Scarica Appunti diritto ecclesiastico e più Appunti in PDF di Diritto Ecclesiastico solo su Docsity! DIRITTO ECCLESIASTICO 5.10 (1° LEZIONE) IL DIRITTO ECCLESIASTICO Diritto ecclesiastico—è un titolo un po’ antico in quanto sembrerebbe far pensare che il diritto ecclesiastico sia il diritto della chiesa, invece il diritto della chiesa si chiama in senso stretto “diritto canonico”. Tradizionalmente perchè si chiama diritto ecclesiastico? Perchè quando è nata questa materia (1800) nei corsi universitari, quanto si intendeva spiegare a lezione era il diritto dello Stato nei confronti della chiesa cattolica, che nel 1800 (a partire dallo statuto Albertino del 1848) era la religione ufficiale nello stato italiano. Quindi la chiesta cattolica era considerata l’interlocutore privilegiato e quasi unico dei rapporto dello stato con le confessioni religiose. Le altre confessioni religiose erano tollerate secondo le leggi che le regolavano. Quindi vi era una religione ufficiale dello Stato, ciò non toglieva che vi era una libertà di culto nel nostro ordinamento. In Italia nell’800 erano numerose le confessioni religiose: es comunità ebraiche o le comunità valdesi. Tradizionalmente quindi si studiavano i rapporti dello Stato con la chiesa cattolica (ambito patrimoniale, matrimoniale eccetera) e per questo era un vero e proprio diritto ecclesiastico dello stato nei confronti della chiesa cattolica. Il diritto ecclesiastico è quanto lo stato legiferava in materia propria della chiesa cattolica o nei riguardi della chiesa cattolica. Non a caso in altri ordinamenti universitari (es la Germania o la Spagna) il diritto ecclesiastico si chiama più correttamente "diritto ecclesiastico dello Stato” per evidenziare che non è un diritto confessionale ma un diritto vero e proprio dello Stato. Quello che noi studiamo è il diritto dello Stato. Ma quale diritto dello Stato? È un diritto dello Stato che regola che cosa? Essenzialmente il fenomeno religioso, la libertà religiosa, i rapporti dello stato con le confessioni religiose e la libertà religiosa della singola persona e dell’associazione, ossia quell’ambito del diritto che regola la rilevanza pubblica e giuridica del fatto religioso. Quindi un diritto che studia i profili giuridici della rilevanza della religione all’interno dello Stato. Non si può dire che sia diritto privato, pubblico, amministrativo, in quanto il diritto ecclesiastico studia la rilevanza del fatto religioso in questi ambiti del diritto. In realtà è un diritto “trasversale”, in quanto non si può limitare a un ambito specifico del diritto—poi magari tradizionalmente è più considerato materia di diritto pubblico (per prof erroneamente), però riguarda tutti. Studia come lo Stato regola questo fenomeno. In realtà studia la legislazione statale in ambito religioso, sia che lo Stato detti norme in maniera unilaterale, sia che queste norme sono dettate come esecuzione o approvazione di un accordo con una confessione religiosa (sia cattolica che diversa da quella cattolica). Quindi il diritto ecclesiastico è un diritto che tiene presente anche la rilevanza giuridica e culturale della religione stessa, è un diritto che ha un suo rilievo costituzionale. La costituzione nostra verrà a essere il filo rosso che collega tutte le nostre lezioni. La nostra costituzione, la norma fondamentale del nostro ordinamento giuridico, è una norma che tutela ampiamente la libertà religiosa, la quale è una libertà più normata in tutta la carta costituzionale—fattore religioso non è qualcosa di accendere in un ordinamento giuridico (in una società come la nostra) ma un elemento essenziale della giuridicità degli ordinamenti. La nostra costituzione ha 4 norme riguardanti la libertà religiosa: art 7-8-19 e 20. La cosa fondamentale è che di religione si parla non solo in questi 4 articoli in maniera esplicita bensì emerge anche in altre norme del nostro dettato costituzionale: pensiamo ad esempio l’art. 3 (principio di uguaglianza)—la religione è uno dei cardini del principio di uguaglianza. Pensiamo anche all’art. 117 della Costituzione 2° comma lettera C, sulla potestà legislativa e competenze dello Stato/regione: tutto ciò che riguarda anche i rapporti dello Stato con le confessioni religiose. 4 norme nella costituzione riguardanti la libertà religiosa: • Art 7 e 8 tutelano quella che definiamo “la libertà istituzionale”—libertà delle confessioni religiose di poter agire come ordinamenti giuridici all’interno del nostro ordinamento. L’art. 7 riconosce l’autonomia della Chiesa cattolica, l’art 8 l’autonomia delle altre confessioni religiose, 1 la loro capacità di stipulare accordi con lo Stato. La libertà quindi di tutte le confessioni religiose davanti alla legge, tutte sono in una condizione di parità tra di loro. Riferimento al principio di uguaglianza. Libertà istituzionale all’interno del nostro ordinamento. Art 7 della costituzione è l’unico che contiene un esplicito rinvio a un accordo di diritto internazionale (patti lateranensi), vi è un richiamo a un accordo internazionale che viene “costituzionalizzato”; • Accanto alla libertà istituzionale, abbiamo la libertà religiosa individuale (art 19 Costituzione), a tutti viene riconosciuta la libertà religiosa. La norma costituzionale lo riconosce non solo ai cittadini, ma a tutti (anche apolidi, a stranieri eccetera). La libertà del cittadino di credere o non credere—questa norma, che inizialmente venne pensato solamente in positivo (credere), la Corte costituzionale l’ha interpretata anche in senso negativo (non credere), ossia gli atei; • Art. 20 Costituzione tutela la libertà religiosa collettiva, nel senso che la libertà religiosa è anche degli enti e delle associazioni, non solamente delle confessioni religiosi in quanto tali o del singolo. Art 20 stabilisce un principio di uguaglianza tra tutti gli enti caratterizzati dal fattori religioso e gli enti di diritto comune. Un ente per il fatto di essere religioso, non può essere sottoposto a trattamento deteriore rispetto a un ente che religioso non è. Es: un’associazione religiosa non può subire un trattamento giuridico peggiore rispetto a un’associazione sportiva che non è caratterizzata religiosamente. È una specificazione del principio di uguaglianza sostanziale. Se la norma stabilisce un trattamento deteriore per tutti gli enti religiosi o non religiosi allora la norma non è contraria a costituzione, ma solo per religiose allora violazione dell’art. 20 della costituzione e dell’art. 3 (principio di uguaglianza sostanziale). La nostra costituzione quindi tutela in maniera molto ampia la rilevanza pubblica e giuridica del fatto religioso. Abbiamo detto che in realtà la libertà religiosa, nel nostro ordinamento vi è una peculiarità degli art 7 e 8 della carta costituzionale. La peculiarità è che lo Stato non legifera unilateralmente in ambito religioso ma vi è una sorta di principio di bilateralità, ossia le norme che regolano i rapporti di una confessione religiosa o dei fedeli di una confessione religiosa, sono negoziate con la stessa confessione religiosa. “Negoziazione legislativa”: quando vi sono norme riguardanti un certo settore specifico della vita sociale, lo stato può ricercare un accordo con i rappresentanti di quel determinato settore istituzionale per regolarlo nella maniera più conforme e corretta in modo da rispecchiare nella maniera più conforme la natura di quel settore stesso. Un esempio sono i contratti collettivi. Lo stesso avviene nel fatto religioso e questo è previsto dall’art. 7, che prevede che i rapporti tra stato e confessione cattolica vengano regolati dai patti lateranensi e prevede anche la possibilità di modifica di essi, effettivamente avvenuta nel 1984, anch’essa resa esecutiva con legge ordinaria in Italia. La modifica di questi accordi bilateralità devono avvenire mediante clausole di bilateralità, cioè se i patti devono essere modificati ciò deve avvenire bilateralmente. Discorso diverso è per le confessioni religiose diverse da quella cattolica, art. 8 C—regolati per legge sulla base di intese: è la legge che regola i rapporti con confessioni religiosi diverse da quella cattolica ma sulla base di intese, è necessaria la previa intesa con quella confessione religiosa (non cattolica) e poi i rapporti con quella sono approvati mediante legge, che deve rispecchiare l’accordo (intesa) con la confessione religiosa stessa. Quindi uno dei principi fondamentali della libertà religiosa nel nostro ordinamento è quello della bilateralità, per cui le norme che regolano il fatto religioso sono in linea di massima concordate, negoziate, fra lo stato e le confessioni religiose di riferimento. Ciò non toglie che lo Stato abbia una sua possibilità di normare anche unilateralmente, prescindendo dalla bilateralità. Sentenza CC: non vi è nessun obbligo, nonostante l’art 8, che una confessione religiosa di stipulare una intesa con lo Stato e i rapporti di conseguenza vengono dettati unilateralmente dallo Stato. La legge 1159/1929 in maniera dettagliata regola la situazione giuridica delle confessioni religiose diverse da quella cattolica che non abbiano stipulati accordi con lo Stato. Non è l’unica legge: norme in ambito di previdenza sociale sono un altro esempio (dettate in modo unilaterale dallo Stato seppur precedute da accordi), o tutte le norme dettate a partire dal mese di marzo dal governo italiano in tema di libertà religiosa: norme che per limitare la possibile diffusione del Covid 2 viene ribadito un principio, nel 2° viene evidenziato come questo principio ha una sua applicazione, come può trovare una sua composizione all’interno del nostro territorio. Quindi nel secondo comma viene ribadita che la via principale + quella principale, regolati dai patti lateranensi. Viene richiamato in maniera esplicita l’accordo tra la chiesa cattolica e lo Stato. Se prendiamo altre norme (es art 117), essa non fa riferimento ad altri accordi internazionali ma solo ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Poteva richiamare tanti altri obblighi internazionali ma no, ha richiamato in maniera generale i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Invece l’art. 7 della costituzione ricorda che nei rapporti tra stato e chiesa cattolica sono regolati dai patti lateranensi. I PATTI LATERANENSI Cosa sono i patti lateranensi? I patti lateranensi sono un accordo internazionale stipulato nel 1929. La funzione di questi patti lateranensi quali sono? Quali erano i motivi storici/politici che portarono a un accordo, a un trattato tra lo Stato italiano e la chiesa cattolica? Breve excursus storico: non si può comprendere l’art 7 della costituzione se non si approfondiscono le radici storiche. I rapporti tra i due soggetti sono sussistiti da sempre nel nostro territorio, ma non sempre sono stati idilliaci, anzi, molte volte di forte contrasto. Metà del 19esimo secolo: con i risorgimento italiano si stava poco a poco creando l’unità nazionale. I vari ordinamenti giuridici sovrani che costituivano l’Italia poco a poco andavano uniformandosi fino a crearsi nel 1861 il regno d’Italia, quindi fino a crearsi dal regno di Sardegna nel 1861 il regno d’Italia, con capitale prima a Torino poi a Firenze e poi c’era il problema di Roma capitale. Il problema dell’unificazione italiana era che nel 1860 tutta l’Italia era unificata e l’unico territorio che non apparteneva al regno d’itala (oltre ad alcuni territorio di confine appartenente all’impero austro ungarico) vi era, all’interno del territorio italiano, il territorio dello stato della chiesa. La Chiesa aveva una sua sovranità non solo spirituale e universale (su tutti i fedeli cattolici) ma anche sovranità territoriale, aveva un suo patrimonio (definito di san Pietro). Il sovrano dello stato della chiesa era il romano pontefice che da un lato era pastore universale della chiesa (di tutti i cattolici di tutto il mondo, indipendentemente dalla nazione di origine) (sovrano spirituale) e dall’altro era ani he sovrano terreno, di uno specifico territorio dello stato della chiesa, che si estendeva nei territori dell’Italia ventrale (Lazio, Campania, marche, Abruzzo e Molise, circa). In questo periodo la penisola italiana era stata conquistata tutta dalle truppe dei Savoia, quindi dal regno di Savoia che a partire dal 1861 si chiamerà regno d’Italia e l’unico territorio non sottoposto a questa sovranità era quello dello Stato della chiesa. Lo stato della Chiesa era anche sotto la protezione del regno di Francia (dell’impero francese)quindi godeva di una protezione molto forte dal pdv politico/sovrano, quindi era anche dal pdv politico/militare una possibile invasione del territorio pontificio non era compito facile per lo stato italiano—invadere lo stato pontificio significare invadere lo stato del Papa e quindi andare contro il Papa, sovrano si temporale ma spirituale. Andare contro di lui significava andare anche contro colui che rappresentava milioni di cattolici di tutto il mondo. Quindi era un problema delicato dal pdv politico, sociale, istituzionale. Sia a livello europeo (stato pontificio alleato della Francia) sia a livello mondiale in quanto il papa era sovrano spirituale di un milione di cattolici sparsi in tutto il mondo. La situazione si sbloccò nel 1870. Nel 1870 (durante svolgimento del concilio ecumenico della Chiesa cattolica, concilio vaticano 1°) si crearono le condizioni politiche e giuridiche perchè lo stato italiano potesse invadere lo stato pontificio—venne men o la forza francese sconfitta a Sedan dai tedeschi, quindi venne meno l’alleanza francese (la sua forza politica e militare), quindi lo stato pontificio perse il suo alleato politico in Europa e al contempo si crearono anche le condizioni politiche migliori per poter invadere lo stato pontificio. Nel 1870 le truppe italiane giunsero sino a Roma e la conquistarono (20 settembre 1870). Le truppe pontifice povera una resistenza simbolica e lo Stato italiano entrò in Roma. Il pontefice si ritira nell’attuale città del Vaticano (entro le mura leonine), il regno d’Italia rispettò la ritirata pontificia tanto che non oltrepassò il confine della piazza di s. Pietro. Venne rispettata il possesso del pontefice su una 5 zona del territorio, senza invaderlo. Lo stato pontificio venne invaso e venne debellato, non si giunse a nessun accordo. Il pontefice (che all’epoca era Pio IX) si ritenne prigioniero all’interno del vaticano e iniziò un periodo forte di contrasti con lo stato italiano, contrasti che furono più verbali che reali. In realtà si giunse a una sorta di modus vivendi tra la Chiesa cattolica e lo Stato italiano, fino al 1929 dove si raggiunse un accordo tra i due ordinamenti. Lo stato italiano non si limitò a invadere lo stato pontificio, ma una volta edificata anche politicamente amministrativamente la penisola emanò nel 1871 una legge, la legge delle Guarentigie Pontificie, che regolava unilateralmente la situazione della chiesa cattolica. Per quanto riguarda 1° titolo di questa legge, venivano garantire al Pontefice e alla santa sede alcune libertà, non una sovranità ma una propria autonomia (e quindi libertà)—per esempio veniva garantito il possesso del territorio vaticano e il diritto di legazione attiva e passiva, ossia veniva riconosciuto alla Santa sede i l diritto di invitare e ricevere ambasciatori. Questo significava implicitamente il riconoscimento di una sovranità non territoriale della Chiesa—punto importante perchè questo riconoscimento (implicito di una sovranità) era il primo riconoscimento di un ordinamento non territoriale sovrano nell’ordinamento giuridico internazionale, nel quale fino a quel tempo il concetto di sovranità era legato a quella di territorialità. Lo stato veniva considerato l’unico soggetto sovrano dell’ordinamento internazionale. Riconoscendo alla SS il diritto di legazione si affermava una sovranità in quanto soggetto sovrano. Anche l’ordine di malta che non aveva un suo territorio sempre richiamava la necessità di una base territoriale per esercitar i suoi poteri. Abbiamo un ordinamento che senza territori esercita la propria sovranità— es possibilità di inviare legati pontifici e di ricevere ambasciatori. Queste erano alcune delle garanzie riconosciute alla Chiesa Cattolica unilateralmente da parte dello Stato italiano. La chiesa cattolica non accettò mai la legge delle Guarentigie pontifice. Tuttavia non era garantita da norme di tipo internazionale. La norma così come unilateralmente era stata dettata dallo stato, solo lo stato poteva modificarle magari anche restringendo le competenze della Chiesa stessa. 