure indicate come Claudio e Venuleio Saturnino. A ogni frammento del Digesto è premessa una inscriptio, iscrizione appunto, contenente il nome del giurista e dell’opera da cui il frammento è tratto, è evidente quindi la volontà di Giustiniano di 56 trasmettere i nomi dei giuristi classici alle generazioni successive. Il volume complessivo del Digesto è di 150.000 righe. Il 16 dicembre 533, con la Constitutio Tanta, fu resa pubblica l’opera. L’imperatore Giustiniano rivolgendosi al senato e al popolo, stabiliva che la compilazione avrebbe avuto forza di legge nell’impero romano a partire dal 30 dicembre 533, e quindi avrebbe avuto la stessa forza normativa delle costituzioni imperiali. Il Digesto era una guida su cui si basavano i giudici per dare pareri. Avrebbe quindi risolto le varie controversie tra i cittadini e non avrebbe più messo in dubbio il responso di qualsiasi contesa. Giustiniano impedì che i giuristi ricorressero alla consultazione diretta delle fonti antiche dalle quali era tratto appena un decimo di quel ampio patrimonio giurisprudenziale. L'unica attività concessa sul testo fu la traduzione impersonale dal latino al greco. Guardando infatti al passato, Giustiniano accusa i giuristi di aver distrutto e demolito la scienza giuridica, rendendola oscura da chiara e perfetta che era. L’imperatore dispone, dunque, che contemporaneamente alla promulgazione del Digesto, raccolta di tutti i passi più importanti delle opere dei giuristi classici, tutte le opere dei giureconsulti antichi andassero distrutte. Nella Costitutio Tanta l’imperatore sottolinea l’enorme significato per la procedura giudiziaria della sistemazione di tutto il diritto romano e rivela il contenuto essenziale delle sette parti del Digesto, quindi loda Triboniano e indica i nomi di tutti i giuristi che avevano preso parte alla creazione del Digesto. In seguito vieta di utilizzare nei giudizi le edizioni dei giuristi antichi diverse dal Digesto, nonché di commentare e interpretare il Digesto in modo estensivo. Nel dicembre dello stesso anno (533) ,quando il Digesto acquisì forza di legge, Giustiniano dispose che fossero eseguite settanta copie del Digesto e il lavoro di trascrizione risultò certamente imponente sia per la mole di testo sia per i rapidi tempi di esecuzione, per la quale fu adottato un sistema di distribuzione di singoli fascicoli a vari amanuensi. La tradizione testuale del Digesto è costituita da quattro gruppi: 1) Codex Florentinus, 2) “ Manoscritti della ‘littera vulgata’ (circolanti in Italia e in Europa) 3) Rielaborazioni bizantine, cioè il testo dei Basilica 4) brevi frammenti antichi (subsidia antiqua). Come già detto, i giuristi dell’epoca classica citati nel Digesto di Giustiniano sono 38/ 39. Una particolare attenzione va data ai seguenti giuristi: • L’allievo di Capitone, Masurio Sabino, che aveva fatto carriera sotto l’imperatore Tiberio e aveva scritto la maggior parte delle sue opere sotto Nerone. Proveniente da una modesta famiglia plebea, si guadagnava da vivere proprio con la sua pratica giuridica. Sabino è il primo cui era stato dato il ius respondendi. La sua opera più nota, e la più citata nel Digesto, è un piccolo lavoro, in tre libri, il “Diritto civile” (“Ius civile”) basato sul sistema dei commenti di Mucio Scevola alle leggi delle XII Tavole. • Publio Giuvenzio Celso, partecipe del complotto contro l’imperatore Domiziano nel 95 d. C. Sotto Adriano occupò una serie di cariche statali (pretore, console nel 129 d. C.), e fu membro del consiglio imperiale. Autore di un digesto in 39 libri, egli era ritenuto uno dei più spiritosi tra i giuristi romani . • Salvio Giuliano, sotto Adriano occupò una serie di cariche statali e fu anche membro del consiglio imperiale. Autore di un digesto in 90 libri e di “Quaestiones”. Egli morì intorno al 169 d. C. Gli appartiene l’onore dell’edizione dell’“Editto perpetuo”. • Sesto Pomponio, autore del famoso saggio di storia del diritto romano, il numero delle sue opere è enorme. Pomponio visse nel II secolo d. C. sotto gli imperatori Adriano ed Antonino Pio. Le sue opere più importanti furono i commenti all’editto, in 150 libri, i commenti a Sabino, in 35 libri, e l’“Enchyridium”, manuale, in un libro, comprendente anche il famoso saggio di storia di diritto. • Gaio, probabilmente, come ritengono alcuni studiosi, da identificare con Gaio Cassio Longino, fu un sabiniano, proveniente dall’Asia Minore, contemporaneo degli imperatori Adriano ed Antonino Pio, autore del famoso manuale di diritto romano, Istituzioni, ritrovato all’inizio del XIX secolo nella biblioteca Capitolare di Verona sul manoscritto con le lettere di San Gerolamo. • Emilio Papiniano, nato in Siria sotto Settimio Severo, fu prefetto del pretorio. Egli ebbe un’enorme influenza e autorità tra i giuristi di quel tempo. Giustiziato dall’imperatore Caracalla nel 212 per aver risposto all’ordine di compilare un discorso di assoluzione per l’imperatore che aveva ucciso il proprio fratello Geta. • Giulio Paolo, prefetto del pretorio sotto l’imperatore Alessandro Severo (inizio del III secolo d. C.), scrisse più di 300 libri di cui in parte sono giunte a noi le cosiddette “Sentenze al figlio”. 57 BIBBLIOGRAFIA Introduzione a un corso romanistico – Danilo Dalla Istituzioni, scienza giuridica, codici nel mondo tardo antico: alle radici di una nuova storia- Lucio De Giovanni Digesty òstiniana, tom 1(knigi 1-4) = Digesta Iustiniani, volumen primum, libri I-IV. Moskva 2002, 583 s. SITOGRAFIA www.wikipedia.it www.treaccani.it www.simone.it 60 IL PRETORE E IL DIRITTO PRETORIO di Silci Camilla 61 Il diritto pretorio è una delle forme di diritto presenti all’interno della società romana, esso nacque per mano dei pretori, figure di fondamentale importanze nell’ambito del sistema giuridico romano. Questi ultimi, a seguito delle modifiche e nuove interpretazioni che diedero al ius civile durante lo svolgimento della loro attività di magistrati giusdicenti, crearono questo nuovo diritto che proprio da essi prese il nome di ius praetorium o honorarium. Prima di occuparcene nello specifico diamo una definizione generale di diritto: è un sistema di regole coerenti e coordinate tra loro al fine di svolgere una funzione unitaria. Di sistemi come questo ne esistono vari, ad esempio i comandamenti religiosi o le regole del buon costume, ma ciò che distingue il sistema delle regole giuridiche dagli altri è la sua inerenza a una determinata organizzazione sociale e il suo scopo di disciplina dei rapporti tra i consociati, attraverso l’imposizione di doveri e obblighi e il riconoscimento di diritti in capo a ciascuno. Al contrario, la finalità di un sistema come quello religioso è il perfezionamento dell’individuo e la salvezza della sua anima; esso, inoltre, rivolge la propria attenzione su quelle che sono le intenzioni del soggetto, piuttosto che sulle azioni rilevanti da questo compiute. Il diritto classico romano, alla base dei moderni ordinamenti giuridici europei e non solo, si sviluppò in concomitanza alla nascita della società romana, 754-753 a. C., col fine di ordinare la vita dei suoi membri. Dapprima si basò su usanze e consuetudini chiamate mores, considerate vincolanti; la legittimità del loro supposto valore giuridico era strettamente legata alla tradizione: esse erano la manifestazione di comportamenti insiti nell’uomo e ripetuti da questo in modo regolare tale da portare alla credenza di essere norme obbligatorie. Questa prima forma di diritto, che risale all’epoca arcaica della storia romana, era principalmente orale, motivo per il quale era caratterizzato da un elevato grado di solennità e da un forte formalismo (erano questi caratteri ad attribuire validità agli istituti del tempo) ma soprattutto, motivo per cui le nostre conoscenze in questo ambito sono piuttosto scarse oggi. La prima codificazione del sistema di regole romano fu pubblicata solo nel 451-450 a. C. ed è rappresentata dalla Legge delle XII Tavole. Sarà più avanti, precisamente a partire dall’epoca preclassica (IV secolo a. C. – I secolo a. C.) e ancor più in quella classica (I secolo a. C. – III secolo d. C.), che avrà luogo una vera e propria fioritura del diritto, tale da portare a definire il secondo periodo come l’ “epoca aurea del diritto romano”. Esso fu, infatti, contrassegnato da una vastissima produzione di opere di casistica da parte dei giuristi dell’epoca; tra i più importanti possiamo identificare: Paolo, Modestino, Ulpiano, Papiniano e, infine, Gaio. Furono questi personaggi ad influenzare il grande sviluppo del sistema del diritto romano, tant’è che esso poteva essere definito un sistema aperto: i giuristi potevano contribuire alla sua creazione e al suo miglioramento attraverso le proprie opere. Gli elementi che lo qualificavano e che lo rendevano un sistema evoluto erano anche altri: il diritto romano era un diritto astratto (basato su norme generali ripetibili nel tempo a prescindere dal caso concreto), autonomo (era un diritto laico, indipendente dalla religione), coercitivo (alla violazione di una norma corrispondeva la comminazione di una sanzione), era un diritto che accettava modifiche