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Dispensa diritto ecclesiastico, Dispense di Diritto Ecclesiastico

Appunti completi e dettagliati di diritto ecclesiastico sufficienti per l’esame. Programma 2022/2023 ma gli argomenti sono sempre gli stessi.

Tipologia: Dispense

2021/2022

In vendita dal 07/05/2021

Francesca.2200
Francesca.2200 🇮🇹

4.2

(19)

24 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Dispensa diritto ecclesiastico e più Dispense in PDF di Diritto Ecclesiastico solo su Docsity! DIRITTO ECCLESIASTICO “Diritto ecclesiastico” si tratta di un nome antico che sembrerebbe far pensare che coincida con diritto della chiesa, in realtà quello è il diritto canonico. Si chiama “ecclesiastico” perché quando, nel 1800, la disciplina è nata nei corsi universitari si intendeva spiegare a lezione il diritto dello Stato nei confronti della Chiesa Cattolica. La religione cristiano cattolica, infatti, a partire soprattutto dal 1848 (Statuto albertino), era la religione ufficiale dello Stato italiano. La Chiesa cattolica, quindi, era considerata l’unica, mentre le altre confessioni erano tollerate. Vi era una religione ufficiale dello stato, ma c’era la libertà di culto (es comunità ebraiche, valdesi, riformate). Lo stato legiferava in materia propria della Chiesa cattolica o nei riguardi della Chiesa cattolica. Invece, in Germania o in Spagna, ad esempio, il diritto ecclesiastico si chiama “diritto ecclesiastico dello stato”. Quale diritto dello stato? Regola il fenomeno religioso, o più precisamente la liberta religiosa: è quell’ambito del diritto che regola la rilevanza pubblica e giuridica del fatto religioso all’interno del nostro ordinamento. Non è diritto amministrativo, né pubblico, né privato. È un diritto trasversale: non si può limitare ad un ambito specifico del diritto, anche se tradizionalmente (erroneamente) è considerato all’interno del settore diritto pubblico. Il diritto ecclesiastico studia la legislazione statale in ambito religioso, sia che lo stato detti norme in maniera unilaterale sia come esecuzione o approvazione in accordo con una confessione religiosa, cattolica e non. È un diritto che ha un suo rilievo costituzionale: la tutela della libertà religiosa è la più normata di tutta la carta costituzionale, vi sono 4 norme che menzionano la libertà religiosa. In realtà, si parla di libertà religiosa non solo in questi 4 articoli, ma anche in altre norme ad esempio l’art 3 in merito al principio di eguaglianza. La religione, quindi, è uno die cardini del principio di uguaglianza. Anche l’art 117 fa riferimento ad essa in merito alla potestà legislativa e alle competenze: lo stato ha competenza esclusiva in ciò che riguarda il rapporto con le confessioni religiose. 4 norme che riguardano la libertà religiosa: -art 7 e 8à la libertà istituzionale delle confessioni religiose di poter agire nel nostro ordinamento; tutte le confessioni religiose sono uguali (Santi Romano) NB art 7 à rapporto Stato-Chiesa cattolica è l’unico articolo che contenga un esplicito rinvio ad un accordo di diritto internazionale, vale a dire i Patti Lateranensi -art 19à libertà individuale, ossia riconoscimento della libertà religiosa a tutti: quindi la libertà di credere o anche di non credere -art 20à libertà religiosa collettiva nel senso che la liberta religiosa è anche degli enti, delle associazioni; stabilisce un principio di uguaglianza tra tutti gli enti caratterizzati dal fattore religioso e gli enti del diritto comune. Nel nostro ordinamento vi è una peculiarità evidenziata dagli art 7 e 8: lo Stato non legifera unilateralmente in ambito religioso ma vi è una sorte di principio di bilateralità; le norme che regolano i rapporti sono negoziate con la confessioni religiose. La negoziazione legislativa: quando norme riguardano un certo settore specifico lo stato può ricercare degli accordi con i rappresentati di quel settore. L’art 7 prevede che i rapporti tra stato e chiesa cattolica siano regolati dai Patti Lateranensi e prevede anche la possibilità di modifica, che è avvenuta nel 1984. Le leggi di modifica dei Patti Lateranensi presentano una clausola di bilateralità in caso di modifica. L’art 8 prevede che i rapporti siano regolati dalla legge ma sulla base di intese. E poi i rapporti sono approvati mediante legge. Le norme sono in linea di massima concordate tra le .. 13:16 Non vi è nessun obbligo per la confessione religiosa di creare intese. Infatti, nel caso in cui questo non avvenga si applica la L.1159/1929. (legge sui culti ammessi) Inoltre, ci sono anche norme di derivazione unilaterale che permettono allo stato di legiferrare in ambito religioso: ad es le norme dettate dal governo italiano con decreto presidenziale per limitare l’esercizio della liberta religiosa da marzo in poi casua covid. Gerarchia delle norme 1. COSTITUZIONE: (Art.3,7,8,19,20) 2. norme di derivazione pattizia che hanno un valore pari alle norme costituzionali: leggi ordinarie di approvazione o di esecuzione che hanno una resistenza passiva all’abrogazione pari alle norme costituzionali: quindi non possono essere modificate unilateralmente dallo stato se non previo accordo con la confessione o secondo la norma costituzionale (art 138). 3. leggi ordinarie unilaterali e regolamentari: regolamenti della chiesa e dello stato 4. norme di carattere regionale: (ad es normative in tema di oratorio) 5. leggi bilaterali :sono leggi sia per lo stato che per la chiesa/confessione religiosa LIBERTA’ RELIGIOSA NELLA COSTITUZIONE Art 7-8à libertà istituzionale Art 19à libertà individuale, è assicurata la libertà dell’individuo di poter professare qualsiasi religione riconosciuta. Art 20à libertà collettiva, prevede che il fine di culto di un associazione non possa determinare limitazioni legislative o aggravi fiscali per la sua formazione e per ogni sua attività. Questi sono i 3 momenti principali della libertà religiosa, fermo restando però che quest’ultima rappresenta tanti altri punti della nostra carta costituzionale: ad es art 3,21, 117 Art 7 à riguarda i rapporti fra lo Stato italiano e la confessione religiosa della Chiesa cattolica In virtù dell’art 1 dello Statuto Albertino del 1848 la religione cattolica era considerata la religione di stato. Questo principio era ribadito anche dal Trattato Lateranense (che è un’istituzione richiamata esplicitamente nella nostra carta costituzionale). La religione cattolica viene considerata come religione di stato sino all’entrata in vigore della costituzione repubblicana: però pur venendo meno lo Statuto Albertino, l’art. 1 veniva richiamato dal Trattato Lateranense e quindi mantenuto in vita dal richiamo stesso. La religione cattolica era quindi comunque una religione ufficiale. Però, pur essendovi l’art 7 che si occupa esplicitamente di questo rapporto, la religione cattolica non era la religione di stato. Questo, essenzialmente per 3 motivi: - motivo statisticoà la religione cattolica, da un punto di vista statistico, era la religione della maggior parte degli italiani (come ancora oggi), quindi la “religione del popolo”. Quando fu redatta la Costituzione circa il 98% degli italiani era di religione cattolica. Si pensi che i primi manuali pur essendo stati redatti da intellettuali facevano riferimento solo al rapporto dello Stato con la Chiesa cattolica. - motivo storicoà la Chiesa Cattolica era, ed è, la confessione religiosa che storicamente ha avuto un dialogo aperto con lo Stato, sia di collaborazione che di contrasto (sia nella forma monarchica che in quella repubblicana). È stata quindi un interlocutore costante del nostro stato. - motivo politicoà nel 1946-1947 quando fu redatta ed entrò in vigore la Costituzione, la Chiesa cattolica costituiva una figura importante anche dal punto di vista politico istituzionale. Aveva un suo ruolo fondamentale sia sociale che politico. Era una struttura diffusa in tutto il territorio. Quindi era necessario un richiamo esplicito alla Chiesa Cattolica nella nostra Costituzione I rapporti tra Stato e Chiesa cattolica, dunque, sono regolati in parte dai Patti Lateranensi, ma l’art 7 fornisce una premessa importantissima: lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. Primo comma à viene ribadito il principio della sovranità della Chiesa cattolica. Lo Stato, quindi, non è l’unico soggetto internazionale “superiorem non recognoscens” (cioè che non ha nessuna autorità da cui dipende). Nel nostro ordinamento statale convivono vari soggetti sovrani: A. Chiesa cattolica trova giustificazione in sé stessa senza trovarla in altri (ORDINAMENTO GIURIDICO ORIGINARIO) B. Stato C. altri soggetti sono nel nostro ordinamento “ordinamenti giuridici” la breccia di Porta Pia. Questa situazione portò il pontefice a dichiararsi “prigioniero in Vaticano”. Le truppe italiane, però, non oltrepassarono il limite di Piazza San Pietro. Iniziò un forte periodo di contrasto. Il primo punto di contrasto fu la Legge delle guarentigie con la quale il governo italiano regola la situazione della santa sede dopo la debellazione (tale legge ad es garantiva l’esercizio libero del proprio potere spirituale, di poter usufruire di un corpo di guardie armate). La santa sede non accettò mai la legge e la respinse esplicitamente nel 1871 con la dottrina del principio del non expedit, secondo il quale non conveniva che i cattolici partecipassero alla vita politica del paese. Con questo decreto, il 10 settembre del 1874, fu proibito ai cattolici italiani di partecipare alla vita politica del paese, sia come eletti che come elettori. Tale principio è stato ribadito come obbligatorio in atti successivi. Ci si rese conto che applicare il non expedit avrebbe significato lasciare il paese in mano a chi cattolico non era, o anzi a chi era contrario alla religione cattolica. Da un atto di astensione, quindi, stava derivando un danno maggiore. Quindi, nel 1905, con l’enciclica del fermo proposito (documento formale pontificio con cui il pontefice esercita il proprio potere) Papa Pio X non revocò il decreto ma permise ai cattolici su base locale l’esercizio della vita politica, lasciando quindi alle circoscrizioni territoriali valutare se ci fosse la condizione di partecipare alla vita politica sia attivamente che passivamente. Nel 1913 vi fu il c.d. Patto Gentiloni (avo diretto del nostro ex primo ministro)à patto fra l’unione politica dei cattolici e i liberali per permettere la partecipazione dei cattolici alla vita politica del paese. Gentiloni stipulò un accordo tra l’unione elettorale dei cattolici e i liberali di Giolitti. Ricordiamo che era stato appena introdotto il suffragio universale. Quest’ultimo, infatti, prima era su base censuale, quindi il diritto di voto era limitato a chi godesse di un certo patrimonio (si trattava di un diritto elitario). La situazione fu modificata con l’introduzione del suffragio universale maschile (per le donne bisogna aspettare il 1946). Nel 1912, infatti, il numero degli aventi diretto al voto passò da circa 3 milione a quasi 9 milioni. Molti nuovi elettori erano di classe proletaria e avrebbero votato o il partito socialista o quello radicale. Il partito liberale voleva fermare questa avanzata e quindi il miglior modo possibile era quello di allearsi con i cattolici perché la Chiesa cattolica godeva di un grandissimo appoggio in tutto il Regno di Italia. Nel loro rapporto nell’unione elettorale dei cattolici italiani, i liberali vedevano un modo di frenare l’avanzata dei socialisti e di creare un fronte moderato. Si giunse così ad un accordo fra cattolici e liberali in base al quale i cattolici avrebbero potuto candidarsi e avrebbero potuto votare. Fu stabilito, però, che i cattolici potessero votare solo quei candidati cattolici o liberali che si fossero impegnati a incarnare nella loro politica 7 punti considerati irrinunciabili (c.d. ectalogo), stabiliti dal patto: ad es l’impegno a non introdurre il divorzio o l’impegno ad introdurre l’insegnamento religioso. Il patto fu concluso in maniera informale e le elezioni del 1913 furono un vero e proprio successo del patto: i liberali ebbero il 47% dei voti, ossia 270 eletti di cui ben 228 erano gli eletti che avevano sottoscritto l’ectalogo, ma crebbero anche i socialisti e i radicali. Tra i 270 liberali, vi furono soprattutto 20 eletti dell’unione elettorale cattolica e 20 cattolici non aderenti al partito liberale. Quindi i liberali da alleati che erano dei radicali gli voltarono la faccia e si allearono con i cattolici: passando dal fronte liberale-radicale, ossia progressista, ad un fronte liberal-moderato. Con il patto Gentiloni quindi vi fu l’ingresso generale dei cattolici in politica. La situazione si modificò con la I guerra mondiale, al cui termine i cattolici fondarono un loro partito, o meglio fu fondato un partito popolare da Don Luigi Sturzo, siciliano di Caltagirone: un partito di ispirazione cattolica però aperto a tutti gli uomini “liberi e forti”, fondato nel 1919, NON ERA UN PARTITO UFFICIALMENTE CATTOLICO. Nelle elezioni del 16 novembre del 1919, che avvennero con il metodo proporzionale, il partito popolare raccolse il 20% dei voti, ossia ben 100 deputati. Questa forza aumentò nelle elezioni del 1921 e si passò da 100 a 108 deputati. Nel frattempo, in Italia si stava sviluppando quello che poi sarebbe stato il partito fascista. Dopo la marcia su Roma del 22 ottobre del 1922, il partito popolare accettò illudendosi di eliminare il partito fascista. Il re timoroso aveva dato a Mussolini la creazione di un governo. L’obiettivo era di frenare la violenza fascista. Nel 1923 i membri uscirono dal governo stesso. Nelle elezioni successive del 1924, in un clima di forte violenza fascista, il partito popolare riuscì comunque ad ottenere un buon numero di voti, con 39 deputati, e fu il primo dei partiti non fascisti, gli altri scomparvero quasi completamente (come il partito socialista e quello radicale). Il partito polare divenne la seconda forza politica presente nel nostro parlamento. Tuttavia, dopo l’assassinio di Matteotti (socialista) divenne chiaro che ogni forma di collaborazione con il partito fascista era inutile e il partito popolare passò all’opposizione fine al 1926 quando tutti i partiti non fascisti vennero eliminati. Molti esponenti furono costretti all’esilio (Sturzo si recò negli Stati Uniti, De Gasperi si allontana dalla vita politica del paese). Si ha uno scioglimento di un partito che ebbe vita breve, ma fu un fattore importantissimo. Con lo scioglimento dei partiti, il partito fascista divenne l’unico partito, che governava la Camera dei deputati e il governo monocolore, e fu proibita la costruzione di altri partiti. Si giunse così alla creazione di uno stato dittatoriale e si crearono grossi problemi con la Chiesa. Mussolini, da statista attento, si rese conto che la Chiesa era l’unica vera forza popolare che aveva un’influenza capillare in Italia, sia orizzontalmente (in tutti i territori) sia verticalmente (in tutte le classi sociali). Il partito fascista non aveva questo radicamento ancora. Il partito fascista così da anticattolico che era originariamente, cioè contro la Chiesa cattolica e contro la santa sede e il romano pontefice, da socialista, poi fascista si rese conto dell’importanza della Chiesa cattolica. Si giunse così ad una sorta di trattative per poter giungere ad una pacificazione della questione romana e ad una pacificazione dei rapporti con la santa sede. Le trattative durarono 3 anni e furono anche piuttosto complicate: la santa sede cercava di comprendere quali vantaggi avrebbe potuto trarre così come il partito fascista. Vi era una sorta di ricerca del reciproco vantaggio. Naturalmente, la Chiesa andava con i piedi di piombo poiché conosceva i rischi e Mussolini. PATTI LATERANENSI (11 febbraio 1929, resi esecutivi con L.810/1929) Si giunse all’accordo, ossia ai Patti Lateranensi, composto da 3 patti: -Trattato: condizione della santa sede e del romano pontefice con la creazione dello stato della citta del vaticano, il trattato sostituiva il primo titolo della legge delle guarentigie -Concordato: condizione giuridica della Chiesa in Italia, veniva a sostituire il secondo titolo della legge -Convenzione finanziariaà lo stato italiano si impegna a risarcire simbolicamente i danni subiti dalla santa sede, in seguito alle debellatio. Vi erano questi 3 Patti Lateranensi. Si pone fine termine alla c.d. questione romana e si giunge alla conciliazione. I Patti Lateranensi furono resi esecutivi in Italia con la legge n.810 del 27 maggio 19129 e poi con la pubblicazione sugli acta apostolici della santa sede. Il governo italiano si prefiggeva con questo atto un assorbimento del religioso nel civile, era un instrumentum regni, mentre per la Chiesa il governo era considerato strumento con cui svolgere il proprio esercizio sia a livello universale che particolare. TRATTATO Contenutoà aveva l’obiettivo di eliminare ogni contesa fra Santa sede e Stato italiano per poter giungere “ad una sistemazione definitiva dei reciproci rapporti conforme a giustizia..”. Il trattato riconosceva alla santa sede quella sovranità che questa riteneva indispensabile per adempiere quella FUNZIONE DI CHIESA UNIVERSALE. Lo Stato del Vaticano costituiva un ente territoriale sovrano della santa sede, che a sua volta era considerata organo di governo (art 2) nel campo internazionale. Lo stato italiano lo riconosceva. Alla santa sede è riconosciuto il diritto di legazione attiva e passiva secondo le regole generali del diritto internazionale. L’art 7 secondo comma richiama in maniera esplicita i Patti Lateranensi e qual è la loro posizione nel nostro dettato costituzionale. L’11 febbraio 1929, l’Italia e la Santa Sede hanno stipulato quelli che poi furono definiti Patti Lateranensi resi esecutivi con la legge 810 del 27 maggio e nell’ordinamento della chiesa con gli Acta Apostolicae Sedis (gazzetta ufficiale della Santa sede). La debellatio dello Stato pontificio nel 1870 aveva posto il problema della situazione giuridica della Santa sede. Questo problema era stato risolto unilateralmente dall’Italia con la legge 214 del 13 luglio del 187, la c.d. Legge delle guarentigie. Il pontefice si dichiarò prigioniero in Vaticano e con il c.d. non expedit nel 1874 impedì la partecipazione politica dei cattolici sia come eletti che come elettori. Con i Patti Lateranensi, dopo 3 anni di trattive segrete, e con l’abolizione dal 1919 del non expedit, la legge fu abrogata. Il titolo I della Legge delle guarentigie fu sostituito dal Trattato e il titolo II dal Concordato. TRATTATO Il Trattato riconosceva alla Santa sede quella autorità che era indispensabile: -da un lato la Santa sedeà ove si intende sia l’ufficio del romano pontefice sia più organismi che coadiuvano il pontefice nell’esercizio della missione universale di governo della chiesa universale -da un lato la Città del Vaticano come ente territoriale. L’art 2 del Trattato riconosceva la sovranità della Santa sede nel campo internazionale come attributo della sua natura. Alla Santa sede veniva riconosciuto un diritto (mai negato) quello della legazione attiva e passiva, che cioè consentiva di inviare e ricevere ambasciatori. Inoltre, l’art 24 del trattato dichiara in modo unilaterale che la Santa sede sarebbe rimasta estranea ai conflitti temporali degli stati a meno che gli stati contendenti non facciano richiamo alla chiesa di far valere la sua missione di pace. La parte della norma che prevede che la Città del Vaticano sia considerata come territorio inviolabile neutrale di pace avrebbe dimostrato la sua essenzialità di lì a pochi annià nel 1943 quando le truppe tedesche e poi le truppe alleate non passarono le mura di Piazza San Pietro. Si tratta, quindi, di una norma essenziale per preservare la neutralità della Santa sede. Con la Convezione finanziaria si giunse alla liquidazione dei crediti da parte dell’Italia per la perdita del patrimonio beati petri, ma il risarcimento fu eccessivo rispetto al danno. In virtù del trattato, la Santa sede dichiarò definitivamente eliminata la questione romana. Il regno di Italia era sotto casa Savoia con capitale Roma, ma Casa Savoia era casa regnante anche sui territori pontifici. La Santa sede riconobbe Roma capitale rinunciando così ad ogni mira sovrana con Roma stessa e allo stesso modo anche lo Stato la riconosceva tale (art 26). Inoltre, sempre l’art 26 riconosceva che lo Stato della Città del Vaticano era sotto la sovranità del pontefice. L’art 1 del Trattato riconosceva la religione cattolica quale religione di stato, rinviando in maniera esplicita all’art 1 dello Statuto albertino del 4 marzo 1848 (legge n 684). Era concesso, però, l’esercizio anche degli altri culti, che erano tollerati. Creazione dello Stato di Città del Vaticano come base territoriale per l’esercizio della missione spirituale e universale del pontefice. Si tratta di un territorio inviolabile e neutrale. CONCORDATO È stato redatto in modo da costituire un necessario complemento del trattato e inteso a regolare la condizione giuridica della Chiesa. L’art 1 riconosceva alla Chiesa cattolica il libero esercizio della libertà spirituale, di culto, e giurisdizione in materia ecclesiastica. Tema di enti ecclesiasticià con il Concordato la condizione giuridica delle persone ecclesiastiche superò la fase che potremmo definire di “tolleranza passiva” pe entrare in quella attiva (art 20 Cost). A partire dal 1800 lo Stato italiano, con determinate leggi, aveva diminuito non solo la capacità d’agire ma anche quella giuridica degli enti, in particolare quelli religiosi, giungendo a privare la libertà ed espropriando dei beni (le c.d leggi r..). Lo stato era riconosciuto uno specifico potere autorizzatorio: gli enti ecclesiastici non potevano acquisire beni se non previa autorizzazione governativa. Gli unici acquisti esenti erano quelli a titolo oneroso di beni mobili. Con il Concordato, invece, rimaneva pur sempre un controllo, ma si riconobbe la possibilità di creare enti che potessero godere di personalità giuridica, compresi gli enti ecclesiastici. Oltre il riconoscimento nominale specifico di alcuni enti come associazioni religiose e alcune confraternite, prevedeva una più generale clausola grazie alla quale qualunque istituto ecclesiastico avrebbe potuto ottenere la personalità giuridica nel nostro ordinamento. Era necessario, però, che l’ente fosse approvato dall’autorità ecclesiastica competente. Il concordato conteneva anche norme sul sostentamento del clero, norme con cui veniva ribadito il sistema beneficiale, quindi integrato da un aiuto specifico dello Stato. Per quanto riguarda i matrimoni celebrati secondo il diritto canonico e debitamente registrati e trascritti nei registri dello stato civile, su questi competente erano i tribunali ecclesiastici: sino al 1865 nell’ordinamento giuridico italiano l’unico matrimonio riconosciuto era quello religioso cattolico, non era previsto il matrimonio civile. Solo nel Regno lombardo- veneto erano riconosciuti altri matrimoni religiosi, come quello della confessione