12.10 (Segue: i Patti Lateranensi) Stipulati nel 1929 per porre fine alla “questione romana”, la quale ebbe il suo fulcro il 20 settembre 1870 quando le truppe del regno d’Italia comandata dal generale Cadorna entrarono a Roma attraverso la breccia di Porta Pia. Una situazione che portò il pontefice a dichiararsi “prigioniero in Vaticano”, le truppe italiane non oltrepassarono il limite di piazza s. Pietro e iniziò un forte periodo di contrasto (più letterale che fisico) tra Santa Sede e Italia. Il primo punto di contrasto fu la legge delle guarentigie, ossia quella legge del 13 maggio 1871 con la quale il governo italiano regolò i rapporti con la Santa Sede in seguito alla debellatio dello stato pontificio. La legge nel primo titolo assicurava al romano pontefice condizioni che gli potessero garantire l’esercizio libero del proprio potere spirituale, l’immunità dei luoghi in cui risiedeva e corpo di guardie armane nonché il diritto di legazione attivo e passivo (implicito riconoscimento della sovranità della Santa Sede). La Santa Sede non accettò mai la legge di guarentigie, lo rifiutò in maniera esplicita nel 1871—la respinse con un decreto in cui affermò il principio del “non expedit”, ossia non conviene che i cattolici partecipino alla vita politica e giuridica del paese. Con questo decreto fu proibito ai cattolici italiani di partecipare alle elezioni e alla vita politica del paese. Decreto della Sacra penitenzeria del 10 settembre 1874. Ma ci si rese conto che applicare il non expedit, quindi non partecipare alla vita politica del paese avrebbe giustificato a lasciare il paese in mano a chi non era cattolico o addirittura a chi era anti cattolico. Quindi da un atto di astensione ne stava derivando un danno maggiore di quello che si sarebbe potuto immaginare. Questo atto di conseguenza venne poco a poco attenuato, nel 1905 con l’Enciclica il “Fermo Proposito”, enciclica è un documento formale pontificio attraverso cui il pontefice esercita un proprio magistero. Il papa pio 10 con tale enciclica del 1905 non revocò formalmente il decreto 6 tuttavia permise i cattolici su base locale l’esercizio della vita politica—venne lasciato ai vescovi, preposti a capo delle singole circoscrizioni territoriali, il compito di verificare se vi fossero o meno le condizioni per l’esercizio della vita politica dei cattolici. Successivamente nel 1913 (sempre sulla scia dell’ambito delle facoltà concesse da questa enciclica) venne stipulato il patto Gentiloni. Il patto gentiloni era un patto fra i cattolici e i liberali, tra l’unione politica dei cattolici e i liberali (di Giovanni Giolitti) per permettere la partecipazione dei cattolici alla vita politica del paese. Perchè venne stipulato questo patto? Perchè i liberali si erano resi conto di due elementi: Era stato appena introdotto il suffragio universale (1912): prima il sistema elettivo italiano era su base censuale. Votava chi era dotato di un certo patrimonio, quindi il diritto di voto era limitato soltanto a chi godesse di un certo patrimonio, era una sorta di diritto elitario. La situazione fu modificata nel momento in cui venne introdotta in Italia il suffragio universale maschili (verrà esteso alle donne solo nel 1946, con referendum Repubblica/monarchia). Con l’introduzione del suffragio universale il numero degli aventi diritto votò aumentò radicalmente: circa da 3 milioni a 9 milioni. Molti nuovi elettori erano di classe proletaria e votavano il partito socialista o il partito radicale—il partito liberale voleva frenare l’avanzata di questi due partiti e l’unico modo possibile (o il migliore) fu quello di allearsi con i cattolici, in quanto la chiesa cattolica era l’unico elemento istituzionale che godeva di un forte appoggio popolare in tutto il regno d’Italia. Quindi i liberali vedevano nel loro rapporto con l’unione politica dei cattolici italiani una possibilità di frenare l’avanzata dei socialisti e di creare un fronte “moderato”. Si arrivò così a un accordo tra i due, in base al quale aveva potuto candidarsi sia i cattolici liberali sia i cattolici avrebbero potuto votare, in particolare quei candidati liberali che si impegnavano a incrinare la loro politica come deputato 7 punti fondamentali. Quindi i cattolici potevano votare quei candidati cattolici o liberali che si fossero impegnati a incarnare nella loro politica come deputati sotto punti considerati irrinunciabili (un “eptalogo”). Innanzitutto c’è l’impegno a non introdurre il divorzio o l’impegno a introdurre l’insegnamento religioso obbligatorio nella scuola, la difesa di libertà di associazione e coscienza (eccetera). Il patto fu concluso in maniera informale, non in maniera formale. Le elezioni del 1913 furono un vero e proprio successo del patto, i liberali ebbero quasi il 50% dei voti. Quindi i liberali, da alleati dei radicali (storicamente) voltarono la faccia e si allearono con i cattolici, passando così da un fronte liberal socialista (progressista) a un fronte liberal moderato. Quindi con il patto Gentiloni vi fu l’ingresso ufficiale dei cattolici in politica. Al termine della prima guerra mondiale al situazione mutò radicalmente i quanto terminata la 1 guerra mondiale i cattolici fondarono un loro partito—in realtà fu fondato il partito popolare da don Sturzo, sacerdote siciliano di Caltagirone, che era un partito di ispirazione cattolica però aperto a tutti i ruoli “liberi e forti”. Si diede vita così al partito popolare italiano (di ispirazione cattolica) che partecipò alle prime elezioni successive alla prima guerra mondiale ed ebbe molti deputati. Dopo le elezioni successive al patto gentiloni numerosi soggetti passarono dal partito liberale al popolare italiano. Nelle elezioni del 16 novembre 1919, le prime dopo la riforma elettorale in senso proporzionale, il partito popolare raccolse più del 20% dei voti, vedendosi eletti ben 100 deputati. Si creò una forza indispensabile per la formazione di qualsiasi governo. Questa forza aumentò successivamente anche nelle elezioni del 1921 (da 100 a 108 deputati). Nel frattempo in Italia stava iniziando a diffondersi il partito fascista. Il partito popolare cercò di frenare l’ideologia fascista partecipando al modello di riforme di Mussolini. Dopo la marcia su Roma il re aveva affidato a Mussolini la formazione di un governo nel quale entrarono anche alcuni membri del partito popolare. L’obiettivo era di frenare la violenza fascista, ma era pura illusione tanto che nel 1923 i membri del partito popolare uscirono dal governo stesso. Che cosa accadde: nelle elezioni successive, del 1924, avvenute in un clima di forte violenza fascista, il partito popolare riuscì comunque ad ottenere un buon numero di voti con 39 deputati (circa 10%) e fu il primo dei partiti non fascisti, gli altri partiti scomparvero e il partito popolare divenne la seconda forza politica. Dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti (1924) divenne chiaro che ogni forma di collaborazione con il partito fascista era inutile e pericolosa, quindi il partito 7 SS e Stato italiano, per giungere così “a una sistematizzazione definitiva nei reciproci raccordi conforme a giustizia e a dignità delle due”. Il trattato riconosceva alla sanità sede la sovranità indispensabile per poter adempiere alla sua funzione spirituale. Da un lato creazione dello Stato di Città del Vaticano (a cui governo c’era la SS ), dall’altro il trattato attribuisce alla SS la qualifica di 2 soggetto sovrano dell’ordinamento internazionale (art 2). Alla SS venne riconosciuto il diritto di legazione attiva e passiva e la SS dichiarava in maniera unilaterale (riportata nel trattato all’art 24) che sarebbe stata estranea alle competizioni temporali tra gli Stati (nell’ordinamento internazionale) a meno che le parti contendenti non facessero appello concorde alla sua missione di pace, riservandosi in questo caso di far valere la sua potestà spirituale e morale. Conseguentemente la città del Vaticano sarebbe stata considerata sempre territorio neutrale e inviolabile, importante perchè c’era una norma che avrebbe dimostrato la sua essenzialità di l’ a pochi anni—nel 1943 quando ne le truppe tedesche (prima) ne le truppe alleate (poi) oltrepassarono il confine di piazza san Pietro per rispettare la neutralità internazionale dello Stato di Città del vaticano. Una norma essenziale per riservare la sovranità spirituale e temporale della SS. Abbiamo anche ricordato che, con la convenzione finanziaria si giunse alla liquidazione dei crediti della SS verso l’Italia ritenuti una sorta di indennizzo dei danni subiti della sede apostolica per la perdita nel 1870 del patrimonio di s. Pietro (dello Stato pontificio). Pur essendo la somma pattuita notevolmente inferiore al danno effettivamente patito dalla SS, questa dichiarò in modo conclusivo sistemati i rapporti finanziari con l’Italia. In virtù del trattato, la santa sede dichiarò “definitivamente e irrevocabilmente eliminata la questione romana” e riconobbe il Regno d’Italia sotto la dinastica di casa Savoia, quale casa regnante anche sui territori già pontifici + riconoscimento di Roma capitale, rinunciando definitivamente a ogni mira sovrana su Roma stessa. A sua volta l’Italia (art 26) fece lo stesso: riconosceva lo Stato della città del Vaticano sotto la sovranità del romano pontefice. Art 1 trattato riconosceva la religione cattolica come religione ufficiale, facendo riferimento esplicitamente all’art 1 statuto Albertino (4 marzo 1848). L’art. 1 dello Statuto Albertino affermava che la religione cattolica è la sola religione dello Stato, gli altri culti, ove esistenti, sono tollerati conformemente alle leggi. vi era un riconoscimento esplicito della religione cattolica come religione di Stato ed gli altri culti erano tollerati conformemente alle leggi. Anche gli altri culti ovviamente avevano ampia libertà di esercizio nel nostro ordinamento. IL CONCORDATO—venne redatto in modo da costituire, come si dice nella premessa, "un necessario completamento del trattato e inteso a regolare le condizioni della Chiesa e dell’Italia assicurando il libero esercizio del culto e la sua giurisdizione in materia ecclesiastica” (art 1 del concordato)—vi era un ampio riconoscimento delle libertà della chiesa. Quali furono gli ambiti di azione regolato da questo protocollo? Erano molti, indubbiamente. Pensiamo ad esempio al tema degli enti ecclesiastici—con il concordato la condizione giuridica delle persone giuridiche ecclesiastiche superò la fase di “tolleranza passiva” per arrivare alla tolleranza attiva dello Stato. Infatti, nel periodo antecedente ai patti lateranensi (a partire dal 1850), lo Stato italiano con determinate leggi aveva diminuito non solo la capacità d’agire, ma anche la capacità giuridica degli enti, in particolare modo degli enti religiosi, giungendo quindi a privare della personalità numerosi enti ecclesiali (la maggior parte di essi) ed espropriandone il relativo patrimonio. Le cosiddette leggi “eversive” del 19° secolo. Quindi menomazione della capacità giuridica ma anche della capacità d’agire perchè lo Stato riconosceva una specifico potere autorizzatorio, nel senso che gli enti ecclesiastici non poteva acquisire o alienare beni se non previa autorizzazione Nel diritto canonico per “Santa Sede” si intendono due cose: sia l’ufficio del romano pontefice 2 che l’insieme degli organismi che coadiuvano il romano pontefice nella missione di governo della Chiesa Universale. Ha una duplice accezione. 10 del ministero dell’interno. Gli unici acquisti esentati da ciò erano gli acquisti degli enti a titolo oneroso di beni mobili: solo questi non necessitavano le autorizzazioni governative, tutti gli altri sì. Vi era quindi una forte diminuzione della capacità giuridica e d’agire degli enti religiosi. Con il concordato venne riconosciuta, fermo restando che rimaneva un controllo dello Stato sugli enti religiosi (in particolare sulla loro attività negoziale) si tornò a riconoscere la possibilità di costituire enti religiosi che avessero personalità giuridica nell’ordinamento giuridica italiano (quindi personalità giuridica nel diritto civile). In linea di principio era confermata la personalità giuridica degli enti che non l’avessero perduta sotto il regime delle leggi eversive dell’asse ecclesiastico e, oltre al riconoscimento nominale di alcuni enti (es le associazioni religiose approvate dalla SS o alcune confraternite) la normativa concordataria prevedeva una generale clausola grazie alla quale qualunque istituto ecclesiastico avrebbe potuto ottenere la personalità giuridica nel nostro ordinamento. Era necessario che l’ente fosse approvato o retto dall’autorità ecclesiastica competente. Abbiamo molte altre norme riguardanti il concordato: ad esempio quelle sul sostentamento del clero, con le quali veniva ribadito il vecchio sistema beneficiale, integrato da un aiuto specifico dello Stato, attraverso il cosiddetto “supplemento di congo” (vedremo). Veniva riconosciuto anche esplicitamente anche il matrimonio: punto molto importante. L’accordo stabiliva che il matrimonio celebrato secondo il rito canonico e debitamente trascritti nei registri dello stato civile avrebbe conseguito rilevanza civile e di conseguenza venne riconosciuta efficacia civile alle sentenze ecclesiastiche che avessero statuito sulla validità del matrimonio trascritto nonché ai provvedimenti pontifici di scioglimento di un matrimonio rato e non consumato. Su questi matrimoni la competenza a decidere era riservata esclusivamente ai tribunali ecclesiastici. Qual è la sostanza di questa norma (che poi vedremo più nel dettaglio)? Sin dal 1865 nell’ordinamento giuridico italiano (tolta la parentesi del dominio napoleonico) l’unico matrimonio riconosciuto era quello cattolico (religioso), non vi era un matrimonio civile. In alcuni stati (es lombardo veneto, sotto gli austriaci) venivano riconosciuti anche i matrimoni di altre confessioni religiose (es matrimonio ebraico) ma comunque non vi era un matrimonio civile. Il matrimonio religioso costituiva il presupposto della condizione coniugale civile, costituiva un vero e proprio presupposto in senso tecnico. Poi nel 1865 la situazione si modificò: con il nuovo codice civile, che ricalcava il codice napoleonico del 1805, l’unico matrimonio riconosciuto dall’ordinamento giuridico italiano è quello civile. Vi è libertà di sposarsi anche religiosamente (con il rito cattolico, o protestante o altri), ma l’unico matrimonio riconosciuto dallo Stato è quello civile. Si passa dal matrimonio religioso cattolico obbligatorio al matrimonio civile obbligatorio, fermo restando la libertà di potersi sposare anche religiosamente—quindi una persona appartenente a una confessione religiosa (cattolica o altre) qualora volesse sposarsi doveva sottoporsi a un doppio rito: quello civile e quello religioso. La situazione quindi era di una doppia celebrazione. Non fu introdotto in Italia l’obbligo di celebrare il matrimonio civile prima di quello religioso, obbligo tuttora presente nell’ordinamento tedesco e francese, non vi è un obbligo di precedenza anche se la Chiesa consigliava di celebrare prima il civile e poi il matrimonio religioso (deducibile ad esempio dal catechismo di Pio X). La situazione si modificò con il cordato del 1929, con cui venne riconosciuto al matrimonio religioso il riconoscimento civile. Il matrimonio religioso poteva assumere efficacia civile, una volta che il certificato (l’atto) di matrimonio canonico fosse trascritto nei registri dello Stato civile. Vi era dunque un riconoscimento civile del matrimonio religioso, che costituiva un presupposto degli effetti civili ma è necessario un atto in più, ossia la trascrizione sui registri dell’atto di matrimonio da parte dell’ufficiale dello Stato civile. Una volta scritto il matrimonio aveva effetti civili. Non è più necessaria la doppia celebrazione matrimoniale ma con la sola celebrazione canonica al matrimonio erano riconosciuti gli effetti civili. Tutto ciò comportava che lo stato italiano riconosceva la giurisdizione esclusiva della Chiesa sulla validità o invalidità del matrimonio e sullo scioglimento del matrimonio per dispensa pontificia. Lo Stato così rinunciava a una sua porzione di sovranità per ridonare (come si afferma nell’art 34 del concordato) all’istituto del matrimonio (alla base della famiglia) dignità conforme alle tradizioni cattoliche del suo popolo. Questo comportava l’uniformità di status canonistico di coniuge con lo 11 stato civilistico, nel senso che lo stato civilistico di coniuge sorgeva con il matrimoni religioso e cadeva quando il vincolo fosse stato dichiarato nullo dalla Chiesa o quando fosse dichiarato sentenza di scioglimento del matrimonio religioso cattolica. Da un lato quindi lo stai riconosceva il matrimonio religioso, quindi i coniugi celebravano il matrimonio innanzi al ministro di culto cattolico, che redigeva un atto di matrimonio, che doveva essere trasmesso all’ufficiale di stato civile, il quale a sua volta provvedeva a trascriverlo nei registro dello stato civile e da quel momento il matrimonio canonico assumeva efficacia civili, quindi le parti venivano considerate marito e moglie anche per l’ordinamento giuridico italiano. La trascrizione aveva effetti retroattivi. Era questo il cosiddetto “matrimonio concordatario”, quindi il matrimonio religioso canonico destinato ad assumere effetti civili. Il matrimonio solo civile rimane definito come matrimonio “canonico” (senza effetti civili). Fu emanata anche una legge unilaterale da parte dello Stato destinata a dare applicazione alla parte del Concordato concernente il matrimonio—legge n 847/1929 che applicava nel nostro ordinamento la parte del concordato relativa al vincolo matrimoniale. Come altresì lo stato aveva emanato la legge 848/1929 (ora non più vigente) destinata a dare applicazione nel nostro ordinamento alla parte del concordato riguardante gli enti e i beni ecclesiastici. Altre materie trattate dal concordate sono ad esempio l’istruzione religiosa: esso stabiliva che l’insegnamento della dottrina cristiana (art 36 concordato) era esteso anche alle scuole medie. Insegnamento introdotto nel 1928 nelle scuole elementari esteso anche alle medie e questo insegnamento doveva essere impartito sotto il controllo e con la cooperazione dell’autorità ecclesiastica, sia per la scelta degli insegnanti che per l’adozione dei libri di testo. Punto essenziale è che vi era l’obbligo di partecipare alle elezioni religiose, tuttavia vi era anche la possibilità di essere esentati da questo istituto. In conclusione, il concordato regolava le cosiddette “materie miste”, quindi quelle sulle quali tanto lo Stato quanto la Chiesa cattolica vantavano una propria competenza e quindi intendevano regolare di comune accordo quelle materie per porre limiti alle sovranità reciproche degli ordinamenti con reciproche concessioni. Lo stato italiano accanto al riconoscimento dei patti lateranensi, emanò anche delle leggi unilaterali che dettagliavano più specificamente la materia concordataria—es legge 848/1929 era in materia di enti ecclesiastici, la 847/1929 in materia di matrimonio. Si delinea già il quadro normativo: quindi trattato, concordato, leggi di esecuzioni (unilaterali) e anche norme che in senso stretto non sono leggi o sono norme aventi valore di legge (es decreto regio che prevedeva l’esecuzione dell’insegnamento della religione cattolica per gli studenti che non avessero inteso avvalersene, riguardante anche l’insegnamento di religioni diverse da quella cattolica nelle scuole pubbliche statali). Qual è il significato del richiamo esplicito dei Patti lateranensi (è l’unico atto convenzionale internazionale richiamato esplicitamente nella nostra carta costituzionale)? L’entrata in vigore della costituzione repubblicana (1 gennaio 1948) ha