Scarica Erodoto e Tucidide: Due Storiografi Greci e la Guerra del Peloponneso - Prof. Cuniberti e più Appunti in PDF di Storia solo su Docsity! STORIOGRAFIA Quando cerchiamo di rispondere alla domanda sul ‘perché studiamo la storia’, possiamo citare Tucidide dicendo che la storia si ripete nel tempo, è interessante studiarla perché risponde alle esigenze degli uomini, ha una sua utilità non tanto perché i fatti si ripetono ma perché ci aiuta a studiare la costante, ovvero gli uomini che hanno popolato quella storia. Non studiamo semplicemente il passato ma la storia degli uomini che hanno popolato i secoli del passato. Questo primo significato non ci fa propendere a studiare la storia dei Greci, ma quella di tutti. Non è una risposta che vale solo per i Greci. Per i Greci possiamo mostrare un oggetto storico (istituzione, fatto, episodio militare, ecc.) che nelle sue caratteristiche nella civiltà dei Greci si è manifestato in una forma che oggi percepiamo come originaria, manifestata per la prima volta. Quando ci avviciniamo a questa risposta comprendiamo perché diamo così tanta importanza alla storia dei Greci. ‘Perché dare rilievo a questo popolo, civiltà?’ Perché lì culturalmente riconosciamo alcune espressioni in forma originaria. I Greci non inventano nulla, ma prendano qualcosa da altri e rapidissimamente ne sviluppano l’uso e lo fanno diventare molto più significativo per la loro civiltà. Inoltre la caratteristica di questa società è la grande capacità di raccontarsi e da qui vediamo nascere la questione della storiografia e del racconto storico. Certo si è raccontata come voleva, ci sono anche delle ripetizioni, delle parzialità, ma si è raccontata. Tutto questo ha un punto di congiunzione. Lo sviluppo della moneta e della scrittura avviene tutta insieme in pochi secoli, subito dopo i secoli bui (VIII, VII e VI secolo). Qui nasce la necessità del raccontarsi. Il punto che congiunge tutto questo è la polis. Non è la prima volta che si scrive e si parla del passato, ma il loro modo di fare però è originale e unico. Quel modo di scrivere supererà il fatto di essere una scrittura riservata a pochi, scribi che sono a servizio di chi detiene il potere, come la scrittura del lineare A e B, come negli oggetti preziosi. La moneta però diventa uno strumento che cambia la società. Questi fenomeni vengono presi da altre civiltà e poi si sviluppano nella polis, modello di società piccolo e autonomo che perseguiva un qualche ideale di uguaglianza. Tendeva alla distribuzione del potere, comunità di cittadini che si vorrebbe fossero uguali. La popolazione non sarà mai tutta inclusa, sono esclusi gli schiavi, gli stranieri e le donne. Per questo vale la pena studiare i Greci. La nascita del racconto In questo contesto nasce il bisogno di raccontarsi, ovviamente diverso rispetto alle civiltà vicine come quelle mesopotamiche che quando scrivono di storia lo fanno su monumenti ufficiali nei quali sono i re e i faraoni a parlare. I Greci fanno nascere un racconto storico plurimo (può avere tanti protagonisti che fanno la storia) e autonomo (un cittadino diventa protagonista della storia). La nascita del racconto pone una domanda che porta ad un secondo progresso: la formulazione del metodo. Per capire qual è il racconto storico affidabile dobbiamo affidarci al metodo. Di fronte a n racconto plurimo ci si interroga su che cos’è la verità. Potremmo fare lo stesso discorso su tutte le discipline del sapere. Si capisce presto che non si può chiedere alla storia di chiarire dal racconto stesso se è vero o meno. Dobbiamo indagare il metodo per capire se possiamo fidarci o meno. I primi grandi 1 protagonisti formulano il metodo partendo dal primo degli storici, Ecateo di Mileto. Due grandi storici che possiamo leggere per intero sono Erodoto e Tucidide. Ad essi poi si affiancherà Senofonte. Notazione di metodo. Tutto ciò che diremo ha un limite, il limite della nostra conoscenza. Non abbiamo a disposizione tutta la storia greca ma solo una selezione, quella che ci è giunta dalla tradizione attraverso i secoli tramite due modalità: 1. Selezione volontaria, quello che si è voluto che giungesse a noi. Scelta da parte degli uomini stessi 2. Caso, parte di fonti che ci sono giunte per caso La prima ci è giunta a partire dalla tradizione medievale dei copisti che possiamo leggere dall’VII/IX secolo d.C. Non abbiamo il manoscritto di Tucidide né il passaggio delle varie copie. Opere scelte e copiate e ricopiate e conservate nelle biblioteche. Di copia in copia ovviamente il testo non sta mai fermo, non siamo sicuri di leggere il testo originale, vero e proprio di Tucidide. E lì si inserisce il lavoro dei filologi che cercano di capire la fonte affidabile, originale. C’è una tradizione che nasce già dall’età ellenistica, dalla prima parte dell’età ellenistica in Egitto, l’età alessandrina, grande età di cultura ad Alessandria d’Egitto sotto il regno dei Tolomei nella quale le grandi opere dell’età classica vengono ricercate e ricopiate. Fin dall’età alessandrina però accanto all’opera di trascrizione si pone anche l’opera di selezione. Questo porta all’individuazione dei campioni, dei migliori che sono degni di essere copiati e ricopiati, ovvero “i classici” (da classis, flotta: i primi della flotta, della classe). Questa selezione venne fatta principalmente su due fattori: 1. etico tendevano a conservare ciò che si adattava all’etica del periodo 2. scolastico. Venivano conservati i grandi autori, indispensabili per conoscere i periodi storici. Uno scrittore solo per ogni periodo storico. - Erodoto guerre persiane - Tucidide guerra del Peloponneso - Senofonte IV secolo a.C. Non c’è mai un momento in cui abbiamo più autori che parlano della stessa cosa. Quelli che venivano percepiti i migliori in relazione al racconto di un’epoca, per lo stile e per la qualità della storia e per utilità nell’ambito scolastico. Hanno scelto tre autori con stili completamenti diversi, con tre approcci alla storia diversi. Senofonte è quello che ha un greco più adatto alla traduzione della scuola. Gli autori dell’età classica sono stati ridotti volontariamente dai copisti medievali a Erodoto, Tucidide e Senofonte. Per quanto riguarda le fonti che ci sono giunte in modo casuale, facciamo riferimento a quei testi giunti da una fonte antica conservata dai papiri che sono sopravvissuti su un materiale che di per sé doveva sparire in quanto degradabile. E così la maggior parte dei papiri scomparve ovunque tranne che in due posti: 1. In Egitto grande quantità di papiri ritrovati grazie alla sabbia e al clima secco. 2. A Ercolano gruppo di papiri ritrovati nella villa dei papiri, che si sono conservati perché si sono carbonizzati nell’eruzione del Vesuvio; sembrano dei tronchi di legno bruciacchiati. Villa di un nobile romano che aveva accumulato una grande quantità di codici. Quindi quello che leggiamo è sottoposto a selezione, non è sempre tutto quello che vorremmo leggere. 2 Prima soluzione che cerca Ecateo è provare a esplorare le generazioni: provare usando le generazioni della città di raccogliere informazioni e cercare di cadenzarle nel tempo. Riesce a ricostruirne parecchie, riesce a costruire le genealogie fino a congiungere l’età degli umani con l’età degli dei passando per quell’episodio essenziale che è la guerra di Troia, quel punto dove l’umanità degli eroi si mischia con il divino. E poi dal ritorno di quegli eroi nelle loro città nascono le poleis dei greci e da lì nascono le famiglie aristocratiche che arrivano fino ai tempi di Ecateo. Di generazione in generazione ci si collega. Questa questione gli pone però due problemi: uno riesce a risolverlo, l’altro lo traumatizzerà, provocherà quello che lo storico Luciano Canfora ha chiamato il trauma egizio di Ecateo. 1. Due frammenti di Ecateo citati da due altre fonti di due autori che ci sono giunti per intero: Pausania e Ariano. Questi frammenti ci fanno vedere come lui non vuole rinunciare ad usare i miti: sa che sono molteplici e ridicoli, e allora deve cercare la verità dentro a quei racconti mitici; tra le tante versioni deve sceglierne una che ritiene solida sulla quale poter fondare quel racconto di generazione in generazione. Non può non usare il mito perché è l’unica cosa che aveva, non conosceva altro del suo passato. Non può buttare via i miti perché aveva solo quelli, l’identità delle città poggiava su quei racconti, non poteva eliminarli se no non avrebbe avuto altro in mano. I miti che più aveva a cuore di salvare, perché fondativi delle città greche, erano i miti legati alle fatiche di Eracle, fondamentali perché si diceva che la maggior parte delle città del Peloponneso nascevano dagli Eraclidi, tornati a riprendersi il Peloponneso che era stato negato al padre. Tutta la questione delle fatiche nasce da un imbroglio che Era ordisce contro Eracle, colpevole di essere figlio di un’amante di suo marito: non vuole che diventi il re del Peloponneso e trama tutto questo inganno appoggiandosi ad Euristeo. Frammento di Pausania, autore di una geografia letteraria, che si chiama Periegesi ed è un grande libro turistico sulla Grecia: in questa parte, III libro, parla del Peloponneso e usa una citazione di Ecateo. Quando dice “quando narrò” inizia a citare Ecateo. Ecco qui la spiegazione razionale: capiamo bene che Ecateo vuole razionalizzare il mito nel punto essenziale per poter conservare un determinato episodio. L’animale non è un cane ma un serpente velenosissimo; viene chiamato cane perché custodisce l’uscio e chi viene morso finisce dritto all’Ade, quindi il serpente porta le persone all’Ade. Questa spiegazione funziona, capiamo l’azione intellettuale che vuole fare Ecateo. Eracle combatté contro questo serpente, è questa una delle sue fatiche. “D’altra parte…” non sappiamo più se siamo ancora dentro la citazione o se è di nuovo Pausania che parla. Dice che c’è una prova: Omero, che è il primo autore della letteratura greca, ha chiamato questo essere cane di Ade, però non gli ha assegnato il nome, non l’ha chiamato Cerbero e non lo ha neanche descritto, come invece ha fatto per la chimera. La tradizione successiva ha disegnato Cerbero come un cane a partire dalla tradizione popolare che lo ha paragonato ad un cane perché custodiva l’uscio dell’Ade. Capiamo bene quello che Ecateo vuole fare: razionalizzare il mito in un punto essenziale in modo che il mito possa essere conservato come prova storica. Lo stesso fa con un altro episodio delle fatiche di Eracle, che è quello dei buoi, che Eracle avrebbe portato da lontano sempre a Euristeo. 5 In questo brano, abbiamo citato un frammento di Ecateo: “ed Eracle non sarebbe…”. Quale spiegazione ha trovato Ecateo? È inverosimile che Eracle sia andato a rubare i bovini in Spagna e che da lì li abbia portati fino a Micene nel Peloponneso. C’è un altro racconto che ci dice che quel re Gerione e il suo regno erano in Epiro, cioè vicino alla costa adriatica della penisola balcanica, e questo è verosimile. Si può immaginare che una persona partita dal Peloponneso se ne vada in Epiro, zona famosa per i pascoli, e da lì prenda una mandria di bovini. Questo mito, se lo si interpreta così, ha un senso. Con questo procedimento verso il passato Ecateo riesce a delineare il succedersi di 16 generazioni. Da qua nascerà però il suo trauma egizio. 2. Erodoto, nel suo secondo libro al paragrafo 143, ci racconta del viaggio di Ecateo in Egitto. Ci racconta che Ecateo è andato a Tebe (egizia), dove ha incontrato i sacerdoti locali e ha presentato sé stesso e il suo metodo di conoscenza del passato, dicendo di aver ricostruito ben 16 generazioni verso il passato (più o meno intorno alla guerra di Troia). I sacerdoti lo guardano perplessi, lo portano nel porticato del tempio dove sono esposte in fila le statue dei sommi sacerdoti egiziani capi di quel tempio, succeduti uno dopo l’altro di epoca in epoca: queste statue sono 345. La successione dei sacerdoti a capo del santuario, di cui il santuario aveva memoria, era di 345 generazioni, più brevi di una generazione reale, ma lo stesso enormemente di più. Quindi Ecateo capisce di non essere arrivato alle origini degli uomini; quelle 16 generazioni non gli bastano per riuscire a congiungere uomini e dei poiché mancano ancora molti anni. La filosofia di quell’epoca cercava l’inizio (l’archè) e anche Ecateo cercava l’inizio, che non è riuscito a trovare perché mancano le fonti. Questo è un limite insito nel lavoro degli storici: non si riesce mai a sapere tutto; ognuno aggiunge un pezzo all’altro ma non si arriva mai a sapere tutto. Ecateo come primo storico vive tutte queste questioni fondamentali del fare storia: - guardare al passato riuscire a conoscerlo e a misurarlo (come contare il tempo nel passato). - Problema dell’affidabilità dei racconti del passato lui se lo pone con il mito e cerca di capire tra quei molteplici racconti qual è quello più affidabile in termini razionali - C’è sempre un pezzo che ci manca limite della storia. Fare lo storico ha questo doppio altare: da una parte la presunzione di essere colui che racconta la storia; dall’altra l’umiltà di dire che mancano sempre dei pezzi. Il metodo che si imporrà successivamente, che sarà quello che userà ad esempio Tucidide, sarà di misurare il tempo in relazione alle cariche presenti in città. Questo esprime la forte autonomia e indipendenza delle varie città: è evidente che ognuna avrà una diversa misurazione del tempo a seconda delle cariche presenti. Tucidide risolverà questo “problema” dicendo “l’anno in cui la tal persona è arconte ad Atene e la tal altra è eforo a Sparta”. Non è vero che il metodo più usato fosse quello delle olimpiadi. Questo metodo sarà usato solo dalla metà del IV secolo in poi e non dagli autori di V secolo e inizio IV. Diventerà un sistema comune adottato da tutti. Ci sono altre sperimentazioni prima di arrivare a questa delle olimpiadi. Una è quella di uno storico di V secolo: Ellanico; la sua opera è spesso messa a confronto con quella tucididea. Tra le sue opere ce n’è una di cronologia ed è la prima che utilizza un’istituzione per datare gli episodi ad annum, per dire che quell’episodio è avvenuto 6 in quel tal anno. Lui usa come sistema cronologico le sacerdotesse del tempio di Era ad Argo. Sceglie un’istituzione importante, un tempio internazionale conosciuto da tutto il mondo antico. Sceglie quel tempio perché le sacerdotesse stavano in carica un anno soltanto, e quindi il nome delle sacerdotesse indicavano un determinato anno. Indica anno per anno attraverso i nomi delle sacerdotesse. È la prima volta che uno storico riesce a scrivere un’opera con datazione ad anno. Tucidide rimane colpito da questo metodo e lui userà poi quello degli arconti ateniesi; quando però deve indicare l’anno in cui scoppia la guerra del Peloponneso, il 431 a.C., lo indicherà in tre modi: l’arconte ateniese, l’eforo di Sparta e il nome della sacerdotessa di Argo per collegarsi a Ellanico (poi non lo farà più). Come per l’alfabeto e la moneta, anche l’inizio della storiografia ha un inizio veloce; in contemporanea a Ecateo (cioè già intorno alla prima parte e alla metà del V secolo) c'è una grande attività da parte degli scrittori di storia. Il tutto avviene molto rapidamente: era avvenuto così nell'VIII secolo in cui si è affacciato della scrittura alfabetica, era avvenuto così nel VI secolo quando in vent'anni rapidamente nelle polis greche si diffonde l'uso della moneta e viene inventato un nuovo uso della moneta, lo stesso avviene per questo genere letterario che ben presto arriva ad affiancarsi in maniera forte agli altri generi letterari i quali, più di questo, erano ancora partecipi di una tradizione di oralità (gli eventi epici, le elegie, tutta la poesia, il teatro che in questo stesso secolo si sta manifestando e sta uscendo da occasioni culturali e tradizionali proprie di alcune zone della Grecia e delle feste rurali per diventare festival teatrali della polis). È un momento di grande fermento e così avviene anche per il genere letterario della storiografia che subito si differenzia. Accanto ad Ecateo ci sono altri nomi come, ad esempio, lo scrittore di Argo Acusinao come uno dei primi scrittori di storia ateniese. In Ecateo ci si apre anche alla geografia e all'interesse etnografico in quanto, andando a guardare il passato, ci si muove nei luoghi e quei luoghi mostrano culture e civiltà differenti. Nascono così lavori su determinati popoli. Nasce, fin da subito, un forte interesse per popoli non greci. Questo ci fa capire meglio una cosa che troppo spesso diciamo e che non è proprio vera: “questi Greci erano separati dai barbari e sentivano con una certa presunzione uno sfondo di superiorità rispetto a loro”. Certamente usavano la parola barbaro, una parola greca di origine incerta con la quale si identificavano “gli altri”, ossia quelli che non parlavano greco; è questa la principale definizione e da qui derivano poi spiegazioni etimologiche in cui forse l'origine della parola potrebbe essere onomatopeica, ossia riferita a quelli che fanno “bar-bar” parlando: allora la parola assume il carattere di una presa in giro; in realtà, quando guardiamo questi primi autori la parola “barbaro” non la troviamo con questa sfumatura, ma è utilizzata solo per indicare “gli altri”, quelli che non parlano greco. Questi “altri” sono però molto interessanti, tanto che ci sono diversi autori che ne scrivono. - Xanto di Lidia scrive “Lydiakà” sulle popolazioni della Lidia in Anatolia - Dionigi di Mileto scrive i “Persikà” che studiano e iniziano ad esplorare l'area persiana e “Fatti dopo Dario” - Ellanico