ebraica. Nel 1865 la situazione si modificò con il nuovo codice civile che ricalcava il Codice napoleonico del 1804. Il Codice del 1865 stabiliva che l’unico matrimonio fosse quello civile. Vi era libertà di sposarsi anche religiosamente, però l’unico matrimonio riconosciuto dallo stato era quello civile. Con il Concordato invece era prevista una doppia celebrazione. NB non fu introdotto l’obbligo di celebrare prima quello civile e poi quello religioso, come è vigente sia in Francia che in Germania. Nel nostro ordinamento non è presente alcun obbligo di questo genere, anche se la Chiesa consigliava di fare prima quello civile e poi quello religioso. Corte costituzionale sentenza 203/1989à chiamata a vagliare la legittimità costituzionale di alcune norme del nuovo accordo, si afferma in maniera esplicita che questa corte ha statuito che i principi supremi dell’ordinamento costituzionale hanno valenza superiore. La Corte afferma anche che le norme del nuovo accordo possono essere sottoposte ad un vaglio di legittimità, ai principi supremi dell’ordinamento. I principi supremi non trovano una collocazione formale, ma vengono creati dalla Corte costituzionale, in via giurisprudenziale, nella sentenza 203 in tema di istruzione religiosa. La Corte costituzionale afferma che vi è un principio supremo di laicità dello stato. Vi sono alcune costituzioni, come quella francese (art 2), che esplicitano in maniera formale che lo stato è laico, mentre nella nostra Costituzione non vi è una norma che esplicitamente dice che lo stato italiano è laico. Tuttavia, se questo principio non è riportato in maniera esplicita è comunque intrinseco alla Costituzione: i parametri contenuti negli artt 2,3, 19, 7, 8 e 20 contribuiscono a strutturare il principio supremo della laicità dello stato, che è elemento costitutivo della nostra Repubblica italiana. Mentre la separazione francese implica una separazione oppositiva, il principio di laicità implica non indifferenza dello Stato ma salvaguardia. Lo stato italiano non è indifferente al fatto religioso, ma la sua laicità è collaborativa: si ritiene incompetente a normare il fatto religioso in maniera unilaterale e richiede la cooperazione delle confessioni religiose per poter normare in maniera più conforme alle relative confessioni, fermo restando la libertà religiosa di ciascun individuo. La laicità dello stato, quindi, non è oppositiva ma cooperativa. Viene abbandonato il principio della religione cattolica come religione di stato con chiara allusione al Trattato (art 1) del 1929. L’Italia non ha una sua religione ufficiale ma coopera con tute le religioni al fine di garantire la libertà religiosa. ART 8: “Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo stato sono regolati per legge sulla base delle intese con le relative rappresentanze” primo commaàgarantisce la libertà istituzionale di tutte le confessioni religiose, afferma che tutte sono egualmente libere davanti alla legge. Non si afferma che siano uguali, ma uguali nella libertà. Quindi oggettivamente le confessioni religiose non sono uguali. NB Giustizia non vuol dire “dare ad ognuno lo stesso”, ma “dare ad ognuno il suo” Ogni confessione ha esigenze storico sociali inter-relazionali diverse. La legge non può discriminare una confessione religiosa rispetto ad un'altra. Quindi non vi è nessuna discriminazione innanzi alla legge, tutte le confessioni hanno diritto ad avere un medesimo trattamento. Secondo e terzo commaà si riferiscono a quelle confessioni diverse da quella cattolica: da un alto si afferma che le confessioni hanno diritto ad organizzarsi, dall’altro si afferma che i loro statuti non possono/non devono essere diversi rispetto all’ordinamento giuridico del nostro stato. Cosa si intende per confessione religiosa? Quali sono le caratteristiche che permettono di qualificare un gruppo come confessione religiosa? Nessuna norma dà la nozione di confessione religiosa. Con sentenza 195/1993 la Corte costituzionale ha enunciato i criteri per giudicare giuridicamente un gruppo sociale è confessione religiosa o meno: -stipulazione di un’intesa ex art 8 terzo comma della costituzione: è evidente che un ente che ha stipulato un’intesa è una confessione religiosa. -presenza di uno statuto che manifesti i caratteri dell’organizzazione: cioè uno statuto religioso -eventuali precedenti riconoscimenti pubblici dell’ente, ad es come persona giuridica (legge 1159/1929) -comune considerazione: come nell’opinione pubblica si consideri quel gruppo sociale Si tratta di criteri non esaustivi. confessione religiosa: una sorta di comunità sociale stabile dotata di una organizzazione e normazione propria e che ha una propria e originale concezione del mondo basata sull’esistenza di un essere trascendente (ad es la religione musulmana) o della ricerca del divino nell’immanenza (ad es i buddisti) La Corte costituzionale con la sentenza 195/1993 ha individuato dei criteri di per sé non esaustivi da considerare separatamente l’uno rispetto all’altro. Sono meramente indicativi e presuppongono un auto-qualificazione della confessione come religiosa. Il limite della auto-normazione è che tali norme non contrastino con l’ordinamento giuridico dello stato italiano. Art 8 ,terzo comma costà prevede che le confessioni religiose debbano regolare iI loro rapporto con lo stato per legge sulla base di intese. Si prevede quindi una modalità pattizia, in maniera bilaterale/negoziale, e che questo accordo sia poi approvato da una legge dello stato. L’art 8 è una norma che ha tardato molto ad essere attuata. La prima intesa risale al 1984 quindi successivamente alla stipula del nuovo accordo fra lo Stato e la Chiesa Cattolica. Si è tardato così tanto ad attuare questa norma perché: -prima di stipulare un’intesa si preferiva giungere ad un accordo con la Chiesa Cattolica per una modifica dell’accordo precedente (quindi del Concordato) -dall’altro lato il regime delle confessioni religiose, che non avevano stipulato intese, era regolato dalla legge 1159/1929 e questa regolava in maniera soddisfacente i rapporti con lo stato. La norma, art 8 terzo comma, sembrerebbe una norma imperativa, che impone alle confessioni religiose di regolare i loro rapporti con lo stato per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze. Quindi sembrerebbe prevedere un’obbligatorietà della stipula dell’intesa. In realtà, le confessioni religiose non sono obbligate a stipulare un’intesa con lo stato. Esse hanno da un lato un diritto di richiedere l’intesa, se vi sono tutti i requisiti, e dall’altro è vero che la Corte costituzionale ha ribadito che non vi è nessun obbligo. Non vi è obbligatorietà di stipula dell’intesa, vi è un canale preferenziale. Vi è infatti la legge 1159 del 1929 che regola i rapporti quando le confessioni non abbiano stipulato un’intesa. Ma cosa sono le intese? Le intese à a differenza degli accordi con la Chiesa cattolica, i rapporti con le altre confessioni religiose sono regolati per legge sulla base di intese. L’intesa costituisce il presupposto costituzionale per l’emanazione della relativa legge e costituisce un parametro di legittimità costituzionale della medesima legge: se la legge fosse difforme all’intesa, essa (la legge) sarebbe incostituzionale. Questo perché la legge deve approvare, essere specchio fedele dell’intesa stessa. Il contenuto della legge deve rispecchiare sostanzialmente quello dell’intesa, non in maniera casuale. La prima intesa stipulata fu con i Valdesi e la legge di approvazione differiva in qualche particolare formale con l’intesa: venivano espunte dalla legge alcune dichiarazioni unilaterali riportate nell’intesa. Nelle successive intese, è stato superato questo limite e si è preferito riportare le eventuali dichiarazioni unilaterali della confessione religiosa in un preambolo che non costituisce parte integrante dell’intesa stessa. In questo modo, l’intesa viene formalmente riprodotta anche nella legge di approvazione. Questo è un punto essenziale per evitare problemi di legittimità costituzionale. Si parla di legge di approvazione e non di esecuzione perché le intese, a differenza dei concordati e dei patti, non sono accordi di tipo internazionale. La chiesa cattolica è un soggetto sovrano dell’ordinamento internazionale e gli accordi con essa rientrano a pieno titolo nelle convenzioni di accordi internazionali. Sono accordi tutelati direttamente dalle norme del diritto internazionale. Le altre confessioni religiose, invece, non sono soggetti sovrani dell’ordinamento internazionale. Gli accordi non sono accordi tipo internazionale. Sono accodi esterni che nascono in un ordinamento giuridico che sorge ogniqualvolta che abbiamo accordi di tipo esterno. Accordi che sorgono nei 2 ordinamenti giuridici e che fondano un ordinamento giuridico terzo, quello dell’intesa, che sorge per volontà dei 2 soggetti. L’intesa poi viene approvata nel nostro ordinamento. NB la legge di esecuzione è propria solo degli atti negoziali internazionali. La prima legge di approvazione di un’intesa è la legge 449/1984 che regola i rapporti tra lo Stato italiano e la Tavola Valdese. Accordo , per le forme solenni e per la partecipazione di altre autorità governative, è da considerare un atto di diritto esterno. Che posto hanno nella gerarchia delle fonti le leggi di approvazione? La loro posizione non è dissimile a quella degli accordi della Chiesa cattolica. Anche le leggi di approvazione, infatti, godono di una particolare tutela costituzionale in virtù del richiamo al terzo comma art 8. Lo stato non può modificare unilateralmente un’intesa con una confessione religiosa. Questo glielo impedisce l’art 8 terzo comma della Costituzione. Le leggi di approvazione sono leggi ordinarie che però hanno una resistenza passiva all’abrogazione pari alle norme costituzionali, con la differenza che il loro parametro di legittimità costituzionale è costituito dai principi supremi dell’ordinamento e dall’intesa stessa. Possono quindi essere modificate solo mediante legge ordinaria di approvazione e di una successiva intesa. Procedura di approvazione delle intese L’intesa può essere stipulata solo con la confessione religiosa che abbia ben delineati degli organi rappresentativi e di governo. L’altro presupposto derivante da una prassi costituzionaleàè necessario che le confessioni che chiedono un’intesa godano nel nostro ordinamento di personalità giuridica (legge 1159/1929) e di diritti civili, una volta ottenuto il parere favorevole del Consiglio di Stato. Il terzo presupposto è comprendere se il governo abbia discrezionalità o meno nello scegliere l’interlocutore, ossia se può rifiutare la proposta di stipulare un’intesa. Questo per vari motivi: ad es perché l’ente non vien riconosciuto come confessione religiosa o manca uno dei due presupposti sopraelencati. NB Se da un lato la confessione religiosa ha diritto a proporre istanza, dall’altro non è configurabile una pretesa soggettiva alla conclusione positiva delle trattive stesse. Come lo ricorda anche la Corte costituzionale, la richiesta della stipula dell’intesa implica anche la non giustiziabilità, cioè che non vi è un diritto a pretendere la conclusione dell’intesa. La responsabilità del governo è meramente politica e come tale non giustiziabile. Tutto ciò è contenuto nella sentenza 52/2016 della Corte costituzionale. Questo implica che il rifiuto di una trattiva non può godere di una tutela giurisdizionale, quindi è un atto di mera opportunità politica previsto dal nostro ordinamento. Se invece le trattative vengono avviate regolarmente, inizia un dialogo tra lo stato e le confessioni religiose ai fini della stipula dell’intesa stessa. 1. Le confessioni interessate presentano istanza al Presidente del consiglio dei ministri, il quale può accogliere l’istanza o respingerla. Nel caso accolga l’istanza, il compito di condurre le trattive viene affidato al sottosegretario del Consiglio dei ministri. 2. Il sottosegretario si avvale di alcuni organi, come la Commissione interministeriale per le intese delle confessioni religiose (è un organo consultivo), affinché venga predisposta la bozza di intesa. Su tale bozza esprimerà un proprio parere la Commissione consultiva (è scaduta dal 2018 e non è stata ancora ricostituita). 3. Concluse le trattive le intese sono poste all’ esame del Consiglio dei ministri che deve autorizzare la firma del Presidente del Consiglio. 4. Le intese sono poi trasmesse al Parlamento e la loro approvazione avviene mediante legge. NB le richieste di intesa sono rivolte al Presidente del Consiglio dei ministri, in quanto la competenza compete al governo, ma devono essere preventivamente sottoposte al parere del Ministero dell’interno Abbiamo una serie di intese, la maggior parte delle quali approvate mediante legge: -sono 11 le intese approvate mediante legge -1 intesa con la Chiesa di Inghilterra, firmata il 30 luglio del 2019, deve esser ancora tradotta in legge. Per tutte le confessioni religiose che abbiano stipulato un’intesa non è più vigente la legge del 1929 n.1159. Se si intende modificare un’intesa è necessario sempre un accordo. Per le confessioni religiose diverse dalla cattolica non vi è un obbligo giuridicamente sanzionato di stipulare un’intesa. Le confessioni religiose prive di intesa sono ugualmente tutelate all’interno del nostro ordinamento. La Corte costituzionale ha detto che la stipulazione di un’intesa non deve costituire un’trattazione più favorevole nei loro riguardi. -Presidente, nominato dal ministro dell’interno -Direttore centrale degli affari dei culti -2 membri scelti dal ministro dell’interno -2 membri designati da altri ministeri -3 membri scelti dalla conferenza episcopale (anche il prof Bettetini) I membri durano in carica 4 anni e non possono essere confermati più di una volta. LO STATO CITTA’ DEL VATICANO LA SANTA SEDE La Santa sede, o sede apostolica, è l’ente preposto al governo della Chiesa cattolica. L’espressione Santa sede tanto nel diritto canonico quanto in quello italiano ha una duplice accezione: - accezione ampia: indica complessivamente e congiuntamente il romano pontefice e la curia romana (cioè il complesso di organi composto dalla Segreteria di stato, dal Consiglio per gli affari pubblici della Chiesa, dalle Configurazioni, dai Tribunali e da altri organismi che coadiuvano il Papa). La dottrina ritiene che la Santa sede non sia dotata di personalità giuridica in quanto tale, ma costituirebbe un ente complesso costituito da una pluralità di enti aventi ciascuno la propria personalità giuridica - accezione ristretta: si riferisce all’ufficio del romano pontefice posto al vertice dei 3 poteri tradizionali (esecutivo, legislativo e giudiziario). La Santa sede è persona morale nell’ordinamento canonico, dotata di personalità giuridica distinta ed originaria da quella della Chiesa cattolica, in quanto non derivata da alcuna potestà umana. Nell’ordinamento italiano la condizione giuridica della Santa sede è riconosciuta dall’art 7 Cost. Ha una serie di caratteri: - è persona iure privatorumà cioè ente ecclesiastico dotato di personalità giuridica per antico possesso di stato, in quanto riconosciuta da tempo immemorabile e comunque in data anteriore alla debellatio del 1870 - ente ecclesiastico sui generisà non è soggetta agli obblighi previsti a carico degli altri enti ecclesiastici, come l’iscrizione nel registro delle persone giuridiche - accanto alla capacità privatistica gode anche di una capacità pubblicisticaà le è attribuito l’esercizio di poteri che attengono alla sovranità della Chiesa nell’ordine suo proprio. Poteri che possono esprimersi in una serie di provvedimenti con carattere di imperio, aventi efficacia nell’ordinamento italiano. Si pensi alle sentenze, ai provvedimenti che riguardano gli ecclesiastici e i religiosi - le compete la titolarità di soggettività giuridica in campo internazionaleà art 2 del Trattato “l’Italia riconosce la sovranità della Sante sede in ambito internazionale come attributo inerente alla sua natura etc”. La dottrina canonistica precisa che tale sovranità internazionale compete alla Santa sede non per concessione dell’Italia, ma esiste prima che fossero posti i principi del diritto delle genti e si tratta di una sovranità inalienabile, non derivando da alcuna potestà umana. La Chiesa cattolica, e per essa la Santa sede, è un ente sovrano auctoritatem superiorem non recognoscet. È un centro di volontà e azioni indipendente con sovranità esterna. La sovranità internazionale può essere anche classificata come universale, spirituale e umanitaria, come elemento connaturato alla natura stessa della chiesa cattolica. L’attività internazionale della Santa sede è caratterizzata da indipendenza e imparzialità nei confronti dell’autorità politica con la quale auspica di coltivare una sana collaborazione per il perseguimento del bene di tutti i popoli. In conseguenza di ciò, spettando alla Santa sede tutta una serie di garanzie secondo le regole generali del diritto internazionale: ad es diritto di legazione attivo e passivo, diritto di stipula di trattati e adesione ad organizzazioni internazionali (come osservatore o come membro), diritto di stipulare concordati (cioè accordi equiparati ai trattati internazionali con le autorità civili per mezzo dei quali si stabilisce in tutto o in parte uno statuto giuridico della chiesa nella società civile o si disciplinano le c.d. res mistae ossia le materie di comune interesse statale ed ecclesiastico). Per il soggetto internazionale Santa sede agisce esclusivamente il romano pontefice. In dottrina si è discusso circa la corretta individuazione del soggetto titolare della sovranità internazionale: - una parte di essa dice che questa titolarità vada riconosciuta alla Chiesa cattolica, mentre la Santa sede sarebbe soltanto l’organo attraverso il quale la chiesa agisce in campo internazionale. - Un’altra parte della dottrina ritiene che la titolarità vada riconosciuta alla Santa sede, in quanto la Chiesa cattolica è un soggetto avente fini esclusivamente religiosi e spirituali. - Vi è un terzo orientamento, quello maggioritario, secondo il quale la titolarità va riconosciuta tanto alla chiesa cattolica quanto alla santa sede. (TESI DELLA DUPLICE SOGGETTIVITA’ GIURIDICA INTERNAZIONALE). GARANZIE DELLA SANTA SEDE Il Trattato prevede innanzitutto una garanzia politica di ordine territorialeà si sostanzia nella previsione della costituzione dello stato Città del Vaticano, sorto il 7 giugno 1929 all’atto dello scambio delle ratifiche dei Patti lateranensi tra le parti contraenti. L’ordinamento giuridico dello stato Città del vaticano si fonda su 6 leggi organiche emanate da Pio XI il 7 giugno (alcune di esse sono state sostituite o novellate nel corso del tempo): 1. La legge n 1, detta anche legge fondamentale, disciplina l’organizzazione interna dello stato Città del vaticano: disciplina gli organi costituzionali, a loro competenza, i simboli dello stato (bandiera stemma e sigillo) 2. La legge n 2 disciplina le fonti del diritto 3. La legge n 3 disciplina la cittadinanza 4. La legge n 4 disciplina l’ordinamento amministrativo 5. La legge n 5 disciplina l’ordinamento economico, commerciale e professionale 6. La legge n 6 detta la disciplina dell’ordine pubblico. Lo stato Città del Vaticano costituisce un vero e proprio stato ricorrendo tutti e 3 gli elementi costituivi di un’entità statale: territorio ,popolo e sovranità. Territorio Il territorio vaticano copre una superficie di 0,44 km2, i suoi confini sono stabiliti da una cartina allegata al trattato (Allegato 1). L’Italia ha riconosciuto sul territorio vaticano la piena potestà e l’esclusiva giurisdizione sovrana della Santa sede. Il territorio dello stato Città del Vaticano rimane dunque sottratto a qualsiasi ingerenza delle autorità italiane, pur costituendo uno stato enclave, cioè uno stato il cui territorio è circondato completamente da quello di un altro stato, vale a dire lo stato italiano. Oltre ad essere uno stato enclave, lo stato Città del Vaticano è anche uno stato patrimonio, nel senso che il suo territorio è di proprietà esclusiva del sovrano, non esistendo il diritto di proprietà privata. Al territorio dello stato Città del Vaticano si può accedere attraverso 5 ingressi, la cui custodia è affidata alla guardia svizzera pontificia e al corpo gendarmeria dello stato Città del Vaticano. Inoltre, lo stato Città del Vaticano è uno stato neutrale: il trattato prevede un intento di neutralizzazione dello stato città del vaticano, il quale sarà sempre considerato territorio neutrale e inviolabile (dice il trattato). Popolo È determinato dal Trattato, unitamente alla legge vaticana sulla cittadinanza, la residenza e l’accesso. Queste sono le fonti normative. La cittadinanza vaticana si acquista non per ius soli o ius sanguinis, ma sulla base di un criterio funzionale in ragione del servizio prestato dal cittadino a favore della Santa sede. La cittadinanza vaticana si acquista ius officis. È opportuno precisare che per la legge sulla cittadinanza e la residenza, queste due non coincidono necessariamente. Sono cittadini vaticani: - i cardinali residenti nello stato Città del Vaticano o a Roma finchè la residenza perdura - i diplomatici della Santa sede finchè prestino servizio diplomatico - coloro che risiedono nello stato Città del Vaticano in quanto tenuti in ragione della carica o del servizio. Il sommo pontefice, su richiesta degli interessati, può attribuire la cittadinanza anche ad altri soggetti: ad es al coniuge e ai figli di un cittadino vaticano fino al momento in cui perduri la cittadinanza del cittadino stesso. La residenza invece è rilasciata dall’autorità a chi, pur avendo i requisiti per ottenere la cittadinanza, non la richieda: - persone di famiglia di cittadini vaticani - residenti nello stato di Città del Vaticano - collaboratori domestici dei cittadini vaticani - in altri casi ritenuti opportuni. Sovranità La sovranità risiede nella Santa sede, intesa nel suo significato più ristretto. La forma di governo è quella di monarchia elettiva assoluta, competendo tutti i poteri (legislativo esecutivo e giudiziario) al sovrano romano pontefice. Come ha sempre insegnato la dottrina canonistica, per diritto divino è da escludersi nella chiesa una costituzione democratica. Qual è l’organizzazione interna? È disciplinata dalla legge fondamentale (n.1), in base a cui il Sommo Pontefice è Sovrano a vita dello Stato-Città del Vaticano e nella sua persona risiede la pienezza dei tre poteri tradizionali. Durante la vacanza della Sede, i poteri passano al Collegio dei Cardinali, incaricato di procedere all’elezione del nuovo Papa. Le disposizioni legislative vengono emesse solo in caso di urgenza e con una durata pari alla Sede vacante, salvo che tali leggi vengano confermate successivamente dal Papa eletto. Il potere legislativo è esercitato dalla Pontifica commissione dello Stato-Città del Vaticano, composta da un Cardinale presidente e da altri cinque Cardinali di nomina pontifica per un mandato di 5 