posto alcuni problemi circa la posizione nella gerarchia elle fonti dei patti lateranensi e delle annesse leggi di esecuzioni. l’art 7 della costituzione stabilisce al 2° comma che i rapporti vengono regolati da patti lateranensi le cui modifiche non richiedono un procedimento di revisione costituzionale qualora vi sia un precedente accordo tra le parti. Qual è il significato di questo richiamo nella costituzione dei patti lateranensi? L’art 117 della Costituzione si limita a ricordare che la potestà legislativa viene esercitata dallo stato e dalle regioni nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, non vi è nessun riferimento al trattato istitutivo dell’UE o da altre organizzazioni internazionali (a differenza dell’art 7). La nostra Corte Costituzionale ha affermato in maniera esplicita che l’art 7 della costituzione (2° comma) nella sentenza n° 30/1971 “non sancisce solo un generico principio pattizio da valere nella disciplina dei rapporti tra lo stato e la Chiesa cattolica ma contiene un preciso riferimento al concordato in vigore e in relazione al contenuto di questo ha prodotto diritto. Tuttavia giacché 12 lateranensi con legge ordinaria (quindi al di fuori delle procedure dell’art 138 della Costituzione) in presenza di un accordo tra le parti. In realtà il nuovo accordo è tale, non soltanto modifica ma sostituisce il precedente concordato. Si presenta come modifica per rientrare nella “casella” dell’art 7 2° comma della Costituzione ma in realtà il contenuto è completamente nuovo. L’art 13 dell’accordo del 18 febbraio 1984 pur insistendo sul proprio carattere meramente modificatori dichiara abrogate le disposizioni del concordato del 1929 non riprodotte nel seguente testo, quindi dichiara di fatto abrogato tutto il vecchio concordato, in quanto le parti riprodotte sono molto limitate. La realtà è che le parti hanno voluto stipulare un nuovo concordato, che non solo rispondesse pienamente (come si legge nella premessa del concordato) al processo di trasformazione sociale politica verificatosi in Italia negli ultimi decenni e degli sviluppi promossi dal concilio vaticano II. Nel frattempo nella Chiesa era stato promulgato anche il nuovo codice di diritto canonico, che modificata totalmente la normativa canonica—nel 1983 Giovanni Paolo II approvava il testo del nuovo codice di diritto canonico. Quindi vi era anche una trasformazione normativa all’interno della chiesa. Al momento attuale i patti lateranensi sono formati dal trattato, dal concordato (del 1984, che formalmente ha modificato ma sostanzialmente ha abrogato il concordato del 1929)—il nuovo accordo modifica parzialmente del trattato nel momento in cui nel protocollo addizionale si afferma che non si considera più in vigore il principio sancito nell’art 1 trattato della religione cattolica come sola religione dello Stato. Viene abrogato per relationem il principio della religione cattolica come religione dello Stato. Il nuovo accordo era formalmente diverso rispetto al concordato del 1929: è una sorta di legge quadro, in cui vi sono espliciti rinvio a normative di dettaglio. Pensiamo agli anti ecclesiastici: il vecchio concordato parlava molto di questi, il nuovo invece no, l’accordo ha una sola norma sugli enti ecclesiastici tuttavia rinvia a un accordo successivo. Nel novembre del 1984 le parti, lo stato italiano e la chiesa cattolica, giunsero a un nuovo accordo esclusivamente riservato agli enti ecclesiastici e accordo che a sua volta reso esecutivo con legge 222/1985. Le materie degli enti e beni ecclesiastici quindi non è trattata esplicitamente nell’accordo ma dettagliatamente in un accordo successivo di novembre, a sua volta reso esecutivo con legge 222/1985. L’accordo del 18 febbraio è formato da due parti: • L’accordo principale (di modifica): l’articolato principale; • Protocollo addizionale—ha lo stesso valore normativo dell’accordo principale e che come tutti i protocolli di diritto internazionale, ha un valore sopratutto ermeneutico ossia esplicativo di alcune norme contenute nell’articolato principale. Stipulato nella medesima data dell’accordo principale, stessa sua collocazione nella gerarchia delle fonti. Preambolo del protocollo: la SS e la repubblica italiana, desiderosi di assicurare con precisazioni la migliore applicazioni dei patti lateranensi e le avvenute modificazioni e di evitare ogni difficoltà di interpretazione”. Lo scopo di questo protocollo è di evitare dubbi interpretativi, è costituito da 7 punti. Entrambi i due atti hanno il medesimo valore normativo, sia a livello di diritto internazionale che interno (italiano e canonico). 15 19.10 I nuovi rapporti tra Stato e Chiesa quindi vengono reati in modo bilaterali dall’accordo del febbraio 1984 e la legge 222/1985. Avremo poi una serie di accordi di diverso livello che contribuiscono ad arricchire il quadro delle relazioni tra i due soggetti. Analizziamo ora un altro problema. COLLOCAZIONE NELLA GERARCHIA DELLE FONTI DELL’ACCORDO DEL 1984 E DELLA LEGGE DI ESECUZIONE 222/1985 3 “Prodotto diritto”—le leggi di esecuzione dei patti lateranensi assumevano una resistenza passiva (all’abrogazione/deroga) pari alle norme costituzionali. La CC ha affermato che le qualifiche dei patti lateranensi, concretamente quelle introdotte al concordato rese esecutive con la legge 121/1985 godono della medesima tutela costituzionale di cui ai patti lateranensi (al vecchio concordato). Quindi da un lato anche loro hanno resistenza passiva e dall’altro non è escluso il vaglio dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale. Sia la 121 che la 222 del 1985 hanno il medesimo valore di una norma costituzionale pur essendo legge ordinaria, quindi possono essere modificate solo con legge costituzionale o con legge ordinaria previo accordo fra le parti. La loro legittimità costituzionale è da valutare alla luce dei principi supremi dell’ordinamento. Sentenza n°203/1989 della Corte Costituzionale—Riguardante l’istruzione religiosa, qui la CC venne chiamata a valutare la legittimità costituzionale di alcune norme del nuovo accordo. Si afferma in maniera esplicita che (citando) “Questa Corte, ha statuito e osservato che i principi supremi dell’ordinamento costituzionale hanno una valenza superiore rispetto alle altre norme o leggi di rango costituzionale, sia quando ritenuto che anche le disposizioni del concordato, le quali godono della stessa copertura costituzionale fornita dall’art 7 2 comma della costituzione, non si sottraggono all’accertamento della loro conformità ai principi supremi dell’ordinamento costituzionale (qui la CC rinvia alla sentenza 30/1971), sia quando (la Corte) ha affermato che le leggi di esecuzione del trattato costitutivo della CE può essere assoggettata al sindacato di questa corte in riferimento ai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e ai principi inalienabili della persona umana. Pertanto, la Corte non può esimersi dall’estendere la verifica di costituzionalità alla normativa denunziata, essendo indubbiata di contrasto con uno dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale, dati parametri articoli 2-3 e 19”. Quindi la Corte in definitiva afferma che le anche norme del nuovo accordo posso essere sottoposto a un vaglio di legittimità assumendo come parametro i principi supremi dell’ordinamento costituzionale. Qual è il principio supremo di legittimità che invoca la Corte? I principi supremi abbiamo detto che non trovano una collocazione formale all’interno della nostra Costituzione, ma vengono enucleati in via giurisprudenziale dalla CC. In questa sentenza la CC afferma in maniera chiara che vi è un principio supremo di laicità dello Stato. La CC afferma che gli articoli 7,8, 20, 2, 3, e 19 della costituzione concorrono a strutturare il principio supremo della laicità dello Stato. Cosa vuol dire? Vi sono alcune costituzioni, come quella francese (suo articolo 2), che esplicitano in maniera formale che quello stato è uno stato laico, separando così l’ordine temporale dal spirituale. Nella nostra costituzione non vi è una norma che esplicitamente affermi che lo stato italiano è uno stato laico. tuttavia, dice la CC, se questo principio non è riportato in maniera esplicita nel dettato costituzionale, tuttavia è intrinseco. I parametri contenuti negli art 2,3,19,7,8 e 20 della costituzione contribuiscono a strutturare tale principio, supremo e che è anche uno dei profili della forma di Stato delineata nella Costituzione. È un elemento costitutivo della repubblica italiana. Poi la CC specifica cosa intende per laicità dello Stato—mentre la separazione francese implica una separazione “oppositiva” o di neutralità di un ordinamento rispetto all’altro (nessuna cooperazione tra i due), il principio di laicità implica non indifferenza dello Stato dinanzi le religioni Più in generali delle leggi di esecuzione dei nuovi accordi. 3 16 ma garanzie dello stato per la salvaguardia della libertà di religione e regime di pluralismo culturale e professionale. Quindi lo stato italiano non è indifferente al fatto religioso, la sua laicità è “collaborativa”, in quanto lo stato si ritiene incompetente a normare il fatto religioso in maniera unilaterale e richiede quindi la collaborazione delle confessioni religiose al fine di normare il fatto religioso nella maniera più conforme alle necessità della medesima confessione. Fermo restando la tutela del diritto di libertà religiosa dell’individuo di credere o meno. L’Italia non ha una sua religione di Stato ma coopera con tutte le confessioni religiose ai fini di garantire la salvaguardia della libertà di esse. Viene abbandonato il principio, originariamente richiamato nei patti lateranensi, della religione cattolica quale religione ufficiale dello Stato—l’Italia non ha una sua religione ufficiale. Ecco che il principio di laicità dello Stato è un principio di garanzia cooperativa della libertà religiosa (si legge ciò nell’art. 1 del nuovo accordo). ART 8 COSTITUZIONE L’art. 8 garantisce la libertà istituzionale di tutte le confessioni religiose. Nel suo primo comma afferma che tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge, non afferma che sono uguali ma che sono uguali nella libertà. Non si afferma che sono uguali perchè oggettivamente le confessioni religiose non sono una uguale all’altra—“giustizia” non vuol dire dare a ognuno lo stesso, ma dare a ognuno il suo e il suo di una confessione religiosa e diverso rispetto al suo di un’altra. Ogni confessione ha esigenze storico/sociali diverse rispetto alle altre confessioni. La legge non può discriminare le confessioni religiose: tutte hanno diritto ad avere il medesimo trattamento normativo. È una declinazione specifica del principio di uguaglianza (art 3 Costituzione) limitata alla uguaglianza nella libertà religiosa, prece sostanzialmente le confessioni religiose sono una diversa dall’altra e quindi affermare che tutte le confessioni religiose sono uguali non rispecchierebbe la realtà. Tutte le confessioni sono egualmente libere davanti alla legge. Questo è il primo comma. L’art 8 nel 1° comma si riferisce a tutte le confessioni religiose (ivi compresa quella cattolica), nel 2/3° comma inizia a distinguere, si riferisce alle confessioni religiose diverse da quella cattolica. Nel 2° comma si afferma che esse hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. Da un lato si afferma che le confessioni religiose hanno diritto a organizzarsi, dall’altro lato si afferma in maniera esplicita che i loro statuti non possono e non devono essere diversi rispetto all’ordinamento giuridico del nostro stato. Ma che cosa si intende per “confessione religiosa”? La confessione religiosa deve avere alcune caratteristiche specifiche che la contraddistinguono rispetto ad altri ordinamenti, ad altre associazioni, ad altri gruppi, ad altre entità presenti nel nostro ordinamento. Le caratteristiche quindi che permettono di qualificare un gruppo come confessione religiosa. Nessuna norma, ordinaria o costituzionale, da la nozione di confessione religiosa, presupponendo probabilmente la nozione data di essa dall’esperienza sociale. La CC con sentenza 195/1993 ha enunciato alcuni criteri che possono essere seguiti per qualificare giuridicamente un gruppo sociale come confessione religiosa. Quindi da un lato il diritto non dice cosa sia essa, dall’altro la CC enuclea un gruppo di criteri per stabilire se un gruppo sociale sia qualificabile come una confessione religiosa o meno. In tale sentenza la CC enuclea alcuni di questi criteri, ad esempio: • E’ confessione religiosa quel gruppo sociale che ha stipulato l’intesa (ex art 8 comma 3 costituzione)—strano perchè (come vedremo) al fine di stipulare un’intesa deve essere riconosciuta al gruppo sociale la qualifica di confessione religiosa—assorbente/tautologico; • Un altro criterio è la presenza di uno statuto che manifesti i caratteri dell’organizzazione. Uno statuto quindi che affermi il carattere religioso dell’organizzazione stessa; • Eventuali precedenti riconoscimenti pubblici: es riconoscimento della confessione come persone giuridica—Legge 1159/1929: attribuzione della personalità giuridica costituisce un 17 ordinamento giuridico terzo, quello dell’intesa. Questa intesa, che sorge per volontà dei due soggetti, viene poi approvata (non resa esecutiva, perchè l’esecuzione è propria degli atti internazionali) nel nostro ordinamento, le intese vengono meramente approvate. Se guardiamo il testo relativo alle intese con le confessioni religiose diverse dalla cattolica si parla semplicemente di “norme per la regolazione dei rapporti tra lo stato italiano e le chiese rappresentate dalla tavola valdese” (ad esempio). Quindi è una mera legge di approvazione che recepisce i contenuti dell’intesa con la relativa confessione. Lo stesso vale per le altre confessioni religiose, sono leggi di mera approvazione. Che posto hanno nella gerarchia delle fonti queste leggi di approvazione? La loro posizione è simile a quella degli accordi con la chiesa cattolica, nel senso che anche le leggi di approvazione delle intese godono di particolare tutela costituzionale in virtù del loro richiamo effettuato nell’art 8 3° comma della Costituzione. Questo significa che lo stato non può modificare unilateralmente un’intesa con una confessione religiosa, glielo impedisce l’art 8 3° comma della Costituzione. In definitiva, le leggi di approvazione sono leggi ordinarie che però anch’esse, come le leggi di esecuzione del concordato, del trattato e delle norme del 1984, hanno una resistenza passiva all’abrogazione pari alle norme costituzionali, con la differenza che il loro parametro di legittimità costituzionale è costituita dai principi supremi dell’ordinamento e dall’intesa stessa. Nel senso che se la legge di approvazione differisce rispetto all’intesa, quella legge è illegittima costituzionalmente. Quindi parametro di legittimità costituzionale delle leggi di abrogazione dell’intesa sono i principi supremi dell’ordinamento dello stato nonché l’intesa stessa. Le leggi di approvazione possono essere modificate solo mediante legge ordinaria di approvazione di una successiva intesa. Anche in questo caso subentra il dogma della bilateralità. In questo caso il parametro di legittimità costituzionale sono i principi supremi dell’ordinamento e l’intesa stessa. Abbiamo quindi un’altra norma che assume posizione speciale all’interno della gerarchia delle fonti nel nostro ordinamento: non solo le leggi di esecuzione della chiesa cattolica hanno un loro specifico valore costituzionale ma anche le leggi di approvazione delle intese. La procedura di approvazione delle intese— le intese sono atti di diritto esterno che sorgono in un ordinamento giuridico terzo, stato confessione religiosa negoziano per stipulare l’accordo. Le leggi di approvazione godono di una particolare tutela costituzionale, vediamo adesso le modalità di stipula di un’intesa. L’intesa stessa è, come ricorda l’art 8 3 comma della costituzione, con le rappresentanze delle confessioni religiose, con gli organi rappresentativi delle confessioni religiose. L’intesa può essere stipulata solo con una confessione religiosa che abbia un suo chiaro principio organizzativo al proprio interno e una confessione religiosa che abbia ben delineato gli organi di presidenza e di governo. Quindi in definitiva che siano ben chiari gli organi rappresentativi e di governo della confessione stesso, lo richiede il 3° comma art 8 della costituzione. Questo è un presupposto essenziale. L’altro presupposto è, imposto dalla prassi costituzionale, che le trattative tra governo e confessione religiosa possano essere avviate solo con quelle confessioni che abbiano ottenuto il riconoscimento della personalità giuridica civile ai sensi della legge 1159/24giugno 1929, su parere favorevole del consiglio dello stato. È necessario che le confessioni religiose, che richiedono una intesa, godano nel nostro ordinamento di personalità giuridica civile, ossia di quel riconoscimento pubblico (di cui parlava la CC) che consiste appunto nell’attribuzione della personalità giuridica nel nostro ordinamento ai sensi della legge 1159/1929, una volta ottenuto il parere favorevole del consiglio di Stato. Vi è quindi una prassi che ha il suo presupposto legale in una consuetudine, che ha a sua volta il fondamento nella pratica costante del governo di avviare le trattative solo con le confessioni che abbiano ricevuto personalità giuridica (civile). Sono questi i due presupposti sostanziali: principio di auto organizzazione, che permetta di individuare gli organi capitali/rappresentativi della confessione e che la confessione religiosa abbia ottenuto il riconoscimento della personalità giuridica civile. Il 1° presupposto è richiesto dalla costituzione (art 8 terzo comma), il secondo da una prassi costituzionale. L’iniziativa parte dalla confessione religiosa, che chiede l’avvio delle trattative in 20 presenza di questi due presupposti. Il terzo presupposto è comprendere se il governo ha discrezionalità o meno nello scegliere l’interlocutore, ossia se può rifiutare la proposta di stipulare un’intesa per vari motivi. Ad esempio perchè quell’ente non viene riconosciuto