di Mitilene scrisse l'opera cronografica “Sacerdotesse di Era ad Argo”, ma scrive anche le “Origini di popoli e città” con questa spinta a ricercare l'inizio. Questo obiettivo unisce nell’origine la filosofia e la storia: entrambe vogliono cercare un inizio che è l’inizio dell'umanità, l’inizio degli uomini, l'inizio della vita degli uomini nell'ambiente in cui si vive, nelle famiglie in cui si vive. Si vuole cercare il punto d'inizio, ma insieme si vuole anche capire quelle civiltà 7 nuove città nella Magna Grecia (esperienza che risale all’arcaismo). Ora, invece, in età classica, a segno anche della potenza ateniese, si apre una nuova spedizione panellenica coloniale voluta dall’oracolo delfico, a cui partecipa Erodoto, che va ad abitare a Turi; vi rimane per anni finché non viene a prevaricare, a Turi, il partito ateniese, cioè il partito di questo nucleo centrale che aveva fondato la città. Quando politicamente questa parte ateniese finì per soccombere nella politica cittadina, Erodoto lasciò la città e tornò ad Atene (questo è uno dei pochi episodi concreti che conosciamo della vita di Erodoto). La cosa più importante è riflettere sulla sua opera. - Libro 1 ha un proemio metodologico nel quale l’autore spiega come nasce la sua opera. Spiega che vuole raccontare come si è arrivati alle guerre persiane. Per farlo, però, vuole effettuare un percorso molto lungo, un percorso che varrà più della metà dell’opera (motivo per il quale non è corretto dire che Erodoto ha raccontato le guerre persiane. Ha raccontato anche le guerre persiane, ma non solo). Tutta la prima parte è dedicata ad un altro di conoscenza dell’impero persiano e, in modo particolare, di tutti quei popoli che sono stati conquistati dalla dinastia Achemenide e che sono diventati a far parte dell’impero persiano nei secoli precedenti (circa dal 550 a.C. in poi). Così, inizia a parlare del regno di Lidia, raccontando del mitico re Creso. Successivamente, ci parla della conquista del regno di Lidia da parte dei Persiani. Arriva a parlare di Ciro il Grande, colui che nel 546 a.C. pone fine al regno di Creso e attua la conquista della Lidia (regione Anatolica) che è la prima conquista grande della famiglia achemenide (che proveniva dagli altopiani dell’Iran). - Libro 2 parla del regno di Cambise, successore di Ciro il Grande. Ci parla di quella che fu la più grande e tormentata conquista, quella avvenuta nel 525 a.C. quando gli Achemenidi conquistano l’Egitto. In questo secondo libro, Erodoto ci parla degli interessi che lo muovono. Arriva a parlare delle conquiste di Cambise in Egitto, ma è chiaro immediatamente che lui ci vuole parlare degli Egizi, di quella civiltà, di come è organizzata, di come vive quel popolo, di come quella vita derivi dalla sua esperienza storica millenaria (qui è presente l’episodio dello shock di Ecateo). - Libro 3 inizia a conquistare i fatti veri e propri relativi alla conquista dell’Egitto di Cambise. Ci parla anche della morte di Cambise e di come Dario salì al trono dopo di lui. È qui che si inserisce il discorso tripolitikos sulle tre forme di governo: è una della pagine più famose di Erodoto. Alla fine del terzo libro, ci parla di come Dario ha intelligentemente organizzato le satrapie dell’impero persiano, ossia le grandi regioni dell’impero persiano, il grande sistema di raccolta fondi e risorse organizzato da Dario. È presente la descrizione molto importante delle strutture amministrative dell’impero persiano, attuate da Dario nei primi anni del suo regno. - Libro 4 prosegue con le conquiste, che sono raccontate in ordine cronologico, ma che sono anche un’esplorazione geografica: dalla Lidia si va in Egitto, dall’Egitto si torna in Mesopotamia a parlare di come Dario ha organizzato il regno, poi si prosegue con la conquista di Dario della Scizia, un popolo sul quale Erodoto si sofferma molto perché lo trova esotico, strano, un popolo diverso dagli altri. Dalla Scizia passa a parlare della Libia: storia di Cirene (per la prima volta si parla in maniera consistente di una colonia greca). Con il quarto libro si conclude questo grande affresco sui popoli che compongono l’impero persiano e la storia di conquista da parte della dinastia achemenide. 10 - Libro 5 libro cerniera in cui Erodoto inizia a raccontare quanti problemi di rivolte l’impero persiano doveva vivere in molte delle sue parti. In questo modo arriva a parlare della rivolta Ionica che è quello che noi oggi, con lui, indichiamo come punto d’inizio delle guerre persiane. Erodoto le inserisce in questo contesto che è molto più ampio di queste rivolte delle città e dei popoli all’interno dell’impero persiano, per poi approdare, nella seconda parte, a parlare della ricolta ionica. - Libro 6 dedicato alla prima guerra persiana (battaglia di Maratona del 490 a.C.) - Libri 7, 8 e 9 parlano della seconda guerra persiana. La quantità narrativa della prima guerra persiana è un terzo della quantità narrativa dedicata alla seconda guerra persiana (è per questo che noi la conosciamo in maniera più dettagliata). La conclusione dell’opera di Erodoto avviene con la descrizione della presa di Sesto ad opera della coalizione greca dopo la battaglia di Micale del 478 a.C., un episodio minore che, però, molto ci dice sulle scelte narrative di Erodoto che fa parte del circolo di Pericle: il generale che guida l’esercito ateniese nell’ultima fase della seconda guerra persiana (quando Sparta, nelle ultime due battaglie non combatte più e lascia la guida ad Atene) lì il protagonista è il padre di Pericle. In qualche misura, così com’è accaduto per i Persiani di Eschilo, anche l’opera ha un tono che finisce per essere (almeno in parte) anche celebrativo del ruolo di Atene e del ruolo della famiglia di Pericle in questa guerra. Le Storie È un’opera molto complessa, definirla storica non basta. Certo Erodoto è il padre della storia, sin nelle biblioteche antiche c’era il suo busto, la sua immagine scultorea ad indicarci che era lui il padre della storia, come Eschilo è stato il padre del teatro tragico. Ecco quindi il suo ruolo di storico, ma, accanto alla storia quest’opera fa molto altro: è un’opera che ci dice molto sugli obiettivi dell’autore e sulla funzione e sulla fruizione che quell’opera si poneva rispetto al proprio pubblico. Rapporto stretto che c’è fra i fatti che raccontiamo e i personaggi che citiamo e la fonte che ce ne ha parlato. Perché continuare a studiare le guerre persiane e la guerra del Peloponneso? Queste due guerre non sono rilevanti per la storia dell’umanità, non sono così significative come appaiono dal nostro racconto. Sono così significative perché dietro di esse ci sono due poderosi racconti, due monumenti letterari. Noi dobbiamo legare quel racconto alla fonte che lo ha raccontato per veicolare gli stessi obiettivi che aveva Erodoto in quel periodo. Perché Erodoto e Tucidide pensavano che queste battaglie fossero indispensabili da raccontare e da ricordare in modo particolareggiato? Non perché è una sequenza di battaglia, quella è solo l'intelaiatura; c'era qualche contenuto che loro ritenevano indispensabile. Noi leggendo dobbiamo unire il contenuto agli obiettivi che aveva Erodoto. I 1: Questa è l' esposizione delle ricerche di Erodoto di Alicarnasso, perché gli eventi umani non svaniscano con il tempo e le imprese grandi e meravigliose, compiute sia dai Greci che dai barbari, non restino senza fama; in particolare, per quale causa (aitìa) essi si fecero la guerra. Questo è un'esposizione di ricerche; per prima cosa ci dà uno degli obiettivi della storia: soltanto se continuiamo a ripeterli di persona in persona, i ricordi non si 11 perdono e gli eventi e le imprese grandi e meravigliose (ciò che stupisce ciò che ci fa sbalordire, non per forza in senso positivo) non svaniscono. La storia per molto tempo resterà ancorata a questa idea di raccontare per prima cosa i fatti grandi che hanno segnato la storia, in primis le guerre. Racconta le azioni compiute sia dai Greci che dai barbari, quindi tutta l'umanità a lui nota. Tutto questo deve restare nella memoria. Ultimo passaggio importantissimo: per quale motivo questi hanno iniziato a farsi la guerra. Quindi questo è il suo obiettivo: a lui interessa capire perché le guerre persiane sono avvenute; gli interessa anche approcciare un mondo immenso di popoli, di storie diverse di cui lui non vuole si perda memoria anche se quello non c'entra direttamente con le guerre persiane, ci aiuta però a capirle. Non posso capire le guerre se non capisco quei popoli; perché erano amici e poi ad un certo punto sono diventati nemici? Perché proprio in quel momento? Cosa è capitato? Se ogni volta che raccontiamo le guerre persiane diamo la sensazione che quella guerra fosse inevitabile perché Greci e barbari erano diversi tra loro vuol dire che non abbiamo capito nulla di quello che dice Erodoto e noi non abbiamo diritto di raccontarla in modo diverso perché non abbiamo un’altra fonte a cui fare riferimento. Il motivo dello scoppio della guerra è molto concreto: la rivolta ionica scoppia perché le città erano insofferenti al pagamento dei tributi che aveva stabilito Dario. Capiamo questo guadandolo dall'interno del mondo persiano e non dal mondo greco; certo i Greci e i barbari parlavano lingue diverse ma non è per questa naturale differenza che fra loro che scoppia la guerra. Ecco Erodoto quindi inizia così, sviluppa questo discorso attraverso alcuni passi significativi; i primi che leggiamo perché si connettono al discorso Greci-barbari, sono quelli che ci indicano e ci permettono di leggere Erodoto come il punto di inizio di quello che noi oggi chiamiamo il relativismo culturale, cioè le differenze tra i popoli non su basi naturali ma su basi culturali che si sono determinate nel tempo secondo le condizioni storiche che quel popolo si trovò a vivere. Erodoto è uno storico quindi non lo fa analizzando e in maniera teorica ma lo fa raccontando; si rivolge ai Greci e questo non dobbiamo mai dimenticarlo, perché scrive in greco, quindi parla ai Greci ai quali vuole mostrare quanto sono diverse le altre culture e li vuole provocare e punzecchiare a scuotere. In questi due brani lo fa in maniera molto forte, nel primo lo fa in maniera più ironica mentre nel secondo lo fa in maniera più puntuta. II 35 (a partire da questo passo discorso su relativismo culturale; vd. infra III 38 e confronti successivi) 1. Vengo ora ad ampliare il mio discorso intorno all’Egitto, poiché molte cose meravigliose esso possiede e offre opere superiori ad ogni descrizione, in confronto a ogni altro paese; per questo se ne parlerà a lungo. ( Il meraviglioso che ritorna, questo mondo straordinario) 2. Gli Egiziani, oltre al clima particolare e al fiume che presenta una natura differente dagli altri fiumi, in molte cose hanno costumi e leggi contrarie a quelle degli altri uomini (ci dice che l'Egitto è il paese che nasce dal fiume Nilo, tutto vive intorno a quel fiume, però tutto è al contrario); presso di loro le donne vanno al mercato e commerciano, gli uomini invece standosene a casa tessono (provoca gli Ateniesi super maschilisti); e mentre gli altri tessono spingendo la trama all’insù, gli Egiziani la spingono all’ingiù (anche il telaio è montato al contrario in Egitto). I pesi, gli uomini li portano sulla testa, le donne sulle spalle. 3. Le donne orinano stando diritte, gli uomini accoccolati. Soddisfano i loro bisogni dentro le case e mangiano fuori nelle strade, dicendo che le cose necessarie e indecenti conviene farle in segreto, quelle non indecenti pubblicamente (lo immaginiamo in questo teatro dove ci sono 12 trasgrediscile perché quelle leggi ti violentano. Tu sarai felice se rispetti solo le leggi della natura, quello è il vero luogo della felicità. Ciò si evince dal brano Questo testo è anche importante perché nel frammento B vi è la prima fonte che parla dell'uguaglianza fra gli uomini: tutti gli uomini sono uguali perché hanno stesse necessità, anatomicamente siamo uguali; quindi siamo noi Greci che ci imponiamo di considerare gli altri in modo diverso. Siamo tutti fatti uguali. Questo ovviamente non cancella le differenze su base politica, sociale e culturale. Il secondo brano è teatrale e divertente; è tratto da le “Nuvole” di Aristofane, la cui prima edizione è del 423 a.C. ed è una grande parodia di Socrate. Strepsiade per risolvere i debiti del figlio va da Socrate per imparare il discorso ingiusto, quello che gli permetterà in tribunale di vincere contro i creditori che hanno ragione perché il figlio ha dissipato tanti soldi alle corse di cavalli; alla fine Socrate dirà a Strepsiade che non è bravo, che è troppo vecchio e non può imparare, ma di mandargli il figlio; quindi Filippide andrà ad imparare la retorica che gli insegna Socrate. Quando torna dal padre, Filippide usa questo discorso contro di lui; non vuole infatti cantare la canzone che ha imparato al padre che vorrebbe festeggiare. Si confrontano il poeta del padre e il poeta dei giovani. La cosa che ci interessa è che i due iniziano a litigare e il figlio inizia a picchiare il padre: è la peggiore cosa che possa fare secondo le leggi fondamentali di natura, ma Filippide dice che quella legge l'hanno fatta gli uomini e non gli dei e che quindi lui ora la cambierà facendone una nuova, in cui dice che i figli possono picchiare i padri il doppio rispetto a quanto i figli sono stati picchiati dai padri quando erano piccoli perché invecchiando tornano bambini due volte. La seconda versione della commedia ha un finale diverso: il pensatoio di Socrate viene incendiato, imputando a lui la sconfitta. Il ragionamento avviato da Erodoto è uno dei più interessanti su cui riflettono gli uomini, in particolar modo ad Atene nel V secolo ed è una riflessione che avrà la funzione di scardinare quella che era la consuetudine, la tradizione politica e il sistema sociale dell’epoca. Non a caso ci permette di capire quanti significati possiamo veicolare usando la narrazione di Erodoto proprio nell’Atene del V secolo che si concluderà con i colpi di stato, che concluderanno la prima grande esperienza democratica di Atene che si rinnoverà nell’esperienza di IV secolo. Anche Erodoto ha a che fare con questo e nel papiro di Antifonte si vedono due tratti: uno è quello di chi si sente oppresso dalla legge degli uomini e richiama ad un valore più grande che è il recupero dei significati originali e comuni alla legge di natura, dentro a quegli elementi di natura lui trova un tratto comune, infatti nel secondo frammento testimonia e afferma l’uguaglianza tra gli uomini. Sono tratti riduttivi, che non bastano ad affermare la piena uguaglianza tra gli uomini secondo la nostra sensibilità. Si tratta di un’uguaglianza anatomica secondo cui non c’è differenza tra Greci e barbari, anzi provocatoriamente nel testo dice: “I barbari siamo noi.”, siamo noi che riteniamo che gli aristocratici valgano di più di quelli che sono senza natali. In Aristofane si vede il passaggio ancora successivo: se le leggi delle città di Atene non sono date dagli dei ma sono fatte all’interno di una tradizione animata dagli uomini, ecco che possono essere modificate e quel sistema politico dunque non è immodificabile, su esso si può agire in qualsiasi direzione. Un sistema può divenire oligarchico e viceversa. Aristofane afferma ciò in maniera provocatoria, con una scena comica che conclude le “Nuvole”, per arrivare ad un’affermazione: “E non v’era un uomo come te e me”; si fa riferimento ad una legge secondo la quale i figli non 15 possono picchiare i padri, e Filippide chiede al padre Strepsiade cosa possa impedirgli di modificare quella legge. Quest’affermazione risuona ad alta voce nel teatro ateniese di Dioniso nel 423 a.C., è un’affermazione forte e che scuote la primavera ateniese. Si tratta di un’affermazione a onda lunga che parte da Erodoto e che indaga i motivi per cui ci fu la guerra e in fondo afferma che il motivo non fu la differenza Greci- barbari, lavora sulla non differenza. Al termine afferma che ci sono oggettivamente differenze culturali quindi cerca di comprenderle in profondità, senza ridere di esse come aveva fatto il re pazzo Cambise. Come Erodoto gestisce la materia che vuole trasmettere, lo fa attraverso una grande abilità di comunicazione che ci mette a disagio nella misura in cui sembra mostrarci diversi modi di fare storia; siamo ancora di fronte ad un modo che sembra diverso da parte a parte, sembra di non leggere lo stesso storico, diversamente da Tucidide. Questo deriva dai modi e dai tempi con cui Erodoto ha composto la sua opera; prima di leggerla bisogna avere in mente la fruizione. Erodoto è uno storico, il quale scriveva pensando alla fruizione non come lettura personale del suo scritto, ma come una rappresentazione, una lettura pubblica dell’opera in teatro. Nello scrivere l’opera Erodoto non ha scritto i 9 libri nella successione che noi leggiamo. Non ha iniziato dall’inizio e seguendo una linearità, quella è una redazione finale giunta a noi per ultima quando Erodoto ha messo insieme parti diverse, pensando che quella poteva diventare una grande opera unitaria. Chiaramente quest’opera unitaria, quando la si legge, la si percepisce come un insieme di parti cucite insieme. Quelle parti cucite insieme sono grandi excursus, narrazioni e affreschi di episodi o tradizioni che nella fruizione e scrittura originaria erano autonome. Lui scrisse parti lunghe (decine di capitoli) pensate per la lettura e recitazione pubblica che devono reggere da sole cioè devono avere un inizio e una fine al loro interno. Gli episodi proposti sono