anni. Per l’elaborazione dei progetti di legge, che devono essere proposti al Pontefice per il tramite della Segreteria di Stato, la Commissione si avvale dell’aiuto di altri soggetti di nomina pontificia: - Il Consigliere generale - I Consiglieri dello Stato - Anche degli organismi della Santa Sede e dello Stato-Città del Vaticano interessati Le leggi sono pubblicate con la data e il numero romano progressivo. Entrano in vigore il settimo giorno successivo alla loro pubblicazione in un supplemento degli acta apostolicae sedis. Il potere esecutivo è demandato al Cardinale della Pontificia commissione dello Stato-Città del Vaticano, prende il nome del Presidente del Governatorato. Ha rappresentanza giuridica dello Stato, ma non internazionale poiché riservata al Pontefice. Dal Presidente dipende il Governatorato, un apparato amministrativo organizzato in direzioni, uffici centrali, servizi, dipartimenti e corpo della gendarmeria vaticana. Nell’esercizio dell’attività di governo, il Presidente può emanare ordinanze attuative di leggi e regolamenti, anche disposizioni aventi forza di legge in casi di urgenza, che perdono efficacia se non confermate dalla Commissione entro 90 giorni. Può, inoltre, richiede l’assistenza della Guardia svizzera pontifica per motivi di sicurezza. Sono comunque previste delle forme di vigilanza e di controllo da parte della suprema autorità. Il potere giudiziario è esercitato, a nome del Sommo Pontefice, con potestà vicaria dagli organi costituiti secondo l’ordinamento giudiziario dello Stato la cui competenza è regolata per legge. Essi sono: - Giudice unico - Tribunale - Corte d’Appello - Corte di Cassazione Tali organi operano indifferentemente per le cause civili e penali. La funzione di Pubblico Ministero è esercitata dal Promotore di giustizia, nominato dal Sommo pontefice per un periodo di 5 anni. La norma pattizia precisa che l’esenzione si estende a OGNI genere di ingerenza da parte dello Stato italiano in tutte le sue articolazioni territoriali e istituzionali, compreso l’ambito giurisdizionale. Gli enti centrali costituiscono una categoria distinta rispetto agli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, in quanto non si applicano le disposizioni della legge 222/1985. Rapporti di lavoro dei dipendenti della SS e degli enti centrali Nel 1989 Papa Giovanni Paolo II istituì l’ufficio del lavoro della SS, competente a dirimere le controversie (individuali o plurime) sorte tra i dipendenti e l’amministrazione vaticana (anche se prima deve intentare una conciliazione), a elaborare proposte/modifiche legislative e a fornire pareri relativi ai regolamenti delle singole amministrazioni. Coinvolgimento dell’autorità giudiziaria italiana in materia di lavoro Questa è esclusa se il rapporto di lavoro è sorto nello Stato Città del Vaticano e si svolge con un ente che abbia sede/operi nel vaticano. In questo caso, l’esclusione della giurisdizione italiana dipende dal fatto che si tratti un rapporto estraneo sia dal punto di vista territoriale che giuridico. Sia la giurisprudenza che dottrina hanno individuato un criterio per l’individuare della giurisdizione italiana per tutte quelle attività svolte nel territorio italiano. - Giurisdizione Italia NO se la controversia ha ad oggetto mansioni istituzionali dell’ente, salvo nel caso in cui verta su profili meramente patrimoniali. - Giurisdizione Italia SI quando la controversia ha ad oggetto mansioni comuni, ovvero attività che potrebbero essere prestate a favore di un qualunque datore di lavoro. LIBERTA’ RELIGIOSA INDIVIDUALE E TUTELA INTERNAZIONALE La libertà religiosa individuale è disciplinata dall’ art 19 Cost. concerne il profilo individuale e riguarda tutti. È un articolo che si situa all’interno della tutela della libertà religiosa non solo in Italia ma anche nelle carte internazionali. Assume uno schema tipico: quello della regola/eccezione. Si afferma in maniera ampia la regola, cioè il diritto di professare liberamente la propria fede, e la norma pone anche il limite del buon costume. È un diritto ampiamente tutelato, ma che trova alcune eccezioni. Il rapporto regola-eccezione non è una novità: tanto nel diritto internazionale quanto in quello nazionale. Ci sono molte norme che presentano questo rapporto regola-eccezione. La Convenzione europea dei diritti dell’uomo: afferma l’art 9 la piena tutela della libertà religiosa, dall’altro può essere in qualche modo ristretta (firmata nel 1950, ma resa esecutiva con legge 848/1955): ogni persona ha diritto di manifestare la propria libertà di religione, sia di credere o di non credere, ma può essere oggetto di una compressione da parte dell’ordinamento qualora sia necessario assumere misure per la tutela dell’ordine pubblico, della salute, della morale pubblica o la protezione dei diritti o le libertà altrui. La nostra Costituzione prevede che la libertà di culto possa essere limitata solo qualora i riti siano contrari al buon costume. In realtà, l’art 19 prevede sì un limite esplicito, ma la carta costituzionale prevede anche degli altri limiti impliciti ma necessari: - tutela dell’ordine pubblicoà rientra tra i principi supremi che sono alla base della carta costituzionale, quindi non è contenuta nella carta costituzionale perché quando questa fu redatta nel biennio 46-47 era ancora troppo forte l’eco di un governo dittatoriale fascista che giustificava molti dei suoi interventi con la tutela dell’ordine pubblico - protezione dei diritti e delle libertà altruià vi sono altri diritti oltre quello della libertà religiosa. C’è un bilanciamento di interessi: l’esercizio dei diritti garantiti e tutelati dalla nostra carta costituzionale deve essere bilanciato. Quello della libertà religiosa non è un diritto assoluto. Ad es il diritto alla salute è un diritto fondamentale del nostro ordinamento (art 32 Cost): quale dei 2 diritti prevale in caso di conflitto? Ad es nel caso delle emotrasfusionià vi sono alcune confessioni religiose che impediscono le cure tramite la trasfusione di sangue (“non ti nutrirai del sangue di tuo fratello”). Qualora un fedele si opponga alla trasfusione di sangue: prevale il diritto all’autodeterminazione o il diritto alla salute? Bisogna distinguere 2 ipotesi, tenendo conto che però le trasfusioni sono obbligatorie per legge, ma vi è anche il principio dell’autodeterminazione e dell’accettazione volontaria delle cure. Questo è contenuto nella convenzione di orvieto che contiene l’obbligatorietà del consenso informato. È il primo trattato internazionale 1997 e recepita in Italia nel 2001 con legge 145: è legittimo che si possa rinunciare alle trasfusioni. Prevale quindi il diritto all’autodeterminazione e il diritto alla libertà religiosa. Diverso è il caso in cui il soggetto non abbia la pena capacità di agire, ad es nel caso del minore, prevale IL DIRITTO ALLA VITA E ALLA SALUTE DEL MINORE: il giudice può e deve rendere obbligatoria la terapia anche tramite emotrasfusioni sul minore. Bilanciamento con il diritto penale, si pensi alle norme penalmente rilevanti che costituiscono un limite alla libertà religiosa. Caso: è lecito avere una dose di droga per uso personale. Tale dose è stabilita non in maniera fissa ma in base a specifici parametri. È stata comminata la pena ad un rastafariano che deteneva una dose superiore di hashish rispetto a quella prevista dalla norma. Lui si è difeso dicendo che la sua religione gli impone di consumare hashish, ritenendo che quest’erba crescesse attorno alla tomba del re Salomone. Usarla significa quindi partecipare alla sacralità del rito. La Corte costituzionale ha tenuto conto tra i parametri di valutazione quello religioso e quindi la condanna andava annullata. E quindi in questo caso il fattore religioso rimodula una norma rilevante penalmente. Cosa si intende per buon costume? Questo è l’unico limite esplicito. La Cassazione ha ribadito che “buon costume” lo si intende come onore e pudore sessuale. Quindi gli unici riti considerati contrari la buon costume sono quelli che ledono l’onore e il pudore sessuale. La corte cost. è andata oltre, perché ha affermato che reato e violazione dell’art.19 vi è quando il rito è effettivamente contrario a buon costume. In definitiva, non vi è reato se la confessione religiosa professi un rito contrario a buon costume ma non lo pratichi nella realtà. SE SI TRADUCE IN ATTO COSTITUISCE REATO. TUTELA DELLA LIBERTA’ RELIGIOSA NEI RAPPORTI TRA PRIVATI (DIRITTO DI FAMIGLIA) La libertà religiosa è un diritto soggettivo che i singoli o le formazioni sociali possono far valere nei confronti dello Stato o anche nei confronti di ogni altro ente collegato ad esso (c.d. diritto pubblico soggettivo). Ma è un diritto soggettivo valido ed efficace anche nei rapporti fra i privati. È un diritto indisponibile (art 2 Cost) come tutti gli altri diritti pubblici soggettivi. Nell’ambito del diritto di famiglia Si possono distinguere: - da un lato il diritto alla libertà educativa della famigliaà garantito sia dalla Costituzione sia dalla Carta fondamentale dei diritti dell’uomo. Il primo soggetto educativo per diritto naturale è la famiglia, gli altri soggetti educativi intervengono in maniera sussidiaria (scuola, stato, chiesa etc). Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo art 26 par 4: diritto di ogni persona all’educazione morale e religiosa. Il primo protocollo addizionale (del 1952 ma reso esecutivo nel 1955 in Italia) alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (del 1950 ma resa esecutiva nel 1955 in Italia) prevede che il diritto all’istruzione non può essere rifiutato a nessuno e un.. Carta dei diritti fondamentali dell’UE art 14 prevede che i genitori abbiamo un ruolo prioritario nel progetto educativo concernente i loro figli. Diritto dei genitori di assicurare ai figli il loro progetto educativo e dovere dello stato a rispettare tale dirittoà sono legate sia funzionalmente sia finalisticamente: cioè l’educazione e la crescita della persona umana. Per associazioni e istituzioni vi è il diritto di creare scuole che possano assicurare questo diritto ai genitori o a chi esercita la responsabilità genitoriale. - dall’altro diritto alla libertà formativa all’interno della famiglia Nel panorama normativo dell’UE si può notare come le costituzioni della maggioranza dei paesi membri prevedano in modo esplicito il diritto di aprire una scuola non statale o comunque la libertà di scelta della libertà di scuola e di insegnamento. In Italia, come dice l’art 33 Cost, è garantito tale diritto esplicitamente. Tuttavia, mentre negli altri paesi è previsto anche un sostegno economico dello Stato a questa iniziativa privata, nel nostro paese non c’è alcun tipo di previsione “senza oneri per lo Stato”. Questa clausola è il prezzo pagato dai costituenti della democrazia cristiana per inserire esplicitamente i Patti Lateranensi all’interno della Costituzioni. Inoltre, il credo religioso dei genitori non costituisce un criterio valido per l’affidamento dei figli (ad es in caso di separazione o divorzio), essendo l’ordinamento italiano laico. Il fattore religioso può costituire uno degli elementi dell’affidamento, ma non quello determinante. Diverso è il caso in cui l’adesione ad una fede comporti il venir meno a fondamentali doveri nell’ambito dei rapporti del coniuge che possano influire negativamente nella formazione della prole. L’interesse da perseguire è quello della prole. Nell’ambito del diritto di lavoro Ai sensi dell’art 4 della legge 604/1996 e art 15 dello Statuto dei lavoratori, il licenziamento per rappresaglia contro la fede religiosa è nullo indipendentemente dalla motivazione adottata. Lo Statuto dei Lavoratori del n.300/1970 all’art.18 lo ripete: l’imprenditore ha l’obbligo di reintegrare il lavoratore. Nel caso, però, in cui un ente o un’associazione datrice di lavoro abbiano esplicita impronta professionale, una parrocchia o un ospedale o una scuola religiosa, è prevista la richiesta che i propri dipendenti abbiano un’appartenenza ad una determinata confessione e che l’abbandono di essa comporti il licenziamento. Qui vi è un bilanciamento tra libertà religiosa del singolo e la libertà e autonomia e identità dell’ordinamento confessionale. La direttiva dell’UE 78/2000 (resa esecutiva con legge..) prevede all’art 13 una norma esplicita a riguardo: le Chiese e altre organizzazioni, sia pubbliche che private, la cui etica è fondata sulla religione hanno il diritto di esigere dalle persone alle loro dipendente un comportamento di lealtà e buona fede nei confronti dell’etica della organizzazione stessa. Questa differenza non costituisce atto di discriminazione, se per la natura di questa attività (o il contesto) la religione o le convinzioni personali rappresentano un requisito legittimo, essenziale e giustificato per lo svolgimento dell’attività lavorativa. Vanno sempre rispettati i principi di ragionevolezza e proporzionalità. Enti confessionali possono esigere per l’attività svolta presso l’ente stesso che il dipendente abbia una sintonia ideologica con il datore di lavoro, qualora tale sintonia costituisca un requisito essenziale, legittimo e giustificato ai fini dello svolgimento della medesima attività. Se la fede non entra nel contratto medesimo, l’assunzione e il licenziamento ne risultano svincolati. Due sentenze del 2010 della Corte europea dei diritti umani contengono il suddetto principio fondamentale: - Primo caso: l’organista di una parrocchia cattolica viene licenziato per aver assunto una posizione incoerente con il magistero cattolico (divorziato e risposato). La sua era una funzione meramente tecnica, la Corte decide per la sua reintegrazione. - Secondo caso: il portavoce della Chiesa mormone in Germania viene licenziato per aver assunto una posizione ideologica contrastante (abbandonato la fede). La Corte dà ragione alla Chiesa mormone e classifica il licenziamento come legittimo. Il portavoce, infatti, svolge un ruolo apicale in cui la professione del credo si dimostra come elemento essenziale. L’assunzione di obblighi negativi devono derivare dalla libertà individuale e non possono contrastare con la dignità umana. Situazione in Italia: non c’è una legislazione organica sulle organizzazioni di tendenza. Ebbene il licenziamento ideologico, nel nostro ordinamento, qualora sia illegittimo dà diritto ad una tutela obbligatorio di tipo risarcitorio, ma non reale. L’art.4 della L.108/1990 stabilisce che la disciplina di cui all’art.18 Statuto dei lavoratori riferito all’obbligo di reintegra non trova applicazione nei confronti dei datori di lavoro ideologicamente qualificati non imprenditori a meno che che non via discriminazione (art.3). Qualora l’ente confessionale sia imprenditore commerciale svolgendo attività all’art.2195 Cc e il licenziamento non sia assistito da giusta causa, il lavoratore deve essere reintegrato nel momento in cui ricorrono le condizioni all’art.18 St. Lav. può procedere ad accertamenti sull’infondatezza e, a seconda del risultato, ne può ordinare la deposizione. L’art.200 non prevede, dunque, una incapacità o divieto assoluto a testimoniare, ma attribuisce ai ministri di culto un diritto di astenersi ovvero un diritto di fornire notizie incombete senza incorrere nel reato di falsa testimonianza o di favoreggiamento, quando la deposizione imporrebbe loro di rivelare atti o fatti conosciuti tramite il solo esercizio del loro ministero. Quanto alla facoltà del giudice di verificare la fondatezza o infondatezza dell’eccezione sollevata dal ministro di culto, la dottrina ha sottolineato una differenza tra la normativa unilaterale e quella pattizia: quest’ultima configura un diritto al segreto d’ufficio in termini assoluti. Ciò che, invece, è certo è che la violazione dell’art.200 comporta l’inutilizzabilità della prova raccolta. A. Art.256 c.p.p disciplina il dovere di esibizione e dispone che i ministri di culto devono consegnare immediatamente all’autorità giudiziaria, che ne faccia richiesta, gli atti e i documenti nonché i dati informatici e le informazioni od ogni altra cosa esistente presso di essi per ragioni del loro ministero, salvo che dichiarino per iscritto che si tratti di segreto inerente ad esso. Anche in questo caso, l’autorità giudiziaria, che dubita della fondatezza del segreto, provvede agli accertamenti del caso e ne dispone il sequestro. B. art.271 co II c.p.p disciplina la materia delle intercettazioni di comunicazioni di ministri di culto: vieta l’utilizzazione di tali intercettazioni, quando esse hanno ad oggetto fatti conosciuti dal ministro in ragione del loro mistero, salvo che il ministro abbia deposto su quegli stessi fatti o li abbia in qualche misura divulgati. C. art.362 Cpp prevede l’onere del PM di assumere informazioni dalle persone che possono riferire circostanze utili ai fini dell’indagine, però facendo salvo l’art.200 Cpp. D. Anche ai ministri di culto chiamati a deporre come testimoni nel processo civile è riconosciuto un diritto di astensione: l’art.249 Cpc fa espresso riferimento, infatti, al disposto dell’art.200 Cpp. Qual è la ratio di questo corpus di norme appena analizzate? Il legislatore, garantendo il segreto, ha inteso tutelare la libertà religiosa del fedele che si affida al ministro di culto e, al contempo, il libero esercizio delle funzioni ministeriali del ministro di culto. Sorge un problema: le norme riconoscono il segreto d’ufficio “per ragioni del proprio ministero”, ma che significa tale espressione? È stata tradizionalmente intesa in senso ampio e significa che è coperto da segreto tutto ciò che viene appreso dal ministro nel corso di determinati riti, particolari celebrazioni o incontri ufficiali con i fedeli. Non vi rientrano, invece, le notizie apprese dai ministri di culto in occasioni meramente private o quali comuni cittadini, quali amici, commensali ecc. Al diritto al segreto d’ufficio si accompagna il dovere al segreto d’ufficio. Lo prevedono alcuni ordinamenti confessionali, come l’ordinamento canonico, il quale appone il sigillo sacramentale che vieta al confessore di rilevare quanto appreso durante il sacramento della confessione (anche se sia stato autorizzato a rivelarlo dal soggetto interessato). L’art.622 Cp punisce, a querela della persona offesa, il ministro di culto che riveli senza giusta causa il segreto di cui ha avuto notizia per ragioni del suo ministero, se da tale rivelazione ne può derivare nocumento. Sempre in materia penale la qualifica di ministro di culto assume rilievo quale circostanza aggravante o autonoma fattispecie di reato. L’art.61 Cp prevede, come circostanza aggravante di reato, l’avere commesso il fatto con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti alla qualifica di ministro di culto ovvero l’avere commesso il fatto contro una persona insignita della qualifica di ministro di culto. Le norme del codice penale in cui ricorrono alla qualifica di ministro di culto per enucleare autonome fattispecie di reato sono due: - L’art.403 Cp prevede il reato di offesa ad una confessione religiosa mediante il vilipendio ad un ministro di culto. - L’art.405 Cp punisce chiunque impedisce o turba l’esercizio di funzioni, cerimonie o pratiche religiose che si compiano con l’assistenza di un ministro di culto. Sotto il profilo prettamente procedurale, quando si renda necessario esercitare l’azione penale nei confronti di un ministro della Chiesa cattolica, l’ordinamento penale prevede anche una particolare garanzia di informazione nei confronti dell’autorità ecclesiastica. Il protocollo addizionale all’accordo di revisione concordataria prevede, a proposito, che l’autorità giudiziaria italiana darà comunicazione all’autorità ecclesiastica competente per territorio, in genere l’ordinario della diocesi a cui appartiene l’imputato, dei procedimenti penali a carico di ecclesiastici. Bisogna anche analizzare quanto attiene alla remunerazione e previdenza Dal punto di vista civilistico, la natura della remunerazione è controversa: - Parte della dottrina dice che si tratta di un diritto di credito puro. - Altri affermano che si riconduce ad una sorta di assegno alimentare o una forma di assistenza obbligatoria. - Altri ancora affermano che debba essere equiparata alla retribuzione di un lavoro prestato in senso tecnico. La remunerazione non può essere oggetto di pignoramento (art.545 Cpc), a prescindere da quale sia la sua natura giuridica. Dal punto di vista fiscale, la disciplina pattizia non pone alcun dubbio sul fatto che la remunerazione vada equiparata al reddito di lavoro dipendente. Quindi, l’ente confessionale è tenuto ad operare le ritenute IRPEF versandole allo Stato e a pagare i contributi previdenziali ed assistenziali. L’ordinamento italiano assicura anche la tutela previdenziale, la pensione di vecchiaia, di invalidità e superstiti mediante un fondo speciale INPS, alimentato dai contributi degli iscritti e da un contributo speciale dello Stato: il Fondo di previdenza del clero e dei ministri di culto delle confessioni diverse da quella cattolica. Sono obbligati all’iscrizione a tale fondo i sacerdoti cattolici e l’istituto centrale di sostentamento del clero che prevede direttamente al versamento dei contributi. Mentre l’iscrizione degli altri ministri di culto non è obbligatoria, bensì facoltativa. Sempre per i ministri di culto cattolico l’ordinamento italiano prevede, inoltre, forme assistenziali e previdenziali integrative. Oltre a diritti e doveri, l’ordinamento italiano prevede casi di incompatibilità e ineleggibilità. Partendo dalle incompatibilità, l’ordinamento italiano prende che i ministri di culto non possano svolgere: - Professioni di avvocato e di notaio - Funzioni di giudice popolare, giudice di pace, giudice onorario di tribunale, giudice onorario aggregato o ausiliario Per quanto riguarda i casi di ineleggibilità, i ministri non sono eleggibili come: - Sindaco - Presidente di provincia - Presidente o Consigliere di regione I ministri di culto che hanno cura d’anime non possono essere eletti, nel territorio in cui esercitano il proprio ufficio, a: - Consigliere comunale - Consigliere metropolitano - Consigliere provinciale L’ultimo aspetto dello statuto giuridico dei ministri di culto riguarda la rilevanza civile dei provvedimenti disciplinari emessi dalla autorità ecclesiastica nei confronti di ecclesiastici e religiosi cattolici. Il Trattato Lateranense attribuisce a proposito piena efficacia giuridica a tutti gli effetti civili alle sentenze e ai provvedimenti emanati dalla autorità ecclesiastica ed ufficialmente comunicati alle autorità civili circa ecclesiastici o religiosi e concernenti materie spirituali e disciplinari. Nell’accordo addizionale si precisa che è vero che i provvedimenti hanno efficacia civile, ma tali provvedimenti emessi dall’autorità ecclesiastica devono essere in armonia con i diritti costituzionalmente garantiti agli italiani. Questa disciplina sottolinea la libertà organizzativa di cui gode la Chiesa cattolica e l’incompetenza dello Stato nell’ambito disciplinare. Cosa significa? Al