come confessione religiosa, oppure perchè manca 1 dei 2 presupposti costituzionali, oppure per motivi di ordine pubblico. Se da un lato la confessione religiosa ha diritto a proporre istanza, dall’altro ne è configurabile una pretesa soggettiva alla conclusione positiva dell’istanza stessa. Quindi la parte può richiedere l’avvio delle trattative, tuttavia non vi è il diritto soggettivo all’inclusione positiva delle trattative stesse. Questo vuol dire anche che, come ricordava la CC, la non configurabilità di una pretesa alla conclusione positiva del negoziato (quindi alla stipula dell’intesa) implica anche la non giustiziabilità, ossia non vi è un diritto a pretendere in via giudiziaria la conclusione dell’intesa stessa. Vi è una responsabilità meramente politica e non giudiziale del governo. Tutto ciò venne affermato in una sentenza della CC del 2016 la n°52, che appunto ricorda in maniera chiara che se da un lato l’avvio delle trattative viene chiesto dalla confessione religiosa, dall’altro lato la confessione religiosa non ha una pretesa soggettiva per la conclusione positiva delle trattative stesse. La CC in questa sentenza dice: “per il governo l’individuazione dei soggetti che possono essere ammessi alle trattative e al successivo avvio di queste, sono determinazioni importanti nelle quali sono già impegnati la sua discrezionalità politica e la responsabilità che normalmente ne deriva in una forma di governo parlamentare”. Vi è quindi una responsabilità politica. Tale responsabilità cosa implica? Implica che se il governo rifiuta l’avvio delle trattative o avvia le trattative ma ne risponde negativamente, ne il rifiuto alle trattative ne il rifiuto alla stipula dell’intesa possono godere di una tutela giurisdizionale—è un atto quindi di mera opportunità politica previsto dal nostro ordinamento. Se invece, come spesso avviene, le trattative vengono avviate regolarmente, inizia il dialogo tra lo stato e le confessioni religiose diverse dalla cattolica ai fini della stipulazione dell’intesa stessa. La procedura è costituita dalle seguenti fasi: le confessioni interessate presentano istanza (atto di responsabilità politica del governo) al presidente del Consiglio del Ministri (in quanto organo apicale del nostro governo), il quale può accogliere l’istanza e avviare le trattative o può respingerlo, in quanto si tratti di un atto di mera discrezionalità politica non giustiziale. Se accogliesse l’istanza affida l’incarico di condurre le trattative al sottosegretario del consiglio dei Ministri—le trattative vengono condotte specificatamente da lui. Egli si avvale di alcuni organi, commissione inter ministeriale per le intese con le confessioni religiose (organo consultivo) affinché venga predisposta la bozza di intesa. Tale commissione, lavorando di concerto con i rappresentanti delle confessioni religiose, elabora una bozza dell’intesa sulla quale esprimerà un parere preliminare la commissione consultiva per la libertà religiosa (che in questo momento è scaduta dal 2018 e non è ancora stata costituita). Concluse le trattative le intese, siglate dal sottosegretario e dal rappresentante della confessione religiosa, sono poste all’esame del consiglio dei ministri, che deve autorizzare la firma del presidente del consiglio. Se il consiglio dei ministri autorizza il presidente del consiglio è questa la firma, successivamente le intese vengono trasmesse al parlamento per la loro approvazione mediante la legge. Questo è il procedimento di stipula dell’intesa. Le richieste di stipula dell’intesa devono essere preventivamente sottoposte al parere del ministero dell’interno, concretamente del direttore generale degli affari dei culti. Una volta ottenuto questo parere, si procede poi alla presentazione dell’istanza al presidente del consiglio dei ministri (organo competente a dichiarare la volontà del governo). In questo momento abbiamo una serie di intese stipulate tra lo stato italiano e le varie confessione religiose, alcune delle quali (la maggior parte) approvata mediante legge. Sono 11 intese approvate mediante legge (alcune delle quali già anche modificate) e un’intesa, quella con la chiesa d’Inghilterra (gli anglicani) firmata il 30 luglio 2019 che deve ancora essere tradotta in legge. La maggior parte delle intese quindi sono stata già approvate con la legge e solo 1, quella con la chiesa d’Inghilterra, non ancora approvata mediante legge. Lo stato intende negoziare con le confessioni religiose per ottenere una loro regolamentazione che sia il più possibile vicina alla 21 natura reale stessa di quelle confessioni religiose, non vuole emanare una norma che sia aliena alla situazione culturale/sociale di quel gruppo sociale qualificato come confessione religiosa. Tutte le confessioni religiose che hanno stipulato l’intesa non è più vigente lil regime normativo previsto dalla legge 1159/1929, concretamente non si applicano più le norme di questa legge, quindi se si intende modificare l’intesa è necessario un accordo tra lo stato e questa confessione religiosa. In più di un’occasione la CC ha ribadito che le confessioni religiose prive di intesa sono ugualmente tutelate all’intern del nostro ordinamento, tanto che ha dichiarato incostituzionali alcune norme (es della regione Lombardia in tema di edilizia di culto) che prevedevano norme più favorevoli solamente a favore della confessioni religiose che avessero stipulato l’intesa—la CC ha dichiarato che la stipula dell’intesa non deve costituire elemento favoritivo di una confessione religiosa nei riguardi di un’altra. In conclusione, le intese sono una sorta di esigenze di giustizia che richiede non di dare a ognuno lo stesso bene ma a ogni confessione il suo, in quanto ognuna è portatore di una sua specificità che ha il diritto di esigere. Per quanto riguarda il contenuto delle intese , esso rispecchia il contenuto del concordato della 4 Chiesa cattolica, a volte addirittura ne vengono ripetute le parole (fermo restando la specificità delle confessioni religiose). Quindi vi sono contenuti molto simili tra le intese, tanto che a volte la dottrina parla di “intese fotocopia”—questa è una sorta di difetto delle imprese, pur considerando che ognuno nonostante ciò ha i suoi elementi specifici (ad esempio l’intesa dell’unione buddista non concepisce il matrimonio). Qual è il contenuto delle intese? • In primis si indica la natura giuridica della confessione stessa, quindi vengono espresse le modalità di riconoscimenti di personalità giuridica civile degli enti di quella confessione religiosa; • La disciplina del matrimonio—vi è una differenza fondamentale per tutte le confessioni religiose rispetto al concordato con la chiesa cattolica. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica che riconoscono gli effetti civili del matrimonio religioso riconoscono solamente questi, non riconoscono la giurisdizione della confessione religiosa. Mentre l’accordo del 1984 e il concordato del 1929 riconosce la chiesa cattolica non solo con la podestà di celebrare matrimonio riconoscibile agli effetti civili una volta trascritti nel registro dello stato civile, ma riconosce anche la potestà di giurisdizione su quel matrimonio della Chiesa, dando così accoglienza nel nostro ordinamento alle sentenze emanate nell’ordinamento canonico. Non così è per le altre confessioni religiose, per cui le intese (e la legge 1159/1929) non riconoscono un ruolo alcuno alla giurisdizione di quella confessione religiosa: viene solo riconosciuta la forma di celebrazione del matrimonio ma non la competenza giurisdizionale di quella confessione religiosa sul matrimonio stesso; • Finanziamento della confessione religiosa; • Istruzione religiosa—la maggior parte delle confessioni religiose rinunciano a un’istruzione religiosa nella scuola pubblica statale, come invece la richiede la chiesa cattolica. Ad esempio l’art 9 dell’intesa con i valdesi dice che “la repubblica italiana prende atto che la tavola valdese, nella convinzione che l’educazione e la formazione religiosa dei fanciulli della gioventù sono di specifica competenza della famiglia delle chiese, la confessione valdese non richiede di svolgere che le scuole gestite dallo stato o da altri enti pubblici, per quanti hanno parte nella chiesa da essa rappresentante, l’insegnamento di catechesi o di pratiche di culto”—quindi non richiede di svolgere insegnamenti dottrinali all’interno della scuola pubblica o gestita da altri enti (es comuni); • Assistenza Spirituale nelle comunità separate (ospedali, carceri); • Riconoscimento implicito dei ministri di culto—se prima gli atti compiuti dal ministro di culto per avere rilevanza civile dovevano essere da un ministro di culto la cui n nomina era approvata ai sensi dell’art 3 della legge 1159/1929, per le confessioni che avessero stipulato un’intesa la Intesa con i testimoni di Geova: è un’intesa che venne stipulata, approvata, modificata ma ora se 4 ne sono perse le tracce tanto che nel sito del ministero dell’interno non si fa alcun cenno di essa. 22 con lo Stato), questo culto annesso chiede il riconoscimento al ministero dell’interno, il quale a sua volta chiede il parere al Consiglio dei Ministri. È una procedura abbastanza complessa, ma bisogna pensare che risale al 1929 e che dal 1929 non è stata modificata. IL MINISTRO DELL’INTERNO—E’ l’organo dell’amministrazione centrale con una competenza generale in materia generale dal 1932 (piena epoca fascista). “Ministro dell’interno” ci fa pensare a una politica di controllo dello Stato sulle confessioni religiose. • Ancora oggi è rimasta questa competenza. Tale competenza è di amministrazione centrale, poi è delegata agli organi periferici. Quali sono gli organi periferici del ministro dell’Interno? I prefetti. Al ministero dell’Interno troviamo la direzione centrale degli affari dei culti, esistente dal 1932 (è stata riformata) che riflette il modello francese ma con una differenza: l’Italia ha un rapporto di collaborazione (prevede un concordato e delle intese con le confessioni religiose), invece la Francia dal 1905 ha un rigido sistema di separazione tra lo Stato e le Chiese. Nonostante questo la struttura dell’amministrazione dei culti è molto simile. La direzione centrale degli affari dei culti si occupa di tutta la materia che riguarda gli enti della chiesa cattolica e delle altre confessioni ecclesiastiche. Tutta la materia degli enti ecclesiastici, dal riconoscimento all’estinzione alla modifica passa per il ministero dell’Interno. La pratica viene istituita presso le singole prefetture e poi arriva al ministro dell’Interno per essere chiusa con decreto di approvazione del Ministro dell’Interno stesso; • Vigilanza e la tutela sugli enti delle confessioni che sono an cosa disciplinate dalle norme del 1929 e del 1930 (successivo regolamento), cioè sugli enti di quelle confessioni che ancora oggi rientrano della disciplina dei “culti annessi”; • Attraverso la direzione centrali degli affari dei culti deve approvare la nomina dei ministri di culto delle confessioni che rientrano nella disciplina del 1929. A che cosa serve questa approvazione? Ad esempio in materia matrimoniale: chi vuole sposarsi con il rito della chiesa cattolica, in Italia contrae matrimonio concordatario, ossia matrimonio canonico (nasce nell’ordinamento canonico) e che viene riconosciuto in Italia attraverso la trascrizione. Per quanto riguarda le confessioni diverse dalla cattolica, anche queste prevedono la possibilità di riconoscere il matrimonio celebrato dai loro ministri di culto. Questi ministri di culto però devono ricevere l’approvazione da parte del ministro dell’interno, cosa che non succede per i ministri di culto della chiesa cattolica. Non solo, mentre il matrimonio concordatario è canonico che acquista effetti civili nell’ordinamento italiano, il matrimonio delle confessioni diverse dalla cattolica sia che abbiano stipulato delle intese sia che rientrino nella tutela della legge sui culti annessi, sono matrimoni civili a tutti gli effetti, cioè matrimoni civili che potremmo definire “religiosamente contratti”, contratti con rito religioso. Il matrimonio concordatario è l matrimonio canonico che viene riconosciuto ad effetti civili, gli altri hanno effetti civili a tutti gli effetti e vengono contratti secondo il rito confessionale. Qual è la differenza? Il matrimonio concordatario è matrimonio canonico e quindi ha la giurisdizione del giudice canonico quando la sua origine, il procedimento di nullità del matrimonio canonico può essere poi delibato in Italia. Questo non avviene per i matrimoni delle confessioni diverse dalla cattolica: sono soggetti interamente ed esclusivamente alla disciplina del codice civile, come tutti gli altri matrimoni civili. Questa direzione centrale dei culti, fino al 31 dicembre del 1986 ha amministrato 3 fondi: • Il fondo per il culto; • Il fondo di religione di beneficienza della città di Roma; • Patrimoni riuniti. Questi tre fondi poi sono stati riuniti in un unico fondo, il fondo Edifici di culto che succede in tutti i rapporti attivi e passivi. Perchè questi fondi sono importanti? Perchè il fondo edifici di culto (prima era diviso territorialmente ora no, unico) si occupa di tutte le chiese, di tutto il patrimonio che lo stato italiano aveva confiscato alla chiesa cattolica durante le leggi eversive, cioè subito dopo l’unità d’Italia. Ha una notevole funzione. Le chiese che sono di proprietà del fondo edifici di 25 culto, tutta la manutenzione, le spese ordinarie e straordinarie spetta allo Stato italiano che provvede tramite questo fondo (che ha anche i patrimoni della basilica di san Francesco di Paola in Napoli). È una realtà molto importante: fanno parte del patrimonio degli edifici di culto tutti quegli edifici di culti cattolici che lo stato aveva incamerato dagli anni ’60 in poi dell’800. Sono inoltre trasferiti i patrimoni della cappella palatina dell’ex palazzo reale di Palermo. Quei patrimoni appartengono allo Stato, non sono della Chiesa. Un problema che si è posto è quello della personalità giudica del fondo di edifici di culto (FEC)— esso è una persona giuridica pubblica, il suo rappresentante legale è il ministro dell’Interno. Esso si pone come struttura nella direzione centrale per gli affari dei culti per l’amministrazione del fondo edifici di culto e si occupa dell’amministrazione di questi. Ma chi si occuperà localmente di questi patrimoni (es a Napoli o a Palermo dove abbiamo visto quei patrimoni)? Il prefetto di Palermo o di Napoli, non potrà essere il ministro dell’interno stesso. Dell’amministrazione del fondo edifici di culto il ministro dell’intero è coadiuvato da un consiglio, composto da 9 membri, che sono: • Il presidente—nominato dal ministro dell’interno. In caso di sua assenza o impedimento subentra il direttore centrale degli affari dei culti; • Il direttore centrale degli affari dei culti; • 2 componenti scelti dal ministro dell’interno; • 2 designati da altri ministeri; • 3 membri scelti dalla conferenza episcopale italiana (CEI). I membri designati dai ministeri e dalla CEI (da qui si nota anche la collaborazione tra i ministeri) durano in carica 4 anni e non possono essere confermati immediatamente più di una volta (prof Bettetini è un membro di questo collegio). Al consiglio di amministrazione vengono sottoposti gli atti indicati dal regolamento del FEC, dovrà occuparsi della restaurazione, del restauro, della tutela e della modifica di questi edifici. 