solo nel momento in cui esse potessero giovare al sistema e quindi apportare un miglioramento, un progresso. Di conseguenza cambiava lentamente e ciò gli permise di essere sempre un sistema ordinato, preciso ed efficace. L’insieme di questi caratteri principali lo rese un diritto universale e garantì la sua diffusione in tutto il mondo, dando vita a un diritto comune. Tuttavia, dobbiamo precisare che alla sua base, prima di tutti questi aspetti, vi erano le norme, come del resto in ogni sistema di diritto. Esse ne rappresentano l’unità fondamentale e sono poste in essere dalle fonti di produzione, ossia da atti (comportamenti umani volontari e consapevoli) e fatti (eventi naturali o comportamenti umani non volontari). Se prendiamo in considerazione la classificazione di tali fonti ad opera del giurista Gaio, risalente al II secolo d. C., tra esse individuiamo: le leggi, i plebisciti, i senatoconsulti, gli editti dei magistrati, i responsi dei giuristi e le costituzioni imperiali, le uniche ad avere una reale validità. Ciò implicava che il potere di produzione delle norme risiedesse principalmente nelle mani dell’imperatore, il quale poteva oltre a plasmare il diritto introducendo nuove norme (edicta) o modificando quella già presenti, dare istruzioni aventi forza di legge ai funzionari delle province (mandata), offrire soluzioni vincolanti a casi controversi (rescripta ed epistulae) e pronunciare sentenze in veste di giudice (decreta); egli, 62 Inoltre, ad essi era concesso di apportare modifiche all’editto originario emanando un edictum repentinum, possibilità successivamente negata sotto Adriano. Egli affidò l’incarico al giureconsulto Salvio Giuliano di codificare e riordinare il testo dell'editto trasformandolo in un edictum perpetuum, col fine di ridimensionare e limitare i poteri di tali magistrati. Per quanto riguarda le legis actiones precedentemente citate, in contrapposizione alle quali i pretori crearono il processo per formulas intorno al II secolo a. C., esse rappresentavano un modo di agire in giudizio di cui disponevano gli antichi romani, che trovava le proprie origini nel mos maiorum; erano un sistema basato sulla pronuncia di parole precise ed immutabili (certa verba) e su gesti predeterminati, previsti da un rituale. Era il rigoroso formalismo orale e gestuale a conferire validità a tali azioni. Esse non ammettevano strutture formali al di fuori di quelle previste, erano un istituto tipico e prevedevano cinque modi di azione che si distinguevano per origine, funzione e struttura: per sacramentum, per iudicis arbitrive postulationem, per condictionem, per manus iniectionem e perpignoris capionem. Per iniziare il processo, diviso in due parti, era necessaria la chiamata in giudizio (in ius vocatio) dell’avversario, con la quale egli poteva essere portato alla sede processuale anche con l’utilizzo della forza o mediante un’esecuzione personale. La prima fase (in iure), quella del dibattimento formale caratterizzato dallo scambio di dichiarazioni solenni tra le parti, incompatibili tra loro in quanto il convenuto negava la pretesa avanzata dall’attore, aveva luogo davanti al magistrato. Egli vigilava sull’osservanza delle regole del rituale. La seconda fase, preceduta dalla litis contestatio in cui venivano convocati i testimoni, aveva luogo davanti al giudice (apud iudicem). Le parti esponevano i termini della lite argomentando le proprie ragioni, a quest’ultimo stava il compito di valutare e decidere la sentenza, alla quale non erano opponibili altre legis actiones. La sententia, secondo le fonti di cui disponiamo, probabilmente dipendeva dall’interpretazione di segni divini. Il processo per formulas nacque esattamente con l’obiettivo di dare tutela alle situazioni in cui non era possibile utilizzare le legis actiones. Esso fu introdotto dai pretori in virtù del loro imperium e della loro iurisdictio e faceva quindi parte del diritto pretorio, in quanto tale non poté essere utilizzato in ambito di diritto civile sino al 130 a. C., in seguito alla pubblicazione della Lex Aebutia. Essa consentì l’uso delle formulae per disciplinare quei rapporti dapprima riservati al processo per legis actiones. Successivamente sotto Augusto, con l’emanazione della Lex Iulia iudiciorum privatorum (17 a. C.), questo sistema andò a sostituire completamente quello delle legis actiones, per poi essere affiancato dalla cognitio extra ordinem (giudizio al di fuori del precedente sistema), in cui il processo avveniva per intero davanti al magistrato che decideva la causa in modo diretto o tramite un delegato; le parti, perciò, non potevano intervenire sulla decisione del giudice. Il processo per formulas fu abolito nel 342 d. C. con una costituzione imperiale da parte dei figli dell’imperatore Costantino, Costanzo e Costante. Tale sistema si affermò facilmente, secondo quanto afferma Gaio nelle Institutiones, poiché più vantaggioso del primo, puramente orale, maggiormente complesso in quanto suddiviso in cinque diversi moduli processuali, fruibile solo dai cittadini romani, caratterizzato da un esagerato formalismo: il minimo errore nella pronuncia dei certa verba o nei gesti previsti dal rituale avrebbe comportato la perdita della lite. Il processo per formulas prendeva il nome da un documento scritto chiamato formula o iudicium, basato su verba concepta (poi denominati formulae), parole concepite dal pretore giusdicente e modellate su un caso particolare. Essa rappresentava il programma di giudizio su cui si fondava il processo, in cui, come precisa anche Gaio nelle Istituzioni, la pena era sempre e solo pecuniaria e quindi doveva essere espressa in una somma di denaro. Le formule erano scomponibili e le parti che le costituivano erano interscambiabili. In particolare, Gaio identificò quattro partes formularum che ricorrevano più frequentemente: demonstratio (indicazione dell’oggetto della controversia), intentio (espressione della pretesa), adiudicatio (potere di attribuire la res o una sua porzione a una delle parti in causa) e condemnatio (potestà del giudice di condannare o assolvere). Il processo riproponeva la divisione in due fasi di quello per legis actiones, con alcune differenze. Richiedeva come il primo la chiamata in giudizio, ma non ammetteva l’uso della forza, il pretore 65 avrebbe solo potuto ricorrere a un parziale o totale spossessamento del convenuto. Seguiva il vadimonium, una promessa formale di quest’ultimo a presentarsi all’udienza. Durante la prima fase in iure le parti illustravano in modo informale le proprie ragioni, senza seguire determinati rituali, mentre il magistrato, che poteva concedere il giudizio, creare e adattare le formule ai singoli casi e mettere in operazione coazioni, compilava la formula basata sull’accordo delle parti. Ad essa corrispondevano determinate e specifiche actiones esperibili dall’attore, al contrario, nelle legis actiones, l’actio era un mezzo di tutela con carattere generale, applicabile a varie situazioni. Questa fase si concludeva con la litis contestatio. A questo punto iniziava la seconda fase davanti a un giudice privato, unico o collegiale, scelto dalle parti stesse, che si sarebbe conclusa con la pronuncia di una sententia, con cui il convenuto sarebbe stato condannato o assolto. L’introduzione di questo sistema permise ai pretori di accrescere i propri poteri, infatti, oltre a poter concedere o meno l’azione per la realizzazione di una pretesa, essi potevano estendere la tutela a situazioni di fatto, non previste dal diritto civile, ritenute rilevanti al fine di concedere un’azione; ciò permise di riconoscere rapporti altrimenti privi di protezione e di causare la nascita di un nuovo diritto. Potevano disporre anche dell’analogia, cioè di un procedimento per azioni utili che erano state adattate a situazioni simili a quelle per cui erano state create. Infine, attraverso il meccanismo dell’eccezione, potevano fermare una pretesa dell’attore e vanificare il rapporto, valorizzando comportamenti cosiddetti vizi della volontà: errore, violenza, dolo. D’altronde, furono numerosi gli istituti e gli strumenti di intervento in ambito giuridico che essi inserirono nell’ordinamento romano e che andarono ad affiancare quelli di diritto civile, determinando l’assunzione di un ruolo essenziale (da parte di queste figure) nella società romana. Tra questi: gli interdicta e le stipulationes praetoriae precedentemente citate, le restitutiones in integrum, le missiones in possessionem. I primi erano, dunque, un comando che permetteva di chiudere una controversia con rapidità, evitando che si indagasse, se non in via sommaria, sulla fondatezza della richiesta di un ricorso. Le seconde, contratti verbali che avevano l’obiettivo di garantire l’adempimento di un obbligo di cui non esisteva una sanzione o la continuazione di un procedimento. Le restitutiones consistevano nel ripristino della situazione giuridica precedente. La missio in bona o in possessionem era un mezzo di coazione utile a forzare una parte ad assumere un determinato comportamento. Concludiamo citando l’actio publiciana, introdotta dal pretore Publicio nel 67 a. C. come