giudice italiano non è consentito annullare il provvedimento di un’autorità religiosa, reintegrando il Ministro nel suo ufficio. Il legislatore si premura di stabilire, nel contempo, che questa insindacabilità sia sottoposta ad un limite: il rispetto dei diritti costituzionalmente garantiti ai cittadini italiani. Esempio pratico: se il provvedimento di rimozione del parroco è stato pronunciato in violazione al diritto di difesa (art.24 Cost) riconosciuto al cittadino-sacerdote, il giudice italiano può intervenire e sindacare l’atto eventualmente condannando l’autorità ecclesiastica al risarcimento del danno. Ultimo aspetto: tra le specifiche qualifiche attribuite all’interno dell’organizzazione confessionale, che hanno una certa rilevanza civile, merita attenzione anche la qualifica di religioso/a prevista nell’ordinamento canonico. Con il termine si fa riferimento agli uomini o alle donne che professano i voti di povertà, castità ed obbedienza divenendo membri di un istituto di vita consacrata. Il Codice di diritto canonico prevede alcuni obblighi: ad esempio, l’obbligo di celibato, che impedisce di contrarre validamente matrimonio, e l’obbligo di trasferire tutti i beni all’istituto di vita a cui il religioso appartiene. Hanno rilievo esclusivamente confessionale e, dunque, di per sé non rilevano nell’ordinamento dello Stato. Ciò non toglie che il religioso possa adempiere a tali obblighi anche con il compimento di atti validi ed efficaci dal punto di vita civile. Un aspetto molto interessante, che riguarda i religiosi e le religiose, è il lavoro prestato all’istituto. Ha un rilievo dal punto di vista giuslavoristico: il religioso è legittimato a svolgere gratuitamente una attività lavorativa a favore dell’istituto di appartenenza rinunciando ad ogni remunerazione. Come è qualificabile tale rapporto tra religioso e istituto? Dottrina e giurisprudenza maggioritarie sono convinte che la gratuità fa sì che il rapporto non sia assimilabile ad un rapporto di lavoro subordinato, ma piuttosto si tratta di un rapporto religionis causa (= con fine spirituale e non per procurarsi mezzi di sostentamento). In ragione di ciò nulla è dovuto e nulla può essere chiesto una volta estinta l’attività. Cosa succede quando il religioso presta attività lavorativa in favore di terzi? In questo caso, invece, sorge un vero e proprio rapporto di lavoro tra religioso ed ente stesso. È necessaria, però, una specificazione: - Se il rapporto di lavoro costituisce oggetto di una convenzione stipulata tra terzo ed ente di appartenenza del religioso, sarà l’ente a percepire la retribuzione e, dunque, è come se il religioso prestasse la propria opera gratuitamente. - Se, invece, il religioso viene assunto direttamente e nominativamente dal terzo, il rapporto di lavoro è disciplinato dal diritto comune. Sotto il profilo previdenziale, i religiosi non godono di alcuna tutela specifica. Il legislatore, tuttavia, ha previsto che, quando essi svolgono attività lavorativa per conto di terzi, sono soggetti alle assicurazioni obbligatorie per vecchiaia, invalidità e tubercolosi così come sono soggetti all’assicurazione per infortuni sul lavoro e malattie professionali. Rispetto a tale disciplina in dottrina si è ritenuto che tali obblighi previdenziali e assicurativi sussistano anche quando l’attività lavorativa venga svolta presso gli enti di appartenenza. In ogni caso, però, devono essere riconosciuti la tutela sanitaria e il diritto alla pensione. LIBERTA’ RELIGIOSA E IL DIRITTO PENALE La norma (art 19) si articola in eccezioni e regole: - regolaà libertà di culto - eccezioneà limitazione della libertà di culto. L’unica costituzionalmente prevista è quella di non contrarietà all’ordine pubblico (contrarietà all’onore e al pudore sessualeà quindi in senso penalistico) Vi sono altri limiti Libertà religiosa nei suoi rapporti con il diritto penale: il diritto di libertà religiosa ha garanzie e limiti posti dal diritto penale. Quindi non vi è solo quella costituzionale. Concretamente, nel codice penale TITOLO IV rubricato “Dei delitti contro il sentimento religioso e contro la pietà dei defunti”. Sulla normativa precedente (artt 402 a 406 cp) è intervenuta la Corte costituzionale perché essa prevedeva una tutela differenziata della religione cattolica rispetto alle altre confessioni; i delitti effettuati contro la religione cattolica erano puniti maggioramenti rispetto a quelli che riguardavano un’altra confessione religiosa. Questo era previsto per quanto stabilito dallo Statuto albertino art 1. La Corte costituzionale ha smantellato questa differenza con varie sentenze, la cui ratio era la contrarietà al principio di uguaglianza e al principio di laicità dello stato. La Corte ha modificato il testo della normativa allor vigente, modificando e abrogando i testi. Gli enti delle confessioni che non abbiano stipulato intese, invece, rimane vigente l’art 24 del regio decreto 289/1930: che limita la possibilità per questi enti di poter aprire scuole solo elementari per i fedeli del rispettivo culto (è in contrasto con l’art 3 e l’art 20 Cost). Art 1 co.3 legge 62/2000 richiede alle scuole paritarie di indicare nel loro progetto educativo l’eventuale ispirazione di carattere religioso che le contraddistingue. Vieta di rendere obbligatoria agli alunni le attività extra-curriculari che presuppongono o esigono l’adesione ad una determinata ideologia o confessione religiosa Art 3 del decreto ministeriale 83/2008 prevede che nel caso in cui un istituto religioso voglia presentare domanda per ottenere la parità scolastica, la domanda debba essere corredata del nullaosta della competente autorità ecclesiastica confessionale. La legge 62/2000 prevede che i contratti di lavoro siano coerenti con quelli nazionali di medesima categoria. Il decreto 83/2008 esonera i rapporti tra docenti religiosi e scuole gestite dagli istituti religiosi o diocesi dall’applicazione dei contratti collettivi nazionali per il personale della scuola. Per i docenti delle scuole confessionali valgono i principi detti nelle lezioni precedenti, tra cui l’art 3 co.5 del decreto legislativo 216/2003, che recepisce la direttiva 78/2000 dell’UEà bilanciamento tra varie libertà costituzionali. Insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche statali È un problema che ruota attorno ad un nucleo giuridico essenziale: - da un lato l’obbligo dello stato di assicurare questo insegnamento - dall’altro il diritto di scelta di alunni o genitori rispetto alla possibilità di avvalersi o meno del medesimo insegnamento L’art 9 co.2 dell’accordo di Villa Madama (accordo di revisione del Concordato del 1984) conferma l’impegno dello stato assunto precedentemente con l’art 36 del Concordato del 1929 che prevedeva l’impegno dello stato di impartire l’insegnamento di religione cattolica nelle scuole elementari e nelle scuole medie (inferiori e superiori). Il fondamento di questa previsione non è più il fatto di un omaggio alla chiesa cattolica, come era nel regime fascista, ma è individuato nel valore della cultura religiosa e nel fatto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico-culturale del popolo italiano. La cultura religiosa ha un valore essenziale e per la persona umana per questo lo Stato assume l’onere di insegnamento della religione cattolica nelle scuole, non universitarie, di ogni ordine e grado. Il n.5 del protocollo addizionale all’accordo di Villa Madama specifica le modalità concrete di adempimento da parte della repubblica di questo impegno: introducendo un requisito di idoneità confessionale degli insegnanti a cui affidare l’insegnamento della religione cattolica e, rinviando ad una successiva intesa tra le autorità scolastiche e la conferenza episcopale italiana, la determinazione del programma di insegnamento e delle modalità di insegnamento anche ad es in relazione alla collocazione degli orari delle lezioni. Questa intesa, prevista dal punto 5 del protocollo addizionale, è stata poi effettivamente stipulata nel 1985 e modificata nel 2012. Quest’ultima è ancora vigente ed è stata resa tale mediante dpr 175/2012. L’accordo di Villa Madama introduce un doppio requisito per gli insegnanti di religione: - requisito di idoneità confessionale - requisito di idoneità professionale Agli insegnati si richiede quindi: - il possesso di specifici titoli di qualificazione professionaleà nelle scuole secondarie di I e II grado, l’insegnamento della religione cattolica può essere affidato solamente a chi abbia o un titolo accademico in teologia o altre discipline ecclesiastiche (sacra scrittura, diritto canonico etc), conferito da una facoltà approvata dalla Santa Sede. Oppure a chi abbia l’attestato del compimento degli studi teologici in seminario. Oppure a chi abbia la laurea magistrale in scienze religiose conferita presso un istituto superiore di scienze religiose approvato dalla Santa Sede. Nella scuola primaria e nella scuola dell’infanzia l’insegnamento può esser ripartito o dagli insegnanti in possesso dei titoli sopra elencati o da sacerdoti o diaconi o religiosi che siano in possesso di una qualificazione riconosciuta dalla conferenza episcopale italiana o dagli insegnanti della classe purché in possesso di uno specifico master di II livello per l’insegnamento della religione cattolica approvato dalla conferenza episcopale italiana. - un’apposita certificazione di idoneitàà occorre l’accertamento da parte dell’autorità ecclesiastica competente dell’idoneità morale e religiosa all’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche statali. Questo certificato di idoneità è rilasciato su richiesta di chi intende insegnare religione dal vescovo della diocesi e consiste (canone 804 del codice di diritto canonico) in un’attestazione che la persona “è eccellente per retta dottrina, per testimonianza di vita cristiana, per abilità pedagogiche”. Ha effetto permanente salva eventuale revoca da parte del vescovo della diocesi, che determina la cessazione automatica dell’incarico e la decadenza dal rapporto di pubblico impiego. Sentenza 2243/2005 della Cassazioneà il disconoscimento dell’idoneità comporta la revoca dell’insegnamento della religione cattolica Art 4 legge 186/2003à ha introdotto la possibilità alternativa per l’insegnante di religione cattolica con contratto di lavoro a tempo indeterminato, al quale sia stata revocata l’idoneità, di essere adibito ad una funzione diversa di cui possieda i titoli (ad es insegnare lingua e letteratura italiana) L’art 2 del dpr 175/2000 prevede che la nomina e l’assunzione degli insegnanti di religione cattolica siano di competenza esclusiva dell’autorità scolastica competente, le quali tuttavia sono tenute a provvedervi di intesa con l’ordinario diocesano. Sino all’entrata in vigore della l. 186/2003, l’insegnamento della religione cattolica era solamente affidato mediante incarichi annuali e la stipula di contratti a tempo determinato. Quindi fio al 2003 non esisteva un ruolo degli insegnanti di religione. Con la legge del 2003 sono stati istituiti 2 ruoli regionali del personale docente di religione, articolati per ambiti territoriali che coincidono con le diocesi e corrispondono ogni ruolo ai cicli scolastici, primario e secondario, previsti dall’ordinamento. A questi ruoli si accede mediante concorso per titoli ed esami. Il 70% dei posti disponibili per l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche statali deve essere coperto mediante ricorso a insegnanti di ruolo. Per il restante 30% invece i dirigenti scolastici possono continuare a stipulare contratti di lavoro a tempo determinato con docenti indicati dal dirigente regionale e dal provveditore agli studi, di intesa con l’ordinario diocesano. In entrambi i casi, si applicano le norme relative allo status giuridico e al trattamento economico in vigore per gli altri insegnati. Ovviamente, l’insegnate di religione potrà partecipare alla valutazione soltanto degli alunni che abbiano deciso di aderire agli insegnamenti di religione cattolica. Il suo voto è considerato come giudizio motivato, ma non viene ponderato come voto. L’insegnante di ruolo ha un monte ore minimo di 18 ore settimanali. Diritto di scelta da parte dei genitori e degli studenti Scelta che deve essere effettuata all’inizio dell’anno scolastico e vincola lo studente per tutto l’anno. Con l’art 9 dell’accordo di Villa Madama si prevede: - obbligo dello stato di assicurare questo insegnamento - facoltà per gli alunni di partecipare all’insegnamento Il sistema previsto dal concordato del 1929 prevedeva che l’insegnamento della religione era obbligatorio, fatta salva la possibilità di dispensa, ossia di esser esonerati dall’obbligo stesso. Ora non vi è più l’obbligo di partecipazione ma vi è un diritto di scelta che deve essere esercitato al momento dell’iscrizione. Questa scelta è espressa dai genitori o da chi ne esercita la responsabilità, è esercitata dagli studenti delle scuole secondarie di II grado anche se minorenni, il cu atto deve essere controfirmato da chi esercita la responsabilità genitoriale (legge 281/!986). Il dpr 175/2012 prevedeva che la scelta di avvalersi o meno dell’insegnamento ha effetto per l’intero anno scolastico a cui si riferisce e per i successivi anni di corso. Il Consiglio di stato ha affermato che in realtà l’opzione non ha e non può avere effetto per tutto l’anno: se lo studente intende smettere di avvalersene o viceversa egli ha diritto di interrompere la frequenza delle lezioni o viceversa a frequentarle. La libertà non può essere compressa da un’esigenza burocratica di rendere stabile la classe di religione cattolica. Stabilisce la scelta non vincola per tutto l’anno. La sentenza 4634/2018 del Consiglio di Stato lascia però perplessi perché svuota completamente il significato della norma del dpr. NB dpr è un atto pattizio, esecutivo quindi di un accordo tra Stato e Chiesa L’atto di scelta è esercitato o dai genitori o da chi esercita la responsabilità genitoriale o dagli studenti stessi nel momento in cui si iscrivono alla scuola secondaria di II grado. L’atto di scelta è un vero e proprio esercizio di una libertà costituzionale (art 19 Cost), che quindi non può dare luogo a nessun tipo di discriminazione tra chi decide di avvalersi dell’insegnamento di religione cattolica. Echi no. Il dpr 175/2012 prevede questa esigenza di non discriminazione: le ore di religione cattolica vengono collocate non nell’ultima o nella prima ora che altrimenti permetterebbe a chi non si avvale dell’insegnamento di poter uscire prima o entrare più tardi a scuola. Per gli studenti che non si avvalgono dell’insegnamento di religione cattolica gli istituti scolastici dovrebbero istituire una o più attività didattiche da attribuire agli studenti. Sentenza 203/1989 della Corte Costituzionaleà in questa sentenza la corte ha enunciato per la prima volta il principio supremo di laicità dello stato. La Corte ha affermato la legittimità costituzionale dell’insegnamento di religione cattolica purché sia garantita la libertà (questo è rispettato grazie all’atto di scelta). Inoltre, il diritto di libertà di religione non può esser degradato ad obbligazione alternativa: tra l’ora di religione e l’ora di attività alternativa. La scelta è tra avvalersi e non avvalersi. Nel caso in cui lo studente decida di non avvalersene può scegliere se frequentare o meno l’attività di alternativa. Per quanto riguarda questo ultimo aspetto, vi è una sentenza della Corte Costituzionale che stabilisce la possibilità per lo studente di allontanarsi o assentarsi dall’edificio della scuola. Se è minorenne deve essere autorizzato dalla famiglia. Accanto alla libertà di scelta dello studente vi è l’obbligo per la scuola di impartire i corsi alternativi: sugli istituti scolastici grava un onere in riferimento al diritto di scelta. Con una sentenza del 2010, il Consiglio di Stato ha riconosciuto l’esistenza di un vero e proprio obbligo degli istituti scolastici di offrire agli studenti attività didattiche alternative, in quanto la scelta degli alunni non può esser tra ora di religione e nessun insegnamento. L’eventuale omessa attivazione dell’insegnamento alternativo infatti violerebbe la libertà del singolo. culto diverso da quello cattolico. Erano previste però alcune limitazioni: ad es la nomina del ministro di culto doveva essere approvata dal ministro dell’interno. Non era però riconosciuta la giurisdizione, ma solo la forma di celebrazione. Questa situazione del 1929 si trasmetterà anche al codice civile del 1942 (più precisamente agli artt 82 e 83): - matrimonio civile facoltativo - matrimonio religioso ad effetti civili facoltativo: sia nella forma cattolica sia nella forma acattolica La normativa del codice civile ha subito riforme, ma sono rimasti integri gli artt 82 e 83, ciò che è modificato è il Concordato che prevede in maniere esplicita il riconoscimento civile del matrimonio cattolico (art 8 della legge attuativa 121/1985), nonché al punto 4 del protocollo addizionale. Legge matrimoniale legge 847/1929, legge tutt’ora vigente, dettata unilateralmente dallo stato, che però fa riferimento al concordato del 1929, il quale è stato sostanzialmente abrogato dall’accordo del 18 febbraio 1984 reso esecutivo con L.121/1985.Non è più vigente il Concordato del 29, è tuttavia vigente la legge che ha dato esecuzione a quel concordato nella parte relativa al matrimonio. Questa è la difficoltà dell’interprete di coordinare il testo esecutivo di una legge 847 con un nuovo Concordato, che è quello dell’84 (reso esecutivo nell’85). Bisogna armonizzare la vecchia normativa con la nuova. (L.121/1985 e L.847/1929). PROCEDIMENTO PER INTEGRARE IL MATRIMONIO DEGLI EFFETTI CIVILI Il matrimonio religioso ha effetti civili a seguito della trascrizione. Quest’ultima è quindi l’atto produttivo degli effetti civili. Tuttavia, la trascrizione richiede alcuni passaggi necessari, affinchè il negozio abbia effetti civili. 1) pubblicazioni nella casa comunaleà atto mediante il quale viene resa pubblica la volontà dei 2 futuri nubendi di contrarre matrimonio (pubblicità notizia). Le pubblicazioni servono a rendere pubblica la volontà degli sposi. È un atto privato, avente però una rilevanza pubblica. L’ordinamento ha l’interesse che l’atto sia valido e legittimo: affinché eventualmente chi conosca motivi che inficiano la validità o la legittimità possa opporsi al matrimonio. 2) Sono poi legittimate le c.d. opposizioni al matrimonio: - ufficiale dello stato civile - soggetti legittimati: vi deve essere un TITOLO VALIDO per opporsi alla celebrazione, un impedimento previsto dalla legge. Libertà di status, impedimentum criminis Legittimazione che spetta anche al PM, che deve sempre fare opposizione se viene a conoscenza dell’impedimento o consta l’infermità di mente di uno degli sposi. Se nessuno si oppone alla celebrazione del matrimonio, trascorsi 3 gironi dalla pubblicazione, l’ufficiale di stato civile rilascia un certificato di nullaosta: in cui dichiara che non risulta esistenza di cause che si oppongano alla celebrazione di un matrimonio valido agli effetti civili. Il nullaosta ha validità 180 gg (senza nullaosta il matrimonio è religiosa , ma non ha effetti civili). TRASCRIZIONE: ART.8 DELL’ACCORDO, riconosciuti effetti civili se l’atto trascritto nei registri dello stato civile, previe pubblicazioni nella casa comunale. • L’accordo del 1984 tuttavia afferma che vi sono casi in cui il matrimonio NON può essere trascritto, ossia dei casi in cui la norma generale sulla riconoscibilità dei matrimoni religiosi subisce una limitazione. “la Santa Sede prende atto che la trascrizione non potrà avere luogo: - Quando manca il requisito dell’età (18 anni, ma ai sensi dell’art 64 cc il tribunale può dispensare dall’impedimento di età sino ai 16 anni) -Quando sussiste tra gli sposi un impedimento che la legge civile considera inderogabile”, ipotesi in cui vi sia impedimento, circostanza di fatto, che impedisce valida e lecita celebrazione del matrimonio che non può essere dispensata, che la legge considera inderogabile. => Per comprendere meglio questa formula bisogna guardare il protocollo addizionale (medesimo valore normativo dell’articolato principale). N.4 PROTOCOLLO ADDIZIONALE DELL’ACCORDO DI MODIFICA DEL CONCORDATO ‣ Si intendono come impedimenti per la legge inderogabili l’essere uno dei contraenti interdetto per infermità di mente, ‣ Presenza di altro matrimonio valido con effetti civili, mancanza di libertà di status (se c’è matrimonio religioso senza effetti civili le persone possono sposarsi), ‣ Impedimenti derivanti da delitto (diritto dello stato prevede solo omicidio tentato o consumato del coniuge dell’altra persona, il d canonico prevede anche fattispecie opposta). ‣ Impedimenti da affinità in linea retta. ‣ Impedimento di età. Con questi impedimenti il matrimonio religioso cattolico non può essere trascritto. Vi è clausola interessate prevista dal nuovo concordato, all’ Art 8.2 del concordato, che prevede che “la trascrizione è tuttavia ammessa quando secondo il diritto civile l’azione del diritto civile l’azione di nullità (1 anno) o di annullamento non potrebbe essere più proposta”. Il diritto civile prevede infatti la prescrizione per la nullità dell’azione per molti degli impedimenti (Art 117cc*), per il diritto canonico la nullità è insanabile: molti degli impedimenti si prescrivono. - Es impedimento di età: in questo caso il matrimonio può essere impugnato dai genitori. Supponiamo che né i genitori né il PM impugnino la trascrizione succede che compiuta la maggiore età e trascorso 1 anno l’azione si prescrive. Le parti trascorso un anno dal raggiungimento della maggiore età possono chiedere la (legittima) trascrizione tardiva del matrimonio che produce effetti retroattivi. - Art 119.2 cc: l’azione di nullità non può essere proposta se, dopo revocata l’interdizione, vi è stata coabitazione per un anno. Vi sono casi in cui l’azione si prescrive. RUOLO DEL MINISTRO DI CULTO Il procedimento di trascrizione riguarda solo le forme ordinarie di matrimonio, svolta dal ministro di culto, sacerdote che assiste al matrimonio in qualità di testimone qualificato (conclude l’atto matrimoniale). Egli assume anche un ruolo ulteriore rispetto a quello di testimone qualificato: per il diritto civile assume funzione di pubblico ufficiale. Il sacerdote è un privato cittadino che esercita pubbliche funzioni. Concretamente subito dopo la celebrazione del matrimonio un parroco spiegherà ai contraenti gli effetti civili del matrimonio dando lettura degli articoli del cc riguardanti diritti e doveri dei coniugi, 143, 144, 147. Terminata la celebrazione il sacerdote redige un ATTO DI MATRIMONIO, documento pubblico (in doppio originale, due copie) che fa pubblica fede di quanto è in esso attestato, e che dunque po essere impugnato solo con querela di falso. Nell’atto di matrimonio potranno altresì essere contenute oltre alle generalità dei coniugi, del celebrante, luogo, data, adempimenti della legge, e possono essere inserite anche le dichiarazioni dei coniugi consentite dalla legge civile, che sono essenzialmente quelle riguardanti il regime patrimoniale (originariamente anche quelle riguardanti la filiazione prima della riforma 219/2012 equiparazione dei figli) => comunione dei beni o meno, regime patrimoniale dei coniugi non italiani se uno dei due è straniero (L DIP 218/1995). TRASCRIZIONE TEMPESTIVA Redatto l’atto di matrimonio, entro 5 g il parroco deve trasmettere gli atti al comune del luogo in cui è stato celebrato il matrimonio. L’ufficiale poi entro 24h lo deve trascrivere nei registri di stato civile => termini non perentori, difficilmente rispettati (cd trascrizione ritardata, modo per qualificare il ritardo della PA) ma non è importante perché la trascrizione ha effetti ex tunc, dal momento della celebrazione del matrimonio canonico. TRASCRIZIONE TARDIVA Casi in cui le parti contraggano matrimonio solamente religioso, non intendendo far avere effetti civili al loro matrimonio, cosa prevista dal diritto canonico. Possono pero decidere in seguito di effettuare trascrizione tardiva. Può essere fatta a determinate condizioni: 1. La richiesta di trascrizione tardiva deve essere fatta da entrambi i coniugi o da uno solo con la conoscenza e senza l’opposizione dell’altro. 