30.10 LA SANTA SEDE E LO STATO “CITTA’ DEL VATICANO” La Santa Sede (o Sede apostolica) è l’ente preposto al governo della chiesa cattolica. L’espressione santa sede quanto nel diritto canonico che in quello italiano, viene intese in una duplice accezione: talvolta in un’accezione ampia, altre volte in una accezione più ristretta. • Nella sua accezione ampia, l’espressione SS indica congiuntamente il romano pontefice e la curia romana. Laddove per curia romana deve intendersi il complesso di organi, composto dalla segreteria di stato, dal consiglio per gli affari pubblici della chiesa, dalle congregazioni, dai tribunali e da altri organismi che coadiuvano il Papa nel trattare le questioni della chiesa universale, esercitando le funzioni delegate alla curia romana dallo stesso pontefice. La dottrina ritene che la SS in sento ampio, non sia dotata di personalità giuridica in quanto tale ma costituirebbe al contrario un ente complesso, costituito da una pluralità di enti aventi ciascuno personalità giuridica proprio; • Nella nozione più ristretta, l’espressione si intende specificatamente all’ufficio del romano pontefice, posto al vertice dei tre poteri tradizionali: legislativo, esecutivo e giudiziario. Nel suo significato ristretto, invece, la Santa Sede è persona morale nell’ordinamento canonico dotata di personalità giuridica non solo diversa da quella della chiesa cattolica ma anche originaria in quanto non derivata da alcuna potestà umana. Nell’ordinamento italiano, la condizione giuridica della SS è definita dall’art 7 della costituzione, che riconosce indipendenza e sovranità alla chiesa cattolica nel proprio ordine, dati patti lateranensi (in particolare dal trattato). Nel diritto italiano la SS ha una serie di caratteri: 26 • Innanzitutto è persona iure privatorum—un ente ecclesiastico dotato di personalità giuridica per antico possesso di stato, in quanto riconosciuta da tempo immemorabile e comunque in data anteriore alla debellatio dello stato pontificio (1870); • É anche un ente ecclesiastico sui generis—la SS non è soggetta agli obblighi previsti a carico degli altri enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, come ad esempio l’iscrizione del registro nelle persone giuridiche. Accanto alla capacità privatistica, la SS gode anche di una capacità pubblicistica. La SS è attribuito l’esercizio di poteri che attengono alla sovranità della chiesa nell’ordine suo proprio. Poteri che possono esprimersi per esempio in una serie di provvedimenti con caratteri di imperio, aventi efficacia nell’ordinamento italiano. Si pensi ad esempio alle sentenze e ai provvedimenti che riguardano gli ecclesiastici e i religiosi. Alla SS compete inoltre la titolarità di soggettività giuridica in campo internazionale. In base all’art 2 del trattato, l’Italia riconosce la sovranità della SS nel campo internazionale come attributo inerente alla sua natura, in conformità alla sua tradizione e alle sua esigenze nella missione del mondo. La dottrina canonistica precisa che tale sovranità internazionale compete alla SS non per inclusione dell’Italia, ma esiste prima che fossero posti i principi del diritto delle genti e si tratta di una sovranità inalienabile, non essendo stata creata o non derivando da alcuna potestà umana. La chiesa cattolica, e per essa la Santa Sede, è in altri termini un ente sovrano “autoritatem superiorem non recognonses”, cioè che non riconosce altra superiore autorità, in altre parole è un centro di volontà e azioni indipendente con sovranità esterna. La sovranità internazionale della SS può poi essere qualificata come universale e umanitaria e costituisce un elemento connaturato alla natura stessa della Chiesa cattolica. L’attività internazionale della SS è caratterizzata poi da indipendenza e imparzialità nei confronti dell’autorità politica, con la quale auspica di coltivare una sana collaborazione per il perseguimento del bene di tutti i popoli. In conseguenza di detta sovranità internazionale, spettano alla SS una serie di garanzie secondo le regole generali del diritto internazionale. Ad esempio, il diritto di legazione attivo e passivo, ossia il diritto di inviare e ricevere rappresentanti diplomatici. Il diritto della SS di stipula di trattati di adesione ad organizzazioni internazionali, come osservatore o come membro. Oppure il diritto di stipulare concordati, cioè accordi equiparati a trattati internazionali con le autorità civili per mezzo dei quali si stabilisce in tutto o in parte uno statuto giuridico della chiesa nella società civile o si disciplinano le res miste, cioè materie di comune interesse statale ed ecclesiale. Per il soggetto internazionale SS agisce unicamente il romano pontefice. In dottrina peraltro si è molto discusso circa la corretta individuazione del soggetto titolare della soggettività di diritto internazionale. Per una parte della dottrina, tale titolarità va riconosciuta in capo alla Chiesa cattolica, mentre la SS sarebbe soltanto l’organo attraverso il quale la chiesa agisce in campo internazionale. Quindi Chiesa cattolica titolare della sovranità internazionale e la SS organo attraverso il quale la chiesa agisce in campo internazionale. Un’altra parte della dottrina afferma invece che la titolarità della sovranità internazionale va riconosciuta alla SS, in quanto la chiesa cattolica viene individuata quale soggetto avente fini esclusivamente religiosi e spirituali. Infine vi è un terzo orientamento, maggioritario, secondo il quale tale titolarità va riconosciuta tanto alla chiesa cattolica tanto alla SS, dunque anche la chiesa cattolica agisce in campo internazionale attraverso la SS e quest’ultima opera come suprema autorità e tale particolare rapporto organico consente di affermare la duplice soggettività giuridica internazionale. Il trattato lateranense riconosce alla SS speciali garanzie dirette ad assicurarle in modo stabile una condizione di fatto ma anche di diritto che le garantisca l’assoluta indipendenza e l’adempimento della sua missione nel mondo. Analizziamo queste speciali garanzie. 27 lateranensi (e successivi accordi) e delle altre leggi emanate nello Stato città del vaticano. Tra le fonti suppletive ricordiamo ad esempio il codice civile italiano del 1942, il codice penale italiano del 1889, i codice di procedura penale del 1913. Altri rinvii alla legge italiana sono fatte ad esempio in materia di espropriazione per pubblica utilità o in materia di antichità e belle arti. Infine il legislatore stabilisce i criteri a cui vi si deve attenere sia in materia civile che penale in caso di lacuna di leggi o di inapplicabilità delle norme italiane richiamate. In questi casi la giurisprudenza costituisce fonte suppletiva del diritto vaticano. Il potere giudiziario abbiamo dritto che consiste nell’amministrazione della giustizia, e viene esercitata da 4 organi giurisdizionali, i quali operano sia in materia civile che in materia penale. La nuova legge sui fondi del diritto precisa che l’ordinamento vaticano si conforma alle norme di diritto internazionale generale e a quelle derivanti dai trattati o accordi in cui la SS sia parte. Quanto ai rapporti tra lo stato città del vaticano e l’ordinamento internazionale, parte della dottrina ritiene che lo stato città del vaticano non sarebbe soggetto di diritto internazionale, ma sarebbe un mero beneficiario di norme internazionali in quanto l’effettiva soggettività appartiene alla SS. In altre parole, lo stato città del vaticano non sarebbe soggetto ma un oggetto di sovranità. Altra dottrina, al contrario, riconosce allo stato città del vaticano una soggettività giuridica internazionale distinta (anche se collegata) a quella della SS. Questa seconda opinione è quella che appare essere preferibile e trova conferma nella prassi internazionale, più precisamente in tutti i casi in cui la SS ha agito non come organo di governo della Chiesa bensì come organo di governo dello Stato, perseguendo fini temporali. La città del vaticano è per esempio membro di varie organizzazioni internazionali, è distinto rispetto la rappresentanza della SS e si può dire che lo stato città del vaticano è il piedistallo, nel senso che ha fornito alla SS lo strumento giuridico formale per entrare a far parte degli organismi internazionali (per questo motivo è uno stato mezzo). Nel caso di specie si può dire che suscita una unione organica in ragione del rapporto funzionale tra stato città del vaticano e Santa sede, per cui la città del vaticano partecipa in forma strumentale al perseguimento delle finalità spirituali della Santa Sede. Per tale ragione, la dottrina ritiene che la città del vaticano rientri nella categoria degli stati “mezzo”, anziché negli stati “fine”. Quali sono i rapporti tra l’Italia e lo Stato città del Vaticano? Nella particolare condizione di stato enclave (dello stato città del vaticano) e la sua esiguità territoriale, sono state rese indispensabili alcune previsioni del trattato riguardanti il rapporto tra i due stati. Il trattato prevede una serie di impegni in capo allo Stato italiano, finalizzati a garantire allo stato città del vaticano alcuni servizi essenziali, come la dotazione di un’adeguata fornitura di acqua, il collegamento con le ferrovie italiane, il collegamento con i servizi telefonici/radio telegrafici/postali. Inoltre è prevista anche l’esenzione dai diritti doganali e daziali per le merci provenienti dall’estero e dirette verso la città del vaticano, è inoltre garantito l’accesso allo stato città del vaticano e l’uscita, attraverso il territorio italiano, al personale diplomatico presso la SS, nonché il transito del territorio italiano per l’accesso dei cardinali durante la sede vacante e ai vescovi durante i concilii. Sono previste poi una serie di garanzia di natura urbanistica—l’Italia si impegna a non permettere nuovi costruzioni che costituiscano introspetto e alla demolizione di quelle già esistenti e a concordare con la SS qualsiasi mutamento stradale che interessi in qualche modo il territorio vaticano. Uno speciale statuto giuridico è previsto per la piazza di s. Pietro: la piazza san Pietro pur facendo parte a pieno titolo del territorio vaticano è aperta al pubblico. Si prevede per essa che sia soggetta ai poteri di polizia delle autorità italiane, le quali autorità italiane però si dovranno arrestare da esercitare tali poteri ai piedi della scalinata della chiesa di san Pietro e si dovranno astenere dall’accedere alla basilica, salvo che siano invitate a intervenire dall’autorità vaticana competente. Sorge dunque spontaneo chiedersi quale sia la disciplina dei delitti commessi quando la piazza è aperta al pubblico. Nel caso di delitti commessi quando la piazza è aperta al pubblico, se l’autore di un reato è stato catturato dalla polizia italiana, ovvero è stato consegnato 30 alla polizia italiana, l’autorità giudiziaria italiana procederà nei suoi confronti applicando la legge penale italiana. Quando invece la SS ritenga di sottrarre temporaneamente la piazza al libera accesso del pubblico (es per lo svolgimento di particolare funzioni), le autorità italiane, se non invitate dal vaticano a rimanere, si ritireranno al di la delle linee esterno del colonnato del Bernini. Sin questo secondo caso troveranno piena applicazione la giurisdizione dello stato città del vaticano e la relativa legislazione penale. Dobbiamo quindi distinguere i delitti commessi quando la piazza è aperta al pubblico da quando la piazza è chiusa al pubblico. Di particolare rilievo pratico sono anche i rapporti tra lo stato città del vaticano e l’Italia in campo giudiziario, soprattutto in materia penale. Il trattato a proposito prevede, che a richiesta della SS e per delegazione della stessa, che può essere speciale (per singoli casi) o permanente, l’Italia provvederà nel suo territorio alla punizione dei delitti commessi nello stato città del vaticano. Una volta concessa la delega, la parte del giudice italiano diventa obbligatoria e non subordinata per esempio alla richiesta di ministero della giustizia. La legge penale che si dovrà applicare in questi casi sarà la legge penale italiana. La legge penale e la giurisdizione italiana si applicheranno poi sicuramente nei confronti di un autore di un delitto commesso nello stato città del vaticano che si sia successivamente rifugiato nel territorio italiano. Nel caso invece in cui l’autore di un delitto commesso nel territorio italiano vi sia rifugiato nel territorio vaticano, il trattato prevede una particolare ipotesi di “missione attiva” a favore dell’Italia. La ss si impegna a consegnare allo stato italiano persone che si sono rifugiate nello stato vaticano e che siano impugnate di delitti commessi nel territorio italiano, purché gli atti siano ritenuti tali anche dalla legge vaticana. Sempre in campo giudiziario meritano di essere chiamate le disposizioni relative all’esecuzione in Italia delle sentenze vaticane. Per quanto riguarda l’esecuzione in Italia delle sentenze vaticane, il trattato prevede che per tale materia si applicano le norme del diritto internazionale. Il trattato attribuisce piena efficacia giuridica in Italia, anche gli effetti civili e senza alcuna delibazione, alle sentenze e provvedimenti emanati dall’autorità ecclesiastica verso persone ecclesiastiche o religiose concernenti materie spirituali o disciplinari, purché siano comunicate all’autorità civile e tali atti rispettino i diritti costituzionalmente garantiti ai cittadini italiani. Per quanto riguarda invece la notificazione (in materia civile) degli atti italiani nello stato città del vaticano (e viceversa), in materia penale si applicano le disposizioni circa le notificazioni in via diplomatica, mentre in materia civile si applicheranno le disposizioni previste da una apposita convenzione del 1932 tra stato italiano e SS. Tale convenzione prevede che la notificazione degli atti italiani nello stato città del vaticano sono eseguite, previa istanza dell’interessato al procuratore della repubblica competente, il quale inoltra direttamente la domanda al promotore di giustizia presso il tribunale vaticano, il quale provvede alla notifica degli atti. Il procedimento inverso si applica invece per la notificazione da effettuarsi in Italia degli atti vaticani: l’interessato fa istanza al promotore di giustizia del vaticano, il quale inoltra la domanda al procuratore della repubblica italiana a cui compete provvedere alla notifica. Per quando riguarda la citazione, qualora siano convenuti in giudizio in Italia la SS o il pontefice, per quanto riguarda il suo patrimonio privato, la citazione deve essere fatta al cardinal segretario di stato, mentre nel caso in cui sia convenuto lo stato città del vaticano, la citazione va fatta al presidente del governatorato. Alla garanzia di carattere territoriale, il trattato aggiunge una serie di altre garanzie di carattere reale, personali e funzionali. Rispettivamente: • Le garanzie reali previste dal trattato, si giustificano alla luce della ristrettezza territoriale dello stato città del vaticano, che ha imposto che gran part degli organismi (attraverso i quali la SS governa la chiesa universale) siano collocate nel territorio italiano. Lo stato italiano ha riconosciuto alla SS la piena proprietà di una serie di immobili indicati dagli articoli da 13 a 15 del trattato. Si pensi ad esempio alle basiliche patriarcali di san Giovanni laterano e di s. Maria maggiore. A questi immobili il trattato attribuisce il privilegio della extra territorialità, vale a dire che detti immobili godono dell’immunità riconosciuta dal diritto internazionale alle sedi degli agenti diplomatici di stati esteri. Per il diritto internazionale lo stato che ospita una 31 rappresentanza diplomatica straniera deve astenersi dall’esercitare atti di autorità nei luoghi atti a sedi diplomatiche. Vi è una preclusione all’accesso non autorizzato dalle forze di polizia, le quali non possono dunque applicar misure coercitive o di esecuzione forzata. Tuttavia i fatti giuridicamente rilevanti, sia leciti che illeciti, che avvengono in tali immobili, si considerano verificatesi a tutti gli effetti in Italia e soggiaciono alla giurisdizione italiana. Gli immobili che godono del beneficio della extra territorialità non possono poi essere assoggettati a vincoli o a espropriazioni per pubblica utilità, se non previo accordo con SS e non possono essere soggetti a tributi di qualsiasi genere. Sono poi da sorveglianza o autorizzazione da parte dell’autorità italiana per quanto riguarda il loro assetto edilizio, che la SS ritenga opportuno di dare loro. • Garanzie personali—sono da ricordare quelle che riguardano la persona del sommo pontefice, alla quale vien data una speciale tutela penale. Il trattato dice che l’Italia considera la persona del sommo pontefice sacra e inviolabile. Inviolabilità significa libertà dalla legge penale, sussistenza di una incapacità penale generale del sommo pontefice. Ciò significa non soltanto una sua non punibilità come soggetto, ma anche l’impossibilità di costituire soggetto di imputazione di illeciti penali. Incapacità penale generale. inoltre, il trattato dichiara punibile l’attentato contro la persona pontefice o la provocazione a commetterlo con le stesse pene stabilite per l’attentato contro la persona del presidente della repubblica. Allo stesso modo, le norme del trattato stabiliscono che le offese e le ingiurie pubbliche commesse nel territorio italiano contro il pontefice, siano punite allo stesso modo di come sono punite quelle alla persona del presidente della repubblica. Il trattato prevede poi alcune garanzie personali per tutti quei soggetti che ricoprono alti uffici ecclesiastici o svolgono particolari funzioni della SS. A proposito i cardinali. Per i cardinali è prevista una garanzia di carattere onorifico: nelle cerimonie pubbliche dello stato, i cardinali, nell’ordine delle precedenze, vengono subito dopo il presidente della repubblica. Essi sono esentati dal servizio militare, dall’ufficio di giudici popolare e da ogni altra prestazione di carattere personale. Ove si debba procedere all’assunzione della testimonianza di un cardinale in un processo civile, questa dovrà avvenire presso il suo domicilio o comunque in un luogo da lui scelto. Essi sono esentati anche dall’ufficio di tutore. Particolari garanzia sono previste per cardinali anche nel caso di sede vacante: viene assicurato a loro il libero transito attraverso il territorio italiano senza alcuna limitazione o impedimento. • Garanzie Funzionali—volte ad assicurare alla SS il libero esercizio della sua potestà di magistero. Di esse si occupa l’accordo di revisione concordataria del 1984, il quale riconosce alla chiesa cattolica la libertà di svolgere la sua missione pastorale di evangelizzazione e santificazione, la libertà di organizzazione dell’esercizio pubblico del culto, di esercizio del magistero, la libertà di comunicazione e corrispondenza fra la SS e le conferenze episcopali italiani e regionali, i vescovi il clero e i fedeli. In base all’art 11 del trattato, gli enti centrali della chiesa cattolica sono esenti da ogni ingerenza da parte dello stato italiano nonché dalla conversione dei beni immobili. Questa norma può porre un problema interpretativo: che cosa si intende per enti centrali della chiesa, posto che tale espressione non trova riscontra ne nell’ordinamento canonico ne in quello italiano? Al fine di chiarire il significato di questa espressione sono state proposte due tesi interpretative. Una prima tesi afferma che l’espressione “ente centrale della chiesa” deve esser interpretata in senso restrittivo, riferita alla SS in senso lato—in una parola, agli organismi costituenti la curia romana. Secondo invece un secondo orientamento, l’espressione è sinonimo all’espressione “enti pontifici”, e considera enti “centrali” della chiesa ogni ente gestito direttamente dalla SS anche se autonomo rispetto agli enti della curia romana e anche svolgendo attività in settori lontani dal ruolo spirituale della chiesa. Quanto al contenuto della garanzia, la norma pattizia precisa che l’esenzione di cui godono gli enti centrali della chiesa, si estende a ogni ingerenza. Si deve notare che il comportamento di astensione da ogni ingerenza, riguarda lo stato italiano in tutte le sue articolazioni territoriali e istituzionali, comprese quella giurisdizionale. Gli enti centrali della chiesa costituiscono una categoria distinta dagli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, non applicandosi ad essi le disposizioni di cui alla legge 222/1985. 