mezzo di tutela per coloro che avessero acquistato una res non secondo i dettami del ius civile, divenendone possessori anziché proprietari. Da essa derivò la nascita un nuovo istituto, quello della proprietà bonitaria. Quest’ultima nasceva a seguito dell’acquisto di una res mancipi tramite traditio (negozio causale che permetteva l’acquisto di sole res nec mancipi), piuttosto che mancipatio o mediante un acquisto in buona fede a non domino. Con l’azione publiciana , il pretore tutelava l’acquirente nei confronti del dominus, fingendo che fosse trascorso il tempo utile ad usucapire: si trattava infatti di un actio ficticia. Non solo, nel caso in cui il reale proprietario fosse ricorso a un’azione reale di rivendica (rei vindicatio, prevista dal diritto civile), il proprietario bonitario disponeva di un mezzo di difesa denominato exceptio rei venditae et traditae (eccezione di cosa venduta e consegnata), che aveva lo scopo di paralizzare l’azione se fosse risultato che la cosa era stata oggetto di una compravendita ed era stata liberamente consegnata dal compratore al venditore. Alla luce di tutto ciò che è stato asserito, possiamo affermare che i pretori, pur dovendo rispettare il ius civile e sottostare ad esso, nello svolgimento della loro funzione di organo giusdicente potevano modificarlo completandolo, spiegandolo e interpretandolo alla luce dei cambiamenti della società. Fu così che questi diedero vita a un nuovo diritto che andò a rapportarsi e, a volte, anche a scontrarsi con quello civile. Esso nacque anche dalla necessità di colmare i vuoti lasciati da quest’ultimo e di adeguare il diritto alle nuove esigenze della società romana. Il giurista Papiniano lo definì come: <<Ius praetorium est quod praetores introduxerunt adiuvandi vel supplendi vel corrigendi iuris civilis gratia propter utilitatem publicam; quod et honorarium dicitur ab honore praetorum>>, ossia il diritto pretorio è il diritto introdotto dai pretori al fine di aiutare, aggiungere, emendare il diritto civile per la pubblica utilità; ciò che viene anche chiamato honorarium dall’honor (onore) di cui erano forniti i magistrati romani. 66 Ecco che allora all’interno del sistema di diritto romano possiamo identificare quattro tipi di diritto: il diritto civile (ius civile, che regola i rapporti tra i cives romani), il diritto pretorio (ius praetorium o ius honorarium, che nasce dall’attività giurisdizionale dei pretori), il diritto delle genti (ius gentium, comune a tutti i popoli. Riferito al diritto civile, esso ne rappresentava il nucleo che si occupava di regolare i rapporti negoziali tra cittadini romani e stranieri e tra stranieri) e il diritto naturale (contrastanti le teorie sulla definizione di tale diritto, secondo Ulpiano: <<il diritto naturale è quello che la natura ha insegnato a tutti gli esseri animati. [Da esso] derivano l'unione del maschio e della femmina, che noi chiamiamo matrimonio, la procreazione e l'allevamento dei figli. [...] Vediamo infatti che anche gli altri animali, perfino quelli selvaggi, conoscono e praticano questo diritto>>. Secondo Gaio, invece, esso corrisponderebbe semplicemente al diritto delle genti. In epoca giustinianea, il ius naturale acquisì una valenza ideologica, “semper aequum ac bonum” (sempre equo e buono), trasformandosi in un diritto perfetto, divino.) BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA: _ “Profilo Storico del Processo Civile Romano” di Costa Emilio. Editore: Hardpress Publishing, 2013. _ “Das Edictum perpetuum” di Otto Lenel. Editore: Leipzig, B. Tauchnitz, 1927. _ “Corso di diritto costituzionale” di A. Barbera e C. Fusaro. Editore: il Mulino, 2014. _ www.treccani.it _ www.sapere.it _ www.federica.unina.it/elearning, università degli studi di Napoli Federico II. 67 ammirato da Rousseau e dal popolo veronese a cui si deve anche l'istituzione del museo Lapidario di Verona avvenuta nel 1714, che fornì molti aneddoti su Verona e sulla Biblioteca Capitolare, raccontando che in essa dovevano esserci oltre cento di questi particolari manoscritti. Maffei avanza queste ipotesi nella notizia generale degli insigni manoscritti dopo essersi rivolto all'abate priore Benedetto Bacchini, mentre molti studiosi prima di lui avevano tentato invano di rintracciare queste reliquie fino ad arrendersi e darle per disperse, come ad esempio Dom Jean Mabillon o anche Bernard de Montfaucon. Occorre così attendere fino all'ottobre del 1712 prima che il colto Scipione Maffei riesca nel ritrovamento dei manoscritti dispersi da tempo. Abbiamo notizie del ritrovamento nella prefazione alle Complexiones Cassiodorii, del 1721, dove lo studioso rievocò le frasi pronunciate durante il ritrovamento. Maffei dopo numerose ricerche non andate a buon fine, assegnò la ricerca al più valido tra i canonici Carlo Carinelli , affermando che di quei codici avrebbe avuto importanza pure la polvere. Dopo alcuni giorni fu proprio Clarinelli a comunicare la lieta notizia, il quale, dopo molti sforzi, riesce finalmente a trovarli nascosti in un cubicolo sopra un mobile. La storia vuole ,anche se forse non priva di qualche esagerazione, che il canonico si precipitò presso la casa di Maffei nel cuore della notte perché voleva che fosse lui il primo a prenderli in mano, tanto che quest’ultimo preso dall'emozione della scoperta, si precipitò in strada con ancora indosso la vestaglia da notte e le pantofole . Una volta arrivato alla Biblioteca Capitolare di Verona , raggiunse la sommità dell'armadio e spostando un po' di cianfrusaglie che coprivano un vano in cui erano presenti una serie di codici antichi, tra i quali era compreso anche quello in cui erano contenute le istituzioni di Gaio. Nella notizia generale dell'insigne manoscritti la descrizione di Maffei è molto precisa e si rese subito conto di essere di fronte ad una scoperta sensazionale . Il canonico Carinelli ordinò che tutti i codici fossero estratti dall'armadio in cui erano riposti e che fossero messi a disposizione di Scipione Maffei in modo che li potesse esaminare con cura. Dopo un po' di tempo la chiesa , forse per mostrare riconoscenza, diede la possibilità al Marchese di poter portare a casa propria alcuni di questi manoscritti in modo tale da poterli consultare a proprio piacimento. Maffei una volta avuta la possibilità di portare i manoscritti nella sua dimora per poterli studiare in tranquillità , anche perché aveva in mente la realizzazione molto ardua dell'opera Bibliotheca Veronensis Manuscripta , iniziò ad esaminare quelli di carattere letterario e ,poi, si imbatté nei testi di diritto , il marchese veronese non era affatto esperto di diritto ma immediatamente, da uomo acculturato qual'era , capì l'importanza di alcune di quelle carte sciolte. Si trattava del Fragmentum di iure fisci, formato da due fogli non rescritti in doppia colonna contenenti un testo di materia fiscale e del Fragmentum de praescriptionibus et interdectis che si presentava in buono stato e che era l'unico foglio non rescritto del codice. In aggiunta un foglio sciolto delle Institutiones che era rimasto integro alla sovrascrizione . Si trattava di pergamene conservate in pessimo stato ,come anche oggi dopotutto, di cui Maffei ne fece una descrizione minuziosa di ogni singola imperfezione: descrizione che tutt'oggi risulta veritiera. Nonostante quest’ultimo non fosse un giurista, capì subito che si trattava di un riassunto delle Institutiones di Gaio (molto simile al libro XV) o di un altro giureconsulto. Dopo aver fatto il ritrovamento di un lungo frammento tratto dalle Istituzioni di Gaio, una volta menzionato e descritto, fece un'ampia ma non completa trascrizione dei passi che vi erano contenuti. Nonostante il lavoro di Maffei non risultò precisissimo rimaneva comunque il fatto che si trattasse della prima preziosissima trascrizione di un documento che conteneva un lunghissimo brano delle Istituzioni di Gaio. Se il marchese, e chi insieme a lui, non riuscì a decifrare le righe contenute nel palinsesto è solo perché non era in possesso di mezzi capaci di far risaltare le scritte ormai ricoperte . Sappiamo infatti che il Codex XV, una volta ritrovato, era un Codice Palinsesto nel quale la scriptura inferior era praticamente illeggibile perché la pergamena era stata utilizzata più di una volta per lasciare spazio a testi di contenuto religioso. Inoltre Maffei non era ancora in possesso di tecniche come l'applicazione alla pergamena dell'infuso di noce di galla o della tintura Giubertina o , ancora,della cosiddetta Miscela di Hofman, che erano 70 indispensabili per riportare alla luce le antiche scritture sommerse . Maffei fu reso inerte, non dallo scarso interesse per quei caratteri sommersi ma proprio dalla scarsezza di tecniche presenti ai suoi tempi. Egli trovandosi davanti ad un Codex rescriptus si comportò come uno studioso consapevole decidendo di limitarsi a studiare la scrittura superiore ma giustamente diede conto delle scritture sottostanti che non era stato in grado di decifrare. Così lo trascrisse e lo pubblicò nella Historia Teologica nel 1852, dove fece un apografo di alcune righe del manoscritto così da poterlo