2. Le parti abbiano mantenuto ininterrottamente lo stato libero per il diritto civile dal momento della celebrazione del matrimonio canonico fino alla richiesta di trascrizione, in quanto quest’ultima ha appunto effetti retroattivi. Non potrebbe aversi un momento in cui una delle parti sia stata bigama, un accavallamento di status coniugale, contrario al principio di ordine pubblico in materia matrimoniale. La procedura è analoga a quella della trascrizione tempestiva. - Si ha un cd avviso esposto alla casa comunale con cui si da pubblico avviso che le parti intendono dare effetti civili al loro matrimonio canonico contratto precedentemente. - Terminato l’avviso (7g) l’ufficiale di stato civile non rilascia il nullaosta ma trascrive il matrimonio nei registri di stato civile. Vi è una sentenza che afferma la vigenza del principio di retroattività. Una vedova sposata canonicamente che godeva di pensione di reversibilità del marito defunto. Per qualche strana ragione la signora e il marito consenziente chiede la trascrizione tardiva che viene concessa dall’ufficiale di stato civile che trascrive il matrimonio. Di conseguenza l’INPS richiede alla signora la restituzione di tutte le pensioni percepite dal momento della celebrazione del matrimonio canonico. La signora si oppone e perde in tutti i gradi di giudizio perché la norma è chiarissima: il matrimonio trascritto ha effetti civili dal momento della celebrazione e quindi correttamente l’INPS ha chiesto la restituzione delle pensioni percepite. Sentenza Cassazione n.9464/2010 = la trascrizione tardiva produce effetti civili dal momento della trascrizione del matrimonio. Il diritto a percepire la pensione di reversibilità cessa nel momento in cui la parte contrae nuovo matrimonio, essendo necessario lo stato vedovile. La signora si sposa solo canonicamente, richiede la trascrizione tardiva del matrimonio religioso e quest’ultima fa venir meno lo stato vedovile. Cosa significa? Lo Stato ha diritto alla restituzione delle somme versate alla vedova dal momento in cui essa tale non è più considerata. TRASCRIZIONE VS ISCRIZIONE Perché nel caso di matrimonio celebrato all’estero l’ufficiale di stato civile ISCRIVE e non trascrive il matrimonio nel registro di stato civile? Art 63 dPR 396/2000. Perché la trascrizione ha anche efficacia costitutiva che l’iscrizione non ha. L’iscrizione è un atto dichiarativo più che costitutivo in quanto è necessaria produzione di effetti civili. L’iscrizione è per un atto già in se stesso produttivo di effetti civili. FORME STRAORDINARIE DI CELEBRAZIONE DEL MATRIMONIO CANONICO: TRASCRIZIONE Abbiamo casi che, pur non essendo previsti espressamente né dalla legge né dall’accordo, non permettono comunque la trascrizione del matrimonio canonico: - Forme straordinarie di celebrazione - Celebrazione all’estero 1. Matrimonio segreto (o di coscienza) = forma straordinaria consentita dall’autorità della Chiesa nel caso in cui sussistano motivi per preferire non eseguire una celebrazione pubblica. La registrazione dell’avvenuta unione viene conservata esclusivamente su di un apposito registro da conservarsi nell’Archivio Segreto della Curia. Per sua stessa natura è incompatibile con le condizioni di trascrizione. Tuttavia, qualora vengano meno i motivi di segretezza, può essere richiesta una trascrizione tardiva del matrimonio stesso nei registri di Stato civile. 2. Matrimonio celebrato in pericolo di morte (art 101 cc)à il matrimonio è dubbio che sia trascrivibile a meno che non siano adempiuti tutti i requisiti previsti dalla norma. Se gli adempimenti civilistici ci sono, il matrimonio può essere trascritto ai sensi dell’art.8 L.12171985, ossia lettura degli art. 143-144-147 in duplice copia di un doppio originaleÈ un’eccezione al sistema. Si presume manchino gli adempimenti civilistici, ma se questi sussistono il matrimonio è trascrivibile. sensi dell’art 30 legge 218/1995 possono optare per regolare i loro rapporti patrimoniali secondo la legge dello stato di cui almeno uno di essi è cittadino o nel quale almeno uno di essi risiede. È necessario, quindi, a meno che il regime non sia quello della comunione die beni, inseriscano la dichiarazione del regime da voler adottare nell’atto di matrimonio. Nell’atto di matrimonio dovrà essere inserita l’eventuale dichiarazione di riconoscimento per i figli nati fuori del matrimonio ai sensi dell’art 254 cc. Compilato l’atto di matrimonio, il ministro di culto lo trasmette all’ufficiale di stato civile al massimo entro 5 giorni dalla celebrazione stessa. L’ufficiale di stato civile, una volta ricevuto l’atto, ne cura la trascrizione entro il termine di 24 ore dalla ricezione dell’atto stesso ai sensi dell’art 1063 dpr 396/2000. L’atto di matrimonio ha la stessa natura giuridica sia nel caso del matrimonio canonico sia nel caso del matrimonio a- cattolico. La trasmissione dell’atto di matrimonio anche in questo caso è un’attività giuridica che rientra nel novero delle notificazioni. Una volta trascritto, il matrimonio a-cattolico assume effetti civili retroattivi, ossia dal momento della celebrazione del matrimonio. È invalido/nullo per lo Stato il matrimonio celebrato da un ministro di culto senza approvazione governativa e il matrimonio celebrato davanti ai ministri delle confessioni religiose è impugnabile anche per le cause di nullità o di annullamento previste dagli artt 117 e ss cc. La dottrina si è interrogata se la mancanza di autorizzazione da parte del ministro sia causa di nullità: - è causa di nullità la mancanza di approvazione - la mancanza dell’autorizzazione che deve essere rilasciata dall’ufficiale di stato civile non determina l’invalidità del matrimonio, perché il ministro della confessione religiosa, avendo ricevuto l’approvazione da parte del governo, aveva capacità di assistere alla celebrazione e di certificare l’esistenza del matrimonio Trattamento giuridico dei matrimoni delle confessioni a-cattoliche/diverse dalla cattolica Occorre distinguere - il caso in cui la condizione giuridica della confessione religiosa diversa dalla cattolica sia determinata da una intesa stipulata ai sensi dell’art 8 co.3 Cost - dal caso in cui la confessione acattolica non abbia stipulato un’intesa, e quindi la sua posizione è retta dalla legge sui culti ammessi del 1929 Per quanto riguarda quest’ultimo caso, è opportuno ricordare come nel 1929 il legislatore, dopo aver riconosciuto effetti civili al matrimonio canonico, ha ritenuto di dover agevolare anche gli appartenenti alle confessioni religiose acattoliche, consentendo loro di celebrare un matrimonio valido per lo Stato dinanzi ai ministri di culto. Tale istituto è disciplinato dagli artt 7-12 della legge 1159/1929 e dagli artt 25-28 del regio-decreto del 1930. Tali matrimoni acattolici non possono ricevere riconoscimento qualora contrastino con l’ordine pubblico dello Stato (anche oggi è cosìà ai sensi dell’art 18 legge 218/1985). Un esempio può essere il matrimonio islamico poligamico. Il matrimonio degli acattolici è: a) un matrimonio religioso con effetti civili b) un matrimonio civile c) un terzo genusà questa ipotesi non è stata ritenuta fondata da una tesi maggioritaria. Perché la legge italiana non riconosce un matrimonio disciplinato dalle norme statutarie delle varie confessioni religiose, ma disciplina essa stessa tutti i requisiti per la valida celebrazione del matrimonio cattolico: ad es quelli che ineriscono alla capacità dei ministri, agli adempimenti civilistici etc. Per la legge italiana, dunque, la celebrazione religiosa è del tutto indifferente. La legge sui culti ammessi dispone che gli impedimenti e le cause di nullità del matrimonio degli acattolici sono disciplinati dalle stesse norme previste dal legislatore per il matrimonio civile. Le norme confessionali, quindi, non hanno alcun rilievo per il diritto dello stato, applicandosi le norme civili. Le sorti del rapporto del civile di coniugio sono del tutto indipendenti dalla sorte del matrimonio religioso nell’ordinamento confessionale. Il matrimonio degli acattolici non è un matrimonio religioso trascritto, ma un matrimonio civile celebrato in forma speciale. Infatti, il matrimonio civile non è sempre celebrato davanti all’ufficiale dello stato civile perché la legge prevede che esso possa celebrarsi anche dinanzi ad altri soggetti, investiti del potere di certificazione. Tra questi soggetti rientra anche il Ministro di culto delle confessioni acattoliche la cui nomina sia stata approvata dall’autorità governativa. L’approvazione governativa del ministro di culto assistente è un requisito di validità civile del matrimonio acattolico, insieme: - alla cittadinanza italiana - al fatto che il ministro parli la lingua italiana Questi requisiti sono necessari ma non sufficienti ai fini della validità dei matrimoni acattolici. È infatti necessario anche che siano osservate alcune formalità, che altre disposizioni sulla legge dei culti ammessi prevedono. - le parti devono richiedere le pubblicazioni all’ufficiale di stato civile territorialmente competente - nel richiedere le pubblicazioni, le parti devono dichiarare l’intenzione di voler celebrare matrimonio davanti ad un ministro di culto acattolico - l’ufficiale dello stato civile accerta che: a) non vi siano impedimenti b) a seguito delle pubblicazioni non siano state proposte opposizioni da parte di eventuali interessati c) il ministro di culto indicato dalle parti siano stato approvato dagli uffici del governo Questa ultima verifica come si compie? Vi sono 2 ipotesi: - se il matrimonio acattolico è da celebrare in un comune diverso da quello di residenza del ministro di culto, questo dovrà farsi conoscere dall’ufficiale di stato civile, esibendo i documenti di riconoscimento e anche la compia del provvedimento di approvazione della sua nomina decreto - se il matrimonio è da celebrare nello stesso comune del ministro di culto, l’ufficiale ha già il decreto di approvazione della nomina - effettuata le formalità preliminari, l’ufficiale dello stato civile rilascia un’autorizzazione scritta nella quale è indicato il nominativo del ministro di culto davanti al quale avverrà la celebrazione e anche la data della sua approvazione NB l’assistenza alla celebrazione del ministro di culto non è una facoltà da esercitarsi in via discrezionale, questo perché occorre un’autorizzazione che venga rilasciata dall’ufficiale di stato civile di volta in volta. - celebrazione del matrimonio acattolicoà la legge sui culti ammessi pone a carico del ministro di culto degli adempimenti: a) dare lettura agli sposi degli artt 143,144 e 147 cc b) deve ricevere alla presenza di 2 testimoni la dichiarazione espressa di entrambe le parti di volersi prendere reciprocamente come marito e moglie Tale dichiarazione non deve essere soggetta né a termini né a condizioni, altrimenti il ministro non dovrebbe celebrare il matrimonio. Nel caso in cui fosse ugualmente celebrato termine o condizione si avrebbero come non apposti. - formazione dell’atto del matrimonio da parte dell’ufficiale di stato civile, da redigersi subito dopo la celebrazione, in lingua italiana e curando di indicare in esso una serie di informazioni: a) generalità delle parti e dei genitori b) nome del ministro di culto celebrante c) .. d) .. e) potrà contenere anche informazioni accessorieà ad es scelta di regime patrimoniale di separazione dei beni L’atto di matrimonio è un atto pubblico e il ministro di culto nello svolgimento degli adempimenti riveste la qualifica di pubblico ufficiale. - trasmissione dell’atto e trascrizioneà il ministro di culto deve trasmettere al massimo 5 gg dopo dalla celebrazione l’originale dell’atto di matrimonio all’ufficiale dello stato civile, il quale deve trascriverlo entro le 24h successive alla ricezione nei registri dello stato civile Secondo la dottrina prevalente la trascrizione ha efficacia costitutiva e non meramente probatoria. A differenza del matrimonio concordatario, mancano norme relative alla trascrizione tradiva. Tuttavia, in caso di irregolarità, potranno applicarsi le norme relative al procedimento di rettificazione previsti dagli artt 454 e ss cc. Ci sono cause di invalidità del matrimonio acattolico. Si applicano in via generale le cause di nullità e annullabilità previsti dagli artt 117 e ss cc. Però vi sono anche cause di invalidità proprie del matrimonio acattolico: - Importa nullità del matrimonio acattolico la mancata approvazione governativa del ministro di culto. Tuttavia non costituiscono causa di nullità né la mancata autorizzazione da parte dell’ufficiale di stato civile(step 2) né la differenza di religione tra il ministro di culto e i nubendi e neppure il fatto che il ministro assista al matrimonio in un luogo diverso dalla sua residenza. MATRIMONI CELEBRATI INNANZI ALLE CONFESSIONI RELIGIOSE DIVERSE DALLA CATTOLICA PREVISTI DALLE INTESE Va detto che concretamente per quando riguarda il matrimonio celebrato innanzi alle confessioni religiose diverse dalla cattolica vi sono poi quei matrimoni previsti dalle varie intese con lo stato. La disciplina delle varie intese è praticamente identica con alcune lievi differenze, non molto diversa neanche dalla disciplina della Chiesa Cattolica e da quella prevista dalla L 1159/1929. L'unica vera differenza fondamentale è che il ministro di culto non deve essere approvato dal ministro dell’interno. È sufficiente un rinvio interno, una presupposizione che sia ministro di culto chi tale confessione religiosa dice di essere: lo Stato accoglie la qualificazione che quella confessione religiosa fa del ministro di culto. Ciò posto la disciplina per il riconoscimento dei matrimoni religiosi è praticamente identica: necessità delle pubblicazioni, autorizzazione (nullaosta da parte dell’ufficiale di stato civile), celebrazione innanzi al ministro di culto che legge i diritti e doveri dei coniugi. a questo proposito va fatta una precisazione: alcune confessioni religiose, ad es i valdesi, in ossequio ad una sorta di separatismo fra stato e confessione religiosa, hanno richiesto e ottenuto nella loro intesa che la lettura degli art del cc non venga effettuata dl ministro di culto, che si limita ad un’attività meramente religiosa, ma dall'ufficiale dello stato civile in occasione della richiesta di pubblicazione. Per il resto la procedura è identica a quella normale. Una volta trascritto, quel matrimonio religioso agli effetti civili sarà in tutto regolato dal diritto civile: non ha rilevanza la giurisdizione religiosa => lo dicono chiaramente tutte le intese. Anche l’intesa con la confessione ebraica dice che l’eventuale scioglimento del matrimonio ebraico non ha alcuna rilevanza civile (Art 14 intesa con la confessione ebraica resa esecutiva con L 101/1989) e ciò vale anche per tutte le altre confessioni religiose, libere di celebrare matrimoni religiosamente validi anche con requisiti diversi e libere di scioglierli o annullarli. - la Corte di cassazione ha affermato che è venuta meno la riserva - la Corte costituzionale ha affermato che esiste ancora la riserva La Corte di Cassazione giunse nel silenzio del nuovo accordo tra stato e chiesa esplicitamente ad affermare che era venuta meno la riserva di giurisdizione e conseguentemente i giudici italiani avevano competenza a giudicare anche della validità o invalidità del matrimonio canonico trascritto => Sentenza 1824 13 febbraio 1993. La Corte di Cassazione afferma che nel silenzio concordatario è venuta meno la riserva di giurisdizione perché essendo la giurisdizione una delle manifestazioni della sovranità dello stato, solamente in presenza di una voce esplicita dell’accordo, questa sovranità può venire compressa, altrimenti non si può presumere la compressione dell’esercizio sovrano del potere dello stato. È venuta meno la riserva e quindi, afferma la Cassazione, vi è una concorrenza di giurisdizione: sono entrambe, a pari livello, competenti. Il giudice chiamato a giudicare della validità o invalidità è il primo giudice adito, il giudice presso cui si incardina la causa, e quindi se la parte istante sceglie di incardinare la causa presso il tribunale della chiesa sarò competente il tribunale ecclesiastico e viene meno la competenza di quello civile, se le parti hanno deciso di incardinare la causa presso un giudice civile, sarà competente questo e incompetente quello canonico. Si risolve la possibile concorrenza di giurisdizione tramite il cd criterio della prevenzione, “electa una via non datur ricursus ad altera”: la prima via giurisdizionale scelta esclude il ricorso ad altre giurisdizioni. Quindi il tribunale italiano può giudicare sulla validità di un matrimonio canonico trascritto, ossia produttivo di effetti civili. Vi è quindi giurisdizione del giudice italiano e anche quello canonico. L’eventuale conflitto di giurisdizione tra Stato e Chiesa si risolve mediante il c.d. criterio della prevenzione: il primo giudice adito è quello competente (electa una via non datur recursus ad alteram). Quindi: - Se le parti ricorrono prima al giudice della chiesa è competente il giudice della chiesa - Se le parti ricorrono al tribunale civile, questo è competente e non quello della chiesa La sentenza della Cassazione termine affermando che dunque deve affermarsi la giurisdizione del giudice italiano, in quanto le parti erano ricorse in maniera preventiva al giudice italiano. La Cassazione nella sentenza quindi afferma: - da un lato che è venuta meno alla riserva di giurisdizione precedentemente prevista dall’art 34 del Concordato - dall’altro rimane intatta la competenza della Chiesa NB Per decide se un matrimonio canonico è valido o meno, il giudice italiano deve decidere sulla base delle norme del diritto canonico e non di quello italiano Mentre la Cassazione diceva questo, la Corte Costituzionale, paradossalmente, a pochi mesi di distanza, con Sentenza 421 1 dicembre 1993, affermava la permanenza della riserva di giurisdizione a favore della chiesa come logico corollario del sistema della trascrizione del matrimonio religioso, negando la possibilità di una concorrenza di giurisdizione. ➡ La Corte Costituzionale afferma invece che la riserva di giurisdizione è un logico corollario del riconoscimento degli effetti civili di un matrimonio sorto nell’ordinamento canonico, essendo questo un atto essenzialmente ed eminentemente religioso, sorto in un ordinamento religioso, su cui lo stato, in forza della sua laicità, non può avere giurisdizione. Sarebbe un ledere la laicità dello stato, che è uno dei principi costitutivi e supremi dell’ordinamento repubblicano, riconoscere una competenza statuale sul matrimonio canonico trascritto, come pure sarebbe una violazione di tale principio che il giudice dello stato nel giudicare sulla validità o invalidità debba applicare il diritto della chiesa che è un diritto eminentemente religioso, perché quel matrimonio è nato nell’ordinamento canonico, esterno rispetto a quello dello stato, e regolato dal diritto canonico e il diritto dello stato ne regola solo alcuni effetti civili. Questa soluzione, più coerente con il nostro ordinamento, da luogo non tanto ad una concorrenza di giurisdizioni quanto ad un riparto di giurisdizioni fra Chiesa e Stato, per cui ogni giurisdizione abbia le sue competenze specifiche: la Chiesa competente a giudicare sulla validità o invalidità del matrimonio canonico, lo Stato competente per giudicare, oltre alla trascrizione, anche determinati effetti civili del matrimonio stesso, es venir meno degli effetti civili con sentenza di divorzio, effetti patrimoniali, riconoscimento delle sentenze canoniche di nullità matrimoniale. La corte costituzionale con sent 421/1993, invece, ha assunto una posizione opposta rispetto a quella della Cassazione: ha affermato che nonostante il mancato richiamo esplicito. Della riserva di giurisdizione nel nuovo accordo del 1984, la riserva sussista ancora. La corte muove dalla sua precedente giurisprudenza, concretamente dalla sent 169/1971: in cui si afferma in maniera esplicita che il matrimonio canonico costituisce un presupposto in senso tecnico degli effetti civili. Il matrimonio canonico, quindi, è il presupposto degli effetti civili, che si dispiegano mediante la trascrizione, del matrimonio stesso. La corte afferma che se il matrimonio nasce nell’ordinamento canonico ed è celebrato secondo la disciplina canonico è logico corollario che le controversie sulla sua validità siano destinate ad essere risolte dai tribunali ecclesiastici. La corte dopo aver richiamato oltre alla sent 169/1971, anche la sentenza 18/1972, afferma che questa giurisprudenza è coerente con il principio supremo di laicità dello stato: i tribunali del nostro ordinamento non possono applicare norme religiosamente qualificate. Alla luce del principio supremo di laicità dello stato, vi è un riparto di giurisdizione (non una concorrenza di giurisdizione): i tribunali ecclesiastici hanno competenza per decidere della validità o meno di un matrimonio canonico trascritto. Lo stato, invece, è competente a decidere circa: - effetti civili - procedimento di trascrizione - procedimento di delibazione Vi è quindi un vero e proprio conflitto tra principali organi giurisdizionali, che però non ha trovato ancora una soluzione. Il prof ritiene più coerente la posizione della Corte costituzionale. C. RICONOSCIMENTO DELLE SENTENZE CANONICHE DI NULLITA’ MATRIMONIALE Sia che si riconosca una riserva di giurisdizione a favore della Chiesa, sia che tale riserva non si riconosca ma si riconosca una concorrenza di giurisdizione fra i due ordinamenti, è un dato di fatto e di diritto che l’ordinamento della Chiesa emette sentenze sui matrimoni canonici, il cui oggetto è l’eventuale dichiarazione di nullità del matrimonio canonico stesso, il quale non può essere