32 una cosciente autorizzazione delle cure affinché possano essere applicate al paziente stesso. Deve essere un processo di cognizione per cui devono essere rese note al paziente le cure, il quale deve accettare esplicitamente le cure stesse in modo consapevole. vi deve essere quindi un’accettazione consapevole delle cure da parte del paziente. Tutto ciò è ben noto dal contenuto nella convenzione di Oviedo (primo trattato internazionale riguardante l’etica, firmata nel 1997 e recepita in Italia nel 2001 con legge n°145), la quale prevede l’obbligatorietà del consenso informato, nel senso che colui che sta facendo il trattamento deve essere consapevole e accettare il trattamento in maniera esplicita. Qualora la persona fosse giuridicamente capace, può rifiutare le trasfusioni, è legittimo. In un bilanciamento di interessi tra diritto di autodeterminazione (salute) e la libertà religiosa prevale il diritto all’autodeterminazione, qualora questo abbia piena capacità giuridica e di agire. Nel caso di chi non abbia personalità giuridica (es minore): la giurisprudenza sul punto è molto chiara, in un bilanciamento di interessi tra diritto alla salute e alla libertà religiosa di chi esercita su di esso la potestà genitoriale, prevale la tutela del diritto alla salute. Il giudice impone, rende obbligatoria la terapia tramite trasfusione sul minore. Mentre il maggiorenne può rifiutare queste cure, il minorenne no, i genitori non possono opporsi alle trasfusioni. È sempre un bilanciamento di interessi che bisogna effettuare, non necessariamente predeterminato dall’orientamento. Abbiamo quindi un bilanciamento di interessi, che ancora una volta ci ricorda come la libertà religiosa pur apparendo come libertà assoluta in realtà non lo è, ma ha dei limiti. È sempre necessario un bilanciamento di interessi ugualmente garantiti dalla costituzione. • Altre norme costituiscono limiti alla libertà religiosa, ad esempio le norme penalmente rilevanti. Non è che in nome della libertà religiosa possono essere effettuate delle azioni che abbiano un loro specifico rilievo penale, anche se talora la religione rileva per quanto riguarda l’individuazione della fattispecie. Esempio: caso avvenuto alcuni anni fa, in tema di libertà religiosa, dose personale—è lecito detenere una dose personale di droga (per uso personale), la quale è stabilita non in maniera fissa ma da alcuni specifici parametri. Ebbene, è stato comminata la pena a un rastrafariano che deteneva una dose di hascisc superiore a questa prevista normativamente. La sua difesa era la seguente: detengo questa dose perchè la mia religiosa impone di consumarla. Effettivamente la religione rastafariana richiede anche l’uso di hascisc, ritenendo che quest’erba crescesse attorno alla tomba di Salomone e che quindi utilizzarla significa partecipare in qualche modo alla sacralità del rito. La Corte di Cassazione ha affermato che il giudice che ha condannato il rastafariano per la dote superiore rispetto a quella prevista per uso personale, non ha tenuto conto tra i parametri di valutazione quello religioso, ossia il rastafariano poteva consumarne di più perchè così prevedeva la sua religione. In questo caso la religione entra come elemento integratore della fattispecie penalmente rilevante. Il legislatore non prevedeva l’esercizio della libertà religiosa come elemento per determinare la modica quantità di hascisc e invece la Cassazione afferma che la religione deve entrare tra questi criteri. La condanna per questo motivo venne annullata. Ma affermare ciò non è contrario al buon costume?—Cosa si intende per buon costume? L’unico limite esplicito è la non contrarietà dei riti al buon costume. Anche qui la cassazione ha ribadito che il buon costume lo si intende in senso penalistico del termine, cioè come onore o pudore sessuale. Quindi gli unici riti considerati contrari al buon costume sono quelli che in qualche modo ledono l’onore e il pudore sessuale. Questi sono gli unici riti considerati contrari al buon costume, gli altri riti no. La Cassazione ha sottolineato che finché la violazione della norma rimanga ferma a livello di dottrina, non assume rilevo penalistico, lo assume se dalla dottrina si passa alla prassi. Esempio: una certa religione prevede la possibilità dell’incesto (contrario al buon costume). Ebbene se questa religione predica l’incesto ma non lo pratica, i cultori di questa religione non possono essere perseguiti penalmente, è necessario che la dottrina si riversi nella prassi. 35 6.11 I MINISTRI DI CULTO All’interno delle confessioni religiose, possono essere attribuite ad alcuni soggetti particolari qualifiche e funzioni che li distinguono dai restanti fedeli e che possono assumere rilevanza giuridica anche nell’ordinamento dello Stato. Esempio: la legge statale può attribuire efficacia civile agli atti compiuti d questi soggetti (es celebrazione dei matrimoni) e possono essere riconosciuti a questi soggetti particolari diritti ovvero essere previsti specifici obblighi. La definizione delle diverse qualifiche e funzioni, così come l’individuazione dei soggetti a cui attribuirle, è rimessa alla competenza esclusiva delle confessioni religiose, in ossequio si ha al principio di autonomia sia al diritto di libera organizzazione. Dal canto suo lo stato è libero di attribuire o negare rilevanza giuridica tali qualifiche funzioni anche subordinandone il riconoscimento a specifiche condizioni o ponendovi determinati limiti. Tra le qualifiche confessionali richiamate dalla legislazione statale di derivazione unilaterale (o pattizia), ricordiamo ad esempio le qualifiche cattoliche di chierico, di ecclesiastico, o di religioso o ancora quella prevista dall’intesa con la chiesa avventista o ancora la qualifica di rabbino capo per la comunità ebraica e così via. Tutte queste qualifiche confessionali, di cui abbiamo fatto degli esempi adesso, nella legge dello stato sono ricondotte ad unità nella qualifica di ministro di culto. La qualifica di ministro di culto è una qualifica onnicomprensiva, una espressione dunque di sintesi che indica una eterogeneità di categorie di soggetti a cui è demandata la celebrazione di riti o è loro riconosciuta una potestà di magistero all’interno di una comunità religiosa. Come si acquista la qualifica di ministro di culto? Si acquista in diversi modi che dipendono dalla diversa posizione delle confessioni religiose nell’ordinamento statale. Per semplicità quindi dovremo distinguere due categorie di confessioni religiose: • Da un lato la chiesa cattolica e le confessioni religiose con intesa stipulata con lo Stato—in questo caso la qualifica di ministro di culto è attribuita in automatico. A proposito le autorità confessionali godono di un potere di certificazione del possesso di tale qualità. Attribuita in automatico sul presupposto che le autorità e gli organi della confessione religiosa considerata godono di un potere di certificazione di possesso di tale qualità. Lo prevedono l’accordo di modificazione del trattato lateranense, laddove si afferma che la nomina di titolari di uffici ecclesiastici è liberamente effettuata dall’autorità ecclesiastica. Anche l’intesa con la tavola valdese prevede un impegno della repubblica a riconoscere le nomine dei ministri di culto senza alcuna ingerenza statale. Quindi chiesa cattolica e confessioni religiose con intesa, la qualifica di ministro di culto è attribuita in automatico; • Dall’altro le confessioni religiose prive di intesa con lo Stato italiano— in questo caso, per godere della qualifica di ministro di culto (priva di intesa: soggetta alla legge del 1929), occorrono due requisiti: innanzitutto la nomina o il riconoscimento del soggetto a cui attribuire tale qualifica da parte dell’organizzazione confessionale. Il secondo requisito è un decreto di approvazione emanato dal ministro dell’interno. Il primo requisito si giustifica per il fatto che in nessun caso la qualifica di ministro di culto può essere riconosciuta nell’ordinamento dello stato a chi non sia stato precedentemente nominato ministro nel rispetto delle norme confessionali interne. Il secondo requisito è dunque che alla nomina intra confessionale segua un decreto di approvazione dell’autorità statale competente che è il ministero dell’interno. Come si arriva all’emanazione del decreto? Qual è il procedimento che fa giungere ad esso? In primis l’approvazione della nomina è chiesa con domanda diretta al ministero dell’interno da parte del ministro di culto interessato. Quindi il ministro di culto interessato chiede con apposita domanda diretta al ministero dell’interno l’approvazione della sua nomina intra confessionale a ministro di culto. La domanda (diretta al ministero dell’interno) deve essere presentata (depositata) presso la prefettura territorialmente competente. Tale domanda deve essere corredata dall’atto di 36 nomina intra confessionale dai documenti idonei ad attestare che tale nomina sia avvenuta secondo le norme che regolano il culto a cui il ministro appartiene. Inoltre deve essere corredata dalla copia conforme all’originale dell’atto costitutivo e dello statuto dell’ente di appartenenza del ministro. Tale iter si concluderà poi con l’emanazione del decreto di approvazione da parte del ministro dell’interno. I requisiti ia cui la legge subordina tale approvazione sono la cittadinanza italiana e la conoscenza della lingua italiana. Tali due requisiti sono però richiesti al ministro di culto solo quando i fedeli della sua confessione siano nella maggioranza cittadini italiani o gli sia concessa la facoltà di celebrare matrimoni religiosi con effetti civili. Per il resto, i riconoscimento del ministro di culto è, come ha affermato la giurisprudenza, un atto vincolato soggetto a una verifica di mera regolarità formale. Una parte della dottrina sostanzialmente riconosce la possibilità che il riconoscimento della qualifica di ministri di culto sia attribuita anche a quei soggetti che pur essendo privi dell’approvazione formale prevista dalla legge sui culti ammessi (n 1159/1929) svolgono di fatto funzioni rituali o magisteriali all’interno di una confessione religiosa i cui statuti non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. Si tratta però di una scelta che è soggetta a qualche dubbio. Lascia un problema aperto, cioè quello dell’eccessivo margine di discrezionalità soprattutto un problema interpretativo. La perdita della qualifica di ministro di culto. La perdita della qualifica di ministro di culto, nell’ordinamento dello Stato, è conseguenza immediata e diretta della perdita della qualifica confessionale (di ministro di culto) che ne costituisce il presupposto logico e giuridico. La cessazione o la revoca delle funzioni rituali o magisteriali a un dato soggetto è regolata esclusivamente dalle norme confessionali e non può essere soggetta sindacato da parte del giudice dello stato. Nel caso di ministri di culto approvati ai sensi della legge sui culti ammessi, quindi solo per i ministri approvati in base alla legge sui culti ammessi, la perdita della qualifica di ministro di culto nell’ordinamento dello stato può essere determinata anche dalla revoca del provvedimento di approvazione della nomina da parte del ministro dell’interno. Lo statuto giuridico dei ministri di culto—Come abbiamo detto, la legge dello stato riconosce ai ministri di culto taluni diritti e prevede nel contempo per gli stessi specifici obblighi. Prevede delle incompatibilità e dei casi di ineleggibilità dei ministri di culto. Vediamo quali sono i più significativi. Il primo aspetto da trattare dello stato giuridico di essi è l’esonero dal servizio militare. Ai ministri di culto della chiesa cattolica è attribuito dalla disciplina concordataria il diritto a ottenere su loro richiesta di essere esonerati dal servizio militare, oppure di essere assegnati a servizio civile sostitutivo. Tale diritto è riconosciuto anche ad altre confessioni religiose che abbiano stipulato una intesa con lo stato. Si pensi ad esempio all’intesa stipulata con gli ortodossi o con i buddisti e gli induisti, che però non contemplano la possibilità di un esonero dal servizio militare, ma prevedono solo la possibilità di assegnazione al servizio civile. Altre intese si limitano invece a prevedere che ai ministri di culto deve essere consentito svolgere unitamente agli obblighi di servizio militare, anche il loro ministero di assistenza spirituale nei confronti dei militari che lo richiedono. Capiamo che l’esonero dal servizio militare ha perduto di spessore a seguito dell’abolizione del servizio di leva obbligatorio. Tuttavia la peculiare posizione dei ministri di culto rispetto agli obblighi militari, riacquista un certo significato nel caso di una mobilitazione generale (=ipotesi bellica). In tali ipotesi bellica si prevedono trattamenti differenziati a seconda della confessione a cui il ministro appartiene. I ministri della chiesa cattolica, gli avventisti e quella della chiesa apostolica in Italia, che svolgono cura d’anime (es i parroci, i vescovi, i pastori eccetera) e i rabbini capo delle comunità ebraiche, possono essere esonerati o assegnati al servizio civile. Altri ministri di culto, delle altre confessioni religiose, sono assegnati su loro richiesta a servizi civili o ai servizi sanitari. Altri ancora sono chiamati ad esercitare il ministero religioso tra le truppe oppure possono essere assegnati a servizi sanitario; 37 Dal pdv fiscale, la disciplina pattizia non pone alcun dubbio sul fatto che la remunerazione dei ministri di culto va equiparata al reddito di lavoro dipendente. Quindi l’ente confessionale, ritenuto ad operare le ritenute IRPEF e a versarle allo stato, così come è tenuto ad effettuare il pagamento dei contributi assistenziali e previdenziali. Per quanto riguarda i ministri di culto, l’ordinamento italiano assicura anche la tutela previdenziale, la pensione di vecchiaia invalidità e superstiti mediante un fondo speciale INPS, chiomato “fondo di previdenza del clero e dei ministri di culto e delle confessioni religiose diverse dalla cattolica”, alimentato con i contributi degli iscritti e con un contributo straordinario dello Stato. Sono obbligati all’iscrizione a tale fondo i sacerdoti cattolici. Per i cattolici sacerdoti è l’istituto centrale per il sostentamento del clero che provvede direttamente al versamento dei contributi. L’iscrizione al fondo da parte dei ministri di culto appartenenti ad altre confessioni religiose non è obbligatorio ma facoltativo. Sempre per il ministro cattolico, prevista la possibilità di fondi assistenziali integrative. Oltre a prevedere diritti e doveri, l’’ordinamento italiano prevede per i ministri di culto anche specifiche incompatibilità e casi di ineleggibilità. Partendo dalla incompatibilità, l’ordinamento italiano prevede che i ministri di culto non possono svolgere le professioni idi notaio, di avvocato, non possono esercitare le funzioni di giudice popolare, di giudice di pace, di giudice onorario di tribunale o di giudici onorari aggregati o ausiliari. Per quanto riguarda i casi di ineleggibilità, invece, i ministri di culto non sono eleggibili alle cariche di sindaco, presidente di provincia, presidente di regione e consigliere regionale e inoltre i ministri di culto che hanno cura d’anime (vescovi, parroci eccetera) non possono essere eletti a consigliere comunale e consigliere provinciale nel territorio nel quale esercitano il loro ufficio. L’ultimo aspetto dello statuto giuridico dei ministri di culto, riguarda la rilevanza civile dei provvedimenti disciplinari emessi dall’autorità ecclesiastica nei confronti di ecclesiastici e religiosi cattolici. Il trattato lateranense attribuisce al proposito piena efficacia giuridica a tutti gli effetti civili alle sentenze e ai provvedimenti emanati dall’autorità ecclesiastica ed ufficialmente comunicati alle autorità civili circa ecclesiastici religiosi e concernenti materie spirituali e disciplinari. Nel protocollo addizionale del 1984 si precisa che se è vero che tali provvedimenti disciplinari hanno piena efficacia giuridica nell’ordinamento del Stato (hanno effetti civili) ciò è subordinato ad un aspetto, cioè che tali provvedimenti emessi dall’autorità ecclesiastica devono però essere in armonia con i diritti costituzionalmente garantiti ai cittadini italiani. Questa disciplina sottolinea la libertà organizzativa di cui gode la chiesa cattolica e l’incompetenza dello stato rispetto alle determinazioni che attengono sull’ambito disciplinare. Quindi questo significa che al giudice civile non è consentito ad esempio annullare il provvedimento con cui (ad esempio) un vescovo o rimuove un parroco. Il giudice italiano non può reintegrare quest’ultimo nel suo ufficio. Però il legislatore si premura di stabilire nel contempo che questa insindacabilità dei provvedimenti disciplinari è soggetta a un limite, che è quello della tutela dei diritti costituzionali garantiti a tutti i cittadini, anche a quelli che svolgono o le funzioni di ministri di culto. Per esempio al giudice italiano sarà consentito e ha il dovere di pronunciare anche riconoscendo l’illegittimità di un provvedimento disciplinare dell’autorità ecclesiastica e condannare quest’ultima al risarcimento del danno. Caso pratico: provvedimento di rimozione da parte del vescovo verso il parroco in violazione del diritto di difesa riconosciuto all’art 24 della costituzione—il giudice italiano può sindacare sull’atto riconoscendone l’illegittimità. Tra le specifiche qualifiche attribuite all’interno dell’organizzazione confessionale, che hanno una certa rilevanza civile, meritano attenzione anche la qualifica di religioso o di religiosa, prevista nell’ordinamento canonico. Con questi termini, si fa riferimento a uomini o donne che professano i consigli evangelici (i voti di povertà, castità e obbedienza) divenendo membri di un istituto di vita consacrata o a una società di vita apostolica. Nella lingua italiana, sono quei soggetti che vengono designati con il nome di monaci/e, frati, suore eccetera. Il codice di diritto canonico 40 prevede per questi soggetti alcuni specifici obblighi, es l’obbligo di celibato che impedisce a questi soggetti di contrarre validamente matrimonio canonico, oppure obbligo di trasferire all’istituto di vita consacrata tutti i beni che il religioso possiede al momento della confessione religiosa (devono spogliarsi di tutti i beni) e l’incapacità di acquistare di nuovi. Questi obblighi però hanno rilievo esclusivamente confessionale, dunque di per se non