rintracciare meglio, e inoltre fece un opera di catalogazione e descrizione dei manoscritti conservati nella Biblioteca Capitolare ed elencò i cento manoscritti , e proprio in uno di questi volumi, alla pagina sessantadue, era presente una nota di Maffei che qualificava il Codex XV come rescriptus. Il catalogo di Maffei , creato con la collaborazione di Massotti, era la guida indispensabile per orientarsi tra gli scritti della Capitolare ed era il primo aiuto che i Canonici offrivano agli studiosi che visitavano la biblioteca. La pubblicazione ebbe diffusione non solo in Francia e Germania ma anche in altre parte d'Europa, arrivò sulle scrivanie di tutti i filologi e grazie alla rivista Nouveau Traitè de diplomatiques, rivista, che qualsiasi filologo possedeva , a cura dei monaci Murini. Questa rivista aveva un’importanza fondamentale per qualsiasi linguista, tanto che fu realizzata un'edizione in lingua tedesca iniziata da Johann Christoph Adelung e proseguita da Anton Rudolph. Nel quarto volume dell'edizione tedesca venne pubblicata una traduzione delle informazioni fornite dai padri Maurini sul frammento ritrovato da Scipione Maffei nella Biblioteca Capitolare di Verona. Stranamente passò molto tempo prima che qualcuno si interessasse a questa scoperta,ma dopo circa ottanta anni Christian Gottlieb Haubold,storico e giurista tedesco , professore dell'univeristà di Lipsia, inizialmente di diritto antico e in un secondo momento di diritto sansone considerato da molti uno dei fondatori della scuola storica del diritto Romano . Haubold mentre stava studiando il frammento per il suo libro "Notitia Fragmentis Veronensis de interdictis". In quel momento Haubold era sicuramente lo studioso più vicino a Gaio , infatti non solo era a conoscenza del frammento trascritto da Maffei, ma lo stava attentamente studiando per la creazione di un contributo scientifico di imminente pubblicazione. Occorre però fare attenzione: Haubold, come anche lui ammetterà in seguito, pur essendo consapevole di avere fra le mani il passo di un giurista pregiustinianeo non era ancora giunto a capire che si trattasse di Gaio. Contemporaneamente un Wünderkind,un bambino prodigio di nome Karl Witte educato dal padre con dei metodi pedagogici innovativi , secondo cui infatti un bambino poteva imparare più di una lingua già in tenera età , era venuto a conoscenza dei manoscritti grazie alla rivista dei monaci e aveva iniziato a studiare con grande entusiasmo presso Haubold, entrando, quindi, in contatto direttamente con l'opera di Scipione Maffei. Il Wünderkind, affascinato da questi ritrovamenti, decide di intraprendere degli studi autonomi, come anche confermerà Haubold, fino ad arrivare alla conclusione che nella Biblioteca Capitolare fosse presente un vero e proprio tesoro veronese. La storia riguardo Witte ha contorni davvero tristi , dobbiamo sempre considerare che nonostante la spiccata intelligenza e le due lauree già conseguite , il giovane Witte aveva ancora solo sedici anni e presentava ancora l'ingenuità e il candore tipici di questa età di vita , tanto che il ragazzino, entusiasmato dalla scoperta, commise un errore imperdonabile. Durante i suoi studi iniziò a diffondere voce in ambiente accademico, con i suoi professori come Heidemberg, di questa incredibile scoperta e chiese più volte al padre di potersi recare a Verona per poter mettere le mani sui manoscritti, di cui era sicuro dell'esistenza , senza mai ricevere risposta positiva. Nel Settembre del 1816 arrivò a Verona Barthold Georg Niebuhr, un gigante della filologia e della storia. Egli fu un personaggio molto eclettico che visse il fatto di essere mandato come ambasciatore prussiano in Italia come un esilio, infatti odiava gli italiani (con le dovute eccezioni, come Leopardi ,anche se lo scrittore italiano non ricambiava questa simpatia anzi era solito approfittare prendere in giro Niebuhr in alcune sue lettere ) perché non li riteneva degni eredi dei romani ritenendoli un popolo rozzo anche a causa di alcuni,a volte divertenti, episodi. 71 L'ambasciatore Niebuhr si trattenne solo due giorni ala Biblioteca Capitolare ma gli furono sorprendentemente sufficienti per compiere le scoperte per cui passerà alla storia. Infatti un giorno Niebuhr , si recò alla Biblioteca Capitolare e proprio lì si trovò davanti a una “scoperta” che descrisse passo passo in una lettera che poco dopo inviò a Friedrich Carl von Savigny, asserendo di aver scoperto tre cose: 1. il frammento di autore anonimo 2. il foglio sciolto delle Institutiones 3. l'intero codice rescriptus dell’ Institutiones, dato che aveva molti più mezzi di Maffei per sciogliere la scrittura. Le prime due erano già state pubblicate da Scipione Maffei, ma Niebuhr si giustificò asserendo che non le conosceva. Nella lettera scrisse che aveva trovato un frammento delle Institutiones di Gaio e gli fornisce una traduzione praticamente identica a quella di Scipione Maffei, inoltre sostenne che il codice che aveva ritrovato era quello di Ulpiano, mentre Savigny individuò che era quello di Gaio. Niebuhr descrisse con un cura quasi maniacale tutti i dettagli del suo viaggio (le persone che aveva incontrato, come era fatto il cancello della Biblioteca Capitolare), ma non menzionò MAI Maffei anche se la sua figura era molto importante a Verona; inoltre è veramente impensabile che, uno studioso del calibro di Niebuhr non avesse Le Traité, che come già abbiamo detto era una rivista basilare per qualsiasi filologo, e di cui era stata redatta ance un'edizione in tedesco. Egli scrisse che stava mettendo via un libro e fu così fortunato che, per puro caso, gli cadde tra le mani il catalogo di Maffei con l'esatta collocazione dei cento manoscritti e la "fotografia" degli stessi per far capire la datazione, ma d'altronde questo catalogo non mi è stato d'aiuto per la mia scoperta: del suo oggetto non figura all'interno neanche una parola”. Savigny appena ricevette la lettera si rese conto che si trattava delle Institutiones di Gaio , decise di informare i sui studenti, era risaputo che amasse rendere partecipi i suoi studenti delle nuove scoperte e degli sviluppi che riguardavano le proprie ricerche in una visione della scienza in cui l'insegnamento e la produzione scientifica si disponevano in un rapporto di comunità e collegamento reciproco. Subito dopo appunto diede l'annuncio della scoperta ai suoi giovani studenti dell'università di Lipsia. Tra di questi si trovava Karl Witte, che stava prendendo l'abilitazione ad insegnare, il quale appena saputa la notizia, commise un altra ingenuità . Dopotutto possiamo immaginare quale turbine di sentimenti possa aver attraversato il ragazzo prodigio ascoltando le parole di Savigny. L'ingenuità e il candore portarono Witte ad un gesto che gli costò la perenne inimicizia del capo della Scuola storica .Preso dalla rabbia iniziò a parlare interrompendo la lezione, perché si sentiva depredato di una scoperta. Iniziò a dire che sapeva molte più cose del professore riguardo i 100 manoscritti, come in fatto che Haubold stava per pubblicare un lavoro simile al suo. Di fronte a queste dichiarazioni Savigny rimase basito, perché le uniche conoscenze che aveva gli erano state fornite dalla lettera inviatagli da Nieburh Il padre di Witte si precipitò subito in facoltà ed, dato che era scettico riguardo le presunte conoscenze del figlio e sapeva bene che se li dichiarazioni del figlio non si fossero rilevate veritiere il piccolo Witte avrebbe passato guai serissimi, e insieme al figlio e Savigny si recarono in biblioteca. Immediatamente Savigny si rese conto che le dichiarazioni del ragazzo erano attendibili. Quest'ultimo impose ad Haubold di consegnargli il lavoro ed egli lo fece, forse, per rispetto o, forse, perché gli fu promessa una cattedra nell'università (qualche anno dopo inizio ad insegnare). Cosa sarebbe successo se il padre di Witte avesse immediatamente assecondato il desiderio del figlio? Non lo possiamo sapere ma riamane comunque la brillante intuizione del wünderkind che portarono il padre a gridare allo scandalo affermando che il figlio era stato derubato della sua scoperta. La storia andò avanti e il giovane Witte pagò a caro prezzo la sua dichiarazione pubblica , infatti venne completamente boicottato da Savigny sia per quanto riguardò l'abilitazione a professore (venne organizzata un raduno degli studenti che fischiò per tutto il tempo del suo esame, tanto che divenne professore solo all'età di 21 anni a Berlino) sia per quanto riguardò la professione di studioso di diritto romano, probabilmente per vendicarsi dell'oltraggio subito, infatti 72 Il Corpus Iuris Civilis Nell'anno 527 d.C. Giustiniano, originario di un villaggio della Macedonia (Tauresium), di famiglia modesta, successe allo zio Giustiniano I al trono dell’impero Romano d’Oriente. Egli regnò fino alla morte, avvenuta nel 565 d.C. Il suo programma di governo si occupava di iura et arma ed era alquanto ambizioso: riconquistare la parte occidentale dell'impero romano e mettere finalmente ordine nel diritto vigente, conservando nel contempo la migliore eredità della grande giurisprudenza romana delle epoche