questi “medaglioni”, cioè delle parti che Erodoto scrive e che molto probabilmente inizialmente avevano una fruizione autonoma. I critici (gli esegeti) si dividono tra unitaristi e analitici. I primi pensano che fin dall’inizio Erodoto avesse una visione unitaria della sua opera anche se poi ha composto queste parti separate, credono in una forte unitarietà dell’opera. I secondi fanno emergere soprattutto le differenze, pensano che abbia scritto parti autonome senza pensarle dentro ad un insieme e solo successivamente le ha cucite con parti cerniera che congiungono. A noi interessa sapere che sicuramente ci sono queste parti autonome che erano fruite autonomamente nelle pubbliche letture. Iscrizione di Behistun Leggiamo quello su re Dario che si congiunge alla lettura di Cambise in Egitto, questo passo ci racconta come Dario sia divenuto successore di Cambise. È un grande racconto per noi interessante perché abbiamo la possibilità di confrontarlo con un’altra fonte che deriva direttamente dal re Dario: il grande rilievo rupestre di Behistun in Iran. Behistun è il luogo delle tombe reali achemenidi, dove venivano sepolti i grandi sovrani achemenidi. Abbiamo modo di verificare i segni in cuneiforme di questa narrazione in formato multilingue. Con questa narrazione il re Dario in prima persona racconta come è salito al trono schiacciando la rivolta dei Magi (il termine Magi deriva dal greco mágoi e fa riferimento al gruppo sacerdotale e di scienziati d’astronomia che ritroviamo nella storia di Cristo). I Magi avevano preso potere in Mesopotamia proprio approfittando dell’assenza e della morte di Cambise. La narrazione fatta da re Dario è di una voce istituzionale, nella nascita della storiografia greca abbiamo distinto questo modo di far storia delle grandi monarchie 16 medio orientali. Il metodo prevede che una voce istituzionale narri le vicende. La figura che ha più potere nel rilievo è più grande di dimensione ed è il re Dario che con un piede schiaccia uno dei Magi; tutti gli altri sono davanti a lui con le mani legate dietro la schiena. Dietro al re si vedono i guerrieri del suo esercito. Questa narrazione racconta secondo l’interpretazione di Dario che cosa sia avvenuto, è molto diversa da quella di Erodoto. L’iscrizione inizia con: “Parla re Dario…” e fa riferimento a Gaumata uno dei Magi, che era l’usurpatore. I Magi erano una classe sacerdotale della divinità Ahura Mazda, del vicino mondo medio orientale. Secondo alcuni Ahura Mazda era la divinità che per prima aveva introdotto una religione con tendenza al monoteismo, ancor prima del mondo ebraico. La religione è il zoroastrismo e prevede una divinità del bene ed una del male in contrapposizione. I fatti accaduti: Cambise in Egitto aveva assoldato dei sicari per far uccidere il fratello Bardiya temendo un suo tradimento. Nel frattempo però Bardiya era morto, e il sacerdote Gaumata aveva approfittato di ciò per prenderne l’identità e interpretare il ruolo del fratello di Cambise nelle capitali mesopotamiche. Cambise si accorge che qualcuno anche dopo la morte del fratello aveva preso il suo posto dicendo d’essere sul trono essendo il figlio di Ciro. Cambise non può svelare di aver inviato i sicari ad uccidere il fratello quindi inizialmente non fa nulla, alla sua morte il finto fratello sale sul trono achemenide. Il mago prende quindi il potere: tutto ciò era possibile perché il re achemenide e i suoi familiari non erano noti nel viso, il popolo non conosceva i connotati dei membri reali, solo la cerchia dei nobili poteva accertare l’identità del re. Questa situazione rimane invariata fino all’arrivo di Dario (un aristocratico della famiglia achemenide). Il trono non spettava neanche a Dario, ma lui lo prende con la forza chiedendo aiuto ad Ahura Mazda. La divinità lascia perdere i suoi sacerdoti ed appoggia la causa di Dario I. La figura alata nel bassorilievo è Ahura Mazda, che nelle varie rappresentazioni è una delle prime divinità ad assumere la dimensione alata che si ritroverà nelle figure degli angeli. L’iscrizione riporta una versione in babilonese, nella lingua parlata a Susa e in persiano. Questo racconto è testimoniato anche da altre fonti, come nel papiro di Elefantina (datato ante 420 a.C.) che parla della salita al trono di Dario ed è un papiro deteriorato e pieno di lacune che i filologi devono integrare. Il tempio di Ahura Mazda è un cubo con delle finestrelle che riporta le caratteristiche architettoniche del tempio. Le tombe reali di Persepoli sono le tombe reali in cui avvenne un primo “restauro conservativo” che fu finanziato da Alessandro per ripristinare il loro splendore e sottolineare il rapporto con la dinastia achemenide. La comprensione del regno persiano è fondamentale per capire la portata delle imprese e del regno di Alessandro. Le imprese di Alessandro furono straordinarie, ma di fatto furono acquisizioni di ciò che l’impero persiano già aveva fino all’Indo. Bisogna contenere lo sguardo occidentale che fa esaltare la figura di Alessandro Magno. Il discorso tripolitikos Erodoto, secondo libro (66-67) Ci racconta la salita al trono di Dario. Vi sono nomi propri diversi a seconda della lingua persiana o greca secondo una tradizione storiografica in corso, come avviene 17 pubblica, e possiamo immaginarlo ad Olimpia: ad un certo punto finite le gare c’è uno degli spettacoli previsti con Erodoto che legge l’episodio di Creso e Solone. Qualche studioso non è sicuro che sia così improbabile che l’incontro possa essere avvenuto: la questione delle olimpiadi non è sicuro che fossero a ritmo di quattro anni e noi abbiamo le datazioni di Solone sul sistema delle olimpiadi ideato dal IV secolo in poi. Se quella cronologia più antica fosse sbagliata e il rito può essere biennale si capisce come la storia greca possa accorciarsi. È un’idea comunque minoritaria e non si sostiene come ipotesi poiché non è stata dimostrata. Solone dopo l’Egitto sarebbe andato a Sardi ospitato da Creso nel palazzo reale, che lo fa condurre dai servitori a vedere i suoi tesori e il suo sfarzoso palazzo. Creso dice a Solone che è uno dei sapienti del mondo antico e vuole chiedergli una cosa: “Chi è tra gli uomini il più felice di tutti?” Nuovo tema introdotto da Erodoto: ha senso studiare la storia anche per interrogarsi sulla felicità. Creso si aspetta che risponda sia lui, ma Solone risponde Tello di Atene. “Tello è un uomo buono ha visto i nipoti, ha avuto una bellissima vita ed è morto in battaglia. Si può desiderare di meglio?” Creso non è contento e richiede a Solone “Chi è il secondo più felice”? Sono Cleobi e Bitone, due argivi gloriosamente morti poiché per accompagnare la madre alla festa di Era al tempio la portarono sul carro, ma furono loro a trainarlo perché i buoi erano troppo stanchi. Tutti ovviamente sono ammirati da questi figli che hanno avuto l’onore di andare a riposare dentro il tempio stesso, ma riposando sono morti. Verranno onorati con delle statue perché hanno donato le loro vite per la madre. L’uomo felice non è l’uomo più ricco del mondo; la vita felice si riconosce solo in punto di morte. Al paragrafo 1.86 Erodoto ritorna a parlare di Creso al termine della battaglia nella quale Ciro lo sconfigge, lo cattura e lo condanna a morte; lo mette incatenato su un grande rogo con altri 14 giovani della Lidia. Sulla pira immaginiamo un grande melodramma messo in scena da Erodoto; Creso sul rogo che sta per morire e inizia un grande dialogo: si ricorda una frase dei Solone “nessuno dei vivi è felice”. Lui che è stato il più ricco del mondo adesso si trova in quella tragica situazione. Pronuncia per tre volte il nome di Solone; Ciro sente dire qualcosa e chiede ai traduttori di dirgli cosa sta dicendo Creso, e da lì nasce una conversazione; Creso spiega a Ciro ciò che aveva udito da Solone (questa scena è lontana dall’essere vera). Il discorso di Solone e della felicità fa cambiare idea a Ciro che libera Creso, che ha sotto di sé un rogo che brucia. I servi vogliono spegnere le fiamme ma queste non si spengono e Creso appare condannato, ma scoppia un fortissimo temporale che spegne il rogo. Ciro comprende che Creso è un uomo di valore ed è caro agli dei. Questa parte non piace a Tucidide, che infatti litigò spesso con Erodoto perché ha un metodo molto diverso dal suo di fare storia: Erodoto cerca sempre il significato e la potenza degli eventi. Nei libri dal 5 al 9 Erodoto ci parla delle guerre persiane ed è quello più noto. È un altro modo di raccontare di Erodoto, più attento ai dettagli storici ma si coglie una profonda teatralizzazione. 20 La battaglia di Maratona Come si hanno dei dubbi sulla ricostruzione storica si deve tenere conto anche qui della teatralizzazione che è il modo di fare storia di Erodoto. L’episodio ci parla di Milziade che comanda quel giorno e attacca battaglia. I generali avevano deciso di guidare l’esercito un giorno a testa ma nessuno voleva attaccare, fino a quando non toccò a Milziade il comando. Ci descrive come si schiera l’esercito con il polemarco in testa e ci spiega delle cerimonie religiose e come è avvenuta la battaglia. Una lunga battaglia in cui si trovano le amplificazioni sui numeri dei combattenti; tutte cose che stanno dentro allo stile narrativo di Erodoto. I due aspetti di Erodoto devono essere bilanciati: comprensione dei motivi profondi del fare la guerra e la sua descrizione dettagliata degli eventi. TUCIDIDE Tucidide è massimamente significativo perché è l’autore che per riconoscimento comune e accettazione studiata dai ricercatori, non è solo il secondo storico di questa stagione che maturò ad Atene nel V secolo, ma è a sua volta il padre del metodo storico: è colui che per la prima volta, facendo storia, ha mostrato un modo di fare storia radicato su un metodo scientifico. Da Tucidide in poi, con stagioni alterne (a volte si è tornato indietro), matura la consapevolezza che fare storia è fare una disciplina fondata sul metodo. Per Tucidide la storia non è una disciplina diversa dalla medicina o dalla scienza in quanto fondata su un metodo che richiede un’ipotesi e una tesi fondata su una dimostrazione; serve che venga riconfermata con indagini successive. Narrazione storica fondata sulla ricerca, sulla possibilità di conoscere. Con Tucidide molto rapidamente (50-70 anni) è avvenuto un percorso che da Ecateo ci ha portati lontani fino alla piena consapevolezza del metodo storico. Percorrendo Ecateo, Erodoto e Tucidide in qualche modo conosciamo un itinerario culturale e intellettuale che è maturato nei primi 70 anni del V secolo a.C. che ha portato alla definizione del metodo storico. Da lì in poi è stato un riuso di quel metodo anche con significativi progressi, ma il fare storia si è definito in questo periodo con questi autori. Come si è definito e perché diventa per noi significativo: quel fare storia di Tucidide non si è definito in un trattato teorico di un metodo che deve essere seguito dallo storico che fa storia, ma viene applicato da Tucidide stesso. Ci fa vedere quel metodo raccontando la guerra del Peloponneso, ci dà qualche informazione metodologica in maniera molto rara, con qualche paragrafo metodologico molto breve. Il suo interesse non è dire agli altri come si usa il metodo, ma che quella storia che sta raccontando è maturata su un metodo. È un maestro per il nostro fare storia: fa storia (racconta la guerra del Peloponneso) raccontando e dando ragione di quel racconto; dandoci ragione del racconto, ci mostra il metodo causato per tale descrizione della guerra. Se queste ragioni metodologiche sono intimamente legate con il racconto della guerra, di nuovo non si possono scindere (successivamente verrà tradito questo suo metodo da altri storici). Se così intimamente legato, ecco allora che studiando bene Tucidide scopriamo una nuova dimensione di senso per la quale raccontare la guerra del Peloponneso, che non sarà semplicemente raccontare cosa è capitato nelle tre fasi, ma comprendere che quelle tre fasi non hanno nessun dato di verità storica, ma sono tre fasi della composizione di Tucidide. La sua narrazione e il suo modo di comprendere quella guerra hanno generato le tre fasi che studiamo noi oggi; non è che in sé si è svolta in tre fasi, né quelli che la stavano vivendo erano consapevoli di questa suddivisione. È una narrazione costruita dall’autore che per raccontarla trova 21 elementi di sintesi; il primo è la periodizzazione che riguarda il metodo, non il dato storico. Mentre lo studiamo riusciamo a recuperare significati. Un altro significato accomuna Tucidide ad Erodoto: quello di scoprire la dimensione di significato. Lui vuole raccontarci la guerra del Peloponneso perché anche lui è convinto che quella guerra lì è la più importante di tutte, l’unica che deve essere raccontata. Allo stesso modo Erodoto era convinto che le guerre persiane erano altrettanto decisive, le uniche che meritavano il racconto. Dimensione simile tra i due autori; Tucidide è intelligente e capisce che la guerra vissuta nella propria epoca sia la più importante, tanto che lo scrive. Pur riconoscendo questo dice che la guerra del Peloponneso è davvero la guerra più importante perché lì sono capitate cose che ci fanno conoscere situazioni, comportamenti, dati decisivi per l’umanità. È convinto di fare una cosa che sia indispensabile per il futuro (per fare e insegnare storia). Biografia Sappiamo relativamente poco della sua biografia. Sappiamo che è un ateniese (non è come Erodoto che lavora ad Atene), figlio di ateniesi che è vissuto presumibilmente tra un anno anteriore al 455 a.C. e un anno posteriore al 398/397 a.C. Nascita ante 455 a.C. sappiamo che nell’anno attico 424-423 a.C. Tucidide era uno dei dieci strateghi ateniesi (tratto molto significativo della sua biografia). Visto che per essere eletti strateghi bisognava avere almeno 30 anni, doveva essere nato almeno trent’anni prima del 424 a.C. Il 424 a.C. è un anno molto importante per Atene: viene presentata “I cavalieri” di Aristofane, commedia che attacca Cleone per impedire che sia eletto stratego, che il popolo eleggerà lo stesso. Insieme a lui, in quel collegio di strateghi, c’è anche Tucidide. Morte post 398 a.C. sappiamo che Tucidide vive per tutta la guerra del Peloponneso (finisce nel 404/403 a.C.), ma nella sua opera troviamo nell’ottavo libro un riferimento ad un generale spartano, di nome Lica. Mentre parla di questo generale che comandava l’esercito peloponnesiaco nella costa anatolica (zona ionica), nell’ultima fase della guerra, all’inizio aveva un buon rapporto con le città che erano alleate di Atene e che passano dalla parte di Sparta, tuttavia diventa garante dell’accordo con il re sostenuto dal satrapo Tissaferne, accordo con cui Sparta si allea con il gran Re cedendo l’indipendenza delle città ioniche. Per questo Lica verrà messo sotto accusa da quelle città e, alla sua morte, esse non vorranno accoglierne la tomba. Parallelamente si è trovata un’iscrizione in Asia Minore nelle quali si attesta che il generale Lica era ancora attivo nel 298/297 a.C., evidentemente è morto negli anni seguenti. Se Tucidide ha informazioni riguardo alla morte del generale spartano, vuol dire che lui era ancora vivo dopo il 398/397 a.C., da qui la data post quem. Data interessante, vuol dire che Tucidide non ha solo vissuto tutta la Guerra del Peloponneso, ma anche alcuni anni dopo (almeno 5-7 anni dopo). Teoricamente avrebbe avuto tutto il tempo per scrivere tutta la guerra, ma non lo ha fatto. Questo ci apre un interrogativo: perché non ha finito l’opera se era ancora vivo? Della sua vita sappiamo che è stato stratego ateniese nel 424/423 e si è occupato delle operazioni militari a nord dell’Egeo e dell’Attica nella penisola calcidica, costa in cui Atene aveva grossi interessi: aveva città che controllava, come Anfipoli; aveva altre città controllate soprattutto gestite per le miniere d’argento. Territorio con grande risorse minerali (argento, metallo che serve per battere monete e per portare ricchezza), Atene aveva anche miniere interne nell’Attica, ma ne controllava anche 22 Inizia a raccontare qual è questo passato che non si può conoscere con attendibilità. Fa quella che noi chiamiamo essere l“archaiologhia tucididea”: lui stesso usa questo termine, da cui deriva la nostra parola archeologia. Questo termine, etimologicamente e nel discorso di Tucidide, vuol dire il discorso sulle cose del passato, che vuole raccontare prima di parlare della guerra. Vuole farci vedere che le cose successe prima possono essere raccontate in pochissime parole: racconta la storia arcaica della Grecia in poche righe, facendo una rapidissima sintesi di ciò che è avvenuto prima; inizia da Sparta, dicendo che è stata fondata dai Dori, e presto arriva a fare pochi cenni delle guerre persiane che sviluppa in modo molto sintetico, e questo per lui basta. Poi parla dell’egemonia dei Lacedemoni, che non fanno pagare il tributo a differenza degli Ateniesi che fanno pagare il tributo agli alleati e qui c’è il tema rilevante per la comprensione della guerra: questo tema sarà fondamentale nello svolgimento della conclusione della guerra perché sarà proprio il tributo, il non volerlo più pagare, a far passare gli alleati di Atene sotto Sparta. E così arriva alla guerra del Peloponneso. Aveva iniziato questi paragrafi sulla storia arcaica della Grecia parlando di Minosse, del mitico re di Creta e della civiltà minoica. Minosse era il primo re della talassocrazia, punto di inizio della storia greca che lui connette con il fatto che adesso la potenza talassocratica è Atene. Il condizionamento di Tucidide su di noi