sciolto, non vi è un divorzio, quindi l’oggetto del giudizio matrimoniale è la validità del matrimonio stesso: se è valido e dunque non vi sono elementi di nullità, esiste, se vi è qualche elemento di nullità il matrimonio tamquam non esset, come se non fosse mai esistito, tanto che la sentenza che dichiara la nullità del matrimonio canonico è una SENTENZA MERAMENTE DICHIARATIVA, ossia prende atto che quel matrimonio non esiste, e come tutte le sentenze dichiarative i suoi effetti retroagiscono ex tunc. La Chiesa non ha mai rinunciato alla sua giurisdizione sul matrimonio canonico, anzi il codice di diritto canonico prevede in maniera esplicita al canone 1671 che Le cause di matrimoniali dei battezzati per diritto proprio spettano al giudice ecclesiastico. Le cause sugli effetti puramente civili del matrimonio spettano al magistrato civile. Quindi, ancorché lo Stato possa dire che vi è una concorrenza di giurisdizione, la Chiesa non riconosce questa competenza dello Stato, la giudica un eccesso di potere. Fin dal concordato del 1929 lo Stato italiano si è impegnato a riconoscere le sentenze canoniche di nullità matrimoniale, ossia l’ordinamento giuridico italiano si è impegnato pattiziamente a dare efficacia civile alle sentenze canoniche sulla validità del vincolo coniugale: i tribunali della chiesa emettono sentenze, e queste, a determinate condizioni, vengono riconosciute agli effetti civili, e quindi se la sentenza è di nullità del vincolo coniugale vengono annullati gli effetti civili di quel matrimonio, come se le parti, così come nell’ordinamento canonico è come se non fossero mai state coniugate, così è come se non fossero mai state coniugate neppure nell’ordinamento civile; vi è un riconoscimento della giurisdizione canonica con effetti civili sulla trascrizione del matrimonio stesso: vengono annullati gli effetti della trascrizione e le parti retroagiscono di diritto al momento della celebrazione del matrimonio, cosicché abbiamo una sorta di parità di status tra l’ordinamento canonico e quello civile, il che è logico perché gli effetti civili del matrimonio canonico hanno come loro presupposto la validità dello stesso, altrimenti quod nullum est nullum producit effectum. Rispetto alla disciplina del 1929 quella attuale è abbastanza diversa: la sostanza è la medesima, ma la procedura e anche alcuni effetti sono differenti. Il punto fondamentale di diversità rispetto alla disciplina precedente è la libertà di scelta. Nel concordato del ’29 il procedimento di riconoscimento delle sentenze canoniche di nullità matrimoniale era d’ufficio: il Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica trasmetteva alla Corte d’Appello competente la sentenza canonica esecutiva e il giudice della Corte d’Appello con ATTO DOVUTO dichiarava efficace la sentenza canonica di nullità matrimoniale. Era un atto dovuto, non vi era neanche una sentenza ma un mero decreto. La situazione si è modificata col tempo, nel senso che già prima dell’accordo del 1984 era sufficientemente chiaro alla giurisprudenza che l’atto non poteva essere meramente ufficioso ma era necessario un vero e proprio atto di volontà delle parti per instaurare il procedimento, cosa che effettivamente si ebbe con il nuovo accordo. Quest’ultimo riconosce in maniera esplicita che il procedimento di riconoscimento delle sentenze canoniche di nullità matrimoniale non è più un mero procedimento ufficioso ma è necessaria la volontà delle parti, di almeno una delle parti anche in contradditorio con l’altra parte (questo dà luogo anche a una diversa procedura), ma è necessario un ATTO DI INIZIATIVA lasciato alla volontà delle parti. Questo significa che è venuta meno quella unitarietà di status che si aveva tra l’ordinamento canonico e quello civile: mentre prima nell’ordinamento civile avevano immediata e automatica efficacia le sentenze canoniche, sicché se il matrimonio invalido per l’ordinamento della chiesa lo era anche per l’ordinamento dello Stato, ora non più, il matrimonio può essere nullo per la chiesa ma le parti possono non chiedere, per i più svariati motivi, l’efficacia civile di quella sentenza canonica, e quindi si può creare la diarchia di status, per cui le parti risultano non più coniugi per l’ordinamento canonico ma risultano tutt’ora coniugi per l’ordinamento dello Stato, sulla base di un matrimonio canonico non più esistente. Si ha il paradosso che alcuni effetti si possono basare su una causa non più esistente, che siano cioè sganciati dalla causa stessa e abbiano una loro vita autonoma: viene meno quel principio fondamentale del diritto che è il quod nullum est nullum producit effectum. Se invece, su iniziativa delle parti, viene chiesto il riconoscimento degli effetti civili, viene dichiarata l’efficacia della sentenza canonica nel nostro ordinamento, è come se quel matrimonio non fosse mai esistito neanche per lo Stato, fatti salvi gli effetti del matrimonio putativo. PROCEDIMENTO DI DELIBAZIONE DELLE SENTENZE CANONICHE DI NULLITÀ MATRIMONIALE Una volta visto come l’attuale normativa concordataria non preveda più un’esplicita riserva di giurisdizione, anche se comunque questa può ritenersi, come afferma la Corte Costituzionale, implicita al sistema, rileva in ogni caso la giurisdizione canonica per effetto delle sue sentenze, e ci si chiede come queste possano avere rilievo nel nostro ordinamento: ciò avviene attraverso un cd processo di delibazione (=riconoscimento), prima d’ufficio e ora necessitante una richiesta delle parti: le parti debbono necessariamente richiedere che venga riconosciuta una sentenza canonica di nullità matrimoniale. Questo riconoscimento avviene attraverso un preciso procedimento di tipo giurisdizionale. PREMESSA • L’ordinamento giuridico italiano prevede come sappiamo una legge di diritto internazionale privato, la L 218/1995, legge che prevede anche un sistema di riconoscimento delle sentenze straniere. Le sentenze canoniche in teoria sono sentenze che potremmo definire “straniere”. Tuttavia le sentenze canoniche non possono essere riconosciute tramite la L 218/1995 ma devono essere riconosciute tramite il procedimento previsto dall’accordo del 1984 reso esecutivo con L 121/1985. I motivi sono essenzialmente due: 1. La L 218/1995, che prevede un sistema semplificato di riconoscimento, un sistema in un certo senso più semplice rispetto a quello concordatario e quindi vantaggioso in termini di economia processuale per le parti, prevede che la stessa legge non si applichi a quei rapporti regolati da convenzioni internazionali, quale è l’Accordo di Villa Madama, e quindi la normativa prevista per il riconoscimento delle sentenze straniere non può incidere sulla disciplina concordataria, fatta salva dalla stessa L 218/1995, concretamente all’Art 2. 2. La Legge di esecuzione del concordato e quindi anche la legge di esecuzione dell’Accordo di Villa Madama, come ricordato dalla Corte Costituzionale, è una legge che ha resistenza passiva all’abrogazione pari alle norme costituzionali, nonostante sia formalmente una legge ordinaria, il che significa che una legge ordinaria non può modificare la L 121/1985. Conseguentemente la L 218/1995 non ha la forza per modificare quanto statuito dalla legge di esecuzione del nuovo concordato. castità, la disparitas cultus, ossia il matrimonio tra un cristiano cattolico e un cristiano non cattolico o un non battezzato. La sentenza canonica di nullità per una di queste ragioni non può avere accesso nel nostro ordinamento. • Per quanto riguarda invece i vizi del consenso, l’errore, la violenza e il dolo, per quanto abbiano una regolamentazione diversa rispetto a quella italiana, tuttavia, non si basa su principi così diversi dall’ordinamento italiano da costituire una sorta di permeabilità dell’ordinamento per accogliere queste sentenze. Vi sono quindi dei contrasti tra i due ordinamenti, che tuttavia non toccano i principi d’ordine pubblico italiano, quindi tali sentenze di nullità possono essere ammesse. • Uno dei casi più comuni e problematici è quello della simulazione. Nel nostro ordinamento il matrimonio può essere dichiarato nullo solo per simulazione bilaterale delle parti. La simulazione unilaterale, o riserva mentale, si ha per non apposta, come la condizione, non ha nessun rilievo. Nel diritto canonico invece ha rilievo: sia la simulazione unilaterale, in cui sola parte simuli il consenso matrimoniale, sia quella bilaterale, in cui le due parti si accordino, generano un matrimonio nullo per l’ordinamento ecclesiale, esso richiede la volontà matrimoniale di entrambe le parti: matrimonium claudicare non potest. Che succede se viene richiesta la declaratoria agli effetti civili di un matrimonio dichiarato nullo nell’ordinamento canonico per simulazione unilaterale? Il giudice deve negare l’accesso nel nostro ordinamento a siffatta sentenza, perché contrasta con il principio fondamentale dell’affidamento incolpevole dell’altra parte, che aveva fatto affidamento in piena buona fede del consenso espresso dall’altra, principio fondamentale dell’ordinamento italiano. Naturalmente questo principio può avere un’eccezione: esso è posto a tutela della parte in buona fede, quindi, come afferma la Cassazione, è giocoforza che se la richiesta di delibazione è domandata della parte in buona fede, naturalmente la delibazione si può chiedere e si può ottenere: è evidente che se la parte rinuncia alla tutela posta a suo favore, il giudice può accogliere l’istanza delibatoria, perché viene meno la ratio della tutela. • Un altro punto, su cui la giurisprudenza ha avuto un percorso molto travagliato e su cui la stessa Corte di Cassazione ha avuto più ripensamenti, è quello della convivenza coniugale come principio di ordine pubblico. Abbiamo potuto vedere che nell’ordinamento canonico il regime di nullità rispetto a quello dell’ordinamento italiano ha sia differenze sostanziali che differenze non sostanziali. Una differenza che potremmo definire sostanziale riguarda la deducibilità del vizio stesso. Nell’ordinamento canonico, trattandosi di nullità, in tutti i sensi, l’azione è imprescrittibile, può essere proposta in qualsiasi momento, decorsi 2 giorni o 30 anni dalla celebrazione del vincolo coniugale. Invece nell’ordinamento giuridico italiano vi sono delle nullità che potremmo definire temporali, nel senso che molti vizi di nullità sono prescrittibili. Per lungo tempo la Corte di Cassazione aveva affermato che queste divergenze non contrastavano con i principi dell’ordine pubblico italiano, finché la Corte dopo un lungo travaglio che l’ha portata ad assumere posizioni contraddittorie anche con sé medesima, è venuta a dire, in maniera terminale, che è ostativa alla delibazione la sentenza canonica di nullità del matrimonio un convivenza particolarmente prolungata oltre il matrimonio, concretamente della durata di almeno 3 anni. In questo caso la convivenza coniugale costituisce un principio di ordine pubblico che rende non riconoscibile all’interno del nostro ordinamento le sentenze canoniche di nullità matrimoniale. Questo in realtà costituisce un vulnus al sistema di riconoscimento delle sentenze canoniche di nullità matrimoniale, perché è evidente che così facendo la Cassazione ha posto un grosso freno al riconoscimento delle sentenze canoniche di nullità matrimoniale. EFFETTI PATRIMONIALI DELLA DICHIARAZIONE DI NULLITÀ È interessante notare come la Corte d’Appello quando riconosce gli effetti civili di una sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale può attribuire al coniuge che ne abbia il diritto e naturalmente che ne faccia richiesta, ai sensi dell’art 8 dell’accordo di Villa madama, una provvisionale sulle indennità (provvedimenti provvisori) spettategli a norma degli art 129 e 129bis (matrimonio putativo) (=> questo rimando al cc è previsto anche nella L 847/1929, cd legge matrimoniale), rimandando poi le parti innanzi al giudice competente di primo grado per la decisione su tali questioni economiche, che può confermarli o meno. => I provvedimenti di primo grado possono essere impugnati in secondo grado e rimandati alla Corte d’Appello, mentre la provvisionale è impugnabile solo in Cassazione, essendo emessa da un giudice di secondo grado: dunque è ammesso solo un ricorso di legittimità e non nel merito. Ciò non vanifica il diritto di difesa ma è una logica conseguenza del gioco di competenza Il matrimonio putativo è quel matrimonio dichiarato nullo che tuttavia produce ancora effetti a favore dei coniugi, fino al momento della pronuncia di nullità, quando i coniugi stessi lo hanno contratto in buona fede oppure quando il consenso dei coniugi è stato estorto con violenza o in altri casi di eccezionale gravità derivante da causa esterna agli sposi stessi. Il matrimonio nullo ha gli effetti del matrimonio valido nei confronti dei figli e, se le fattispecie appena richiamate si verificano nei confronti di uno solo dei coniugi, gli effetti si verificano anche nei confronti del solo coniuge in buona fede o che ha subito violenza. Ricordiamo che il matrimonio dichiarato nullo e contratto in malafede da entrambi i coniugi (es simulazione bilaterale) ha gli effetti del matrimonio valido solo rispetto ai figli nati e concepiti in costanza di matrimonio, salvo che la nullità dipenda da incesto. Quali sono i diritti dei coniugi in buona fede, su cui si fonda anche la pretesa dei coniugi a cui fa riferimento l’art 8 dell’accordo? Dobbiamo distinguere il caso in cui vi sia la buona fede di entrambi i coniugi o di uno solo di essi. • Quando le condizioni del matrimonio putativo si verificano nei confronti di entrambi i coniugi (es entrambi i coniugi in buona fede), il giudice può disporre a carico di uno di essi e comunque per un periodo non superiore a 3 anni, l’obbligo di corrispondere somme periodiche di denaro, in proporzione alle sue sostanze ove l’altro coniuge non abbia redditi adeguati propri e non sia passato a nuove nozze, • Se invece la nullità del matrimonio sia imputabile a uno dei coniugi (es malafede di uno solo dei coniugi), in questo caso quest’ultimo deve corrispondere al coniuge in buona fede, se il matrimonio è dichiarato nullo, una congrua indennità, anche in mancanza di prova del danno sofferto => presunzione assoluta di danno, anche il fatto della dichiarazione di nullità del matrimonio è considerato un danno di per sé. L’indennità deve comunque comprendere una somma corrispondente al mantenimento per almeno 3 anni. Inoltre la parte in malafede è tenuta a corrispondere alla parte in buonafede gli alimenti, sempre che non vi siano altri obbligati. Il cc sempre all’art 129bis ricorda anche la fattispecie dell’intervento di terzi, ossia nel caso vi sia un terzo a cui è imputabile la nullità del matrimonio. In questo caso quest’ultimo è tenuto a corrispondere alla parte in buonafede, sempre che il matrimonio sia stato dichiarato nullo, l’indennità prevista nel comma precedente, ossia la congrua indennità che deve comprendere almeno la somma corrispondente al mantenimento per 3 anni. EFFETTI PERSONALI DELLA DICHIARAZIONE DI NULLITÀ Conseguenze della sentenza sui rapporti familiari, di tipo personale. La Corte di Cassazione ha determinato che l’applicazione dell’art 129 cc, sui diritti del coniuge in buona fede, si estende anche al richiamo che esso fa agli art 155 e 155bis, ter, quater, quinquies, sexties, introdotti dalla L 54/2006 così che il giudice della delibazione è stato ritenuto competente ad adottare provvedimenti sull’affidamento dei figli e sull’assegnazione della casa familiare. Il rinvio, afferma la Cassazione, in questi caso è indipendente dalla buona o malafede dei coniugi dovendo il giudice disporre sul loro affidamento, sul diritto di visita dell'altro genitore e sugli obblighi di mantenimento con ampia discrezionalità e nell’interesse esclusivo dei figli. Ancora una volta per quanto riguarda i provvedimenti personali della sentenza si ha riguardo al best interest of the child, anche con riferimento alla loro libertà religiosa. N.B LE SENTENZE EMESSE DALL’ORDINAMENTO CANONICO, PER IL RICONOSCIMENTO DEI MATRIMONI RELIGIOSI DIVERSI DAL CATTOLICO LO STATO SI LIMITA A RICONOSCERE LA FORMA DI CELEBRAZIONE. Per logica coerenza col nostro sistema e con la tradizione giuridica dell’ordinamento giuridico storicamente inteso, in quanto la Chiesa Cattolica è stata storicamente considerata soggetto sovrano nell’ordinamento internazionale a differenza delle altre religioni, e quindi le sentenze emesse dai tribunali ecclesiastici hanno una sorta di equivalenza con le sentenza emesse da un ordinamento terzo: non così vale per sentenze e provvedimenti emessi da ordinamenti non cattolici (discorso a parte per i tribunali rabbinici). Sentenza n.4100/1990 = compito della Corte d’Appello è di verificare che siano stati rispettati gli elementi essenziali del diritto di agire e di difesa. Le condizioni degli artt.796-797 Cpc sono: - Il giudice canonico deve essere competente a decidere la causa - La citazione deve essere notificata in conformità alla legge del luogo dove si è svolto il giudizio ed è stato in essa assegnato un congruo termine a comparire. - Le parti si devono costituire in giudizio secondo la legge del luogo - La sentenza è passata in giudicato secondo la legge del luogo in cui è stata pronunciata NB. Si parla di esecutività accertata, poiché possono sempre essere appellate (solo a determinate condizioni). - la sentenza canonica non deve essere contraria ad altra sentenza pronunciata da un giudice italiano - Non può essere pendente davanti ad un giudice italiano un giudizio per il medesimo oggetto e tra le stesse parti, istituito prima del passaggio in giudicato della sentenza straniera - La sentenza non può contenere disposizioni contrarie all’ordine pubblico italiano. Ordine pubblico = uno dei principi costitutivi/supremi del nostro ordinamento ancorché magari non invocato in maniera esplicita dalla nostra Carta costituzionale. La sentenza, quindi, deve essere conforme ai principi fondamentali che reggono la materia matrimoniale. L’ordine pubblico non ha una sua fissità, viene determinato anche dalle leggi positive dello stesso ordinamento. Es. Con l’introduzione della legge sul divorzio è diventato principio di ordine pubblico quello della effettività dell’unione coniugale, dandosi così rilievo alla volontà delle parti piuttosto che alla mera dichiarazione. Ci sono varie ipotesi di contrasto: - La sentenza ecclesiastica è stata emanata sulla base di un impedimento tipicamente confessionale = in quanto tale in contrasto con il principio di ordine pubblico derivabile dall’inviolabile diritto di libertà religiosa. Gli impedimenti sono quegli elementi di fatto che sono di ostacolo alla valida celebrazione del matrimonio sacramento. Il Codice di diritto canonico ne elenca alcuni, la cui presenza rende nullo il matrimonio. Es. Ordine sacro, voto pubblico e perpetuo di castità. Vi è un problema per ciò che concerne i vizi del consenso. Sappiamo, infatti, che il matrimonio può essere dichiarato nullo per presenza di uno dei vizi, ma quale è la questione che emerge? I vizi del consenso vengono disciplinati in maniera differente, i regimi giuridici che regolano la invalidità del matrimonio sono diversi. Non sono in contrasto con l’ordine pubblico, le sentenze ecclesiastiche riguardanti i vizi del consenso hanno efficacia nel nostro ordinamento. Il problema maggiore si pone per quanto concerne la simulazione. Nel nostro ordinamento vale solo la simulazione concordata/pattuita da entrambe le parti (negozio simulato + negozio simulatorio). Diverso è l’ordinamento canonico, in cui annulla/invalida il negozio sia la simulazione unilaterale (anche la riserva mentale) sia quella bilaterale. • La sentenza che dichiari la nullità del matrimonio per simulazione unilaterale non può essere considerata efficace nel nostro ordinamento, dal momento che viene posto l’accento sul principio di ordine pubblico della tutela dell’affidamento che l’altra parte fa. La giurisprudenza ha mitigato il principio, in quanto: • Se, da un lato, ha dichiarato la non riconoscibilità delle sentenze canoniche di simulazione unilaterale • È altrettanto vero che la tutela della buonafede del soggetto incolpevole viene meno qualora sia la stessa parte lesa a chiedere la delibazione (o comunque non se ne oppone). “Ente ecclesiastico” è il termine tecnico con cui vengono individuati dal concordato del 29 gli enti della Chiesa cattolica che acquisiscono personalità giuridica all’interno dell’ordinamento giuridico italiano, attraverso lo speciale procedimento previsto ora dall’art 7 della legge 121/1985 nonchè dalla legge 222/1985. È una specifica categoria di persone giuridiche, con peculiari caratteristiche che distinguono gli enti ecclesiastici dagli enti di diritto comune. La legge 222/1985 definisce “ente ecclesiastico” all’art 4 e all’art 1. È un termine qualificatorio molto specifico. Si intendono gli enti religiosi della chiesa cattolica a cui sia stata attribuita la personalità giuridica anche all’interno dell’ordinamento giuridico italiano: agisce quindi pienamente sia nell’ordinamento canonico sia in quello civile. Il regime degli enti ecclesiastici è “analogo” (ricorda il senso dell’analogia) a quello del diritto comune. Questo non comporta una discriminazione degli enti di diritto comune, ma è segno di un pluralismo collettivo e ordinamentale e segno di rispetto della diversità all’interno del nostro ordinamento. Il legislatore ha previsto delle norme particolari per gli enti ecclesiastici che rispettino la loro natura religiosa. Nel momento in cui viene soppresso l’ente ecclesiastico nell’ordinamento canonico, si deve procedere anche alla rimozione della personalità giuridica nell’ordinamento civile italiano perché è venuta meno la base religiosa sostanziale dell’ente. Le norme dettate dalla legge 222/1985 hanno la finalità di coordinare le peculiarità dell’ente canonico con quelle dell’ordinamento civile. L’ente ecclesiastico civilmente riconosciuto assume una posizione peculiare all’interno del nostro ordinamento, né privilegiata né peggiorativa, ma semplicemente, in parte, differente rispetto a quella degli enti del diritto comune. Gli enti ecclesiastici godono di una lor piena soggettività tanto nell’ordinamento della Chiesa tanto nell’ordinamento dello stato. La disciplina civilistica di questi enti è in parte comune e in parte differente, proprio perché il legislatore vuole rispettare questa specificità. Le norme di riferimento sono l’art 7 dell’accordo di Villa madama (norma quadro) e la legge 222/1985 (normativa specifica), che ha reso esecutivo il protocollo sugli enti e i beni ecclesiastici stipulato fra stato italiano e chiesa cattolica sempre nel 1984. Si tenga presente anche dPR 33/1987. Le modalità di riconoscimento degli enti ecclesiastici Sono varie: - per decreto - per antico possesso di stato - per legge Premessaà la modalità ordinaria di riconoscimento civile degli enti ecclesiastici è per decreto. Oggi per gli enti di diritto comune, diversi dagli enti ecclesiastici, è superato. A partire dall’anno 2000, infatti, con dPR 361 si ha un sistema di iscrizione costitutiva nel registro delle persone giuridiche, senza necessità di un decreto ministeriale. Per gli enti ecclesiastici invece l’iscrizione nel registro delle persone giuridiche ha efficacia dichiarativa, e non costitutiva: questo viene stabilito dall’art 9 del dPR 361/2001, che prevede che nulla cambi per gli enti religiosi. Per decreto Alcuni requisiti sono comuni a tutti gli enti religiosi, altri sono specifici per alcune categorie di enti (ad es per la fondazione di culto si richiede la presenza di un patrimonio). Sono 4 i requisiti necessari per ogni ente. Distinguiamo tra requisiti civilistici e requisiti canonici. L’art 7 dell’Accordo di Villa Madama (legge 121) fissa alcuni requisiti comuni a tutti gli enti ecclesiastici: 1) l’ente canonico per essere riconosciuto civilmente deve essere riconosciuto o eretto/eletto dall’autorità ecclesiastica. Si ricorda in parallelo anche l’art 1 della legge 222/1985. Si richiede, quindi, un collegamento organico con l’autorità ecclesiastica, come prevedeva anche l’accordo del 1984. Nel momento in cui la legge esecutiva dell’accordo, tanto di quello di Villa Madama tanto quello su gli enti ecclesiastici, affermano che possono essere riconosciuti come enti civili gli enti riconosciuti o approvati nell’ordinamento canonico, questo significa che possono essere riconosciuti anche enti che non godano di personalità giuridica nell’ordinamento canonico (ad es associazioni private di fedeli per le quali è richiesto solo un riconoscimento approvativo degli statuti). Per essere centro di imputazione di effetti giuridici non è necessario essere eletti in persone giuridiche. NB Il concetto di soggettività, dunque, è disgiunto da quello di personalità Anche nell’ordinamento canonico abbiamo soggetti senza personalità. C’è un forte legame tra autorità ecclesiastica ed ente stesso. 