precedenti. Nonostante ciò, Giustiniano fu in grado di realizzarlo in buona parte, infatti riconquistò il nord Africa vincendo contro i Vandali, l’Italia sconfiggendo i Goti, infine si impossessò della Spagna battendo i Visigoti. Per quanto riguarda l’ambito legislativo già nel 529 pubblicò il primo Codice (non pervenutoci), nel 533 il Digesto e le Istituzioni, nel 534 il secondo Codice, che sostituì il primo. Continuò a legiferare introducendo importanti riforme in molti settori, fino alla promulgazione dell’ultima opera, le Compilazioni Novellari (dal latino novae leges), nove raccolte di leggi redatte da privati. Digesto, Istituzioni, Codice e Novelle costituiscono il Corpus Iuris Civilis, denominazione attribuita a queste compilazioni dai medievali. Essa comparve per la prima volta nel frontespizio dell'edizione di Ginevra del 1583, curata da Dionigi Gotofredo. Quest’opera, denominata anche Corpus iuris Iustinianeum, è dunque una raccolta di materiale normativo e materiale giurisprudenziale di diritto romano, voluta appunto dall’imperatore Giustiniano allo scopo di riordinare l'ormai caotico sistema giuridico dell'impero. In Oriente, fu utilizzata come base del sistema giuridico di Bisanzio, al contrario, in Occidente, la sua applicazione fu limitata ai territori dell'Italia meridionale sotto il dominio bizantino e fu riscoperta e rielaborata dalla scuola bolognese nel XII secolo, in contrasto con le leggi di origine barbarica in uso. Il Corpus Iuris Civilis ha rappresentato per secoli la base del diritto comune europeo e costituisce, per noi, la fonte di cognizione di gran lunga più importante, perché è proprio da esso che ci proviene quasi integralmente la conoscenza del diritto romano. La sistemazione del diritto effettuata da Giustiniano rappresentava solo un aspetto del suo più ampio progetto, egli, infatti, si sentiva un tramite tra gli uomini e le divinità e credeva che quest’ultime gli avessero affidato il compito di realizzare la loro volontà mediante la monarchia universale romana. Compito fondamentale che l’imperatore si attribuì fu il perseguimento di un disegno restauratore e unificatore sotto tre profili: politico (attraverso la restaurazione delle strutture dello stato e la riconquista delle regioni già sottratte all’impero); religioso (mediante la difesa dell’ortodossia) ed infine giuridico (attraverso la ristrutturazione di tutto il sistema del diritto). Per quanto riguarda quest’ultimo, egli si pose l’obiettivo di eliminare dalle norme ciò che appariva superfluo e contraddittorio, dando ad esse certezza ed immutabilità. Questa iniziativa fu resa possibile mediante la pubblicazione di una serie di costituzioni. La prima di esse fu la Haec quae necessario, individuata, come le encicliche papali, con le parole iniziali. Con essa Giustiniano nominò una commissione presieduta da Giovanni di Cappadocia, con il compito di redigere una nuova raccolta di costituzioni imperiali. Il Novus Iustinianus Codex, venne pubblicato a poco più di un anno di distanza nell’Aprile del 529, con la costituzione Summa rei publicae che entrò in vigore nello stesso mese. Ma la sua vita fu breve: a cinque anni di distanza, per una serie di importanti interventi, fu sostituito da una nuova edizione. Con la costituzione Deo auctore, del dicembre del 530, venne programmata la più complessa e ambiziosa delle opere: il Digesto. Si istituì una commissione, presieduta dal quaestor sacri palatii Triboniano, che chiamò al suo fianco sedici collaboratori. Scienza e pratica vennero unite col fine di estrapolare dalla sapienza antica i materiali utili al presente. L’opera fu denominata con un vocabolo della giurisprudenza classica, Digesta (da digerere,ordinare) o alla greca, Pandette. Nel corso di tre anni i commissari esaminarono, stando alle notizie ufficiali, ben duemila libri. All’interno del Digesto è contenuta, infatti, una ricca selezione di brani tratti dalle opere dei giuristi romani precedenti (gli iura): si tratta dunque di un’antologia, composta da cinquanta libri, suddivisi in titoli a seconda della materia trattata, all'interno dei quali sono collocati i frammenti che, in 75 un'iscrizione iniziale, recano il nome del giurista autore del passo e anche il titolo dell'opera da cui questo è stato ricavato. L’ordine della materia è, per la parte privatistica, quello dell’Editto perpetuo. Tuttavia la ricostruzione del diritto classico attraverso il Digesto è complicata a causa degli interventi operati sui testi, in rapporto a esigenze di modifica e aggiornamento. È lo stesso imperatore ad dichiarare che molti testi vennero modificati per utilità pratica. Gli interventi dei commissari sui testi sono indicati con il termine “interpolazioni”. L’opera venne pubblicata alla fine del 533 per entrare successivamente in vigore il 30 dicembre dello stesso anno. Il Digesto influì sulla formazione del pensiero dei giuristi medievali e moderni dal quale sono scaturiti l'assetto e i contenuti degli ordinamenti di tipo continentale europeo oggi vigenti. Mentre la redazione del Digesto volgeva al termine, Giustiniano dava informalmente ordine ad una commissione di redigere un trattato elementare per la gioventù desiderosa di imparare il diritto. Le Iustiniani Istitutiones vennero pubblicate, ancor prima del Digesto, nel novembre del 533, con la costituzione Imperatoriam. L’entrata in vigore venne fissata al 30 dicembre dello stesso anno come per le Pandette. Il libro non è solo uno strumento didattico, bensì esso ha in tutto e per tutto un valore di legge. Le istituzioni giustinianee costituiscono un rifacimento delle Istituzioni di Gaio di cui seguono il sistema: quattro libri organizzati secondo la tripartizione personae-res.actiones; con il primo libro dedicato alle persone, il secondo e il terzo alle cose, il quarto alle azioni. Esse sostituirono il manuale gaiano quale testo elementare, introduttivo alla materia dello ius, destinato agli studenti del primo anno delle facoltà giuridiche. Gli eventi accaduti tra il 529 e il 533 condussero all’inevitabile superamento del Novus Iustinianus Codex. Non sappiamo quando siano iniziati i lavori per la nuova edizione del Codice, giacché anche in questo caso manca una costituzione introduttiva. Tuttavia, ci è giunta la costituzione che lo promulga nel novembre del 534 facendolo entrare in vigore il 29 dicembre: la Cordi nobis. Il compito di questa era aggiungere nuove costituzioni e togliere quelle superate, conferendo la facoltà di modificare i testi ove era necessario. Il secondo Codice del 534 detto per questo, Codex Iustinianius repetitae praelectionis, è una raccolta di costituzioni imperiali, di leges: le più antiche risalgono ad Adriano, le più recenti sono dello stesso Giustiniano. Esso è l'unico ad esserci pervenuto. Si divide in dodici libri (come le leggi delle XII tavole) ripartiti ulteriormente in titoli, a seconda della materia trattata, all'interno dei quali le costituzioni si seguono in ordine cronologico. A questo proposito i compilatori premettono al testo legislativo un'iscrizione ove hanno cura di indicare il nome dell'imperatore legiferante e del destinatario della lex; al testo poi fanno seguire la menzione del luogo e della data di emanazione. Le costituzioni coprono un ampio arco temporale che arriva sino al novembre 534 d. C. In questo codice, rispetto a quello Teodosiano, la materia privatistica occupa maggiore spazio: dei dodici libri, infatti, ben sette sono dedicati a quest’ultima. 76 Le Novellae constitutiones In un arco di tempo relativamente breve si era compiuta la rinnovazione del manuale istituzionale e la sistemazione degli iura e delle leges. Nel Codex repetitae praelectionis, Giustiniano vietava la citazione di costituzioni in esso non ricomprese, ed eccettuava quelle che sarebbe stato necessario emanare in seguito. Egli, infatti, annunciò che le successive nuove costituzioni sarebbero state raccolte in un’alia congregatio (non però una terza edizione del Codice) indicata come Novellae constitutiones. Dopo la pubblicazione del secondo codice, è possibile distinguere l’attività legislativa di Giustiniano in due periodi: il primo dal 535 al 542 d. C., durante il quale egli intervenne su grandi sezioni del diritto con una produzione molto proficua; il secondo, dal 543 al 565 d. C., in cui la produzione fu più esigua, probabilmente a causa della morte di Triboniano. Il primo gennaio 535, tre giorni dopo l’entrata in vigore del secondo Codice, venne pubblicata quella che oggi è indicata come Prima novella. Tuttavia una raccolta ufficiale delle Novelle non fu invece mai effettuata (nonostante che, com’è noto, la pragmatica sanctio pro petitione Vigilii prevedesse nel 554 l’invio in Italia, sub edictali programmate, di tutte le costituzioni emanate dopo il Codice, invio che peraltro non sembra aver lasciato tracce nella tradizione manoscritta). Sia in attesa della congregati ufficiale - che forse avrebbe potuto avere le caratteristiche di una sorta di “Codice delle novelle” contenente di ciascuna solo la parte normativa ancora vigente- sia nella previsione che essa non sarebbe stata mai realizzata, furono redatte nove collezioni private, nelle quali le novelle erano riportate nel testo integrale l’una dopo l’altra, iniziando dall’anno 535. Forse solo una di esse è semi-ufficiale. 