è forte: ci poniamo in continuità con la soluzione culturale elaborata da Tucidide perché quando si parla della Grecia iniziamo da Minosse, che in realtà nulla ha a che fare con la storia greca, perché da lì è iniziato Tucidide. Dal capitolo 2 al capitolo 19 racconta la storia della Grecia prima della grande guerra (Archaiologhia) Archaiologhia = capitoli dal 2 al 18-19 dove ripercorre la storia greca prima della guerra del Peloponneso (da Minosse alle guerre persiane) Capitoli dal 20 in poi: indicazioni di metodo “Tali dunque si sono presentati alle mie ricerche gli antichi avvenimenti, ma sono tali da render difficile il prestar fede a un qualunque indizio su di loro, così come viene. Giacché gli uomini accettano ugualmente senza sottoporle a prova le tradizioni orali degli avvenimenti precedenti, anche se esse riguardano avvenimenti del loro paese.” Riprende quanto ci ha detto a fine capitolo: ha fatto questa sintesi storica che in fondo non possiamo ricostruire con certezza perché non ci sono abbastanza fonti né informazioni dato che gli uomini hanno usato la tradizione orale per i precedenti avvenimenti: anche quando i fatti storici riguardano il loro luogo gli uomini non hanno una conoscenza diretta degli avvenimenti, basata sui documenti e sulle fonti, ma si basano su ciò che si racconta, sanno quello che si è sempre detto attraverso la tradizione orale. Poi fa degli esempi: “La maggioranza degli Ateniesi, ad esempio, crede che Ipparco sia stato ucciso da Armodio e da Aristogitone quando [Ipparco] era tiranno, e non sa che chi comandava era Ippia, perché il più anziano tra i figli di Pisistrato, mentre Ipparco e Tessalo erano suoi fratelli. Ma Armodio e Aristogitone, sospettando che quel giorno, e subito prima dell’entrata in azione, fosse stata fatta una delazione a Ippia da parte dei congiurati, lo risparmiarono pensando fosse al corrente di tutto. Volendo osare e compiere qualcosa di notevole prima di essere arrestati, imbattutisi in Ipparco prima del cosiddetto Lecorio mentre preparava la processione delle Panatenee, lo uccisero” Il bersaglio è sempre Erodoto, il quale racconta di Armodio e di Aristogitone nei suoi excursus, della loro qualità di eroi come tirannicidi, tanto che ad Atene c’erano le loro 25 statue come tirannicidi (oggi copie romane). Queste affermazioni di Tucidide sono una novità anche per noi: abbiamo sempre studiato nei manuali che Armodio e Aristogitone hanno ucciso il tiranno e sono diventati eroi della rivolta ateniese contro i tiranni. Sappiamo anche che Ippia rimane al potere e che rimarrà tiranno per alcuni anni: sarà poi la rivolta successiva, promossa dagli esuli ateniesi che organizzeranno un esercito, a cacciare Ippia, fatto che si realizzerà quando interverrà Sparta. Ma Armodio e Aristogitone sono celebrati ad Atene come tirannicidi. Tucidide entra a gamba tesa nella questione del metodo: tutti pensando che Ipparco sia stato ucciso da Armodio e Aristogitone, che essi sono gli eroi che hanno portato alla democrazia ateniese, contro il tiranno, ma non è così: non hanno ammazzato Ippia, forse volevano ma non lo hanno fatto perché temevano di essere stati scoperti durante la processione delle Panatenee, durante la quale Ipparco era all’inizio della processione, Ippia alla fine e solo il primo viene ammazzato. Tucidide tornerà su questo tema: mentre sta parlando dell’avvio della spedizione in Sicilia apre un excursus dove spiega i dettagli della vicenda, ovvero che l’uccisione di Ipparco è avvenuta per motivi amorosi e nulla c’entra con la tirannide. Armodio e Aristogitone infatti avevano una relazione amorosa in cui Ipparco voleva a tutti i costi inserirsi. Quindi interviene direttamente contro Erodoto e contro il sentire del popolo ateniese che onorava questi due tirannicidi. Lo fa apposta, per farci vedere come la tradizione orale deforma gli eventi e ci fa percepire come eroi due personaggi che in realtà non lo sono. Poi fa altri esempi e diventa sempre più minuzioso (la storia di Tucidide è minuziosa): “Su molti altri fatti di ora e non svaniti col tempo anche gli altri Greci hanno opinioni non esatte, come, ad esempio, che i re dei Lacedemoni hanno ciascuno a propria disposizione nelle assemblee due voti invece di uno, e che presso di loro vi è la schiera di Pitane, la quale non è mai esistita”. Sembra quasi arrabbiato, sembra andare a cercare le minuzie per bersagliare Erodoto, proponendo ancora due esempi presenti nella sua opera. Però ora trova dettagli non importanti per la ricostruzione storica (se Erodoto avesse sbagliato solo questo non sarebbe così a danno della sua opera). Qui Tucidide fa riferimento a due errori riportati da Erodoto: 1. Ogni re dei Lacedemoni avrebbe due voti a disposizione e non solo uno quando si vota in assemblea: non è vero 2. Nell’esercito c’è una schiera di nome Pitane che non è mai esistita. Sicuramente Tucidide ha ragione, Erodoto ha fatto degli errori, ma sono molto piccoli: Tucidide è lettore critico. C’è anche una parte della tradizione biografica dei due che ci dice che il giovane Tucidide avrebbe studiato con Erodoto, erano addirittura erano amici: si erano conosciuti al circolo di Pericle mentre Tucidide appena ventenne si stava formando (anni ‘50 e ‘40). Questo testo però prende le distanze da Erodoto, soprattutto sul metodo di questo storico: a Tucidide danno fastidio gli errori che poggiano sul sentito dire e non sulle fonti, e in Erodoto c’è molto sentito dire. Erodoto infatti nella sua dichiarazione di metodo dice che vuole tramandarci tutto ciò che ha sentito e visto, non gli interessa il metodo, capire se i fatti che tramanda sono veri o no: inizia a trasmetterli, rimandando la loro verifica a un momento successivo. Tucidide trasmette invece solo ciò che ha indagato e che può dimostrare, affermando di essere uno scienziato e di avere le prove di ciò che sta dicendo. 26 “Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità, e a tal punto i più si volgono di preferenza verso ciò che è a portata di mano” Qui dà la sua prima definizione di ricerca storica. Afferma inoltre che più cercano la verità senza voglia di far fatica, non ne hanno voglia, rifendo ciò che hanno a portata di mano senza lavorarci sopra. Il metodo storico è anche fatica. Ricordiamoci che quando leggiamo uno storico dobbiamo tutelarci dalla retorica, dai mezzi della retorica che sta usando: Tucidide vuole convincerci che scrive in maniera assolutamente affidabile, che ha studiato, che ha fatto faticose ricerche, perché le ricerche più sono faticose e più dimostrano che lui ha lavorato e che quindi ha raggiunto una narrazione verificata. In questo passo ci dà la sua prima definizione di storia: la storia è ricerca e quindi fatica “Tuttavia chi, basandosi sulle testimonianze che ho dato, intende in tale modi gli avvenimenti da me esposti e non presta maggior fede alle celebrazioni che i poeti hanno fatto di quegli stessi avvenimenti , abbellendoli, o alle narrazioni dei logografi, aventi come scopo più il diletto dell’udito che la verità, avvenimenti non provabili e per la maggior parte , per effetto del tempo trascorso, passati a far parte del mito in modo da non meritare attendibilità; chi infine crede che tali avvenimenti sono stati investigati sulla base degli indizi più sicuri, in modo sufficiente, data la loro antichità – costui non dovrebbe sbagliare” Ci sono due categorie di persone: quelli che non presteranno fede a quegli altri (poeti, logografi), quelli che raccontano “accarezzando l’udito” (logografo = scrittore di discorso, di narrazione, di prosa), tra cui Erodoto, il quale scriveva per essere ascoltato e non per essere letto (Erodoto è uno di questi logografi). Lo stesso fanno i poeti, che non si preoccupano di ciò che è vero, non si preoccupano di raccontare avvenimenti non provabili (e quindi non attendibili) perché il loro obiettivo è accarezzare le orecchie (diletto dell’udito) azione che conseguono con abbellimenti, excursus. Ci sarà chi leggendo la sua opera non ascolterà più questi. E poi ci sono gli altri, che penseranno che l’investigazione che fa Erodoto è basata su indizi sicuri. La ricerca che lui fa, ribadisce, si basa su indizi sicuri, quella degli altri no. Indica così una via per i lettori per reagire davanti alle narrazioni storiche: ci sono quelle che si possono verificare e quelle che non si possono verificare. “E questa guerra, sebbene gli uomini considerino più importante sempre quella guerra presente a cu partecipano, mentre, una volta finita, ammirano soprattutto gli avvenimenti passati, a giudicare sulla base dei fatti stessi si vedrà che è stata maggiore di quelle del passato” Ognuno quando vive una guerra pensa che essa sia la più importante; poi tempo di in pace si cerca una grande guerra del passato come punto di riferimento. Tucidide assicura che questa verrà considerata una grande guerra, la più importante di tutte, anche il tempo di pace. Successivamente dà altre importanti indicazioni di metodo: “E quanto ai discorsi che tennero gli uni e gli altri sia in procinto di fare la guerra che durante, tenere a mente le parole precise di quei discorsi era difficile tanto per me, nel caso in cui le avessi udite personalmente, quanto per quelli che me le riferivano da qualche altro posto; ma, a seconda di quanto ciascuno a mio parere avrebbe potuto dire nel modo più adatto nelle diverse situazioni successive, così si parlerà nella mia opera, che io mi riterrò il più possibile vicino al pensiero generale dei discorsi effettivamente pronunciati” 27 ricordarsi di essere protagonista ma anche di subire il pianeta, di non poter controllare tutto. Quel mondo agisce sulla storia degli uomini e quindi è un pezzo della storia. Grandi assenti: gli dei. Non intervengono nella storia di Tucidide. I fatti naturali avvengono e basta, condizionando la vita degli uomini: gli dei non hanno ruolo, non creano gli eventi naturali. Tucidide che vuole conoscere le paure, le sensazioni degli uomini, per lui è interessante studiare questa guerra perché durante questa guerra avvengono tante cose che si sommano, tutte le esemplarità che l’umanità poteva mettere a disposizione per rappresentare se stessa. Ecco che studiando quella guerra, apprendiamo tutto sugli uomini, sulla loro convivenza, sulle epidemie, terremoti, siccità, eventi naturali che realmente o nella credenza popolare per quanto riguarda l’eclissi, hanno condizionato la vita di quegli uomini e donne. Questi aspetti, insieme all’aspetto storiografico, sono alcuni dei motivi più salienti che definiscono questa guerra così importante. È la più importante di tutte perché è raccontabile grazie alle fonti, e questo è il motivo in assoluto che dà importanza a questa guerra. È comunque cosciente che ci sono anche tante altre guerre importanti (come quelle persiane) ma dice sono interessanti dal punto di vista dello studio della guerra, ma sono meno interessanti di questa perché in questa avviene ben di più di ciò che normalmente avviene in una guerra. A noi interessa perché ci interessa sapere perché Tucidide ce l’ha raccontata e perché noi continuiamo a farlo. Probabilmente non tutti i Greci individuerebbero quella guerra come quella più importante, ma per Tucidide lo è e noi dobbiamo capire il perché. Dal paragrafo 4 inizia a raccontare i fatti precedenti: non l’archaiologhia, i fatti antichi che lui ha già narrato, ma quelli degli anni immediatamente precedenti, gli anni che noi chiamiamo Pentecontetia, cioè il periodo antecedente dove maturano le cause della guerra del Peloponneso. La spiegazione delle tre cause, Megara, Corcira e Epidamno, le prendiamo proprio dalla spiegazione di Tucidide e le spieghiamo come se fossero vere in sé, ma non sono vere in sé: è Tucidide che ritiene che quelle sono le cause della guerra del Peloponneso, è tutta costruzione storiografica Tucididea, e ne dobbiamo essere coscienti. Al paragrafo 6 dice c’è un motivo più vero, che non è quello che i politici dicono anche a guerra terminata: il crescere della potenza ateniese e il suo incutere timore ai Lacedemoni. I discorsi di Pericle Il libro primo racconta i fatti antecedenti, e quindi le cause della guerra del Peloponneso, fino a quando si arriva a spiegare l’inizio della guerra, il perché si arrivò alla guerra. E qui vediamo il primo dei tre discorsi di Pericle che caratterizzano questa prima parte dell’opera di Tucidide. Immaginiamo Pericle, che è stratego di Atene e ha fatto tantissimi discorsi, privati, pubblici, in agorà etc. Ma Tucidide ne riporta tre che sono emblematici. Bisogna ricordarsi del principio di verosimiglianza. Questi discorsi ci descrivono Pericle secondo Tucidide e anche l’evoluzione della politica di Pericle negli ultimi anni della sua vita, perché lui muore durante la peste di Atene. I suoi ultimi anni si caratterizzano da grandi difficoltà (prendere le decisioni sulla guerra, la guerra che si rivela molto 30 difficile,…) e questo cambia l’atteggiamento nella comunicazione di Pericle nel comunicare ai suoi cittadini. Questi tre discorsi sono i pilastri per comprendere questo. Il primo è il gran discorso: Pericle deve motivare i suoi concittadini spiegando perché è opportuno iniziare e combattere questa guerra. Epitafio Il secondo libro è animato al proprio interno da due altri grandi discorsi di Pericle: il primo dei due è l’epitafio. Questo discorso è famosissimo e si chiama epitafio perché fu pronunciato da Pericle per i caduti del primo anno della guerra del Peloponneso (431-430). Si conclude il primo anno di guerra, e come per ogni anno, Atene fa un grande celebrazione collettiva democratica per celebrare i morti in guerra di quell’anno. Era un momento sentito dai cittadini di Atene, anche perché in quel momento tutti i cittadini avevano pari dignità. Di fronte alla morte in guerra si era tutti uguali, indipendentemente dal ceto sociale. Questa uguaglianza avveniva solo per i morti in guerra. Il secondo discorso di Pericle (è il secondo di tre, anche se spesso viene ricordato come l’unico) cioè l’epitafio è un grande inno alla democrazia. Tra il secondo ed il terzo discorso c’è il racconto della peste. Tucidide ci mostra cosa vuol dire quando entra nella guerra un evento come quello della peste. Questo evento fa cambiare i contenuti dei discorsi di Pericle, discorsi verosimili che indicano l’evoluzione politica di Pericle, che Tucidide sintetizza nel secondo discorso; lo fa anche nel terzo discorso, che non è da meno per quanto riguarda la potenza narrativa, ma è più celebre il secondo. Siamo in inverno. Tucidide ci spiega come avviene la cerimonia, è per noi molto importante come fonte. Notiamo come Tucidide porta in scena Pericle, figlio di Santippo: lo qualifica come avrebbe qualificato qualsiasi altro ateniese, nonostante da 20 anni sia il più importante politico ateniese e leader indiscusso della città. Bastava dire Pericle, perché tutti lo conoscono, ma lui mette anche il patronimico come avrebbe fatto con qualsiasi altra persona. Nel discorso di Pericle si nota un politico sapiente e noi dobbiamo smascherarlo in queste parole che gli fa dire Tucidide: non è critico con lui, è uno storico che separa la successiva degenerazione di Atene (l’Atene dei demagoghi) dall’Atene di successo che è quella di Pericle; vediamo Pericle smascherato. In questo contesto, Pericle è il leader politico che fa questa straordinaria cerimonia pubblica. Adesso lui dice che non c’è bisogno delle sue parole ma basta il valore delle persone e questa cerimonia che è stata organizzata a spese pubbliche, cioè per volontà del politico. Dice “non sarebbe necessario che io parlassi” ma allo stesso tempo espone una centralità più nascosta, dicendo “sono io il politico che ha voluto questa cerimonia”. È retoricamente bravo Pericle; lo vediamo quando dice ”io adesso parlo, ma c’è il rischio che queste mie parole non siano adeguate e che quindi la fama di questi eroi sia danneggiata dal fatto che io non riesca a parlare bene”: in realtà non è sicuramente così perché si sarà preparato per giorni e giorni, avrà chiesto l’aiuto dei migliori di Atene, infatti c’è anche un piccolo riferimento a Platone e in altre fonti alla donna che vive con Pericle, Aspasia che ha collaborato a scrivere i discorsi di Pericle. Spiega che sta facendo una cosa difficile e che cercherà di soddisfare il più possibile l’opinione di ciascuna persona che lo ascolterà; aggiunge che inizierà parlando dei loro antenati: questo lo aveva già fatto nel primo discorso, dicendo che quella guerra 31 andava combattuta perché bisognava difendere le conquiste fatte dagli antenati e che il valore mostrato da quegli antenati era il valore del popolo ateniese che non poteva che portare alla vittoria in guerra. Quindi riparte da ciò che aveva già iniziato nel primo discorso. L’epitafio che doveva essere tutto incentrato a lodare i combattenti della guerra, non sarà in realtà così, non sarà solo incentrato a lodare i combattenti della guerra. Serve quindi a qualcos’altro, serve a parlare dei principi che hanno portato a quella potenza. Pericle vuole spiegare come mai sono arrivati ad avere un impero da difendere e tutelare: soprattutto perché hanno quel governo e il legame fra quel governo ed il legame con la potenza che stanno esercitando, è unico ed originale, e siamo noi stessi un modello per gli altri. Per Pericle la democrazia non è il governo di tutti, ma è il governo di una maggioranza contro i pochi. Grande elogio della democrazia, nella reciprocità del rapporto fra le persone. Rapporto tra polis e la legge, a questo fa riferimento qua Pericle. Pericle aveva fatto un grande progetto di