rilevano nell’ordinamento canonico. Il codice di diritto canonico prevede una serie di obblighi che rimangono confinati nell’ordinamento confessionali, sono privi di rilevanza giuridica nell’ordinamento dello stato. Ciò non toglie che il religioso che voglia liberamente adeguarsi a queste prescrizioni confessionali possa farlo anche con il compimento di atti validi ed efficaci dal pdv civile. As esempio il religioso che si vuole spogliare di beni può effettuare un atto di donazione all’istituto religioso. Lavoro prestato a favore da questi soggetti dell’istituto religioso di appartenenza—questo aspetto ha un rilievo civile dal pdv giuslavoristico. Infatti colui che gode della qualifica di religioso è legittimato a volgere gratuitamente un’attività lavorativa in favore dell’istituto religioso di appartenenza rinunciando a ogni forma di attribuzione. Ad esempio religiosi che lavorano nella scuole gestite dalla propria congregazione (salesiani). In ragione di questa gratuità, come è qualificabile il rapporto tra il religioso e l’istituto di appartenenza? Secondo la dottrina e la giurisprudenza, la gratuità che contraddistingue l’attività in questione, fa si che il rapporto tra religioso e ente di appartenenza non sia assimilabile a un rapporto di lavoro subordinato. Piuttosto si tratta di un rapporto “religionis causa”, rispetto al quale un soggetto (religioso) sceglie di far parte per un fine spirituale e non per procurarsi mezzi economici per un suo sostentamento. In ragione di ciò, nulla è dovuto al religioso per l’attività prestata in favore dell’ente a cui appartiene e nessun emolumento potrà essere richiesto all’ente, neanche quando sia cessato il rapporto con l’ente stesso. Se questo però è vero, cosa succede quando il religioso presta attività lavorativa non in favore dell’ente di appartenenza bensì in favore di 3° (es religioso che presta attività lavorativa per una scuola statale)? In questo caso, sembrerebbe sorgere un vero e proprio rapporto di lavoro tra il religioso e l’ente terzo. Però con una specificazione: se il rapporto di lavoro costituisce oggetto di una convenzione stipulata tra il 3° e l’ente, a cui apparitene il religioso, sarà l’ente e non il religioso a percepire la retribuzione. Dunque è come se il religioso prestasse la propria opera gratuitamente, perchè i soldi li prende l’ente di appartenenza in natura della convenzione. Se invece il religioso viene assunto direttamente e nominativamente dal 3° (non vi è una convenzione) il rapporto di lavoro è disciplinato dal diritto comune, la retribuzione spetterà al religioso e non all’ente di appartenenza. Sotto il profilo previdenziale, i religiosi, a differenza degli altri ministri di culto, non godono di una tutela specifica. Il legislatore, tuttavia ha previsto che quando essi svolgono attività lavorativa per conto di 3°, sono soggetti alle assicurazioni obbligatorie per invalidità, vecchiaia e tubercolosi. Spettano anche loro le assicurazioni contro gli infortuni e le malattie professionali. Rispetto a tale disciplina, in dottrina si è ritenuto che tali obblighi previdenziali ed assicurativi sussistano anche quando l’attività lavorativa dei religiosi venga svolta anche presso gli enti di appartenenza (quindi non solo per i 3°). In ogni caso però devono essere riconosciuti a tali soggetti la tutela sanitaria e il diritto alla pensione. 9.11 (Segue) LIBERTA’ DI RELIGIONE IN RELAZIONE AL DIRITTO PENALE 5 Vi sono limiti impliciti ed espliciti alla libertà di religione. Il limite implicito è l’ordine pubblico, altri limiti sono quelli posti dalle norme penalisticamente rilevanti. Il diritto di libertà religiosa ha anche Definito anche “La penale del sentimento religioso”5 41 una sua tutela, garanzia e limiti posti dal diritto penale. Non vi è quindi solo una garanzia costituzionale della libertà religiosa ma anche penale. Concretamente, nel codice penale c’è un titolo, il 4°, intitolato “Dei delitti contro il sentimento religioso e contro la pietà dei defunti”. Questa normativa era già prevista nel codice penale precedente negli articoli da 402 a 406 del codice penale ed era una normativa su cui è intervenuta (come vedremo) la corte costituzionale per il fatto che la normativa, così come originariamente prevista, prevedeva la tutela differenziata della religione cattolica rispetto alle altre confessioni religiose. I delitti perpetrati contro la confessione cattolica erano puniti maggiormente rispetto i delitti con soggetto passivo una confessione acattolica. Tutto ciò era in linea con quanto previsto dall’allora costituzione Albertina, che prevedeva al suo primo articolo che la religione cattolica era la religione di stato e come tale godeva di una protezione privilegiata rispetto alle altre confessioni religiose. La corte costituzionale ha smantellato poco a poco questa differenza con varie sentenze. La ratio di queste era la medesima: è contrario al principio di uguaglianza che il trattamento previsto per la confessione religiosa sia privilegiato rispetto quello delle altre confessioni religiose. Ecco allora che è intervenuta la corte costituzionale e ha pesantemente modificato il testo della normativa allora vigente e, abrogando alcuni testi e modificandone altri, ha anticipato l’opera del legislatore. Infatti con la legge 85/2006 (24 febbraio) i legislatore ha modificato il codice penale, nella parte interessata, concretamente eliminando ogni differenza tra confessioni religiose acattoliche e cattolica, stabilendo un unico concetto di confessione religiosa. Non vi è più una possibile disparità di trattamento ma si parla genericamente di confessione religiosa. Il legislatore ha portato a termine l’opera uguagliatrice della corte costituzione per emanare una nuova normativa che non tenga più presente la differenza tra confessioni religiosa ma consideri un concetto unico. Tutto ciò per evitare possibili disuguaglianze e possibili lesioni del principio di laicità dello Stato. La nuova normativa modifica quindi gli articoli da 402 a 406 del codice penale. In realtà il 402 era stato abrogato a suo tempo dalla Corte Costituzionale con la sentenza 508/2000, la quale aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale di questo articolo intitolato “Vilipendio della religione dello Stato”—prevedeva che chiunque pubblicamente vilipendi la religione dello Stato è punito con la reclusione fino a 1 anno. Ora sappiamo che il nuovo accordo (protocollo addizionale del 1984) ha dichiarato non più in vigore il principio dello statuto Albertino della religione cattolica come religione di stato. Quindi l’Italia non ha più una religione di stato. Il n 1 del protocollo addizionale del 1984 ricorda e afferma in maniera molto chiara che si considera non più in vigore il principio della religione cattolica come sola religione dello Stato. Da ciò deriva che la religione cattolica non è più religione di stato e dunque non ha senso un articolo che tuteli la religione cattolica come religione di Stato. Ecco allora che intervenne con la CC per dichiarare l’illegittimità dell’art 402 codice penale, non più riprodotto nella successiva riforma del 2006. La successiva riforma del 2006 è intervenuta per modificare gli altri articoli del codice penale, concretamente gli articoli 403, 404 e 405 abrogando appunto il 406. Singolarmente: • Art 403 cp—offesa a una confessione religiosa mediante vilipendio di persona. Afferma che “Chiunque pubblicamente offende una confessione religiosa, mediante vilipendio di chi la professa, è punito con la multa da 1k a 5k”. L’oggetto immediato della tutela non è il singolo ma la confessione religiosa. Viene tutelata la libertà istituzionale (tutela diretta) rispetto a quella individuale, la quale viene tutelata in maniera indiretta. L’offesa alla confessione religiosa (diretta) mediante offesa indiretta (vilipendio) di un fedele della confessione religiosa. Il soggetto passivo (offeso) è la confessione religiosa e in via mediata il fedele. Qualora il fedele nella confessione religiosa rivesta un ruolo di governo (ministro) la multa aumenta. Se l’offesa a un semplice fedele la pena edittale (qui pecuniaria) è da 1k a 5k, per ministro da 2k a 6k; • Art 404 cp—riguarda sempre l’offesa a una confessione religiosa, ma non tramite vilipendio di persone bensì di cose. Il primo comma afferma che: “Chiunque, in luogo destinato al culto, o in luogo pubblico o aperto al pubblico, offendendo una confessione religiosa, vilipende con espressioni ingiuriose cose che formino oggetto di culto, o siano consacrate al culto, o siano 42 di diritti dell’uomo (CEDU). La CEDU (1950), resa esecutiva in Italia nel 1955, ha anche alcuni protocolli addizionali e il primo di questi (del 1952, reso esecutivo in Italia nel ’55) prevede che il diritto all’istruzione non può essere rifiutato a nessuno. Lo Stato, nell’esercizio delle funzioni che assume nel campo dell’educazione e dell’insegnamento, deve rispettare il diritto dei genitori di assicurare tale educazione in modo conforme alle loro condizioni religiose e filosofiche. Viene affermato come diritto fondamentale il diritto di assicurare ai figli un’educazione conforme al loro credo, anche religioso. Prendiamo altri documenti di rilievo internazionale, pensiamo per esempio alla Carta dei diritti fondamentali dell’UE—in essa possiamo leggere che l’UE pone la persona al centro della sua azione istituendo la cittadinanza dell’UE creando uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Anch’essa afferma all’art. 14 che la libertà di creare istituti di insegnamento nel rispetto dei principi democratici, così come il diritto dei genitori di provvedere all’educazione e all’istruzione dei loro figli secondo le loro convinzioni religiose, filosofiche e pedagogiche. Quindi anch’essa prevede tale diritto, ossia che i genitori abbiano un ruolo prioritario nel progetto educativo riguardante i loro figli. Da una parte c’è questo diritto dei genitori, dall’altra c’è il dovere dello Stato di rispettare tale diritto. Siamo in presenza di due posizioni giuridico soggettive fondamentali in questo ambito, tra di loro legate sia funzionalmente (perchè una strumentale all’altra) sia finalisticamente, in quanto entrambe sono destinate a una medesima finalità, ossia l’educazione e la crescita della persona umana. Vi è anche il diritto per associazioni e istituzioni di creare scuole che possano assicurare questo loro diritto educativo. Quindi da un pdv sostanziale il diritto dei genitori (o di chi esercita la responsabilità genitoriale) è prioritario rispetto all’educazione di scuole ed istituti. Tuttavia la libertà di creazioni degli istituti per assicurare la libertà educativa dei genitori, ha una priorità funzionale rispetto a quello della famiglia, in quanto senza la creazione di una alternativa istituzionale all’educazione statale, il primo diritto non potrebbe essere esercitato perchè solo cos’ la famiglia può assumere il suo ruolo di primo soggetto educativo. Qui abbiamo due posizioni: il diritto dei genitori (di assicurare l’educazione al figlio conforme al loro ideale) e dall’altro il diritto delle istituzioni (chiesa o un’associazione laica) di creare scuole che tale diritto i genitori possono assicurare. Se dunque il diritto dei genitori, la scelta di un progetto educativo coerente con il proprio credo religioso o culturale, è necessario che questo diritto possa aver la sua logica attuazione, cioè che i genitori in primis (o anche istituzioni) possono creare istituti educativi che possono corrispondere a questo diritto. Se guardiamo il panorama normativo dell’UE, possiamo notare come le costituzioni della maggioranza dei paesi membri prevedano in modo esplicito (oltre all’assunzione da parte dello Stato dell’onere di predisporre un servizio pubblico di istruzione) il diritto di aprire una scuola non statale o la libertà di scelta della scuola e della libertà di insegnamento. Per quanto concerne la situazione italiana, la situazione è più complessa (vedremo): come ricorda la costituzione, anch’essa garantisce tale diritto—art 33 costituzione prevede che enti e privati hanno il diritto di istituire scuole e istituti d’educazione. tuttavia, mentre la maggior parte degli ordinamenti giuridici europei prevede una partecipazione anche economica dello stato all’iniziativa privata—logica partecipazione perchè se il privato (singolo, famiglia o istituzione) si occupa dell’istruzione, è chiaro che se si assume l’onere di creare istituti educativi al contempo lol stato viene sgravato da quest’onere e quindi è logico che lo stato cooperi con il privato per agevolarlo nell’esercizio di questo onere. L’Italia è uno dei pochi paesi che esplicitamente in costituzione prevede che lo stato non possa intervenire. “Senza oneri per lo Stato” (art 33): istituzionalmente chiunque può creare istituti educativi ma lo stato non coopera economicamente nell’esercizio di questo diritto. Abbiamo visto l’art 33 quando abbiamo parlato dell’art 7 secondo comma dei patti lateranensi. Questa clausola “senza oneri per lo Stato” è stato il prezzo che i costituenti democristiani hanno dovuto pagare per inserire esplicitamente i patti lateranensi nella costituzione. I costituenti comunisti accettarono l’inserimento di tale clausola a condizione che i costituenti democristiani e liberali inserissero nell’art 33 della costituzione una ulteriore clausola, ossia che accanto alle libertà di istituire le scuole vi era il non obbligo dello Stato di finanziare tali scuole. Gli oneri finanziari erano a carico 45 di chi li voleva istituire, quindi libertà di istituzione senza oneri finanziari verso lo Stato. Tutto ciò comporta la difficoltà di creazione di scuole e istituti e quindi si creano (di conseguenza) le premesse per la violazione o la non realizzazione di un diritto fondamentale della famiglia, ossia assicurare ai figli un’educazione conforme al proprio credo—grosso limite. • Dall’altro lato il diritto alla libertà formativa nella famiglia stessa (compreso nel primo punto). Per la giurisprudenza italiana il credo religioso dei genitori non costituisce una criterio valido per l’affidamento dei figli, essendo l’ordinamento italiano laico e liberale e rispettoso delle libere scelte individuali. La cassazione ha ribadito anche in tempi recenti che l’affidamento (da separazione o divorzio) non può essere effettuato assumendo come criterio la religione di uno dei genitori. I figli vengono affidati in base a un criterio fondamentale, ossia il miglior interesse del figlio stesso. Poi il fattore religioso può essere uno dei fattori di scelta, ma non deve essere quello determinante. Naturalmente diverso è il caso in cui l’adesione a una fede comporti, per aspetti di intransigenza assunto dal singolo il venir meno a fondamentali doveri nell’ambito dei rapporti con il coniuge che possono influire negativamente sull’educazione della prole. Fermo restando che deve sempre essere realizzato il miglior interesse della prole stessa. Questa però è l’unico caso in cui la religione può costituire un criterio di affidamento per i figli, se no non ha alcun rilievo. NEL DIRITTO DEL LAVORO—Anche in quest’ambito uno dei diritti fondamentali è la libertà religiosa. Ai sensi dell’art 4 della legge 604/1966 il licenziamento per rappresaglia contro la fede religiosa è nullo indipendentemente dalla motivazione adottata. Anche gli atti o gli accordi diretti a subordinare l’occupazione, l’attribuzione delle qualifiche e i trasferimenti (eccetera) di un lavoratore, subordinandole alla sua appartenenza religiosa, sono dichiarati nulli dall’art. 15 dello statuto dei lavoratori (n° 300/1970). Lo statuto dei lavoratori all’art 1 garantisce la libertà di manifestazione di pensiero negli ambienti di lavoro senza distinzione di fede religiosa. Nel caso di licenziamento non assistito da giusta causa o da giustificato motivo, l’imprenditore, qualora ricorrano le condizioni di cui all’art 18 dello statuto dei lavoratori, ha l’obbligo di reintegrare il lavoratore licenziato, in quanto al lavoratore sputa la tutela reale prevista dall’art 18 dello statuto dei lavoratori. Questo è un punto fondamentale: nullità + reintegra. Diverso è il caso in cui un ente o un’associazione datrice di lavoro, che abbia una esplicita impronta confessionale (es parrocchia, ospedale gestito da un ente religioso, una scuola religiosa) richieda che i propri dipendenti, specie soprattutto se questi dipendenti sono impegnati in un lavoro che tocca da vicino l’ideologia religiosa, richieda l’appartenenza a una data confessione e preveda che l’abbandono di questa religioni importi la risoluzione del rapporto di lavoro. Vi è il bilanciamento tra libertà religiosa del singolo e la libertà e autonomia dell’organizzazione e il diritto di tale organizzazione alla propria identità confessionale. Identità che risulta salvaguardata dalla rilevanza che la costituzione dà ai vari ordinamenti confessionali (art 7 e 8 Costituzione). In questo caso è legittimo sia subordinare l’assunzione all’appartenenza religiosa sia licenziare il dipendente che abbia mutato religione (in presenza di varie condizioni), perché nell’ipotesi di un ente confessionale che assuma un proprio dipendente a condizioni che confessi la medesima religione, l’ideologia in questo caso (come afferma la Cassazione) entra a far parte del contenuto del contratto. La sintonia ideologica entra a far parte del contenuto del contratto, determinando nel medesimo tempo i limiti della propria rilevanza ai fini della valutazione della prestazione lavorativa del dipendente stesso. La direttiva dell’UE 78/2000 prevede una norma esplicita a riguardo (art 13), prevede che le chiese e altre organizzazioni pubbliche o private, la cui etica, è fondata sulla religione e sulle convenzioni personali, e che agiscono in conformità delle disposizioni costituzionali e legislative nazionali, queste organizzazioni hanno il diritto di esigere dalle persone che sono alle loro dipendenze un atteggiamento di lealtà e buona fede nei confronti dell’etica dell’organizzazione. Questa direttiva, riguardante la parità di trattamento in ambito occupazionale, determina che gli stati membri possano mantenere nella legislazione nazionale in vigore alla