1) La Collezione delle 168 Novelle o la Collectio Graeca o Marciana: così chiamata perché è stata ritrovata nella Biblioteca Marciana. Essa è scritta interamente in greco e contiene le novellae dei successori di Giustiniano. 2) L’Epitome Iuliani. Consta di 124 novelle, di cui due doppie, scritte in latino abbreviato, e realizzata da Giuliano. La raccolta, risalente al 555, ebbe molto successo negli anni seguenti, in particolare in Italia. Siccome Giuliano, proveniente da Berito ma professore a Costantinopoli, tenne sulle novelle dei corsi di lezione almeno a partire dal 548 (come risulta dalle recenti ricerche di W. Kaiser), la collezione greca di cui si servì dev’essere anteriore a questa data, ma ogni tentativo di ricostruirla deve tener conto dell’eventualità di modifiche da lui stesso apportate: ad esempio, il fatto che Epit. Iul. const. 1-39, o quanto meno 4-30, sembrino raggruppate secondo criteri contenutistici piuttosto che puramente cronologici potrebbe essere dovuto sia ad un tentativo di elaborazione didattica del docente, in seguito abbandonato, sia ad un disegno sistematico, poi lasciato cadere, risalente all’autore della raccolta sottostante. Bisogna anche tenere presente l’eventualità, resa verosimile da D. Liebs e W. Kaiser, che l’Epitome abbia avuto diverse edizioni e che agli autori di esse (non necessariamente da identificare con lo stesso Giuliano) possano risalire alcune aggiunte, che non indicherebbero quindi una o più nuove edizioni della collezione greca sottostante. Ad ogni modo, la raccolta di cui si servì Giuliano non intendeva comprendere solo leggi vigenti, ma riportava anche novelle abrogate da altre successive (cfr. ad es. Epit. Iul. 8). Una particolarità dell’Epitome Iuliani (rinvenibile anche in una più tarda summa, di cui si servì agli inizi del secolo VII l’Anonimo/Enantiofane, la quale potrebbe avere utilizzato una edizione più aggiornata della collezione di novelle adottata da Giuliano stesso) è la suddivisione in capitoli, che potrebbe risalire alla raccolta sottostante, anche se, in tal caso, occorrerebbe ammettere che Giuliano non l’ha sempre seguita esattamente (cfr., ad es., Epit. Iul. cap. 163). 3) L’Autenticum. È una raccolta dell'anno 556 ed è composta di 134 novelle. Esso contiene il testo originale delle novelle latine ma non necessariamente anche di quelle bilingui ed una traduzione 77 quindi catturare come ostaggi degli estranei o delle persone vicine al reo. Fonti: • Dalla,Lambertini Istituzioni di diritto romano • Umberto Vincenti, Categorie del Diritto Romano • Dalla. Lambertini, Introduzione ad un corso romanistico • Riferimenti ad appunti personali 80 GAI INSTITUTIONES di Zenobi Gessica INDICE 4. Figura di Gaio 5. La storia del ritrovamento delle Gai Institutiones 6. Gai Institutiones 81 LA FIGURA DI GAIO Tra gli autori della classica merita particolare attenzione, per le fortunate vicende che hanno appassionato la sua opera, il giurista Gaio. Giurista del II secolo, che vive sotto Adriano tra il 117-138 d. C. e muore dopo il 178. Raggiunge la sua massima grandezza in età post classica con la legge delle citazioni e nell’età giustinianea,è preso come modello per l’opera Institutiones. Il giurista Gaio visse sotto il regno di Antonino Pio, scrisse le Institutiones e venne indicato con la parola “divus”. Della figura di Gaio non conosciamo nulla, non sapendone il nome ma solo il prenome, la sua storia è avvolta nel mistero, si parla, infatti, di enigma gaiano. Nel sistema romano per l’identificazione si fornivano tre informazioni: nomen, prenomen e cognomen, ed è un particolare molto singolare che di lui abbiamo appunto solo il prenome. Possiamo ipotizzare che Gaius sia uno pseudonimo usato da un giurista che avrebbe riassunto l’opera di Gaio Cassio Longino e, in amore di questo, prese questo nome d'arte. Anche la sua origine è discussa, molti sostengono che fosse di origine orientale (Asia minore), ma la sua probabile provenienza risulta essere sia di ambiente provinciale che ellenistico. Esistono tesi a favore e tesi contrarie. La scuola di Gaio era quella dei Sabiniani, essendo uno studioso in ritardo rispetto al suo tempo, nelle sue opere cita spesso controversie superate ed è per questo che può ricordare un giurista provinciale. Giovanni Pugliese sostiene che Gaio essendo conosciuto solo con il prenome, aveva una tale fama che adoperava solo quello perché era già celebre, ma i contemporanei non citano mai Gaio, lo ignorano. L’unico riferimento è di Pomponio che usa: “Gaius noster”. Ma è sicuro? O è stato aggiunto da un bizantino? I giustinianei d’altronde lo hanno ammirato tantissimo. I contemporanei lo ignoravano, forse, perché Max Caser scrisse negli anni ‘80 un articolo che fece scalpore, intitolato: “Gaio giurista classico?”. Max Caser sosteneva che lo era, ma perché Gaio è una sorta di eccezione a differenza dei suoi contemporanei? Mentre il tipico giurista classico affrontava il caso, dava responso, studiava la casistica, egli privilegiò l’aspetto della didattica, tant'è che le Institutiones sono un modello per l’insegnamento. Era un giurista anomalo. Lo qualificarono come un mediocre e, secondo la dottrina, Gaio è di una chiarezza cristallina, adotta uno stile semplice ed efficace per l’insegnamento. Egli è autore di un opera che ha un’ importanza capitale: le Institutiones, costituisce l’unico testo romano che ci sia giunto integralmente dall’epoca classica. Questo è suddiviso in quattro libri, chiamati commentari, ognuno con diversi titoli e con varie rubriche e la materia risulta tripartita, come quella di Giustiniano, in: personae (persone), res (cose) e actiones (azioni). Oltre le Istituzioni, ha scritto anche altre opere, tra cui si annoverano le Res cottidianae che sono la sua seconda opera giuridica più importante. La conoscenza di questa opera ci perviene esclusivamente tramite gli estratti utilizzati dai compilatori del Digesto e delle Institutiones giustinianee. Il titolo completo di era: “Gai rerum cottidianarum sive aureorum”. Le Res cottidianae, diversamente ordinate rispetto alle Istituzioni di Gaio, pur essendo essenzialmente un’opera di rielaborazione delle sue Istituzioni, queste introducono nel diritto obbligatorio un’importante innovazione rispetto ad esse, le fonti delle obbligazioni sono portate dalle due individuate (contratto e delitto) a tre (contratto, delitto e altre figure), Giustiniano poi le porterà a quattro. Successivamente scrive un commento all’editto provinciale, all’editto del pretore urbano, alle leggi delle XII tavole, alla legge Iulia et papia e anche al senatoconsulto Orfiziano. 82 La materia tratta è articolata in tre parti: Il primo commentario personae (persone) tratta del diritto della famiglia e delle persone; Il secondo ed il terzo commentario res (cose) tratta dei diritti reali, delle obbligazioni, dei patrimoni e delle successioni; Il quarto ed ultimo commentario, actiones (azioni) tratta del diritto processuale; Il primo commentario si apre con la contrapposizione tra diritto civile e delle genti e l’enumerazione delle fonti dell’ordinamento, passa alla fondamentale distinzione del diritto delle persone. Persona non è il soggetto di diritto; coerentemente col suo significato originario (maschera) indica un sembiante d’uomo, libero o schiavo che sia. La summa personarum divisio è appunto quella tra liberi e servi. Tra i liberi sono gli ingenui e i libertini (schiavi liberati). Gaio tratta quindi dei libertini e delle leggi limitanti delle manumissioni, e incidentalmente dei modi in cui i latini divengono cittadini romani. Segue la divisione tra persone giuridicamente autonome (sui iuris) e soggette a potere altrui (alieni iuris); le quali sono in potestà, in mano, in mancipio. Sono in potestà (dominica) i servi e i discendenti (patria); a questo si collega la trattazione dei divieti di nozze, di acquisto della potestà in un momento successivo alla nascita e le connesse questioni relative alla posizione del figlio rispetto alla cittadinanza. In potestà non sono solo i figli procreati in nozze legittime, ma anche gli adottivi. Sono in mano le femmine che abbiano fatto la conventio col marito. A questo proposito, riguardo al modo di venire in mano per coemptio si descrive il rituale della mancipatio e segue la particolare categoria delle persone in mancipatio. La parte finale del commentario è destinato alla tutela sulle donne e gli impuberi sui iuris, con una digressione sulla capitis deminutio, e infine alla cura. Secondo e terzo commentario la parte tratta nel secondo commentario, cioè il diritto delle cose, è la più complessa. Gaio infatti, assumendo anche il concetto di cosa incorporale, che consiste in un diritto, ricomprende nel ius quod ad res pertinet non solo la tematica relativa alla proprietà e ai modi di acquisto di cose singole, ma anche l’eredità, gli altri acquisti di cose in blocco e il diritto di obbligazione. Il secondo commentario è quindi dedicato alla classificazione delle cose, e in particolare è destinato alla summa divisio tra le cose di diritto divino (res divini iuris) e quelle di diritto umano (res humani iuris), attraverso la distinzione tra cose corporali e incorporali e ancora mancipi e non mancipi. Le res divini iuris sono tutte escluse dal commercio (extra commercium) e, quindi, sono necessariamente al di fuori del nostro patrimonio (extra patrimonium), riguardano la sfera religiosa e si distinguono in tre sottospecie: Res sacrae (cose sacre), sono destinate al culto degli dei superi: i templi, le are, le statue degli dei, gli arredi del culto. Mediante una cerimonia pubblica (consecratio, dedicatio) e col consenso del popolo romano, esse uscivano dalla disponibilità privata ed erano considerate talora appartenenti alla corporazione cui era affidato il culto, altre volte (come nel caso delle statue) quasi di proprietà del dio cui erano dedicate e potevano ritornare nella disponibilità privata mediante una cerimonia pubblica contraria (exconsecratio, profanatio). 