edilizia pubblica creando quelle che noi chiameremmo oggi le case popolari, case per il popolo. Qui fa riferimento a queste belle case; anche se non dice che le ha date lui il popolo sa che le ha date lui. Dice che non c’è bisogno della campagna, le campagne sono state devastate, Pericle dice che per loro non è una perdita l’assenza delle campagne. Il discorso prosegue e parla del rapporto con gli stranieri, verso i quali Atene non pratica l’espulsione, ma soprattutto quando sono ricchi e commercianti, è ben lieta di accoglierli ad Atene. La pratica dell’espulsione degli stranieri era una pratica di Sparta: la “xenofobia spartana” particolarmente accesa. C’era proprio una legge che prevedeva che uno straniero che venisse colto sul territorio lacedemone dovesse essere bastonato per i cittadini o comunque dagli abitanti della regione. Poi parla dell’educazione, di un sistema straordinario, nel quale si vive liberi però allo stesso tempo si è educati ad affrontare i pericoli. Il fatto di vivere liberi anche guardando alla bellezza non pregiudica il fatto di essere bravi in guerra e di questo poggia la loro convinzione di poter vincere in guerra. Per questo la città deve essere ammirata. Atene, secondo Pericle, realizzerebbe l’ascensore sociale: la possibilità di cambiare la propria condizione sociale rispetto a quella di nascita. Pericle enuncia dalla rotazione delle cariche, alla libertà di espressione alla libertà di bellezza. Molto ci colpisce di questa straordinaria intuizione periclea, dice tante cose che noi vorremmo dire e che noi pensiamo della democrazia, anche come questa generi benevolenza e generosità negli animi. Sembrerebbe che tutto sia risolto, per questo Atene è una grande scuola dell’Ellade. Un grande elogio, ci sono degli assenti naturalmente: ha fatto riferimento alla vicinanza agli stranieri, non fa però riferimento agli schiavi, alle donne di Atene (tradizione maschilista che caratterizza l’esperienza democratica ateniese). I temi della felicità e della salvezza si ritrovano più volte all’interno del testo, due parole cardini per la città greca. Dietro alla parola felicità c’è un termine greco che si chiama “eudaimonia”, che è il fine, la polis ha come obiettivo la felicità dei propri cittadini, dove felicità non vuol soltanto dire la felicità psicologica e cioè lo star bene con se stessi e con gli altri, ma indica anche proprio il benessere economico. Legame inscindibile tra il benessere economico e la felicità come la intendiamo noi. Benessere e felicità insieme, potremmo tradurlo in questo modo. E poi salvezza: una polis deve essere sempre attenta a salvarsi, fin dall’epoca arcaica abbiamo componimenti poetici che esprimono la polis come una nave che può essere in mezzo alla burrasca e deve 32 tirarci un pugno nello stomaco in questo caso. Descrive i sintomi nel dettaglio, quelli che potete vedere, con queste ustioni, sintomi per cui i medici lavorano ancora oggi per cercare di capire che tipo di epidemia fosse. Descrizione lunga, dettagliata e cruda. In quel periodo nessuna delle solite malattie li infliggeva contemporaneamente a questa; e se c’era, finiva in questa Questa è una sbavatura, è una frase quasi identica a quella che abbiamo letto sopra, potrebbe essere Tucidide che non ha ancora rivisto bene la sua opera perché per due volte c’è una frase molto simile. La sua opera è incompleta quindi non riesce a revisionarla completamente. Tucidide individua un altro pericolo. Come reagisce l’animo umano di fronte a questa situazione? Aiuta a migliorare o a peggiorare? Se la peggiora ecco che gli altri uomini ci faranno attenzione. Non c’era un sistema sanitario ad Atene, chi si ammalava veniva abbandonato e gli altri avevano paura. Tucidide nell’analisi è attento a farci vedere le contraddizioni che emergono da una situazione cosi drammatica: sono le persone generose che, andando ad aiutare gli altri, rischiano di ammalarsi e perirne. In un controsenso in cui l’egoismo viene premiato rispetto alla bontà. Tucidide non fa praticamente mai discorsi etici, non vuol dire che hanno torto gli uni e ragione gli altri, ma vuole far vedere il mondo alla rovescia. Questo crea sgomento: il mondo dovrebbe andare in un modo invece va nell’altro. Tucidide aveva capito che c’erano quelli che si erano immunizzati dalla pestilenza: si erano ammalati ed erano guariti. Ecco allora che tra queste persone ci sono quelli che si mettono ad aiutare gli altri e lo fanno con tranquillità. Per queste persone dovrebbe essere un dovere. Di nuovo l’animo umano: le persone che si sono immunizzate ne hanno una tal gioia che si sentono come immortali, come se nessun’altra malattia li avrebbe più potuti uccidere essendo sopravvissuti a questa. Pericle ha fatto un disastro, ha fatto inurbare la popolazione abbandonando le campagne non tenendo conto dell’imponderabile: la peste. Non poteva saperlo e non ne ha tenuto conto, quindi tutte queste persone accumulate provvisoriamente nella città sono le vittime predestinate di questa strage. Questa narrazione Tucididea, nella sua potenza letteraria, è il punto di partenza del luogo letterario della peste. È nelle orecchie di Manzoni quando scrive le celebri pagine sulla peste. Nasce da qua la grande narrazione su questo tema. La gente andava anche nei templi. Il tempio non salva, è luogo di morte. Un altro gradino: saltano dei valori che prima univano la popolazione, dei valori fondanti; le cose sacre e le cose profane, tutto salta e non ci sono più punti di riferimento. Il razionalista Tucidide non è contento, non vuole dire che è così e cioè che è stata una dimostrazione che il tempio non funziona, questo a Tucidide non importa niente. Lui constata che il tempio non funziona e che dentro al tempio ci si ammala ma lui sa bene che quel rapporto con il sacro è fondante per la polis e per la società e che se lo si perde saltano troppe cose importanti per quella società. Era importante della cerimonia funebre. Sono passati due mesi e tutto è saltato, è cambiato il mondo, non c’è più quella solennità della celebrazione come era vissuta prima. Tucidide ha una visione essenzialmente pessimista. È un uomo della Grecia antica che non riesce a vedere tratti di speranza, anzi sente una funzione di mettere in guardia gli uomini che devono fare attenzione perché, secondo Tucidide, gli uomini nei 35 momenti di difficoltà spesso danno il peggio di sé. Vede un andamento che, quando la situazione peggiora, diventa negativo. Dice “fate attenzione” perché, essendo in una situazione che già peggiora, la fate peggiorare ancora di più, e allora lì si che c’è un intervento umano che la fa diventare più difficile. Da qui il suo monito. Ci sono delle cose in cui c’è responsabilità degli uomini: non hanno capito l’origine della malattia, non hanno capito che arrivava dalle navi, dal mare e avevano detto che era colpa dei Peloponnesiaci che avevano avvelenato i pozzi, si sono sbagliati, si sono accumulati ancora di più dentro la città e hanno diffuso la malattia, non hanno capito niente. Gli Ateniesi non si sono accorti che quello che stava capitando stava distruggendo la loro società. Prima ha parlato della generosità, del vedere o non vedere la persona malata, è una norma di cautela non vederla però mette in contraddizione lancinante con l’istinto di generosità e rende complicata la scelta. Prima ha parlato della generosità, di quelli che aiutavano, dei medici, lo sa Tucidide sa che ci sono aspetti positivi, ma poi c’è un altro pezzo di umanità che va dall’altra parte e adesso ci vuole parlare di quello. Prima ci ha parlato di quello che funziona e ma adesso ci parla anche dell’altro. Ci dice di fare attenzione perché ci sono tutti e due nel momento di difficoltà e non si può far finta che questo secondo non esista. Ad esempio si può andare a rubare: una casa ricca rimane vuota perché muoiono i suoi componenti e si può andare a rubare quello che c’è dentro. Quelli che sono ricchi pensano di poter perdere le ricchezze acquisite e le voglio consumare rapidamente, vogliono godersele perché pensano che siano effimere. Questo accorciamento dell’orizzonte fa sì che nessuno voglia essere onesto. Tucidide è molto attento al lessico e ci vuole parlare di una situazione nella quale le parole cambiano di significato. Prima l’essere onesto e l’essere utile voleva dire un’altra cosa, non voleva dire seguire sempre il proprio piacere, ma ora vuol dire questo: la cosa più utile da fare è seguire il proprio piacere. Le parole hanno cambiato di significato. Tucidide ci dice una cosa che non conosciamo bene della religione antica ma ci dà l’idea del dopo la morte, della ricompensa, della pena e del rapporto con il divino. L’altro elemento è pensare che la punizione è già in corso, questo è l’altro errore, non aver capito niente. Che la punizione sta già avvenendo e che quindi bisogna semplicemente cercare di trarre piacere là dove possibile, che prima che si abbattesse fosse ragionevole cercare di godersi un po’ la vita. Gli anziani, vivendo questa peste, si ricordano che un tempo si recitava un verso: prima o poi sarebbe arrivata una guerra dorica (Sparta era una città dorica) e che insieme sarebbe arrivata la peste. Ma questo verso la gente se lo ricorda in maniera diversa. Ci fu una disputa perché alcuni pensavano che la parola detta nel verso dagli antichi non fosse peste ma carestia, nella situazione attuale prevalse l’opinione che fosse stato detto peste: la peste condiziona la rilettura di quella memoria antica. Qua Tucidide sdrammatizza e dice: vedete come funziona la memoria, un giorno ci sarà una carestia o una guerra contro i Dori e allora il verso cambierà. Così si conclude per Tucidide questa sezione e poi riprende a raccontarci i fatti della guerra, ma ce li racconta soltanto per brevi capitoli. Parla delle invasioni dei peloponnesiaci e poi presto arriva al terzo discorso di Pericle, dal capitolo 60. Terzo discorso di Pericle Al primo discorso Pericle era il leader potente che poteva convincere il proprio popolo sulle necessità della guerra. Nel secondo discorso Pericle era il leader potente che, di fronte ad alcune battaglie non andate bene e di fronte a un certo numero di morti in guerra, poteva ancora dire al suo popolo “questo è il luogo più bello del mondo, questo è il luogo della bellezza, della democrazia, dobbiamo combattere per difenderlo 36 e per tutelare l’impero che gli antenati ci hanno dato”. Il terzo discorso è di un Pericle in una situazione totalmente diversa: la guerra va sempre peggio, le devastazioni in Attica proseguono, Atene è afflitta dalla peste, in quella peste moriranno i suoi figli e morirà lui stesso. Il popolo è scoraggiato e vuole farlo dimettere. Pericle si dimette ma poi il popolo lo rielegge nelle elezioni successive. È un momento difficile per Pericle politico, che affronta in un modo del tutto diverso il popolo; lo affronta a muso duro nel terzo discorso, dice: non avete capito niente e visto che non avete capito allora vi dico io che cosa succede, qual è la faccenda. È sferzante, deciso nell’affrontare il proprio popolo. Arriva a parlare di un tema che è legatissimo a uno dei principali motivi per cui decide scrive la sua opera, una delle principali riflessioni che vuole metterci in evidenza. Pericle sferzante dice: c’è una cosa che non vi ho detto e visto che io non ve l’ho detta voi non la sapete. Qui non è più il leader in “diminutio” che si fa piccolo di fronte al popolo della democrazia; adesso dice: sono io che vi devo spiegare le cose altrimenti voi non le capite. Io speravo che le capiste da soli ma evidentemente non è così visto che mi contestate. Dice: vi ricordate quelle belle case, quella democrazia, la bellezza la festa, l’eudaimonia, tutte quelle belle cose di cui vi ho parlato in democrazia? Tutto questo dipende da un’unica cosa: l’impero. È crudo Tucidide, ed è crudo anche con noi. Noi non possiamo dimenticarci che emerge una dimensione essenziale per la quale ancora oggi ha senso raccontare della guerra del Peloponneso. Lui spiega chiaramente che questa guerra va combattuta e va vinta perché se non si combatte e non si vince questa guerra si perde l’impero, e se si perde l’impero non c’è più niente, compresa la democrazia. La democrazia di Atene del V secolo è strettamente, intimamente legata alla guerra. Non può esistere senza quell’impero e la guerra ora è indispensabile per difendere quell’impero. Spiega Pericle: quelle case che avete, quel benessere diffuso di cui godete arriva dal tributo alleati, arriva dai dazi doganali che pagano quelli che devono commerciare al Pireo, insomma arriva dall’esterno e dipende dall’impero. Senza l’impero non c’è. Qua Tucidide, per bocca di Pericle, fa un collegamento che ancora per noi oggi è molto importante: esiste tra quell’impero e quella democrazia un legame diretto ma un legame di incredibile contraddizione. Ora lo enuncio e poi domani lo riprendiamo: qual è questa contraddizione? Emerge in una parola che usa Pericle in questo discorso: la democrazia, verso l’esterno, è come una tirannide. Ma come, la democrazia dovrebbe essere il contrario di una tirannide, non è una tirannide. Lui dice che la democrazia è democratica all’interno, ma per esistere è tirannica verso l’esterno, verso gli altri. Usa all’interno della comunità dei cittadini dei criteri di uguaglianza, ma quegli stessi valori non li usa all’esterno e, non usandoli, crea una sudditanza, un impero, una tirannide con le quali alimenta di risorse la democrazia. Questa è la contraddizione. Dice: volete essere democratici anche verso l’esterno? Scordatevi l’eudaimonia, scordatevi il benessere. Che cosa volete fare? Sopportiamo o non sopportiamo che le case vengano distrutte dalla guerra? Dobbiamo farla o no questa guerra? Tucidide inserisce la narrazione della peste tra il secondo e il terzo discorso di Pericle. La inserisce seguendo la sequenza dei fatti e non a caso; ovviamente così è stata secondo lui la sequenza dei fatti da ricostruire, ma evidentemente tutti e tre i momenti non sono la narrazione di tutto ciò che è avvenuto in quel momento ma sono la selezione dell’oggetto storico, del fatto più importante che Tucidide ritiene di narrare di quel momento. Così rilevanti sono quei discorsi come è rilevante il momento della peste e quindi lui, da tutto quello che poteva raccontare da quel periodo di guerra, estrapola questi tre momenti: il primo discorso di Pericle che va in difficoltà dal punto di vista politico a causa delle difficoltà in guerra e della peste stessa, la peste ed 37 politica risolve i conflitti senza violenza, in tempo di crisi una parte politica può pensare di prevalere sull’altra andando ad appoggiarsi sull’esterno e quindi schierandosi nella guerra per procurarsi vantaggi politici. Usando la violenza si sposta l politica verso la legge del più forte, facendo così non sposta soltanto se stessa (i partiti) ma sposta tutte le persone. Tucidide vuole raccontarci la storia così com’è, non perché essa si ripeta uguale, ma perché la stessa è la natura umana. Ci dice che è facile essere dei bravi cittadini quando si è in pace e c’è il benessere, ma nella guerra che toglie il benessere e trasforma la vita degli uomini è una maestra violenta e adatta alla situazione del momento i sentimenti della folla. La guerra ha mutato tutto, non è nata internamente alla città, ma quando Corcira interviene nella guerra con la violenza, anche le parti interne la usano per prevalere l’una sull’altra, e così la violenza arriva ai cittadini. L’espressione “maestra violenta”, in greco il maestro si dice διδάσκαλος Tucidide ci aggiunge un aggettivo βιαιος , che vuol dire violenza. Non vuol dire che la guerra è violenta perché è una guerra e quindi lo è per definizione, ma che la guerra è come quel maestro che insegna con la violenza, che la utilizza. Non predica la violenza ma è un maestro che usa la violenza per insegnare. Chi pratica la guerra pratica necessariamente la violenza e tutti quelli che vi nascono e crescono introno si sviluppano con quella prospettiva e diventano anch’essi violenti. Così lui spiega perché guerra civile, e la maestra violenta che ha innestato la trasformazione delle società. Basterebbe questo a dare un senso al racconto della guerra del Peloponneso, se non esploriamo questo senso non capiamo perché Tucidide ce la racconta. Questa è la prima delle guerre civile e quelli che sono venuti dopo nonostante l’abbiano conosciuta hanno fatto di peggio. Si vede il pessimismo, lui racconta per evitare che queste cose accadano di nuovo, ma gli uomini sembrano non capire nulla. Le parole cambiano il loro significato, non sono più usate come erano usate prima. Una persona audace in maniera folle che prima è considerata folle invece ora viene considerata la più fedele per i congiurati del colpo di stato. Se uno è cauto e non vuole usare la violenza è un vile. Essere moderato diventa un difetto. L’uomo deve essere audace e forte. Questi concetti li ritroviamo poi in alcuni filosofi. Le conventicole sono gruppi di persone radunati da motivi politici. Contrapposizione tra leggi umane e divine, tutto però viene schiacciato e violato, nessuna legge viene più considerata e le persone si riuniscono in nome di questa violazione. Anche i giuramenti stessi rimangono vigenti solo se c’è un tornaconto, se no non lo sono. Questo è il quadro davvero sconfortante che dà Tucidide della guerra civile. “Si inasprirono le rappresaglie” per un uomo greco questa frase era molto significativa perché tutta la civiltà greca fino ad allora si era impegnata per arrivare ad una condizione di diritto, che negava il diritto alla rappresaglia, alla faida, a farsi giustizia da soli. La rappresaglia è il diritto che pensa di avere una persona che ha subito un torto di andarsi a riprendere qualcosa o a fare del male alla persona che gli ha fatto torto. Su questo la polis greca aveva molto lavorato. C’è un passo molto, quello delle Supplici di Eschilo, una tragedia, che contiene dei versi significatici per l’elogio della forma democratica. Siamo negli anni ‘40 del V secolo, prima dello scoppio della guerra. È un racconto che trae spunto dalla mitologia per esporre un fatto molto provocatorio verso quei maschi ateniesi che sedevano a teatro. Le Supplici di Eschilo parlano del mito delle Danaidi, le figlie di Danao, che scappano dai figli del re Egitto, e si rivolgono alla città di Argo per chiedere protezione, loro che sono straniere e donne. 