2) la domanda deve essere introdotta o dall’autorità ecclesiastica o dal rappresentante dell’ente, con l’assenso dell’autorità ecclesiastica competente. La conferenza episcopale italiana è l’organismo collegiale che riunisce tutti gli ordinari posti a capo di diocesi in Italia e in generale i vescovi italiani. Ha competenza di tipo legislativo e amministrativo. Tale conferenza ha emanato una nuova istruzione in materia amministrativa. Si tratta di una norma di rango secondaria del 2005, che ha piena vigenza sia per la chiesa sia per lo Stato. Questa istruzione detta norme anche in tema di riconoscimento degli enti ecclesiastici. Si prevede che l’atto di assenso esprime il collegamento dell’ente con l’ordinamento della Chiesa cattolica. L’autorità ecclesiastica competente ad introdurre l’istanza o a dare l’assenso è la medesima che ha conferito la personalità giuridica all’ente o l’ha approvato nell’ordinamento canonico. 3) l’ente deve avere la sede in Italia, ribadendo il carattere di nazionalità degli enti ecclesiastici. Questo è previsto sia dall’art 1 della legeg 22e sia dall’art 7 della legge 121. Questo è rilevante anche per l’individuazione del prefetto competente ai sensi dell’art 3 della legge 222. NB i requisiti precedenti trovano i loro fondamento nell’ordinamento canonico, a cui rinvii all’ordinamento civile Gli enti ecclesiastici che hanno sede all’estero se sono riconosciuti nel loro stato, a condizione di reciprocità, hanno in Italia lo status di persona giuridica ai sensi dell’art 16 delle Preleggi del cc. In questa ipotesi, tali enti agiscono nel nostro territorio come persone giuridiche private, senza godere dei doveri e dei privilegi degli enti ecclesiastici. La legge 218/1995, ossia di diritto internazionale privato, all’art 25 specifica che questi enti sono regolati dalla legge dello stato in cui sono sorti oppure sono sottoposti alla legge italiana se la sede dell’amministrazione è in Italia o se si trovi in Italia il loro oggetto principale di attività. Tale articolo evidenzia che la normativa interna si rispande in base al principio della prevalente attività dell’ente stesso. L’art 7 della legge 222 prevede che gli istituti religiosi e le società di vita apostolica non possono essere riconosciuti se non hanno la sede principale in Italia. Se invece, anche se costituiti all’estero, sviluppano la loro attività in via primaria in Italia possono richiedere il riconoscimento di ente ecclesiastico ai sensi della legge. 4) si richiede che l’ente abbia una finalità costitutiva ed essenziale di culto e di religione Questo è previsto sia dall’art 7 n2 della legge 121/1985, sia dall’art 2 della legge 222/1985. Per qualificare un ente religioso il legislatore concordatario non ha accolto un criterio formale, ha solo previsto che siano riconosciuti solo quegli enti che svolgano effettivamente un’attività di culto e di religione. Si guarda, quindi, ad un criterio sostanziale. L’autorità ecclesiastica deve dimostrare che l’ente svolga un’attività di culto o di religione in maniera effettiva. Tale esistenza è accertata in maniera discrezionale dalla pubblica amministrazione. Si tratta di una discrezionalità non assoluta, ma tecnica. L’autorità amministrativa per valutare se la finalità sia effettivamente di culto e di religione, deve valutare se l’attività coincida con quanto previsto dalla lettera a) dell’art 16 della legge 222/1985, ossia ad attività dirette: - all’esercizio di culto e alla cura delle anime - alla formazione del clero e dei religiosi - a scopi missionari - alla catechesi - all’educazione cristiana L’art 2 del decreto di attuazione della legge 222/1985, il dPR 33/1987, prevede che l’ente debba indicare nello statuto o dall’atto costitutivo: - denominazione - sede - natura - fini dell’ente - persona che rappresenta l’ente Il criterio dell’autoreferenzialità va però incrociato con quello dell’effettività, ossia occorre anche una valutazione in concreto dell’attività svolta dall’ente stesso. Non si esclude che l’ente possa svolgere anche altre attività, anzi la legge lo prevede espressamente all’art 7 della legge 121 e all’art 15 della legge 222: gli enti ecclesiastici possono svolgere anche attività diverse, che però sono soggette sempre alle leggi dello stato che riguardano questa attività e al regime tributario per esse previste. L’ente, quindi, può ad esempio svolgere anche un’attività di tipo commerciale o scolastica. L’art 16, infatti, alla lett b) prevede che l’ente possa svolgere quali attività diverse da quelli di religione o di culto: - attività di assistenza e di beneficienza - istruzione - educazione e cultura - attività commerciali o a scopo di lucro Ovviamente queste attività non devono avere natura prevalente rispetto a quelle di culto e di religione, ma devono essere connesse e strumentali alla finalità di culto e di religione dell’ente stesso. Per il consiglio di stato ci troviamo nel caso di una presupposizione in senso tecnico: la procedura di riconoscimento sarebbe un presupposto in senso tecnico della norma che lo prevede. Si prevede quindi l’adattamento automatico. Il consiglio di stato, però, si rende conto che la questione è di un certo rilievo e quindi ha ribadito l’opportunità che questa questione fosse risolta di comune accordo fra le parti. Questo è di fatto avvenuto tra l’ambasciata di Italia e la segreteria di stato: le parti hanno concordato in maniera diplomatica che non sia più obbligatoria l’assunzione dei pareri del consiglio di stato, a meno che l’amministrazione non lo ritenga necessario per l’oggettiva complessità. Il parere diviene facoltativo. Le parti hanno definito un’altra questione: la legge 222/1985 prevede all’art 1 che il provvedimento di persona giuridica civile dell’ente canonico sia di competenza del Presidente della repubblica. Tuttavia, la legge 13/1991 ha ridefinito le competenze del PDR e non vi è più quella adesso menzionata. La legge ha stabilito che il ministro dell’interno sarebbe diventato da autorità proponente il riconoscimento della personalità giuridica dell’ente canonico ad autorità decisoria. Tuttavia, la legge 13 non ha la forza abrogativa o derogatoria sufficiente per far venir meno le disposizioni concordatarie. Si tratta di una legge ordinaria, infatti, che non può derogare o abrogare una legge che gode di una particolare copertura costituzionale, quale la legge 222/1985. Le parti, quindi, si sono accordate affinché la competenza venga attribuita al Ministro dell’interno. La legge 222 quindi formalmente non è stata modificata, ma lo è stata sostanzialmente. Nel caso di parere favorevole del consiglio di stato, l’atto conclusivo sufficiente e necessario è il decreto del Ministro dell’interno. Nel caso di parere contrario e qualora il ministro dell’interno intenda comunque procedere al riconoscimento civile dell’ente, si ricorre al Consiglio dei ministri. In caso di deliberazione positiva, il procedimento si conclude con un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri. Riassumendo: - competenza generale del Ministro dell’interno - competenza specifica del Presidente del Consiglio dei ministri - non vi è più competenza del Presidente della Repubblica Una volta emanato il decreto ministeriale, altro momento essenziale è l’iscrizione dell’ente stesso nel registro delle persone giuridiche ai sensi dell’art 4 della legge 222/1985. ENTI ECCLESIASTICI Il procedimento di riconoscimento è un procedimento amministrativo. Il decreto conclusivo del procedimento, di accoglimento o di rigetto dell’istanza, è del Ministro dell’interno. Nel decreto del ministro dell’interno il contenuto deve riportare anche le motivazioni in fatto in diritto della scelta, e deve essere trasmesso al rappresentante dell’ente e l’autorità ecclesiastica. Il decreto di riconoscimento è pubblicato sulla Gazzetta ufficiale. L’ente assume la qualifica di ente ecclesiastico civilmente riconosciuto. Art 4 della legge 222 Art 5 della legge 222à iscrizione nel registro delle persone giuridiche Decreto 361/2000 ha introdotto un procedimento semplificato delle persone giuridiche (non commerciali) nel diritto italiano, tramite iscrizione costitutiva. Ossia l’iscrizione al registro delle persone giuridiche equivale al riconoscimento alla persona giuridica dell’ente. Questo non vale per gli enti ecclesiastici e gli altri enti di culto, infatti, l’art 9 de decreto lo stabilisce espressamente: è un’iscrizione solo pubblicitaria e non costitutiva. La legge 222/1985 all’art 5, prevedendo l’onere di iscrizione, prevede che tale modalità avvenga secondo gli artt 33 e ss cc. Vi sono nella stessa norma degli artt ora abrogati dal decreto presidenziale 361/2000. L’art 5 fa salva una norma di riferimento agli artt 33 e 34, ossia una sorta di rinvio mobile: il rinvio è alle norme degli enti di diritto comune che regolano l’iscrizione al registro delle persone giuridiche. Con norma di carattere generale si determina all’art 5 che per quanto concerne la registrazione nel registro delle persone giuridiche agli enti ecclesiastici non può essere fatto un trattamento diverso da quello previsto per le persone giuridiche. La legge 222 quindi rinvia alla disciplina generale delle persone giuridiche. Si applica la disciplina degli artt 3 e 4 del dpr 361/2000. Inizialmente era previsto un registro delle persone giuridiche presso la cancelleria del tribunale di ogni provincia, ora questo registro è istituito presso ciascuna Prefettura. La competenza non è più giudiziaria, ma amministrativa. L’eventuale omissione delle norme di funzionamento e dei poteri degli organi di rappresentanza, lo rende opponibili ai terzi, se non se ne prova la conoscenza. La legge 222 all’art 18 prevede che non si possono opporre ai terzi le limitazioni dei poteri di rappresentanza o l’omissione del funzionamento che non risultino dal codice di diritto canonico o dal registro delle persone giuridiche. La mancanza della pubblicità rende il negozio valido. In caso di mancato accertamento da parte dei terzi dei poteri di rappresentanza o qualora manchino le autorizzazioni necessarie il negozio sarà invalido e annullabile, in quanto l’autorizzazione canonica incide sulla capacità del rappresentante dell’ente do essere parte del negozio. L’annullabilità si prescrive in 5 anni e il termine decorre dalla conclusione del negozio stesso. Dal registro devono risultare anche le indicazioni prescritte dall’art 4 del dpr 361/2000 (è un decreto di delegificazione): - data dell’atto costitutivo - denominazione - finalità - patrimonio - durata - sede - cognome, nome e codice fiscale degli amministratori, a cui è attribuita la rappresentanza dell’ente stesso - statuto dell’ente Il deposito dello statuto può essere sostituito, solamente per gli enti che fanno parte della costituitone gerarchica della Chiesa, per i quali è presunto iuris et de iure la finalità, dal deposito del decreto canonico di erezione di persona giuridica, da cui risultino denominazione, sede e natura dell’ente. L’art 6 della legge 222 prevede una norma di tipo transitorio. Per gli enti riconosciuti dopo il 3 giugno del 1987, il nuovo regolamento del 2000 non riporta alcuna norma di tipo sanzionatorio. Questo ha una sua coerenza: l’iscrizione non è più meramente dichiarativa bensì costitutiva. Si comprende anche l’abrogazione dell’art 33 cc che prevedeva che la mancata iscrizione comportasse la responsabilità personale degli amministratori e in solido con l’ente per le obbligazioni assunte. Il diritto comune non prevede alcuna sanzione per la mancanza di iscrizione. Se non per quanto previsto dall’35 cc è prevista una sanzione amministrativa, che non incide sull’attività negoziale dell’ente stesso. Per gli enti ecclesiastici non vi è una norma a riguarda: vi è una sorta di lacuna legis. Il prof ritiene che ad essi possa essere applicata, in caso di mancata iscrizione nel registro, la disciplina anticamente prevista dall’art 33 cc: perché si tratta di un principio ancora presente nel diritto societario. Per quanto riguarda le altre modalità di riconoscimento dell’ente ecclesiastico, ricordiamo innanzitutto le modalità di riconoscimento abbreviate. Questo è previsto per gli istituti del sostentamento del clero, le diocesi e le parrocchie (come prevede la legge 222 all’art 22 e ss). In ogni diocesi il vescovo ha eretto una vera e propria fondazione, il cui scopo è il sostentamento dei sacerdoti che prestano la loro missione nella diocesi ai sensi 1274 del codice del diritto canonico. Possono anche accordarsi più diocesi per creare un istituto inter-diocesano destinato ad assolvere le medesime funzioni. La conferenza episcopale italiano ha eretto l’Istituto centrale per il sostentamento del clero Gli istituti per il sostentamento del clero hanno assunto la personalità giuridica dalla data di pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale e sul decreto del ministero dell’interno, emanata entro 60 gg dal ricevimento di decreto canonico di erezione dell’ente stesso. L’atto del ministro dell’interno è un atto dovuto. L’ente è eletto con un procedimento abbreviato. Discorso simile può farsi per le diocesi e le parrocchie. Una volta eretti gli istituti per il sostentamento (con la legge 222), sono stati estinti gli antichi benefici: ossia una massa patrimoniale che era prevista per ogni ufficio. I benefici confluiscono negli istituti per il sostentamento del clero e succedono al benefico in tutti rapporti attivi e passivi. Estinti i benefici sono create nell’ordinamento canonico nuovi soggetti: parrocchie e diocesi Il procedimento di riconoscimento degli enti ecclesiastici, amministrativo, è composto da varie fasi: - Fase di iniziativa - Fase da parte dell’Autorità amministrativa italiana per verifica dei requisiti essenziali - Fase decisoria (con possibile fase pre-decisoria) Nel decreto del Ministro dell’Interno il contenuto deve riportare anche le motivazioni in fatto e in diritto della scelta. Successivamente deve essere trasmesso al rappresentante dell’ente e all’Autorità ecclesiastica. Il decreto di riconoscimento è pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Una volta emanato, l’ente ecclesiastico assume la qualifica di ente ecclesiastico civilmente riconosciuto. Deve soggiacere all’onere di iscrizione nel Registro delle persone giuridiche. L’iscrizione ha una funzione pubblicitaria, dichiarativa a differenza di quanto avviene per gli enti di diritto comune. DPRn.361/2000 = introduce procedimento di riconoscimento abbreviato tramite iscrizione costitutiva, ossia l’iscrizione equivale a riconoscimento della personalità giuridica dell’ente di diritto comune. Nb. Non così per gli altri enti ecclesiastici, in quanto l’art.9 Dn.361/2000 prevede che tale procedura non vi si applichi. • Tuttavia, la previsione comprende anche il riconoscimento di quegli enti la cui personalità attribuita o riconosciuta da uno Stato dell’Italia pre-unitaria (e per mezzo dell’art.2 Cc del 1865) non fosse stata revocata dalle leggi eversive, le quali li scioglievano e ne incameravano il patrimonio all’interno dello Stato. Nb. In questi ultimi due casi non è necessario un procedimento specifico di riconoscimento della personalità giuridica per mezzo dell’intervento dell’Autorità amministrativa. Può essere che manchi il Decreto formale di riconoscimento, non previsto dal Codice del 1865, ma ciò non va ad inficiare la sua personalità giuridica ex art.2 Cc. Mancando il Decreto formale, può essere allegato un attestato del Ministro dell’Interno dal quale risulti che l’ente possedesse la personalità giuridica prima del 7 giugno 1929 e che quest’ultima non sia venuta meno successivamente. MODIFICAZIONE DEGLI ENTI ECCLESIASTICI — Revoca, soppressione ed estinzione Le modificazioni sostanziali, ai sensi dell’art.19, acquistano efficacia civile mediante riconoscimento con Decreto del Ministro dell’Interno (prima Presidente). Si provvede su domanda di Autorità ecclesiastica competente o per volontà del rappresentante dell’ente cin approvazione dell’Autorità ecclesiastica. Le modificazioni vanno poi iscritte nel registro delle persone giuridiche, altrimenti non risultano opponibili ai terzi. “Mutamento del fine” che significa? È chiaro che l’ente, che smetta di perseguire il fine di culto, non può più definirsi tale e si avrà revoca della personalità giuridica dall’Autorità civile concedente. É diverso il caso in cui il mutamento sostanziale comporti che l’attività essenziale dell’ente transiti da uno settore all’altro di cui alla lettera a) art.16 Ln.222/1985. La revoca è considerata una sorta di modalità estrema di mutamento, tale per cui la stessa modificazione incide sul sostrato ontologico e ne altera sia forma che struttura. Ha un procedimento contrario rispetto a quello per cui viene concesso il riconoscimento della personalità giuridica: l’Autorità civile (Ministro dell’Interno mediante la Direzione centrale) comunica alla Autorità ecclesiastica la sua volontà di revoca per la venuta meno di uno dei requisiti essenziali al riconoscimento. Anche la revoca deve essere iscritta nel registro delle persone giuridiche. Vi possono essere casi in cui l’iniziativa parte dall’Autorità canonica, casi in cui l’ente viene estinto/soppresso nell’ordinamento canonico. Il diritto canonico, infatti, prevede che la persona giuridica abbia in se stessa una durata perpetua, ma accanto ne determina anche le cause di estinzione della personalità giuridica. Quando viene meno la soggettività canonica (presupposto) è gioco-forza che venga meno anche quella civile. - La soppressione avviene per mezzo di volontà dell’Autorità canonica, quando l’ente non è più conforme con le finalità proprie del diritto della Chiesa. - L’estinzione avviene quando il patrimonio finisca o sia insufficiente alla finalità (o per altre cause previste). Anche in queste ipotesi è necessaria l’iscrizione dell’atto all’interno del registro delle persone giuridiche: l’Autorità ecclesiastica competente trasmette il provvedimento al Ministro dell’Interno, il quale ne dispone l’iscrizione secondo le disposizioni dell’art.4 DPRn.361/2000. È un vero e proprio caso di rilevanza civile di un provvedimento canonico. Il Ministro dell’Interno provvede poi alla devoluzione dei beni dell’ente. Concorso di norme per la successione a titolo particolare (facendo salvi la volontà dell’ente, i diritti dei terzi e le norme statutarie): - Una parte dei beni viene ri-trasferita ad altro ente secondo il diritto canonico - L’art.20 co III Ln.222/1985 prevede l’osservanza di norme civili in merito, in particolare si tratta di un controllo dell’Autorità civile competente mediante una necessaria previa autorizzazione governativa. Nb. Le norme sono state abrogate. Art.14 Ln.222/1985 = caso particolare di revoca dei capitoli canonici/ecclesiali di una Cattedrale o di una Collegiata con funzione, oggi, essenzialmente liturgica. Quando non rispondono più a particolari esigenze culturali e religiose della popolazione, ne è possibile richiedere la revoca del riconoscimento della personalità giuridica. L’iniziativa è dell’Autorità canonica competente, ma la decisione è presa dall’Autorità amministrativa sulla base di un potere prettamente discrezionale (= non ha obbligo di revoca, non è un atto dovuto). ATTIVITA’ DEGLI ENTI ECCLESIASTICI Dal combinato dell’art.7 Ln.121/1985 e dell’’art.15 Ln.222/1985 si evince come gli enti ecclesiastici possano svolgere anche attività diverse rispetto a quelle di culto e di religione, assoggettate alle leggi statali che le riguardano. Le altre attività devono essere strumentali a quelle principali (di culto e di religione) e compatibili con la struttura/finalità dell’ente stesso. Terzo Settore = settore delle attività non lucrative in senso ampio. Ha avuto una ristrutturazione per mezzo della L.delega n.106/2016. I Decreti di attuazione n.112/2017 e n.117/2017 introducono delle norme che individuano le modalità entro cui l’ente ecclesiastico può svolgere anche attività del Terzo Settore. È stata approvata una normativa che permette all’ente eccl di svolgere attività diverse (= attività di interesse generale proprie degli enti del Terzo Settore). Un ramo dell’ente ecclesiastico può assumere la qualifica di impresa sociale o di ente del Terzo Settore. Quali sono le attività che l’ente ecclesiastico svolge? Il Dn.117/2017 all’art.5 denota alcune attività di interesse generale, perfettamente coerenti con la tradizione religiosa (soprattutto con quella cattolica), che il ramo dell’ente eccl può svolgere per assumere la qualifica di ente del Terzo Settore: interventi e prestazioni sanitarie, educazione, istruzione, formazione personale e scolastica … *Rientrano nell’art.16 lettera b) Ln.222/1985. La qualifica non è automatica, l’ente deve: - dimostrare di svolgere l’attività di interesse generale - adottare un regolamento che recepisca le norme previste per gli enti del TS - costituire un patrimonio destinato/separato tenendo varie contabilità = costituzione contabilmente e realmente di un patrimonio destinato esclusivamente all’attività di TS per adempiere e per rispondervi di fronte a terzi. Nb. Può