85 Nel diritto cristiano, le cose sacre (sempre fuori commercio) vengono considerate come proprietà della Chiesa o delle singole chiese, con destinazione speciale di culto. Res religiosae (cose religiose), che hanno a che fare con la morte, l’anima dei defunti, e i sepolcri. Res sanctae (cose sante), nell’elenco che ce ne dà il giurista Gaio, sono res sanctae le mura e le porte della città. Gaio stesso dice che tali cose sono in certo qual modo di diritto divino, tali res sono infatti nella proprietà dello Stato e i privati non possono farne oggetto di proprie pretese. Gaio affronta anche le res humani iuris che, invece, sono in commercio e quindi suscettibili ad entrare a far parte del nostro patrimonio e fa una distinzione tra cose pubbliche (res publicae) e cose private. Le res publicae sono quelle che appartengono allo Stato, ossia al populus romanus, e sono cose fuori commercio, al di fuori del nostro patrimonio e non sono suscettibili di rapporti giuridici tra privati. Le cose private, invece, sono suscettibili di rapporti giuridici tra privati, sono in commercio e possono essere presenti sia all’interno, sia all’esterno del nostro patrimonio. Vengono trattati poi i modi di acquisto della proprietà di cose singole. Gaio dopo aver rinviato al seguito la trattazione del legato, altro modo di acquisto di cose singole, passa ai modi di acquisto delle cose in blocco. In primo luogo viene discutere l’eredità, che può essere con o senza testamento. Nel caso dell'eredità testamentaria, si approfondiscono le forme di testamento, il possesso dei beni secondo e contro le tavole, le invalidità, le specie di eredi e la sostituzione. Infine si parla dei quattro generi di legati, delle leggi limitatrici e della validità del legato. Si conclude con la trattazione dei fedecommessi di eredità o di singole cose e dei rapporti tra questi e i legati. Le res comprendono anche il terzo commentario, dove continua la materia ereditaria con le regole dell’eredità senza testamento fissate dalle XVII Tavole e i successivi aggiornamenti dei pretori. Pertanto, dopo le eredità dei libertini, si affrontano le successioni non testamentarie. Il passaggio alle obbligazioni è repentino, esse derivano da contratto o da delitto. Nel primo caso, l’obbligazione si contrae re, verbis, litteris, consensu, con l’emersione dei contratti reali, verbali, letterali e consensuali. Dopo un cenno all’acquisto tramite altri metodi, si passa ai modi di estinzione dell’obbligazione. Vengono poi le obbligazioni da delitto, che danno luogo al pagamento di pena privata: furto, rapina, danneggiamento, ingiuria. Quarto commentario è di argomento processuale. Dopo aver distinto le azioni, Gaio si volge dapprima al passato, alle legis actiones non più in uso, per poi trattare del processo formulare e delle parti della formula della pluris petitio e della compensazione. Segue poi la trattazione delle azioni dette “di tipo aggiuntivo” e di quelle nossali, in seguito della rappresentanza e delle garanzie processuali. Successivamente agli argomenti della estinzione e della trasmissibilità delle azioni, si passa alle eccezioni e alle premesse, in seguito si passa alla tutela interdittale, per finire con le sanzioni processuali, la citazione e il vadimonio. Anche se il trattato non è mai stato esente dalle critiche, nell’ambito di una non trascurabile tendenza degli studiosi a una valutazione riduttiva del giurista Gaio, la chiarezza del testo e la “tenuta” dell’impianto dimostrano la validità delle Gai Institutiones come strumento di conoscenza del diritto classico. In quest’opera mancano a volte inquadramenti che apparirebbero necessari a una trattazione istituzionale, ma il testo ha una funzione di base didattica cui dovevano aggiungersi altre conoscenze, date per supposte, o lo stesso insegnamento orale del maestro. Il manuale non esaurisce tutti gli argomenti privatistici, alcuni istituti sono rimasti totalmente fuori. 86 Può anche darsi che Gaio abbia trascurato certi aspetti per approfondirli nelle Res cottidianae (Nozioni di ogni giorno). Esemplificando, manca la trattazione della dote, il complesso di beni che la moglie o altri apporta al marito a causa di matrimonio. Si ricorda nello stesso tempo la fiducia, antica forma di garanzia reale, mancano i diritti reali di garanzia, pegno (pignus datum) e ipoteca (pignus conventum, hypotheca). Mancano altresì contratti di creazione pretoria come il comodato, il deposito, il pegno, nonché i contratti “innominati”, convenzioni che si affermano al di fuori delle previsioni edittali che prevedono contratti tipici. Nessun cenno ai senatoconsulti come il Macedoniano e il Valleiano, ripreso da Giustiniano che, vietando alle donne di assumere obbligazioni altrui, le proteggeva, se convenute in giudizio, con una eccezione. Giustiniano per scrive le Istituzioni si avvarrà in primo luogo delle Istituzioni di Gaio, e, sul modello di queste, del metodo di esposizione sistematico per ordinare la materia del diritto, del suo fine e delle sue fonti, e farne cogliere l’insieme unitario ed armonico, organizzato intorno ai concetti sistematici generali di personae (persona), res (cose) ed infine actiones (azioni). BIBLIOGRAFIA Appunti professor. Filippo Briguglio Libro introduzione a un corso romanistico di Danilo Dalla, G. Giappichelli editore. 87 La sua entrata in vigore non determinò l’abrogazione del Codice Gregoriano e dell’Ermogeniano, in quanto il Codice Teodosiano aveva la caratteristica di integrare le precedenti compilazioni. Inoltre, esso conteneva quasi esclusivamente leges generales, mentre negli altri due erano presenti per lo più rescritti ed epistole. Il Codice Teodosiano, giuntoci incompleto attraverso vari manoscritti, restò in vigore in Oriente fino al 529 d. C., anno di pubblicazione del primo Codice Giustinianeo, mentre in Occidente sopravvisse molto più a lungo poiché venne in gran parte trasfuso nella lex Romana Visigothorum, emanata nel 506 d. C. ed estesa all’Italia nel 568 d. C.. Il Codice Teodosiano era diviso in sedici libri, ognuno ulteriormente ripartito in titoli, mentre le costituzioni erano riportate per materia e in ordine cronologico. Si segue un preciso ordine: Libro I: fonti del diritto, organizzazione degli  officia (competenze) dei funzionari imperiali; Libri II, III, IV, V, e alcuni titoli del libro VIII: diritto privato;  Libro VI: gerarchia dei funzionari e privilegi delle numerose  dignitates; Libro VII: diritto militare;  Libro VIII: disposizioni di vario genere;  Libro IX: diritto penale;  Libro X e XI: diritto finanziario;  Libri XII, XIII, XIV, XV: disciplina delle corporazioni e del commercio;  Libri XVI: diritto ecclesiastico.  Tra i sedici libri che compongono il Codice Teodosiano, il nono e il sedicesimo, sono quelli dotati di maggiore sistematicità e organizzazione. L’analisi qui riportata, infatti, si occuperà proprio di questi due. LIBRO IX: DIRITTO PENALE Se nel 435 Teodosio II, rinunciando all’ambizioso progetto del “Codex Magisterium Vitae”, diede a tutta l’opera uno scopo prevalentemente pratico, per il nono libro si potrebbe addirittura ipotizzare la natura di un “codice” in senso moderno. Non è opera semplice ricostruire l’intento con cui i compilatori procedettero alla redazione del codice e in particolare del libro dedicato al diritto penale, né ricostruire l’uso che tale libro aveva nelle due parti dell’Impero. Ma questo può essere chiaro rivolgendo uno sguardo alla situazione storico-sociale in cui l’opera è stata pensata e realizzata. Infatti, i due imperi ai tempi di Teodosio presentavano svariati problemi che i cancellieri cercarono di risolvere con la compilazione di un codice. Tra i problemi si possono citare innanzitutto l’affermarsi del potere assolutistico, l’economia distrutta dalle continue e dispendiose lotte contro i barbari e una situazione giuridica insostenibile. Ciascun impero, infatti, aveva un diverso legislatore e un sistema amministrativo in cui l’incapacità e l’inettitudine dei funzionari rendevano indispensabile. un intervento di ristrutturazione del sistema giudiziario, che non poteva che iniziare da un’organizzazione del materiale normativo. Le ferite sociali che richiedevano cure giuridiche erano molte. Il nono libro fu quindi uno strumento nelle mani dei funzionari imperiali nell’esercizio della giurisdizione penale, o meglio, un mezzo per scoraggiare i potenziali delinquenti con delle pene sempre più atroci emanate dall’imperatore. Di certo, al concreto bisogno di salvaguardare il sostrato familiare della società, minacciato dalla crisi morale dell’epoca, è dovuta la severità nella repressione dei crimini sessuali e la disciplina dura in materia di adulterio contenuta nel titolo settimo del libro. Infine L’abbondanza di costituzioni sul falso monetario contenute nel libro non può che testimoniare il tentativo di porre ordine nella caotica situazione finanziaria dell’epoca. La pena di morte, con la quale si arriva a minacciare i falsificatori, rende l’idea della diffusione del reato. 