40 Quindi doppia provocazione per i cittadini maschi della polis. Il re di Argo si preoccuperà di portare la richiesta davanti all’assemblea democratica, la quale vota e decide di proteggere queste donne. I versi in cui il padre delle Danaidi racconta alle Danaidi come si è svolta questa assemblea e racconta l’emozione di quell’esercizio democratico. Parla delle mani tese che si sono alzate e usa un verbo bellissimo che è efrixen, che indica le spighe di grano che vengono mosse dal vento. Per la pima volta in questi versi si intravede la parola democrazia (demukratusa). Infatti ci parla di cheirdemukratousa = mano del popolo potente; un potere che diventa del popolo attraverso il voto, attraverso la mano. Ma che cosa vota il popolo? Vota che quelle donne non possano essere sottoposte al diritto di rappresaglia, per la quale la polis aveva lavorato da tempo per superarlo in modo che il diritto del più forte che si fa giustizia da solo non venisse più esercitato. “Sono delle donne che chiedono protezione, sono delle donne, sono delle straniere”: donne che arrivano dall’Egitto che chiedono protezione. Infatti, scappano da quelli che sono essere i loro cugini (i figli d’Egitto), in quanto vogliono costringerle al matrimonio. Qua comprendiamo ancora meglio che cos’è questo superamento della rappresaglia: un superamento che arriva anche dentro l’istituto del matrimonio poiché, quei figli d’Egitto, volevano fare quello che, nella tradizione più antica, viene chiamato il matrimonio per ratto (un matrimonio per rapimento, per violenza). Queste donne, grazie alla protezione del padre illuminato, un padre saggio, sono riuscite a scappare. Le porta infatti ad Argo dove ottiene, per loro, il diritto di non essere sottoposte a rappresaglia e quindi di essere difese e tutelate anche dalla polis (questa è una delle caratteristiche dell’andamento democratico). Tuttavia, queste 50 donne saranno sì protette ma i figli d’Egitto attaccano Argo e riusciranno così a costringerle al matrimonio. Della trilogia di Eschilo abbiamo solo la prima tragedia, in Eschilo non leggiamo come va a finire. Dal mito però si racconta che durante la prima notte di nozze 49 di loro ammazzeranno il loro marito e soltanto una proseguirà felice in quel matrimonio al quale era stata costretta (di nuovo l’emergere della violenza: quel matrimonio per violenza e costrizione non poteva che portare, in 49 casi su 50, altra violenza e a ricorrere quindi all’omicidio). Dunque con la stasis di Corcira, Tucidide ci mostra come la guerra, internamente, mette in crisi la polis distruggendo la convivenza dei cittadini e la polis stessa seminando la violenza. Il dialogo dei Meli Il punto di vista esterno lo troviamo ben espresso nel dialogo dei Meli (libro 5), seconda parte dell’opera in cui Tucidide parla degli anni che vanno dalla Pace di Nicia del 421 a.C. fino alla partenza della spedizione in Sicilia (libri 6 e 7). Qua Tucidide affronta un altro tema, un caso esemplare, costruendo dei grandi discorsi nei quali a conversare sono gli abitanti dell’isola di Melo con degli ambasciatori ateniesi. Atene, fin dall’inizio della guerra, deve gestire gli alleati della lega delio-attica per evitare che lascino l’alleanza (un problema non nuovo per Atene, già presentato alla fine degli anni ’40 con le prime rivolte degli alleati). Su questi alleati, Atene, spesso interveniva con la violenza per far sì che queste città continuassero a pagare il tributo e soprattutto non abbandonassero l’alleanza di Atene per passare al nemico. Devono quindi dialogare per capire che cosa possono fare circa la situazione difficile che si era creata nei rapporti tra Atene e Melo; difficile perché, durante la guerra del Peloponneso, Melo avrebbe scelto una via di neutralità, ma Atene ad un certo punto 41 invita Melo a decidere se schierarsi dalla parte dell’alleanza o schierarsi dalla parte dei nemici. Si tratta di discorsi che costituiscono un vero e proprio trattato sul diritto del più forte e la domanda se la legge del diritto del più forte è una legge degli dei oppure no. E i Meli dimostrano il proprio coraggio: non c’è nessuna intenzione di sottomettersi e non pensano che la sorte, ovvero quello che gli dei vorranno, sia a avverso ai Meli perché loro stanno dalla parte della legge a differenza degli Ateniesi che sono contro la legge. I Meli vogliono quindi rimanere neutrali perché pensano di averne diritto secondo le leggi e se gli Ateniesi dovessero attaccare, in aiuto verranno gli Spartani. Ed ecco che gli Ateniesi rispondono. Se Corcira ci parla della guerra dei rapporti interni, il dialogo dei Meli proietta la questione della guerra e della violenza nei rapporti esterni. Ecco che gli ambasciatori ateniesi affermano ciò che internamente sarebbe stato illegale, ovvero che la legge che domina su tutto è la legge del più forte. E lo afferma sulla base di questi presupposti: la legge del diritto del più forte prevale non perché lo hanno deciso gli Ateniesi, ma perché è così sia per gli dei che per gli uomini. Per quanto riguarda gli dei “crediamo sia così basandoci sull’opinione”: è opinione comune che sia così (raccontato dai miti, ad esempio il comportamento di Zeus). Nel secondo caso “sappiamo per certezza che il dato fondamentale dell’umano è la necessità per natura che comanda sempre il più forte”: è così per natura e in fondo, come sostengono gli Ateniesi, anche i Meli vorrebbero fare in questo modo se fossero più forti degli Ateniesi. Ma non lo sono e così si nascondono dietro a questi discorsi. Qua Tucidide smaschera l’incoerenza: se Atene, internamente, ha definito le proprie leggi e regole democratiche in un determinato modo, non è così nelle relazione interpoleiche, ovvero fra le polis. Non sono stati in grado di elaborare un sistema interpoleico che si basasse su quegli stessi valori che la comunità civica aveva ampiamente definito e compreso. Atene manifesta il suo diritto ad usare la violenza in quanto più forte. Nel caso dei Meli, Atene userà la violenza attaccando Melo: Atene ucciderà i maschi e deporterà donne e bambini tanto che ritroveremo a casa di Alcibiade una povera schiava sottomessa, originaria di Melo. Tucidide vuole infatti mostrare tutta la violenza della politica imperialistica di Atene e ne esplora anche le conseguenze e le vede in due direzioni: 1. La prima è il collegamento con la stasis che poi diventerà stasis anche ad Atene perché è evidente che, quei cittadini alla scuola di polemos ( = maestro violento), usano la violenza esercitando la legge del più forte in guerra contro gli altri (non viene predicata la violenza ma fa usare agli altri la violenza). Educati quindi alla stessa violenza che poi usano nei rapporti con gli altri cittadini all’interno della città e all’interno della famiglia e scardinano quei valori che fondavano la società. 2. Tucidide ne esplora una seconda perché sa bene che, per il cammino culturale che Atene ha fatto nei decenni precedenti, questa incoerenza finisce per essere una decisiva debolezza. Tucidide vuole farci vedere non soltanto la prima parte di questa analisi, ovvero che i cittadini possono diventare violenti imparando da una città violenta in guerra, ma ci vuole mostrare come questo, con il perdurare dei decenni, finisce per logorare e distruggere la città e non farla una città vincente. Atene perderà la guerra per questo perché questo sentirsi più forte la porterà a gesti esagerati e arroganti (la spedizione in Sicilia, fino a quando il suo esercito sarà annientato a Siracusa) ma anche questo percorrere costantemente l’incoerenza fra comportamento interno ed esterno indebolisce profondamente la città. La città, come 42 Dopo il capitolo 60, Tucidide inizia a parlare di come matura il colpo di stato ad Atene, la stasis. Non è più un nemico esterno, ma il pericolo è dentro alla città ed è questo che porta una paura, panico, per il pericolo intorno a sé, la democrazia in questo caso è particolarmente frustrata, messa in difficoltà. Tucidide non usa più la parola phobos ma usa dei sinonimi per parlare della paura per cause interne. In questo episodio la paura non crea esiti positivi, non sprona la città a risorgere come invece era stato per il phobos. Nel colpo di stato sono coinvolti Pisandro (che attiva i colpi di stato anche in altre città, si muove da Samo), Antifonte (è il teorico del colpo di stato). Lascia la lettura a noi di questa parte. Dal capitolo 65, i golpisti sono arrivati ad Atene, dopo aver fatto saltare i governi in altre città. Pisandro era già stato ad Atene prima, aveva mobilitato alcuni dei suoi conoscenti per diffondere i suoi programmi; ora che vi ritorna scopre che molto era stato fatto dai loro compagni politici (etairos=compagni), che formano insieme le eterie (gruppi), società segrete che lavorano di nascosto, illegalmente, rispetto alla politica, si muovono per attivare l’oligarchia. Androcle è il più importante capo dei democrati, aveva avuto le maggiori responsabilità per l’esilio di Alcibiade. È stato ucciso dai congiurati per far paura al popolo e per fare un favore ad Alcibiade, che doveva portare l’alleanza di Tissaferne (è il motore del colpo di stato). Il programma pubblico dei golpisti, tra cui ridurre il numero di cittadini, era un modo per ingannare la maggioranza. Ma le istituzioni erano già paralizzate, deliberavano solo se volevano i congiurati, i quali controllano gli oratori e i loro discorsi. Il popolo democratico non ha reagito, perché? Se lo chiede Tucidide. Sostiene perché erano nel terrore. Nessuno si opponeva per la paura, chi protestava era ucciso e gli assassini non erano perseguiti. Il popolo restava inerte, provava tale terrore che si riteneva fortunato chi non subiva violenza. Il colpo di stato è fatto da poche persone che però compiono atti violenti nascosti, omicidi, intimidazioni, così che la gente non sa chi siano i congiurati o quanti siano e ne hanno paura. Il popolo pensava che i congiurati fossero più numerosi di quello che erano in realtà e per questo stavano fermi, inerti, erano abbattuti. Atene aveva circa 100.000 persone, una grande città, in cui le persone non si conoscevano tutte. Quindi i cittadini non sapevano di quali ateniesi fidarsi, con chi parlare. Tucidide dimostra che questa paura è alimentata dal fatto si è bruciato il patrimonio di fiducia collettiva, non ci si fida più, il più importante capitale sociale della democrazia. Il popolo si avvicinavano l’uno con l’altro con sospetto. Vi era grande diffidenza, sostenendo dunque così gli scopi degli oligarchici. Secondo Tucidide gli oligarchici non potevano farcela da soli, i democratici erano in netta maggioranza, ma quando arrivano ad Atene e trovano una situazione ormai compromessa, ne approfittano. Si è bruciato il capitale sociale, non c’è fiducia e reciprocità, ma paura e terrore. La democrazia tocca il fondo, non c’è più fiducia, è questa mancanza che fa vincere gli oligarchici, che hanno usato la strategia del terrore, con attentati, che hanno incrementato paura, il quale a sua volta ha incrementato il senso di sfiducia; nessuno parla della propria opposizione perché non si sa se il proprio vicino è democratico o no, si ha paura di essere uccisi per queste credenze. Paura da pericolo esterno: unisce la polis che trova le migliori risorse per ripartire, es. ricostruire la flotta e combattere ancora dopo la sconfitta in Sicilia. Paura interna in pochi mesi brucia l’ultima parte della fiducia presente in Atene e porta al colpo di stato, dissoluzione della democrazia. Primo colpo di stato nel 411 45 a.C., poi ripristino della democrazia, ma seguono ulteriori difficoltà e l’ambiguità della figura di Alcibiade; nel 404 a.C. vi è il cruento colpo di stato dei trenta tiranni, nel 403 a.C. c’è un nuovo ripristino della democrazia in modo diverso, essa non riesce più a rifondarsi sul patrimonio di fiducia che è ormai persa, ma si fonda sulle leggi scritte, leggi che tutelano il rispetto reciproco, ulteriore passaggio in un clima di sfiducia. La fiducia si ricostituisce infatti molto molto lentamente, dopo essere stata persa. Il libro 5, capitolo 26 è un punto di snodo. Tucidide ha raccontato una guerra di cui ha iniziato a scrivere quando essa stava ancora avvenendo; scrive in diretta e registra nella sua opera un fatto che non si può dimenticare. Rispetto agli eventi che capitano spesso si inizia a studiarli quando si crede che siano finiti, ma in realtà potrebbe non essere così e in un futuro potrebbero essere ripresi dimostrando di essere inconclusi, nel caso di Tucidide così è stato: si fa l’illusione che siano finiti ma la storia ci dimostrerà la verità. Esempio: la Pace di Nicia, lui la vive ed è convinto che la guerra sia finita nel 421 a.C. Ciò corrisponde fino ai primi capitoli del quinto libro, la prima parte, la fase archidamica. Tucidide crede di aver descritto una guerra conclusa, il suo scritto è compiuto. Poi però vive altri eventi (esempio la battaglia di Mantinea o la spedizione in Sicilia) e scrive separatamente il 6 e 7 libro, la spedizione in Sicilia, che lui riconosce come un grande evento. Questi due libri iniziano ad essere diffusi in maniera a se stante. Era un evento funesto e drammatico che meritava una narrazione per spiegare agli Ateniesi perché non avevano capito niente buttandosi in questa una impresa. Specularmente ai libri dal 1 al 4, scrive i libri 6 e 7: in maniera autonoma gli uni rispetto agli altri. Lui continua a vivere e vede lo svilupparsi della terza fase, quella che lui chiama deceleica, vede che navi di Siracusa si uniscono alla lega peloponnesiaca in maniera decisiva; capisce dunque che la guerra è sempre la stessa e può creare un’unica grande narrazione, la Guerra del Peloponneso. Ma questo non lo aveva capito dall’inizio, lo scopre vivendo che sta parlando sempre della stessa guerra. È lo studio degli storici che spesso definisce la guerra e la specifica per esempio nelle sue cause; Erodoto riconosce la rivolta ionica come causa delle guerre persiane non nell’immediato. Tucidide mentre vive l’ultima fase e vede la sconfitta di Atene, capisce che è un’unica grande guerra. Torna indietro e riscrive il proemio (in cui ci dice la durata della guerra, cita la spedizione in Sicilia, anticipa la disfatta finale), corregge e mette a posto ciò che aveva già scritto, però poi manca un pezzo dalla pace di Nicia alla spedizione in Sicilia: hanno qui origine i capitoli cerniera del libro 5, che inizia con il capitolo 26 (si occupa degli anni dal 421 al 415-414 a.C., in cui studia le violazioni della pace in quegli anni). Prima di morire aveva unito i pezzi, aveva scritto ma forse non completato i capitoli cerniera (la scansione estati-inverni non è così precisa come in altre parti), ma non è riuscito a finire l’ultima parte rimasta incompleta all’anno 410 a.C. Gli ultimi capitoli sono sempre più sfrangiati, più sotto forma di appunti (modalità che troviamo all’inizio delle Elleniche di Senofonte). Alla sua morte stava terminando il lavoro di rielaborazione, infatti ancora l’opera completa non era diffusa. Prima circolava solo la fase archidamica e la spedizione in Sicilia; non circolavano il libro 5 e 8 che sono stati poi pubblicati da Senofonte. Dietro a questa costruzione (di come Tucidide ha composto l’opera) c’è una questione biografica determinante riportata da capitolo 26, libro 5. 