svolgere attività con regime giuridico specifico, non rientranti né in quelle del TS né in quelle di culto/religione. È possibile che l’ente eccl svolga attività d’impresa? Ebbene, la questione non è semplice: ci si chiede se l’attività di impresa sia compatibile con quella di culto e di religione. La giurisprudenza, dopo vari tentennamenti, ha dato risposta affermativa. La Corte di Cassazione ha comunque esplicitato che il lucro perseguito non deve essere soggettivo = non può aversi divisione degli utili. Altrimenti la causa del negozio fondativo dell’ente stesso ne uscirebbe snaturata: ci troveremmo dinanzi ad un ente commerciale. La legislazione comunitaria prevede che attività commerciali possano essere svolte anche senza fini di lucro, purché si agisca con metodo economico = i ricavi devono equiparare le spese. *Il Rn.178/2002 all’art.3 dà definizione di impresa alimentare. Non è necessario neppure il perseguimento di lucro oggettivo, ma l’ente deve: - rispettare i requisiti dell’art.2082 Cc rientrando nella fattispecie - agire con metodo economico = deve tendere ad una potenziale equiparazione tra costi e ricavi In definitiva, elemento essenziale per assumere la qualifica di imprenditore è la capacità perlomeno tendenziale a coprire i costi di produzione con una remunerazione dei fattori produttivi. Nb. Non è considerata attività di natura imprenditoriale l’erogazione gratuita dell’attività stessa. Anche in questo caso, l’ente deve tenere una contabilità separata. Il DLgsn.112/2017 qualifica come impresa sociale l’ente privato che esercita in via stabile e principale un’attività di impresa di interesse generale senza scopo di lucro per finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale. L’art.1 co III prevede che alla sezione dell’ente ecclesiastico civilmente riconosciuto, che svolge attività di impresa sociale, si possano applicare le norme in materia di impresa sociale a condizione che: - sia adottato un regolamento che recepisca le norme previste per l’impresa sociale - sia costituito un patrimonio destinato unicamente al compimento di tale attività - siano tenute separatamente le scritture contabili previste dal Dlgs stesso L’ente eccl che svolge attività d’impresa può fallire? Innanzitutto, va detto che non vi sono norme specifiche regolino la materia. La giurisprudenza è intervenuta affermando che l’ente eccl civilmente riconosciuto può essere soggetto a fallimento, tuttavia non risponde di fronte ai debitori con tutto il suo patrimonio. Soggiace alle procedure concorsuali solo la parte del patrimonio destinato all’attività di impresa. Ciò perché si tiene conto della duplicità della finalità dell’ente. *Art.2140 Cc Rientrano nelle procedure concorsuali solo i beni non funzionali al compimento dell’attività non imprenditoriale dell’ente: non vengono intaccati i beni dell’ente destinati alle finalità di culto e di religione per rispettarne la struttura originaria. La valutazione del patrimonio assoggettabile può avvenire mediante la separazione delle contabilità, da ciò si deducono i beni si cui i creditori possono rifarsi. Un ente ecclesiastico ha un regime che può essere molto variegato, sottoposto anche più ordinamenti: - quello specifico degli enti ecclesiastici - quello del terzo settore - quello dell’impresa - e così via Il c.d. sistema di sostentamento del cleroà ossia le modalità attraverso cui viene remunerato l sacerdote che presta un servizio a favore della diocesi. Parlando del riconoscimento degli enti ecclesiastici, abbiano detto che vi siano alcuni enti, ossia gli istiuti per il sostentamento del clero, che sono stati riconsociuti come perosne giuridiche civili con un rpocediemnto abbreviat. La finalità di questi istituti è di sostenre il clero. Sonod elle verie e prorpie fodnazioni: la cui finalità è la remunerazione del sacerdote che presta servizio Il patrimonio è formato: - per gli istituti diocesani e inter-diocesanià dal patrimonio die benefici ora estinti - cuius regio, eius religioà si cerca di porre fine alle guerre di religione che hanno insanguinato l’Europa nel corso del 600. È il sovrano a determinare qual è la religione ammessa nello stato. Si permette ai sudditi eventualmente di migrare nello stato in cui il sovrano ha scelto la religione a cui essi appartengono. Questi 2 primi principi si collegano l’uno con l’altro. - principio di non ingerenza negli affari interni à principio che trova consacrazione anche nel 1970 in un documento consensuale delle Nazioni unite: nessuno stato o gruppo di stati ha diritto ad intervenire negli affari interni di uno stato. Ciascuno stato ha il diritto di scegliere il proprio assetto politico, economico e sociale senza interferenze. Nel corso del 900 è maturata l’idea che i diritti umani degli individui sono una questione di legittimo interesse e preoccupazione internazionale tra tutti gli stati. Il rapporto tra stati dal 1648 al 900 si è basato su questi principi. Nel corso dell’800, a seguito della Rivoluzione francese e americana con l’emergere delle istanze di tutela dei diritti civili e politici assistiamo alla creazione di Carte costituzionali (in Italia lo statuto albertino del 1848). Questo processo è influenzato dal mito della legge: il legislatore costituzionale rimette garnde fiducia nella legge. Ad es è evidente nella formulazione “gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi” ex art 1 dello Statuto. Emerge quindi il mito della legge infallibile. In Francia, infatti, fino a poco tempo fa non esistava la legittimità delle norme. L’idea quindi della tutela della libertà religiosa era lontana sia per i legislatori sia in ambito internazionale. Prima tutela della libertà religiosa a livello internazionale Regime delle capitolazioniàsistema di privilegi. Si tratta di privilegi previsti dalle norme internazionali in favore dei cittadini degli stati del c.c. concerto europeo, ossia le grandi potenze europee decidevano le sorti dell’umanità e assumevano il ruolo di garanti dell’ordine internazionale. Gli stati del concerto europeo si garantiscono questi previlegi negli stati fuori dalla cristianità (cioè Impero ottomano, Asia orientale ed Estremo oriente). Tra i privilegi vi era la libertà religiosa, questa è la traduzione dell’obbligo internazionale (consuetudinario) di protezione degli stranieri che si trovano nel territorio sotto la giurisdizione di uno stato. Si tratta di un obbligo che non garantisce diritti nei confronti dei cittadini, ma è un obbligo che lo stato ha nei confronti di un altro. Con il sistema delle capitolazioni, ad esempio, l’Impero ottomano si impegnava a garantire ai cittadini italiani ad una serie di privilegi, tra cui la libertà religiosa. Il rapporto però era comunque tra i 2 stati. I paesi del concerto europeo non si impegnavano a garantire a tutti la libertà religiosa ma esclusivamente ai propri cittadini. Si ricordi il Trattato di Berlino (1878) dove si tutela libertà religiosa di alcune comunità, in particolare minoritarie. Nel 900 viene a crearsi la Società delle Nazioni (creata dopo il conflitto mondiale, che aveva le stesse finalità dell’ONU del 1945, che per non è in grado di far valere le sue posizioni e quindi non avrà un’incidenza significativa) e viene discusso il tema delle clausole di tutela delle minoranze presenti nei trattati. Nella Convenzione della Società delle Nazioni si dice che questi obblighi presenti nei trattati sono obbligazioni di interesse internazionale. Quindi la società delle nazioni si dichiara disponibile a discutere eventuali lamentale e segnalazioni che fossero portare alla sua attenzione o da stati che non ne facevano o anche dalle singole minoranze. Si ipotizza la possibilità che siano le stesse minoranze e non gli stati. Sempre nella convenzione si prevede che nel sistema dei mandati, le potenze mandatarie saranno responsabili dell’amministrazione del territorio degli stati loro affidati e che dovrà essere garantita la libertà di coscienza e di religione. La tutela quindi fino a questo momento riguarda solo i gruppi di minoranze, ma non i singoli individui. Tra l’altro le motivazioni che muovono non sono quella di tutela di diritti umanitari, ma motivi interesse politico. La tutela è limitata ai paesi, stati, comunità oggetto dei trattati. Dopo il secondo conflitto mondiale viene meno la fiducia assoluta nel giuspositivismo. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo è una “nuova legge sulla terra” (Hannah Arendt). NB Non è un trattato internazionale, non è stata né ratificata né firmata. Ma viene considerata didi diritto internazionale, perché tutte le nazioni civilizzate dovrebbero considerare le sue norme come vincolanti. Nei trattati di pace gli stati vincitori impongono agli stati vinti una clausola per cui quest’ultimi si impegnano ad assumere tutte le tutele necessarie per assicurare agli individui tutte le libertà e i diritti (comprese la libertà di culti), senza discriminazioni. L’art 18 della Dichiarazione contiene 3 conformazioni della tutela della libertà religiosa: - tutela del foro interno - ius poenitendià diritto di cambiare religione - tutela del foro esternoà attraverso insegnamento, pratica, culto e osservanza Fino al 1948 vi è una definizione molto ampia di religione. Freedom of religion or belief. Questa è oggi la la traduzione della libertà religiosa. La libertà di coscienza attiene alla sfera più intima, mentre la libertà religiosa è molto più ampia e si collega ad un sistema di credenze che ha una sua organicità. La libertà di pensiero non è comparabile alla libertà religiosa: si riferisce ad un pensiero ma mancano le parti del rito e del culto. La DUDU non è un testo vincolante. Nel 1966, invece, nel contesto delle Nazioni Unite vengono firmati, a New York, due patti: - Patto internazionale dei diritti civili e politici - Patto internazionale de diritti economico-sociali Nb. La ICCPR è un Trattato internazionale, che assume anche rilevanza nel nostro ordinamento costituzionale poiché costituisce parametro interposto di legittimità costituzionale per il diritto interno italiano. L’art.2 sancisce il principio di uguaglianza, quindi l’eguale godimento dei diritti a prescindere dalla religione di appartenenza della persona. L’art.4.1-2 prevede le possibili deroghe al Patto. È interessante notare che l’art.18, sulla libertà religiosa, viene espressamente indicato come una previsione mai derogabile in caso di emergenza pubblica. - L’art.4 del patto parla di deroga, che si ha quando uno Stato avvalendosi anche di un certo procedimento formale decide di non garantire taluni diritti previsti nello stesso documento per un certo periodo di tempo ai propri cittadini. Le limitazioni alla libertà religiosa possono esistere, ma le limitazioni sono diverse dalle deroghe. Siccome vi sono degli interessi che vanno bilanciati, la libertà religiosa può essere limitata. L’art.18 riprende il testo della DUDU con esclusione del ius poenitendi, ciò perché gli Stati islamici lo impongono per la propria adesione al patto stesso. Viene aggiunto il paragrafo 2 con esplicita previsione per cui nessuno può essere soggetto a coercizione che possa incidere sulla propria libertà di adottare o meno una religione. Tutto il discorso della tutela della libertà religiosa ormai si gioca sull’ammissibilità o meno delle limitazioni. In primo luogo, dobbiamo considerare possibili solo le limitazioni al foro esterno. Inoltre, le limitazioni possono verificarsi solo al ricorrere di quattro criterio congiunti: - Previsione per legge = - far sì che vi sia una partecipazione della volontà democratica nel processo di limitazione - far sì che la limitazione sia conoscibile a tutti (provvedimento di carattere generale) • Necessaria in una società democratica = principio di proporzionalità • Può essere motivata solo da alcune specifiche ragioni = pubblica sicurezza (public safety) ordine pubblico salute pubblica • Non discriminatorie nei fini o nell’applicazione Al paragrafo 4 si dice che i genitori possono educare i figli conformemente alle proprie convinzioni religiose. È un diritto di importanza fondamentale, che viene ripetuto in entrambi i Patti. L’art.20 prevede la sanzione penale per incitamento all’odio religioso, una delle forme di hate speech. Gli artt.24-26 declinano un divieto di discriminazione su base religiosa. Un paese che non garantisce la libertà religiosa a tutte le confessioni non sta discriminando, ma non sta garantendo la libertà religiosa. L’art.27 prevede dei diritti per le minoranze, ma non viene enucleata e sancita la libertà religiosa istituzionale. Da ultimo, con il patto del ’66, si determina un ruolo del HRC nei confronti della tutela dei diritti umani. Con il Primo protocollo addizionale si permette al singolo individuo di adire qualora ritenga di avere subito la violazione di un diritto umano. È una svolta copernicana perché non sono più gli Stati ad essere i soggetti della materia, ma sono i singoli individui a intervenire. L’individuo può adire lo Human Rights Commettee attraverso la comunicazione individuale, che dà luogo ad un procedimento para-giurisdizionale. Il procedimento in questione si aggiunge a due sistemi di verifica dell’attuazione degli impegni: • Reports periodi = obbligo degli Stati di informare periodicamente dei progressi, dei passi assunti per la maggiore e migliore evoluzione nella garanzia dei diritti umani • Comunicazioni interstatuali — gli Stati, in realtà, non sono inclini ad avviare un procedimento di questa natura nei confronti di un altro Stato per il rispetto dei diritti umani. Il ricorso è influenzato da ragioni di mera convenienza (o di politica interna rilevante). Krishnaswami è un accademico a cui viene affidato il compito di stendere un rapporto sulla tutela delle minoranze religiose (1960). Sulla base del documento le Nazioni unite pensano a mettere in pratica delle garanzie per porre fine alla discriminazione su base religiosa. Si vorrebbe agire su due piani: NB l’ente ecclesiastico una volta istituito deve essere iscritto nel registro delle persone giuridiche. L’iscrizione non è costituiva, ma è una forma di pubblicità dell’ente stesso. I controlli esistenti all’interno dell’ordinamento canonico hanno un loro specifico rilievo civile, nella misura in cui sono conoscibili. Vi è una sorta di controllo specifico per quanto riguarda gli istituti per il sostentamento del clero. Sono previsti alcuni specifici controlli sulla gestione del patrimonio, per evitare che esso si depauperi, impedendo un’adeguata remunerazione degli enti stessi. L’istituto per il sostentamento del clero è onerato, qualora intenda alienare un bene immobile, avente un valore superiore a 1500 milioni di lire (circa 800 mila euro), da un diritto di prelazione altrui. Vi sono dei soggetti pubblici che devono essere preferiti come acquirenti (in ordine di preferenza): - stato - comune - università - regione - province Qualora nessuno dei soggetti eserciti il diritto di prelazione, l’istituto per il sostentamento è libero di alienare ad un soggetto diverso alle stesse condizioni previste però per i soggetti pubblici che godevano del diritto di prelazione. Altri 2 casi in cui il diritto di prelazione non sussiste: - l’istituto intenda alienare ad un altro ente ecclesiastico - qualora sussista un precedente diritto di prelazione a favore di un soggetto, privato o pubblico che sia Se non viene rispettato il diritto di prelazione, ad es se non viene comunicato al Prefetto l’intenzione di alienare il bene con un valore superiore a 800 mila euro o se viene alienato il bene ad un soggetto terzo a condizioni diverse, cosa succede? Generalmente, è previsto un diritto di retratto. Il soggetto che gode del diritto di prelazione ha diritto di subentrare al terzo nell’acquisto del bene stesso. In questo caso, invece, è prevista la nullità del negozio stesso ex art 37 della legge 222/1985. Il prefetto deve informare i soggetti interessati affinché possano esercitare il loro diritto di prelazione. PROTEZIONE INTERNAZIONALE DELLA LIBERTA’ RELIGIOSA — Continente europeo Consiglio d’Europea = organizzazione internazionale istituita con Trattato di Londra (1949). Tra i suoi elementi centrali vi è la tutela dei diritti umani. - Nasce in un contesto in cui l’Europa è già bipolarizzata: NATO e blocco sovietico. Nb. Nasce con un’ispirazione di carattere politico, come risultato di una spinta al processo di integrazione europea che interessa principalmente l’Europa occidentale e democratica. Due le tendenze sottostanti: - Coloro i quali vogliono creare una entità sovranazionale = non sono più gli Stati ad essere attori, ma si crea una cittadinanza a livello europeo. - Coloro i quali vogliono tutelare la sovranità nazionale. La CEDU, firmata a Roma (1950), è il primo trattato sottoscritto in seno all’organismo internazionale. A oggi le disposizioni della CEDU sono parametro interposto di legittimità costituzionale, si collocano al di sopra delle leggi ordinarie pur rimanendo subordinate alla Costituzione. Art.1 = le altri parti contraenti (gli Stati che hanno ratificato) assicurano nella propria giurisdizione i diritti e le libertà previste della Convenzione. Nb. Si origina la cd. positive obligation = lo Stato non può solo astenersi dal violare esso stesso i diritti umani, ma deve altresì garantirli (ad es. la libertà religiosa) all’interno del proprio territorio. Il recente protocollo 15 ha introdotto il principio del margine di apprezzamento = gli Stati hanno un margine di apprezzamento nel valutare come assicurare il rispetto dei diritti umani nel proprio territorio. Per ciò che concerne gli altri articoli, interessante è rilevare le due linee di pensiero: - La CEDU, dal punto di vista contenutistico, doveva proporre dei principi senza scendere nel dettaglio. - La CEDU, dal punto di vista contenutistico, doveva dettagliare i principi e declinasse al meglio i diritti. Art.9 = libertà di pensiero, di coscienza e di pensiero • Co I riprende esattamente l’art.18 DUDU • Co II anticipa quelle che saranno le limitazioni possibili al diritto • é evidente la mediazione tra le due correnti di pensiero circa il contenuto degli articoli della CEDU. Art.14 = divieto di discriminazione su base religiosa Art.15 = deroga in caso di urgenza ≠ patto delle Nazioni Unite del ’66 (preoccupazione che nel blocco sovietico si derogasse in via perpetua alla libertà religiosa) Nel 1952 viene sottoscritto il primo Protocollo addizionale della CEDU, importante perché all’art.2 (diritto all’istruzione) prevede che nell’esercizio delle sue funzioni lo Stato deve assicurare che i genitori possano istruire sulla base delle loro convinzioni = divieto di indottrinamento. Il Titolo II crea la Commissione/Corte EDU. Originariamente si delinea il meccanismo limitandolo ai ricorsi intestatari = solo uno Stato può adire a questi organi giurisdizionali per verificare la violazione degli obblighi da parte di un altro Stato. Era radicata l’idea che i soggetti dell’ordinamento fossero esclusivamente gli Stati. Dopo poco è stata prevista la possibilità dei ricorsi individuali (aperta a tutti negli anni Settanta). Nb. L’idea iniziale era che i casi portati all’attenzione dovevano essere gravi e flagranti di violazione dei diritti umani: si prediligeva la via diplomatica per una soluzione amichevole e i ricorsi individuali spesso venivano bloccati. Tra il 1950 alla prima metà degli anni Settanta, quindi, l’attività della Corte EDU era un’attività limitata e rifletteva lo spirito per cui la tutela dei diritti umani riguardava solo gli Stati, la soggettività dei singoli individuali era attenuata. Con tre sentenze dal 1970 la Corte acquista un proprio margine di autonomia e comincia ad imporre agli Stati membri una propria visione dei diritti umani. Da questo momento non ci si limita al dato testuale della Convenzione, ma si applicano i diritti anche in altri ambiti nazionali espandendo la loro portata. • Vi sarà una successiva riforma della Corte EDU per cui si giunge alla creazione di un organo puramente giurisdizionale. Dal 1989, con il crollo del muro di Berlino, cominciano ad aderire al Consiglio d’Europa anche gli Stati dell’ex blocco sovietico. La Corte EDU assume ancor più un margine d’azione, non si limita a registrare le tendenze comuni a livello europeo ma acquista un ruolo pedagogico/guida. Sentenza Kokkinakis v Grecia, 1993 = primo caso di messa in discussione di impianti radicati dei rapporti Stato- Chiesa nei vari Stati imponendo una propria idea di libertà religiosa. In particolare, si trattava del divieto di proselitismo della confessione religiosa ortodossa. La giurisprudenza è stata più numerosa e incisiva in temi come: • Abbigliamento religioso • Istruzione • Obiezione di coscienza • Registrazione/autonomia delle confessioni religiose Negli ultimi dieci anni stiamo assistendo ad un terzo passaggio: la Corte ha abbandonato il ruolo catechetico, si limita ad un’analisi più puntigliosa della violazione. CSCE = la Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa nasce su una proposta dell’Unione Sovietica degli anni Cinquanta, che perseguiva l’obiettivo di veder riconosciuta la divisione dell’Europa nei due blocchi (in particolare la divisione della Germania). L’interesse della parte occidentale di partecipare è legato: • Ragioni di politica internazionale • Cogliere l’occasione per imporre il tema del rispetto dei diritti umani e dello Stato di diritto Due le regole della conferenza: • Gli Stati partecipanti sono soggetti sovrani e indipendenti su base di piena eguaglianza • Gli Stati possono agire al di fuori delle alleanze militari Nb. Sono partecipanti tutti gli Stati europei + Stati Uniti e Canada. Rispetto al Consiglio d’Europea abbraccia tutto l’emisfero settentrione del globo, mettendo a confronto Russia e Stati Uniti. • Le decisioni vengono assunte mediante consensus = non vi deve essere da parte di alcuno Stato una ragione ostativa alla presa di decisione. La CSCE vede sin dalle sue origini la partecipazione della Santa Sede, che fa da osservatore alle Nazioni Unite e al Consiglio d’Europa. Nei colloqui di Dipoli (1972-1973) vi sono quattro cesti, uno per ciascuna tematica. Viene redatto il decalogo, oggetto di trattativa della conferenza di Helsinki: al settimo punto vengono incluse le questioni umanitarie tra cui la libertà religiosa. 1973/1975 = coesione dei vari Stati nei confronti del tema di libertà religiosa con tentativo di riattualizzarla. Nell’atto finale, principio VII, si prevede che siano proposte delle conferenze di riesame per verificare il rispetto delle tematiche e l’andamento generale delle politiche in materia. Belgrado 1977 = vi è già disaccordo. Madrid 1980-1983 = l’Unione Sovietica mal digerisce il tema dei diritti umani e l’idea di doversi incontrare periodicamente. Su impulso della Santa Sede vengono aggiunti nuovi testi che vadano a implementare il contenuto della libertà religiosa. • Riconoscimento del ruolo della coscienza individuale • Gli Stati devono consultare le comunità religiose per ciò che riguarda le materie di interesse