90 LIBRO XVI: DIRITTO ECCLESIASTICO La parte che più ci interessa del Codice di Teodosio è certamente il sedicesimo libro che raccoglie le norme concernenti la religione. Questo perché, come Teodosio II precisa nella lettera con cui convocò il concilio di Efeso, il bene dell’Impero dipendeva dalla religione. Spettava dunque all’imperatore agire come servo della provvidenza vigilando sulla retta via dei propri sudditi, sebbene Teodosio II preferisse rimettere la decisione su cosa fosse ortodossia e cosa fosse eresia ai concili dei vescovi. Il sovrano quindi, non intervenne direttamente nei problemi ecclesiastici, ma vigilò sull’applicazione delle soluzioni approvate dal concilio, garantendo in questo modo la pace religiosa nell’impero. Pace che però, com’è nello stile del monoteismo più rigido, si ottenne applicando pene anche gravi, come quella di morte, l’esilio, la confisca di tutti i beni, la privazione dei diritti civili nei confronti di tutti coloro che dissentissero, in un modo o nell’altro, dalla linea religiosa approvata. Si affermò così il concetto che l’eresia, o la scelta di una religione differente, fossero paragonabili al dissenso politico, cioè che costituissero reato di lesa maestà o di tradimento nei confronti dello Stato. Fu questo un concetto che perdurò per tutto il medioevo e l’età moderna e che fu alla base della persecuzione di eretici e streghe negli stessi periodi. Nel Codice Teodosiano, soltanto il giudaismo conservava, seppur in minima parte, qualche tutela poiché antenato del cristianesimo. Ciò fu possibile solo a un prezzo molto alto: che il giudaismo si considerasse e si comportasse come una religione proiettata sul passato, che in nessun modo potesse espandersi nel presente o nel futuro. Il sedicesimo libro è diviso per argomenti in titoli o rubriche: 16.1 , De fide catholica, sulla fede cattolica 16.2, De episcopis, ecclesiis et clericis, sui vescovi, sulle chiese e sui chierici 16.3, De monachis, sui monaci 16.4, De his, qui super religione contendut, su coloro che discutono di religione 16.5, De haerectis, sugli eretici 16.6, Ne sanctum baptisma iteretur, affinché il battesimo non venga ripetuto 16.7, De apostatis, sugli apostati 16.8, De Iudaeis, Caelicos et Samaritanis, sui Giudei, i Celicoli e i Samaritani 16.9, Ne Cristianum mancipium Iudaeus habeat, affinché un Giudeo non abbia come schiavo un cristiano 16.10, De paganis sacrificiis et templis, sui pagani, i sacrifici e i templi 16.11, De religione, sulla religone Il settimo titolo del sedicesimo libro è dedicato agli apostati e in esso sono presenti otto costituzioni. L’esistenza di una legislazione sull’apostasia è, dunque, documento di una delle modalità di recezione dell’alterità religiosa. Il cristianesimo si compone teologicamente come una credenza senza possibilità di scelta, poiché il Dio di riferimento è unico visto in una prospettiva storico- religiosa. Esso è oggetto di una credenza con alternativa, in quanto è data, appunto, possibilità di adesione o fuoriuscita. Da un punto di vista legislativo, l’apostasia è condannata, sospendendo la possibilità di una scelta di ritorno. Si può, almeno per l’epoca compresa da Costantino a Teodosio II, non essere cristiani, ma una volta che lo si è non si può cessare di esserlo. Il piano legislativo, infine, riflette un punto di vista politico, in cui la non scelta religiosa viene a sovrapporsi alla mancanza di alternative sul piano civico, con l’identificazione fra res publica e Catholica Lex. Da un’uguaglianza di partenza, si passa all’idea di una disuguaglianza che è comportamento sociale e religioso e che quindi non deve esistere o, in tal caso, deve essere combattuta per essere cancellata. 91 IL CARTEGGIO HÄNEL-BAUDI DI VESME Nel XIX secolo due importanti giuristi, Carlo Baudi di Vesme e Gustav Hänel avviarono una serie di epistole al fine di redigere una nuova grande edizione del Codice Teodosiano. Per comprendere le motivazioni che portarono questi due giurisperiti a dedicare alcuni anni della loro attività al Codice Teodosiano, e di conseguenza, a sostanziarne le esperienze in un intero carteggio, è necessario un breve richiamo alle precedenti edizioni, allo scopo di verificare, come gli studiosi si posero nel corso dei secoli di fronte alla compilazione di Teodosio II, giunta attraverso limitati e manchevoli manoscritti. L’imponente edizione Teodosiana di Jacques Godefroy, pubblicata postuma, da Antoine Marville e perfezionata da Johannes Daniel Ritter, aveva rappresentato un punto fermo nella storia della compilazione Teodosiana. L’interesse per il Codice Teodosiano si polarizzò sulla necessità di una pubblicazione che avvantaggiasse il dato filologico e critico rispetto all’apparato storico. I due studiosi non essendo soddisfatti delle varie edizioni si ritrovarono in una paritetica condizione, l’uno in Germania e l’altro in Piemonte. Il carteggio Baudi-Hänel consta di sessantuno epistole, di cui ventotto dello Hänel e trentatrè del Baudi, che coprono un arco temporale di circa quarant’anni, la prima è del 7 Dicembre del 1836 e l’ultima è del 5 ottobre del 1871. Dapprima il Baudi presentò in un articolo su “ Il Subalpino”, le prime scoperte dovute al rinvenimento, nella biblioteca Torinese, di un sesterno(fascicolo di sei fogli ripiegati in due e inseriti l’uno nell’altro, in modo da formare ventiquattro pagine) dell’a.II.2 rimasto fuori posto, racchiudente complessivamente ventidue costituzioni inedite. I primi due fogli appartenevano alla fine del primo libro del codice e riportarono alla luce quattro titoli fino ad allora sconosciuti; il terzo foglio forniva il titolo V del III libro mutilo nella parte finale. I rimanenti quattro fogli appartenevano a parti già edite dell’VIII e del IX libro. L’eco delle scoperte destò nello Hänel notevole interesse. Lo stesso Baudi venuto a conoscenza della pubblicazione häneliana del primo fascicolo del Corpus IurisRomani Anteiustiniani, si era messo di sua spontanea volontà in contatto con il tedesco, dimostrando fin dai primi tempi un’apertura ai rapporti d’oltralpe e un desiderio di instaurare una collaborazione nella comune impresa. Secondo quanto si evince dalla prima lettera inviata allo Hänel, il Baudi, dopo la pubblicazione dell’articolo sul “Subalpino” era riuscito a portare a felice compimento ulteriori indagini nella Biblioteca Torinese, ritrovando altri fogli del palinsesto, che conservava il Codice. Essi appartenevano a vari libri del Teodosiano e permettevano di migliorarne la lettura e di colmarne alcune lacune. Nelle successive epistole Hänel si rivolge al Baudi identificandolo come uno dei suoi maestri universitari, egli aveva mostrato estremo interesse per il palinsesto torinese e aveva espresso il desiderio di conoscere le nuove costituzioni, appena ritrovate, dando il dovuto risalto allo scopritore. Le richieste del giovane giurista però non furono soddisfatte, infatti, nella sua edizione afferma di non aver potuto usufruire dei codici teodosiani. Il giurista tedesco si era recato nella capitale sabauda e ciò indusse il Baudi a qualificarsi come studioso, parlando della sua formazione culturale giovanile. Hänel invece non sentì l’esigenza di auto presentarsi, ma la sua grande carriera di studioso fu sancita dalle sue pubblicazioni. Fu il Baudi a inviare la prima lettera con la trascrizione di un foglio del palinsesto torinese con delle modificazioni accolte da Hänel, al fine di poter apportare notevoli variazioni alla propria edizione e poter esaminare la trascrizione delle nuove costituzioni, indispensabili per l’integrazione e il proseguimento dell’opera intrapresa. Il giurista piemontese continuò la composizione del primo fascicolo. L’intenzione del Baudi era di pubblicare una raccolta di diritto romano post-classico, ma di tale progetto, non fu fatta nessuna esplicita menzione nella corrispondenza con l’Hänel, bensì soltanto qualche accenno. Ciò, forse, con riferimento al fatto che il giurista tedesco considerava molto problematico per il Baudi il cimentarsi nell’edizione dell’intero Codice Teodosiano. Nelle carte baudiane, uno scritto rappresenta la prima parte della prefazione all’interno del palinsesto, annunciata all’Hänel. Si può 92
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