46 “Lo stesso Tucidide di Atene ha scritto anche la storia di questi fatti” = sembra un nuovo inizio, l’autore ha premura di assicurare che è sempre lui a scrivere. Racconta la storia fino al 403 a.C., quando i Lacedemoni hanno sconfitto gli Ateniesi, distruggendo le lunghe mura e il Pireo. Cita la lunghezza totale della guerra come 27 anni, considerando quella che per lui è la guerra del Peloponneso: sa che c’è stata una pace in mezzo, ma per lui non lo è stata una tregua vera e propria perché costellata di combattimenti (riferimento ai Beoti, alla battaglia di Mantinea, di Epidauro, la pace non fu pace perché le clausole non furono rispettate = Anfipoli non tornò nel dominio ateniese come previsto). Ci fa intendere che qualcuno della sua epoca non era d’accordo con lui. Dobbiamo essere coscienti che la guerra del Peloponneso che studiano è sempre un prodotto di Tucidide, vera in suo riferimento, non vera in assoluto. Tucidide spiega che il periodo dopo la pace di Nicia è stato animato da numerosi conflitti in diverse aree della Grecia (come ad Epidamno, Megara, Mantinea, i beoti erano sempre in tensione, Epidauro…) e che quindi il popolo greco non ha mai smesso di combattere dall’inizio della guerra alchidamica fino al 403 a.C. Il trattato di pace fu solo una formalità secondo Tucidide, al contrario di come invece sosteneva Nicia, perché nei fatti le clausole non furono rispettate. Alcibiade, infatti, subentra subito dopo e contrasta la pace perché avrebbe voluto essere lui il protagonista di quella tregua, prendendo il poto di Nicia, quindi insoddisfatto inizia a lavorarci contro. Tucidide individua quindi la Guerra del Peloponneso come unica, durata 27 anni. Commenta questo dato con un’affermazione che dimostra la sua posizione sospetta nei confronti degli oracoli e che mette in dubbio la loro veridicità: soltanto gli oracoli che avevano previsto 27 anni di guerra avevano ragione, sottolineando il fatto che nel corso nella guerra gli oracoli avranno fatto così tante previsioni diverse da essere inaffidabili come fonti di verità. Ha vissuto per tutta la durata della guerra ed era in grado di comprendere ciò che accadeva: era infatti già adulto nel 431 a.C., doveva avere intorno ai 23 o 24 anni, perché poi fu stratego nel 424 a.C. quando aveva circa 30 anni. L’esilio gli ha consentito di vedere la guerra dall’esterno anche frequentando la parte dei nemici, i peloponnesiaci, raccogliendo così informazioni anche su di loro: proprio per questo Tucidide si ritiene una fonte affidabile. Nel libro 4 parla della sua esperienza ad Anfipoli ed è la prima volta che parla di sé, lo fa per spiegare che non ha colpa per quanto accaduto, non è lui a esser stato sconfitto ma anzi ha il merito di esser riuscito a difendere il porto della città contro il comandante Brasida. Dal 424 a.C. viene quindi mandato in esilio ventennale, conclusosi quindi nel 404 a.C. proprio alla fine del conflitto. Tucidide quindi per tutta la durata della guerra non è mai stato ad Atene, dunque non ha mai assistito a tutti quei discorsi, alle assemblee, ai movimenti dell’esercito che lui ci racconta con così tanti dettagli. I commentatori moderni intorno a questo capitolo sono stati molto critici, è forse il punto della storiografia greca che desta più problemi e su cui sono stati fatti molti studi. Già i filologi dell’800 avevano fatto emergere i primi dubbi che sono poi stati approfonditi da Luciano Canfora, secondo cui tutto il capitolo non corrisponda al vero, a causa di problemi filologici intensi, e sarebbe nascosta un’altra verità. Il vero autore di 5 26, secondo Canfora, è Senofonte, da qui nasce il titolo di uno dei suoi libri sull’argomento “Il mistero di Tucidide”. Principali prove di Canfora per sostenere che Tucidide non sia mai stato in esilio da Atene: 47 comunità, permette agli esuli di rientrare. Tucidide sarà rientrato ad Atene in una di queste occasioni, quindi o nel 414 a.C. o nel 411 a.C. È probabile che simpatizzasse per il colpo di stato oligarchico perché gli aveva permesso di rientrare. Canfora a questo punto potrebbe però appellarsi ad una testimonianza antica per contrastare il rientro tucidideo, secondo la quale Tucidide apparteneva alla famiglia dei Pisistratidi, che secondo una clausola erano esiliati dalla città di Atene in maniera definitiva senza possibilità di rientro. Allora come possiamo spiegarlo? Un traduttore ha interpretato questo passo dicendo che se Tucidide non è rientrato l’unica spiegazione possibile è che fosse un Pisistratide. Fa un percorso inverso in quanto deduce il fatto che discenda dai Pisistratidi dal fatto che non sia potuto rientrare. Effettivamente solo una fonte storica sostiene che Tucidide sia un parente dei Pisistratidi, è una testimonianza tarda su cui si potrebbe discutere. Non sapremo mai chi ha ragione ma possiamo toccare con mano la metodologia della ricerca, come i ricercatori affrontano le situazioni problematiche nei passi degli autori antichi. La differenza degli stili dei diversi autori non è così evidente, ma la parte finita e la parte non finita di Tucidide sono molto diverse. Il secondo caso non presenta i discorsi in prima persona, ne ha solo uno brevissimo, e dimostra uno stato di scrittura che non è ultimato, ci sono le tracce dei discorsi che non ha avuto modo di scrivere e ultimare. Senofonte ha pubblicato i suoi scritti proprio così come li ha lasciati perché se li avesse modificati avrebbe aggiunto i discorsi, i quali ritornano infatti nelle Elleniche da lui scritte. Inoltre vengono presentati un insieme di dati senza che però non vengono poi analizzati, come nel resto dei suoi scritti, sembrano proprio solo degli appunti. Si potrebbe anche dire che in realtà anche l'inizio delle Elleniche, cioè fino alla battaglia di Notion, gli scritti siano di Tucidide e non di Senofonte, il professore sostiene questa teoria. SENOFONTE Senofonte è un esponente significativo della generazione di ateniesi nata e cresciuta durante la guerra del Peloponneso. Nasce nel 430 a.C.; si forma nella scuola di Socrate ed è compagno di Platone, stessa scuola che viene bersagliata nel 423 a.C. dal teatro di Aristofane con la rappresentazione de “Le nuvole”, una parodia della scuola socratica in cui si parla dei temi che porteranno Socrate ad essere condannato a morte. Senofonte appartiene alla classe censuaria dei cavalieri, seconda classe censuaria ateniese. Quando la situazione della guerra inizia a peggiorare, Senofonte ha appena raggiunto la maggior età e quando compie 20 anni nel 411 a.C. (anno del colpo di stato), egli è pronto a prendere parte alla vita civile al momento della disfatta ateniese di Egospotami e del conseguente colpo di stato del 404/403 a.C. Egli, infatti, è descritto da una parte come un figlio della guerra, cresciuto preparato a combattere e dall’altra parte come un intellettuale cresciuto nella scuola di Socrate che sa usare le parole, anche da un punto di vista retorico. Immediatamente dopo il colpo di stato del 404 a.C., egli si arruolerà (contro il volere di Socrate) alla spedizione panellenica di mercenari organizzata da Ciro il Giovane per andare a combattere contro il proprio fratello che nel frattempo era diventato re dell’impero persiano; la sua vita dopo questo punto cambia e non rientrerà più ad 50 Atene. Prende la decisione di arruolarsi perché è rimasto deluso per il fallimento del colpo di stato nel quale aveva creduto e che si era rivelato violento ed era fallito; non si ritrova più in quell’ambiente sociale. Morì intorno agli 80 anni, visse la fine del periodo dell’egemonia spartana e dell’egemonia tebana (362 a.C.). La data della morte è fissata nel 350 a.C. Partecipa alla spedizione di Ciro (finita in maniera fallimentare con la morte di Ciro il Giovane) e diventerà la guida dei reduci di quella spedizione che per metà tornarono a casa mentre l’altra metà pellegrinerà tra la penisola anatolica e la zona tracica (nel nord della Grecia) cercando lavoro da mercenari. Sono giovani di città diverse che non hanno un legame forte con la propria patria; sono la rappresentazione del loro tempo e della loro educazione data dalla guerra maestro di violenza. Infine, questo gruppo di soldati approda sulla costa anatolica e qui incontra l’esercito peloponnesiaco che nel frattempo aveva preso il controllo della zona dell’Egeo: periodo di egemonia spartana, in cui Sparta cerca di fare diventare una potenza egemone del mare imparando ad usare la flotta. Qual è la situazione ed il contesto nel quale i reduci di Ciro incontrano e si aggregano all’esercito peloponnesiaco? Sparta aveva vinto la guerra del Peloponneso grazie ad un’alleanza stretta con il Gran Re e grazie ad essa aveva ottenuto degli aiuti in denaro decisivi per la vittoria. Sparta però aveva promesso al Gran Re la restituzione delle città greche dell’Asia minore che erano parte della lega delio-attica e che con l’ultima fase della guerra avevano defezionato Sparta; questa mossa era segreta, le città non sapevano che Sparta le avesse vendute e quando il fratello di Ciro vince, egli non fa sconti e pretende le città promesse; proprio per questo motivo Sparta deve barcamenarsi sul da farsi: manda un esercito in Asia per difendere le città ma presto entra in conflitto con i satrapi stessi. I reduci di Ciro, quindi, entrano a far parte dell’esercito peloponnesiaco. Senofonte ci parla dell’incontro con l’esercito peloponnesiaco: all’inizio ci sono altri comandanti a guidare l’esercito e unendosi a loro Senofonte incontra il re Agesilao di Sparta. Senofonte trova in lui una guida e una persona di riferimento straordinaria. Agesilao era il re di Sparta, divenuto re in una maniera non del tutto ordinaria, infatti non toccava a lui il ruolo di re non essendo il figlio legittimo del re uscente (che era invece Leotichida, il quale però non diventa re a causa di un gravoso sospetto sceso su di lui). Per capire profondamente Agesilao bisogna ricordarsi che Alcibiade guidò la spedizione in Sicilia ma viene destituito dal comando perché sospettato di essere coinvolto nella profanazione delle Erme e, preso in consegna dalla nave Salamina che aveva il compito di portarlo ad Atene a processarlo, durante una notte Alcibiade scappa a Sparta, dove verrà ospitato per molto tempo. Egli viene descritto come un personaggio dal carattere affascinante, camaleontico e irruente, ma a causa di questa sua personalità molto spiccata combina un guaio molto grosso: diventa l’amante della moglie del re di Sparta (dal quale probabilmente nasce Leotichida) che in quel momento non è presente essendo a Decelea. Delle fonti raccontano che un giorno la città fu sorpresa da un terribile terremoto e lui fu visto scappare dalla casa della donna e questo svela il tradimento nei confronti del re; essendo i legami famigliari molto labili in quella società con un’istituzione famiglia quasi inesistente, ufficialmente il re non persegue Alcibiade ma in realtà lancia una vera e propria taglia per ammazzarlo e tutta la seconda parte della guerra del Peloponneso e anche gli anni seguenti sono caratterizzati da questo problema tra il re di Sparta ed Alcibiade, fino a quando quest’ultimo non andrà a rifugiarsi da Tissaferne, satrapo persiano; ed è da lì che farà scoppiare il colpo di stato oligarchico a Samo che poi diventa il colpo oligarchico di Atene del 411 a.C. 51 Un oracolo determina la situazione: Sparta viene avvisata del fatto che non può essere nominato re un uomo zoppo; Agesilao a dire la verità era zoppo a causa di un problema ad una gamba, ma egli convince tutti che il re zoppo non è lui ma Leotichida, il quale viene descritto come “zoppo non fisicamente ma di legittimità”, e così per acclamazione gli spartiati eleggono re Agesilao. Anche lui viene descritto con una personalità molto carismatica, avvolgente ed efficace politicamente. Inizialmente non guida personalmente la spedizione militare in Egeo ma quando essa diventa più complicata, si impegna personalmente nella sua guida, incontrando così Senofonte. Per Senofonte diventa un punto di riferimento così importante che quando, pochissimo tempo dopo, scoppia la guerra di Corinto (che si concluderà qualche anno dopo con la pace del Gran re) Senofonte decide di seguire Algesilao e di rientrare in Grecia nell’esercito spartano contro Atene (tradimento verso la sua città); da quel momento Senofonte sarà condannato dalla stessa Atene all’esilio nella sua cascina agricola di Scillunte, luogo in cui diventa presto un allevatore di cavalli e in cui inizierà a scrivere. Rimane qui fino al 371 a.C., anno della battaglia di Leuttra, perché gli Spartani perdono la loro egemonia. Dopo il 371 a.C. si trasferisce a Corinto, luogo in cui trascorre gli ultimi anni della sua vita fino al 362 a.C. (anno della fine dell’egemonia tebana). I suoi figli sono rientrati ad Atene e questo ci fa capire che il suo esilio fosse terminato o che fosse scaduto. Nel 362 a.C. ci parla della morte del figlio Grillo in guerra: con questa scena, Senofonte parla della fine dell’egemonia tebana e ci dice che in quel momento la confusione regnava in Grecia e che di quella confusione lui non voleva più parlare, concludendo così il settimo libro delle Elleniche, sua opera storica in cui racconta tutti i fatti dagli ultimi anni della guerra del Peloponneso fino alla fine di tutto il periodo dell’egemonia spartana, terminata con un’atmosfera di confusione, dovuta dal fatto che da quella battaglia non uscì una nuova potenza egemone e questo rese la Grecia debole e confusa, pronta a nuove conquiste. Un autore con una biografia, una vita militare, politica di schieramento e di allontanamento da Atene così intense non può non aver reso anche la sua scrittura e le sue opere altrettanto intense. Le opere Opere che raccontano del suo rapporto con Socrate, molto importanti perché sono il bilanciamento delle opere di Platone scritte con un prevalere della forma dialogica (Socrate infatti insegnava per dialoghi): - Memorabili - L’apologia del processo di Socrate - Simposio Opere storiche: - Anabasi racconta della spedizione di Ciro - Elleniche grande opera di sette libri che racconta della storia greca proseguendo il lavoro di Tucidide fino al 362 a.C. - Costituzione degli Spartani l’ordinamento di Licurgo, come vive quella città Opere per il mestiere da allevatore: - L’equitazione considerato ancora oggi moderno e attuale nel modo di cavalcare e gestire un cavallo - Il comandante di cavalleria come gestire un cavallo in guerra Serie di saggi: 52 imparato la scuola socratica: il modo particolare di usare la forma dialogica e di usare in maniera molto sapiente la forma interrogativa. Nell’opera di Senofonte è ad esempio analizzato l’uso delle domande retoriche; è una domanda subdola, sembra fare una domanda, sembra dare la possibilità di una molteplice risposta, ma in realtà spinge verso un'unica risposta, è questa la domanda retorica. È potente, a volte è violenta, a volte incita, a volte addirittura umilia. È una domanda che pone il destinatario in inferiorità e quando si fa questo, lo si fa obbedire, si esercita obbedienza, si pone quell’interlocutore in una posizione non più autonoma, non più in grado di reagire a quell’affermazione ma lo si schiaccia, soprattutto se l’interlocutore non è attrezzato, cioè se davvero si sente meno preparato culturalmente dell’autore e quindi si adatta al fatto che non capisce e riceve l’opera così come Senofonte gliela vuole somministrare. “Non è forse vero che le migliori speranze fioriscono in un luogo come questo dove gli uomini venerano gli dei, si addestrano alla guerra, praticano la disciplina?”, Si è così, questa è la risposta che lui vuole. Adesso vi farò vedere dove lui cala questa domanda e a che cosa ci vuole portare. La domanda retorica incita alla guerra: “Non siamo forse i più forti di tutti?”; è questa la domanda retorica, ha tante sfumature. I trattati di retorica già antichi la analizzano e la insegnano, che cosa vuoi fare? Vuoi incitare? Vuoi deprimere? Vuoi umiliare? Vuoi avere un amico? Formuli una domanda in maniera diversa e hai effetti diversi. La retorica ha una grande potenza della retorica. Esempi di domande retoriche che vogliono spiegare l’eccellenza di Sparta, vogliono a volte capire se gli dei hanno influito sulla storia, vuole fare un commento sulle scelte strategiche che hanno fatto i vari generali. Poi ogni tanto interviene in prima persona, compare l’io nella narrazione, un altro modo per entrare in empatia con il lettore e magari non fargli accorgere che si sono saltati dei pezzi con questo io narrante che entra dentro la storia. Lo fa più volte e soprattutto negli ultimi libri della sua opera. A volte previene l’obiezione del lettore, in questo esempio sta parlando del processo a Teramene durante il periodo dei trenta tiranni, Teramene viene condannato a morte come verrà poi condannato a morte Socrate, brinda al momento di bere la cicuta, brinda dicendo: “Alla salute del dio bel Crizia!” e fa il gioco del cottebò, un gioco antico che facevano nei simposi nel quale lanciavano le gocce di vino del bicchiere alle spalle come segno di predizione amorosa per il prosequio della festa; era un gioco che poi diventa un gioco tragico al punto di morte di Teramene. Interviene Senofonte dicendo:” So bene che una battuta del genere non merita nemmeno di essere menzionata”; cioè mi stai raccontando della guerra, del fatto che sta morendo, cosa mi vieni a raccontare del gioco e però dice che è ammirevole, come si fa a dire che non è ammirevole? È evidente, qua previene l’obiezione del lettore, che poi ci riesca o no è un altro tipo di faccenda, però percentualmente un po’ ci riesce e spiega i fatti e i personaggi intervenendo in prima persona. Semina giudizi durante la sua opera utilizzando delle forme indirette, oppure quando vuole individuare fasi storiche e quindi interviene nella narrazione per guidarla, ecco perché lo fa? Questi strumenti retorici non li usa semplicemente per avere successo con il pubblico, ma per un fine ben determinato: controllare la ricezione, convincere i propri lettori/uditori. Ad esempio l’inizio del terzo libro Senofonte racconta di quando i reduci di Ciro si sono uniti all’esercito peloponnesiaco, soltanto che ne manca un pezzo. Egli dovrebbe raccontare i due anni 402 e 401 a.C., ma non li racconta, sebbene avesse detto che avrebbe raccontato tutto. Non li racconta perché l’unica cosa degna di essere raccontata in questo periodo è la spedizione di Ciro, ma visto che è già stata raccontata da un certo Temistogene di Siracusa, lui dà come un consiglio di lettura; di fatto Temistogene di Siracusa non esiste e l’opera che racconta quei fatti non è l’opera 55 di Temistogene ma l’Anabasi di Senofonte. Evidentemente l’Anabasi ha raggirato il mercato: il mercato librario era ad Atene, ma lui non poteva vendere ad Atene un libro con su scritto Senofonte e quindi l’avrà venduto come Temistogene di Siracusa. Ma il problema più grande è che lui qui omette un fatto importantissimo: non ci dice che lui c’era nell’esercito di Ciro e poi in quello peloponnesiaco quando quei reduci di Ciro si sono uniti all’esercito peloponnesiaco; allo stesso tempo fa un gioco raffinato perché se noi seguissimo alla lettera i suoi consigli, fossimo ad Atene nel IV secolo e andassimo a prenderci l’opera di Temistogene di Siracusa e l’aprissimo troveremmo una lunghissima narrazione in cui Senofonte è l’eroe di quel ritorno dei reduci di Ciro: è lui che li ha guidati, che li ha consigliati, senza di loro non avrebbero combinato nulla, è lui il comandante di quei reduci. Ora immaginatevi che noi stiamo credendo a Senofonte, che non avete sentito che vi ho detto che Temistogene non esiste ma avete letto la sua opera e avete visto che gran uomo è Senofonte. Tornate qua e dite, ma è veramente un grand’uomo, costui che non ha voluto esaltare se stesso e nelle Elleniche non ci dice che lui è stato un così grande protagonista, è umile. Omettendo però di dire di aver partecipato ai fatti, non ci permette di capire nelle Elleniche tutto il condizionamento che dà quella presenza ai fatti ne deriva. Se invece noi cambiamo ottica e ci ricordiamo che lui ha scritto l’Anabasi e che ci sta scrivendo le Elleniche, capiamo una situazione diversa: Senofonte ci racconta solo quello che vuole. È uno storico che ci racconta soltanto i fatti che vede lui, non è Tucidide che parlando di un anno ci dice cosa capita Atene e cosa nella altre polis, ha fatto un grande lavoro di ricerca per ottenere la simultaneità dei fatti. Senofonte invece scrive una storia e per questo è più semplice e quindi ci piace di più, ma dobbiamo davvero essere prudenti quando una storia ci piace. Ci piace di più perché è una storia lineare, segue la linea del tempo nel suo scorrere, quindi fa un racconto lineare molto più facile da seguire rispetto a quello di Tucidide, che va avanti negli anni e per ogni momento ci racconta quello che vuole raccontarci lui. Per tutta la prima parte, quando lui partecipa alla guerra ci racconta soltanto i fatti dove lui c’era. Il problema è che non ce lo dice, lui sta facendo una fusione tra la sua biografia e i fatti ai quali ha assistito. Non ce lo dice, anzi ha voluto negare la sua presenza attribuendo l’Anabasi a Temistogene, senza dirci che lui era il protagonista e senza dirci che continua a essere il protagonista perché se noi leggessimo qua il suo nome penseremmo che il suo racconto è condizionato dalla sua biografia. Se Senofonte non c’è e non sappiamo tutte le informazioni non ce ne accorgiamo e cadiamo nella sua ricezione guidata. Già Plutarco si era accorto dell’inganno di Senofonte rispetto l’esistenza di Temistogene. Senofonte è cosciente come storico che se direbbe tutta la verità avrebbe fallito come credibilità dal punto di vista storica, ci saremmo accorti che si trattava di riferimenti autobiografici e quindi non più attendibili. Questo ovviamente riferito ai suoi contemporanei non a noi. Senofonte dice che ogni storico è anche uno scrittore e usa dei contenuti che sono articolati secondo una forma che usa strumenti come quello della retorica. Non possiamo raccontare la storia in modo lineare: è evidente che il mondo è molto più complesso, noi possiamo fare delle scelte per fare una narrazione ma non possiamo dimenticare questa complessità. Senofonte tende a farcela dimenticare, vuole guidare la nostra ricezione. Tre modi in cui si racconta il momento in cui l’esercito dei reduci si è unito all’esercito spartano: - nell’Anabasi fa un autoelogio - Diodoro 56 - Elleniche non c’è Senofonte, il comandante non c’è, non ce l’ha voluto dire. Vuol sembrare obiettivo, se ce lo avesse detto potremo dire tu che eri lì spiegaci meglio questi giudizi che dai. Dercillida cambiò la disposizione dell’esercito spartano che in una prima fase era guidato da Tibrone; era un esercito molto violento con le piccole città, con le città degli alleati che saccheggiava per finanziare la guerra. Ci sono proteste da parte degli alleati che chiedono il cambio del comandante e arriva Dercillida. Dopo un po’ gli efori di Sparta andarono a controllare come lavorava Dercillida e vedono che lavorava bene. Emerge la fatica che fa Senofonte nel non volerci dire che lui è li, e usa questa locuzione “il comandante dei reduci”. È chiaro che chi ha seguito il suo consiglio all’inizio e ha letto Temistogene, quando arriva qua pensa “che grande che è Senofonte e umile”. Più avanti, mostrandoci le azioni di guerra, è evidente che tutta questa prima parte delle Elleniche del libro 3 Senofonte sostiene che l’esercito peloponnesiaco prima perdeva ma quando arrivano i reduci di Ciro diventa un esercito vincente. È vincente perché è arrivato Senofonte, ma lui non lo vuole dire, diventa un autoelogio mascherato, ci sta un po’ ingannando, usando le armi della retorica per avvilupparci se non siamo prudenti. Vi è un’altra esaltazione mascherata quando il re Agesilao decide di andare ad assumere il comando convinto da Lisandro, il grande comandante spartano vincitore della guerra del Peloponneso: riferendosi all’esercito di Ciro, Lisandro dice che si tratta di un grande esercito. Questo lo usa anche per convincerci dell’eccellenza di Agesilao. Qui è chiaro, sta conducendo il lettore in un camino, che è quello della sua vita, cammino in cui ha conosciuto Sparta e si è convinto che Agesilao e Sparta siano la soluzione per il futuro. È convinto che il modello spartano potrà essere esportato e di questo vuole convincere i propri lettori. Le Elleniche avranno poi un cammino più complesso perché lui verrà poi allontanato da Sparta, finirà relegato a Scillunte. Agesilao non manterrà le sue promesse, lo stesso Agesilao per gran parte della seconda parte della sua vita rimarrà inerte, non più attivo militarmente e non è più un così bravo re di Sparta. Di questo Senofonte sarà molto deluso, ma nel libro 3 invece è entusiasta, pensa che il modello spartano possa diventare quello di tutta la Grecia, la Grecia possa spartanizzarsi ed essere così salvata. Noi siam a disagio rispetto a una città come questa ma per un figlio della guerra come Senofonte tutto questo è bellissimo, ovvero questa città di Efeso che si era trasformata in un accampamento militare. Finisce con la domanda retorica in cui sottolinea il modello spartano al quale ci vuole sedurre, poi ci porterà anche a riflettere sul suo fallimento; perché fallirà quel modello? Perché Sparta non sarà responsabile del prendersi cura degli altri, diventare una potenza egemone diversa da Atene, che non vuole sfruttare gli altri ma li vuole aiutare, è questo il modello che voleva Senofonte. Sparta questo non lo saprà fare, diventerà prepotente come Atene nella gestione del suo impero per questo infine sarà poi sconfitta da Tebe, punita dagli dei secondo Senofonte. EVOLUZIONE DELLA STORIOGRAFIA Il IV secolo è quello più produttivo per quanto riguarda la storiografia: oggi contiamo più di 200 storici che hanno scritto opere di storia. Possiamo immaginare migliaia di intellettuali. Ma di essi non ci è giunto nulla. Tutto è stato cancellato. Conosciamo i nomi e le opere in quanto abbiamo dei cataloghi, e solo alcuni piccoli frammenti 57 “Efemeridi”, ovvero “giorno per giorno”. Alessandro quindi generava la documentazione su di sé. 1) L’episodio del Nodo di Gordio, appena arrivati in Anatolia, egli si reca presso alcuni templi e compie alcuni riti, ad esempio va a Troia (Immagine dell’inizio della grecità). Poi si reca al Tempio di Gordio, dove c’è un nodo che unisce il carro all’animale. La leggenda diceva che chi l’avesse sciolto, sarebbe diventato re dell’Asia. Prima manda messaggeri al tempio, poi ci va lui: esce vincente. Le fonti ci dicono che però forse Alessandro ha tagliato il nodo è non ha sciolto il nodo. Le fonti dicono che “ha risolto l’enigma”. 2) Oasi di Siua: dove c’è un tempio famoso, frequentato dai Greci. Qui viene accolto dai sacerdoti. Il sacerdote lo saluta chiamandolo “Salve figlio di Zeus”, da qui nasce la sua divinizzazione. Questo racconto esprime il disagio di Alessandro che vorrebbe sapere chi è che ha ucciso suo padre. La divinità gli risponde che lui è figlio di Zeus. Gli uccisori di Filippo, che non è tuo padre, sono stati puniti. Alessandro ha risolto tutti i suoi problemi: quindi non deve più cercarli. Alessandro infatti prima di partire stermina alcuni parenti per la morte di suo padre. Poi comunicherà alla madre che è figlio di Zeus. Da qui a pochi anni, Alessandro spedirà lettere, per dire di iniziare i culti per lui. Anche in questo caso di Siua vi è una “contro-fonte”, che dice che il sacerdote gli ha detto “Salve o bambino” solo che non sapeva parlare greco e ci ha provato: volendo dire “paidion” (fanciulletto), avrebbe detto “paidios” (figlio di zeus). Questi sono esempi di controllo della comunicazione. A partire dalla sua spedizione nascono grandi opere storiografiche. Opere che diventano incentrate su un grande personaggio della storia. Negli anni della sua spedizione, tutte le fonti parlano di quella. Dei racconti di coloro che l’hanno scritto diciamo “in diretta” ve ne sono rimasti pochi, quasi nessuno. Di questi storici di prima generazione, abbiamo poche cose. Mentre dovremo aspettare storici di due o tre secoli dopo, come Arriano. -Pseudo Callistene: autore che mette molta fantasia nel racconto. LEZIONE N.11 Si farà all’interno di questa lezione una carrellata sintetica di nomi in riferimento alla storiografia a partire da Alessandro fino all’evolversi in realtà ellenistica e poi romana. [storiografia che è scritta tecnicamente in lingua greca indipendentemente dall’oggetto di cui si occupa] Roma sta per incontrare il modo greco che va a generare quel periodo detto Roma Antica in cui i Greci comunque di per sé non scompaiono, ovviamente. In generale i popoli continuano a produrre cultura anche se non sono la civiltà di riferimento ai nostri occhi. In questo caso anche se Roma è diventata prevalente nel Mediterraneo i Greci continuano a vivere. In questa lezione non saranno utilizzati strumenti di analisi ma più di sintesi. ALESSANDRO: protagonista del racconto degli altri e delle sue esperienze belliche. Noi non possiamo leggere i primi testi degli storici di Alessandro, quelli che hanno avuto di lui una conoscenza diretta. Possiamo leggere dagli autori più tardi le loro 60 opere poiché essi hanno rielaborato i testi originari producendo a loro volta delle opere proprie. Tra gli autori di prima generazione il primo che ricordiamo è CALLISTENE DI OLINTO: pronipote di Aristotele, nasce nel 370, è personaggio celebre nell’eloquenza, accompagna Alessandro durante le prime spedizioni, è infatti il primo storico ufficiale scelto da Alessandro per narrare le sue imprese belliche. Callistene era già uno storico affermato: Efro, l’autore che era stato primariamente scelto da A., si era rifiutato di assumere questo incarico. Callistene viene ricordato per le Elleniche in 10 libri-ricordando Tucidide- che parlano della spedizione delle imprese di Alessandro fino alla battaglia di Gaugamela. Callistene verrà ucciso da Alessandro, cade in disgrazia accusato per un dissidio che viene ricondotto a due motivi: il primo riguarda il rifiuto di compiere la PRO SCUNESIS cioè la genuflessione di fronte al re, un costume ritenuto dai greci orientale poiché il re che viene divinizzato, ma soprattutto Callistene verrà considerato infedele, l’ispiratore intellettuale della Congiura dei PAGGI (i paggi sono i figli degli amici- aristocratici- di Alessandro, che fanno parte dell’accampamento di guerra) per cui verrà condannato a morte. Callistene era il maestro di questi paggi e viene accusato di averli corrotti. Non riuscirà quindi a concludere la sua opera ma solo a parlare delle prime imprese di A. Ad es. Callistene narrerà della battaglia di Isso e dell’Oasi di Siua. ANASSIMENE DI AMSACO: il retore, maestro di A., autore che a sua volta in modo un po' retorico e didascalico narrerà di Alessandro. Anassimene nasce nel 380 è un filosofo cinico che scrive di Alessandro poco dopo la sua morte, faceva parte della spedizione del re scriverà infatti l’“Onesicrito” che significa letteralmente pilota di nave. La sua opera s’intitola “Sull’educazione di Alessandro” il suo interesse è su come si è formato questo grande re, aspetto che viene definito dallo storico Iacobi come un Utopia filosofica, poiché Alessandro diventa già un ideale che vuole portare la pace e la fratellanza, diventa una figura idealizzata che potrebbe unire tutta l’umanità. NEARCO DI CRETA: protagonista della spedizione di A. come Ammiraglio durante il rientro dall’India, Nearco sarà alla guida della flotta che navigherà sui grandi fiumi indiani per poi poter giungere in Mesopotamia. Nearco riflette sulle terra che ha conosciuto e scriverà l’opera “Il periplo dell’India” versione ampliata e letteraria della relazione fatta dopo la lunga percorrenza in nave. Alessandro ad un certo punto si rifiuta di proseguire la spedizione e ordina il rientro perché consapevole che stava per verificarsi un ammutinamento. Quest’ opera si ritiene sia stata rielaborata a partire dagli appunti persoli di Nearco stesso. Questa grande spedizione navale fu alla base di quel sogno di conquistare il mondo occidentale che Alessandro non aveva ancora conosciuto, conquista che pensava di poter fare circumnavigando l’Africa, senza aver immaginato quanto l’Africa potesse essere più grande. L’opera di Nearco è piena di informazioni naturalistiche sulle piante e sugli animali visti e incontrati durante il viaggio, un viaggio di straordinaria conoscenza verso Oriente. TOLEMEO figlio di Lago: capo delle guardie del Re, dal 330 in poi vivrà più vicino ad Alessandro e questi gli affiderà molti compiti delicati come inseguire Besso, la marcia in Battriana e in Egitto, era il grande organizzatore delle spedizioni, doveva badare alla sua vita e sarà uno di quei successori che prenderanno parte alla suddivisione del potere all’interno dell’Impero e sarà il primo Re d’Egitto dando origine alla dinastia Tolemaica (che dominerà l’Egitto in età ellenistica). Muore tardi, a 84 anni (nel 283 a.C.) e solo in questi ultimi anni scrive “Anabasi di Alessandro” la sua opera dei 61 successi militari e politici di Alessandro accompagnati dalla descrizione dei viaggi, con una forte caratterizzazione degli aspetti geografici, etnografici e topografici. Scrive facendo direttamente riferimento ai Diari di Alessandro le Efemeridi, diari delle corti aggiornate di giorno in giorno. Le Efemeridi producono conoscenze che piaceranno agli autori successivi, soprattutto ad Ariano. Tolemeo è quasi in disparte rispetto alla narrazione, vuole sembrare più obiettivo e viene lodato dalle fonti per questa sua caratteristica: Ariano per esempio dice di fidarsi di Tolemeo perché è un re e un re dice sempre la verità. Tolemeo che scrive da anziano non ha più bisogno di dire che ha studiato, è autorevole di suo perché ormai è un Re Dio che non ha più bisogno di giustificarsi. Questo è un arretramento della considerazione di cosa significhi fare storiografia. Tolemeo è attendibile e incontrastabile perché è di per sé un Re Faraone per cui non sono importanti le fonti ma la sua regalità. Ci si è allontanati dalla Polis, la sua attendibilità è assoluta e verità in quanto Dio. CLITARCO sappiamo poco di lui, non fece parte alla spedizione, è il primo tra gli storici autori che non fa questa esperienza, scrive la sua storia in 12 libri e la scrive ad Alessandria d’Egitto- la sua è la prima opera che inizia a diffondersi dopo la morte di A., scrive intorno al 300 a.C, è il primo libro importante su A., da cui scriveranno poi Diodoro Siculo e Curzio Rufo che fanno riferimento a quest’opera. È una storia spesso fantasiosa, poco sobria, non oggettiva. ARISTOBULO: Uno degli ultimi autori di prima generazione, ha partecipato alla spedizione in India, ritornato dalla spedizione riceve l’incarico di restaurare la tomba di Ciro che era stata rovinata e saccheggiata mentre Alessandro era in India. Scrive anche lui tardi, all’età di 84 anni, “si vive con Alessandro e si scrive di lui alla fine della vita”. Non ha un titolo specifico la sua opera parla di A. dalla salita al trono alla morte. Anche con lui ci sono elementi geografici e etnografici. C’è una tendenza a combattere gli aspetti fantasiosi. Riferimento alle Efemeridi, i diari della corte e agli upomnemata- memorie-, di cui parla Diodoro successivamente, i diari personali di cui molti rivendicano il possesso. In qualche modo avere i diari di Alessandro era come avere il suo corpo per poterne diventare i suoi legittimi eredi. Diodoro dice che in questi diari si farebbe riferimento al sogno di Alessandro della costruzione di un grande unico popolo che avrebbe messo insieme oriente e occidente. STORICI DI SECONDA GENERAZIONE il Prof rimanda al file PDF Ci avviciniamo in continuità e non settorialmente alla storia Romana dove non vi è una frattura tra mondo greco e romano come abbiamo visto nelle lezioni precedenti rispetto alla scrittura alfabetica dove vi è un’unica scrittura per diverse grafie o alle guerre macedoni che si alternano alle guerre puniche in cui Roma deve affrontare due nemici affrontandone uno per volta affinché questi nemici non si alleino: da qui si vede l’esistenza di un mondo omogeneo; è infatti lo sguardo dello storico che si sofferma su un aspetto piuttosto che un altro. Il primo a narrare questo intreccio della storia greca con quella romana è Timeo cha parla della storia di Sicilia. POLIBIO: la storia romana e greca cominciano a intrecciarsi. P. nasce nel 205 a.C., è figlio di un leader militare della Lega Achea, è uomo greco di Megalopoli, siamo nel 62