data d’adozione della direttiva o anche prevedere in una futura legislazione, disposizioni che possano 46 contemplare una differenza di trattamento basata sulla religione e sulle convinzioni personali (nel caso di attività di chiese o di altre organizzazioni la cui etica è fondata sulla religione). Questa differenza non costituisce discriminazione se, per la natura di questa attività o per il contenuto in cui le attività vengono svolte, la religione o le convinzioni personali presentino un requisito essenziale legittimo e giustificato (la direttiva usa questi tre aggettivi) per lo svolgimento dell’attività lavorativa, tenuto conto appunto dell’etica dell’organizzazione. La direttiva non pregiudica il diritto delle chiese o di altre organizzazioni, la cui etica è fondata sulla religione, di esigere dal persone che sono alle loro dipendenze un atteggiamento di lealtà e buona fede verso l’etica dell’organizzazione stessa. Questa direttiva è stata resa esecutiva in Italia con decreto legislativo 216/2003—esso determina che nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza nell’ambito del rapporto di lavoro, non costruiscono atti di discriminazione le differenze di trattamento dovute di caratteristiche connesse alla religione, alle convinzioni personali, all’età e all’orientamento sessuale di una persona, qualora per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa venga esplicata, si tratti di caratteristiche che costituiscono requisito essenziale determinante per lo svolgimento dell’attività medesima. Questo vuol dire che enti confessionali possono esigere per l’attività svolta presso l’ente stesso che il dipendente abbia una sintonia ideologica con il datore di lavoro qualora tale sintonia costituisca un requisito legittimo, essenziale e giustificato ai fini dello svolgimento della medesima attività. Due sentenze della CEDU (2010)—entrambe contengono questo principio fondamentale: se la professione di una fede è un requisito essenziale, legittimo e giustificato per l’esercizio di quell’attività la confessione può assumere persone solo in sintonia con quella fede e licenziare chi abbandona quella fede (per rottura della sintonia ideologica), ma se l’attività non richiede necessariamente una sinfonia ideologica e quindi la fede non rientra nel contratto, l’assunzione (o licenziamento) è svincolata dalla confessione di fede del datore e del lavoratore—illegittimo. • Caso di un organista di una parrocchia cattolica: licenziato dalla parrocchia stessa perché aveva assunto una posizione famigliare incoerente con il magistero cattolico (aveva divorziato e si era risposato). In questo caso la CEDU ha affermato che l’organista aveva diritto a essere reintegrato nel suo posto di lavoro, perché la mansione che svolgeva non richiedeva come requisito essenziale, legittimo e giustificato una coerenza ideologica. La sua era una funzione meramente tecnica, quella di suonare l’organo durante le funzioni religiose. L’adempimento di questa funzione non richiedeva necessariamente la professione di fede identica a quella del datore di lavoro ma solo un’abilità tecnica (suonare l’organo). In questo caso il licenziamento quindi era illegittimo con obbligo di reintegra del lavoratore da parte della parrocchia stessa (se la sentenza fosse stata nell’ordinamento italiano, la parrocchia sarebbe stata condannata solo al risarcimento e non alla reintegra del lavoratore in quanto la sua non è attività d’impresa); • Sentenza di segno opposto (sempre 2010), caso di un portavoce della chiesa mormone (definita come la chiesa di Gesù cristo negli ultimi giorni) in Germania—egli venne licenziato perchè aveva assunto una posizione ideologica contrastante a quella dei mormoni, aveva abbandonato quella religione. In questo caso la CEDU ha dato ragione alla chiesa mormone, è legittimo il licenziamento perchè la posizione di portavoce (funzione apicale) richiede una sintonia ideologica con il datore di lavoro, ossia professare la medesima fede costituisce un requisito essenziale, legittimo e giustificato per lo svolgimento dell’attività. La fede è parte integrante del contratto medesimo: nel momento in cui viene meno il credo viene meno il contratto. In definitiva il principio fondamentale, che è stato enucleato alcuni decenni fa in una sentenza della Corte Costituzionale (1972) e ribadito nel 2010 dalla CEDU è che se si negasse a una struttura ideologicamente qualificata la possibilità di scegliere i propri dipendenti in base a una valutazione della loro personalità e se si negasse alla stessa il potere di recedere dal rapporto di lavoro quando gli indirizzi politici o ideologici del lavoratori contrastino con quelli dell’ente, non si 47 nomina dei docenti dell’unicatt al gradimento dell’autorità ecclesiastica) ad attenersi alla pronuncia della CC. Abbiamo quindi un caso di ricezione di una sentenza della CC in un accordo internazionale. Un caso raro, però interessante: l’accordo internazionale recepisce una sentenza della CC affermando che l’interpretazione autentica di quella norma è quella data dalla CC nella sentenza 195/1972. Ossia l’interpretazione da dare dell’art 10 dell’accordo di Villa Madama è quella che venne data in questa sentenza in relazione all’art 38 del concordato (rinvio formale). Parere del Consiglio di Stato—esso con una sentenza del 2005, ha ribadito che il gradimento dell’autorità ecclesiastica costituisce un fatto estraneo all’ordinamento italiano, la cui concreta sussistenza, rappresenta un presupposto di legittimità della nomina del docente, non sindacabile ne dall’università cattolica ne dal giudice amministrativo. Pertanto l’assenza del gradimento obbliga gli organi dell’unicatt a prenderne atto, nel senso che essi non possono attivare la fase del procedimento volte ad accertare le ragioni di tale assenza, ne possono disporre la nomina in contrasto con le determinazioni dell’autorità ecclesiastica. In definitiva viene affermato da questa sentenza che il gradimento alla SS ( o nulla osta) costituisce un presupposto di legittimità della nomina del docente, non sindacabile ne da parte dell’unicatt ne dal giudice amministrativo, in quanto atto esterno al nostro ordinamento, che non può appunto essere sindacato. La nomina di un docendo privo di questo presupposto sarebbe radicalmente nullo. Anche in questo caso abbiamo una richiesta di giustizia che non può essere assolta. ——————————————————————————————————————————— **Vediamo altre norme sempre a tutela della libertà religiosa e in generale varie libertà. La legge del 13 ottobre 1975 n°654—autorizzò la ratifica e l’esecuzione nel nostro ordinamento della convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, conclusa a NY il 21 dicembre 1965. Questa legge, modificata molte volte negli anni fino alla legge 85/2006, ha introdotto anche alcuni reati di discriminazione fondata su motivi religiosi. • L’art. 604 bis del codice penale—prevede che sia punito, salvo che il fatto costituisca reato già grave, con la reclusione fino a 1 anno e 6 mesi e una multa fino a 6 mila euro, chi propaganda idee fondate sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere atti di discriminazione per motivi razziali o religiosi. Inoltre è sanzionato con la reclusione da 6 mesi a 4 anni chi in qualsiasi modo istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza, per motivi razziali, etnici o religiosi. Quindi è vietata ogni organizzazione, associazione o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento o la violenza per motivi razziali, etnici o religiosi. Le persone che dirigono tali associazioni sono puniti con la reclusione da 1 a 6 anni e la partecipazione o assistenza è sanzionata con la reclusione da 6 mesi a 4 anni. Questo significa che vi è un reato specifico, il reato di propaganda fondata con istigazione a commettere atti discriminatori per motivi etnici, razziali o religiosi. Vi è un’istigazione a reati di tipo religioso, discriminando. Vi è una discriminazione penalmente rilevante per motivi religiosi, punita dall’art 604 bis cp. Tale discriminazione può essere violenta o non violenta. ——————————————————————————————————————————— 50 20.11 LA LIBERTA’ RELIGIONE NELLA SCUOLA E DELLA SCUOLA Abbiamo visto come la famiglia sia il primo soggetto educatore, come numerosi documenti internazionali (soprattutto la CEDU, ad esempio, ma anche i protocolli addizionali) pongono come uno dei diritti fondamentali della famiglia quello di poter educare i figli in maniera coerente con il proprio credo, o comunque secondo il proprio progetto ideologico. Un diritto che implica anche un dovere da parte dello Stato: se la famiglia ha questo diritto, che è un diritto pubblico soggettivo (che quindi può far valere nei confronti degli organi pubblici) lo Stato ha il correlativo dovere di poter permettere che le famiglie adempiano a questo loro diritto. Lo stato deve quindi permettere e contribuire a che siano istituti organi e istituti educativi che possano permettere la libera scelta educativa alle famiglie stesse. Abbiamo visto anche come l’art 33 della costituzione, dopo aver affermato il dovere della repubblica di istituire scuole statali per tutti gli ordini e i gradi, riconosce il diritto di enti e privati di istituire scuole senza oneri per lo stato. Questo comma 3°, nell’art 33 della costituzione, fu inserito come risposta all’inserimento nell’art 7 della costituzione dei patti lateranensi quale norme internazionale regolatrice dei rapporti tra stato e chiesa. La medesima norma prevede inoltre che le scuole istituite e gestite da soggetti diversi dallo stato possono porsi su un pian odi parità giuridica con le scuole statali in modo tale da assicurare ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni delle scuole statali (comma 4). L’individuazione degli obblighi da adempiere per accedere a questa condizione di parità scolastica, e dei diritti conseguenti, è affidata al legislatore ordinario. La norma è abbastanza recente, solamente con la legge n° 62/2000, recante l’onere per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo studio e all’istruzione, si è giunti a una sorta di parità scolastica. Quindi è soltanto la legge 62/2000 che ha istituito il sistema scolastico d’istruzione. Questo sistema italiano prevede sul livello di formale parità che le scuole possano essere scuole statali e non statali, ed entrambe offrono un servizio pubblico. Ci sono scuole pubbliche statali e scuole pubbliche non statali: ancora una volta il nostro legislatore ha inteso affermare un principio fondamentale, ossia che anche i privati possono offrire un servizio pubblico. Servizio pubblico non è sinonimo di servizio statale, lo stato non coincide con il pubblico. Per questo motivo il servizio pubblico può essere offerto anche da privati. Le scuole pubbliche non statali devono rispondere a certi requisiti, come anche il sistema universitario nazionale prevede università statali e università non statali, ma il sistema universitario nazionale è unico: sono tutte le università che accreditate dal ministero offrono un servizio pubblico. Così ugualmente la legge 62/2000 prevede che il sistema pubblico di istruzione sia costituito da scuole pubbliche statali e non statali (ossia le paritarie). Le scuole paritarie sono quelle che appunto ottengono la parità scolastica e sono integrate nel sistema nazionale di istruzione e sono abilitate a rilasciare titoli di studio aventi valore legale. L’accesso alla parità scolastica e l’inserimento nel sistema nazionale di istruzione è subordinato al possesso di determinati requisiti. Essi sono i seguenti e sono previsti dalla legge 62/2000: • Vi deve essere un progetto educativo che sia coerente con la Costituzione—il progetto educativo (il POF: piano offerta normativa) deve essere in armonia con i principi costituzionali. Quindi in definitiva una sottoposizione della scuola al principio di legalità; • Vi deve essere anche la disponibilità di locali e attrezzature didattiche coerenti con le norme vigenti, ossia le strutture scolastiche devono essere coerenti con la normativa vigente in edilizia e attrezzatura didattica; 51 • Deve poter essere accreditata all’istituzione il funzionamento di organi collegiali improntati alla partecipazione democratica all’interno dell’organismo scolastico; • L’iscrizione alla scuola deve essere libera: chiunque può iscriversi a quella determinata scuola. Non vi può essere una selezione di accesso alla scuola basata ad esempio sulla credenza religiosa o sulla regolarità famigliare. Non vi può essere una scuola solo per cattolici o per ebrei, se vuole essere paritaria. L’iscrizione deve essere per tutti gli strumenti i cui genitori ne facciano richiesta, ovviamente purché siano in possesso di un titolo di studio valido per l’iscrizione alla classe che intendono frequentare; • Deve essere prevista l’applicazione delle normative vigenti in materia di inserimento di studenti in condizioni di svantaggio e l’organica costituzione di corsi completi; • Il personale docente deve essere fornito del titolo di abilitazione necessario, per insegnare in quel corso di studi determinato; • I lavoratori devono avere un contratto individuale coerente con i contratti collettivi nazionali di settore. Tutti questi requisiti devono essere provati dall’ente di gestione della scuola al momento in cui presenta istanza di riconoscimento all’ufficio regionale scolastico (che una volta si chiamava Provveditorato agli studi) e deve conservare questi requisiti nel corso del tempo, che sono oggetto di verifica annuale da parte dell’ufficio regionale scolastico. Gli enti scolastici quindi che abbiano questi requisiti hanno diritto a ottenere la parità legale, cioè a essere integrati nel sistema nazionale di istruzione quali scuole pubbliche non statali e in questo modo sono anche abilitati a lasciare un titolo di studio valido agli effetti legali. Vi possono anche essere scuole gestite da enti privati che non abbiano tali requisiti—in questo caso queste scuole, definibili “private”, si applicano le disposizioni relative le scuole non paritarie previste dalla normativa italiana. L’art 33 della costituzione come ricordavamo precisa che l’esercizio del diritto dei privati di istituire scuole (siano esse paritarie o non paritarie) debba avvenire senza oneri per lo Stato. Potremmo in un certo senso pensare, e in buona parte è vero, che il nostro ordinamento scolastico non contempla alcuna forma di finanziamento pubblico nelle scuole non statali, diretto o indiretto. In realtà il significato di questa norma costituzionale ha dato luogo a molte interpretazioni e anche creando un vivace dibattito giurisprudenziale e dottrinale. Da un lato vi è chi sostiene un vero divieto per lo stato di finanziare in qualunque momento qualunque scuola che non sia pubblica statale, altri invece ritengono che il divieto per lo stato sia limitato soltanto al momento istitutivo. L’art 33 precisa che l’esercizio dei privati di istituire scuole deve darsi senza oneri per lo Stato, quindi interpretando letteralmente tale articolo essi ritengono che l’obbligo di non finanziare sia riferito unitamente alla fase genetica dell’iniziativa privata, per cui sarebbero ammissibili finanziamenti (o contributi) diretti a sostenere l’attività di scuole già istituite, cioè già operative. La CC in una sentenza del 1982 (la n°36) ha specificato che “la garanzia costituzionale della libertà di scelta del tipo di scuola non comporta l’obbligo della repubblica di assumersi gli oneri eventualmente necessari per esercitarla, escludendo in definitiva la sussistenza di un dovere dello Stato di farsi carico delle rette o delle tasse di frequenza pagate dal singolo alunno. Il principio di parità di trattamento tra scuola pubblica e privata non può spingersi fino alla determinazione dell’obbligo della repubblica di assumersi gli oneri eventualmente necessari per l’esercizio di tale ultima scuola”. È proibita quindi ogni forma di finanziamento diretto. Il legislatore però ha previsto alcune forme di finanziamento indiretto garantite dalla stessa CC. Ad esempio è assicurato agli alunni delle scuole statali la fornitura gratuita di libri di testo, nei limiti e le condizioni in cui questa fornitura sia prevista per gli studenti che frequentano le scuole pubbliche statali, in quanto si tratta di una provvidenza destinata direttamente agli alunni che non equivale all’assunzione degli oneri da parte dello Stato in favore di dette scuole. La CC, in questa sentenza del ’94, dopo aver affermato in quella del 1982 che lo stato non ha l’onere di finanziare, ne nella fase istitutiva che in quella gestionale le scuole, tuttavia lo stato può finanziare gli studenti delle scuole stesse in maniera paritaria agli studenti delle scuole pubbliche statali in quanto, ad 52 Il protocollo addizionale all’accordo di Villa Madama specifica le modalità concrete di adempimento da parte della repubblica di questo impegno. Concretamente introducendo un requisito di idoneità confessionale per gli insegnanti a cui affidare l’insegnamento della religione cattolica e rinviando a una successiva intesa tra l’autorità scolastica e la conferenza episcopale italiana la determinazione dei programmi dell’insegnamento di religione e le modalità dell’insegnamento, anche in relazione alla collocazione degli orari delle lezioni. Questa intesa prevista in sede di modificazione del concordato dal n° 5 del protocollo addizionale è stata stipulata nel 1985 e modificata nel 2012, tutt’ora vigente. Vediamo alcuni punti fondamentali. Problema degli insegnanti di religione—problema più importante. Abbiamo visto che l’accordo di villa madama introduce una sorta di doppio vaglio per gli insegnanti di religione: un requisito di idoneità professionale e un requisito di idoneità confessionale. Concretamente agli insegnanti di religione si richiede il possesso di specifici titoli di qualificazione professionale e di un’apposito certificazione di idoneità. Quali sono i titoli di qualificazione professionale richiesti agli insegnanti di religione? Nelle scuole secondarie di primo e secondo grado l’insegnamento della religione cattolica può essere affidato solamente a chi abbia o un titolo accademico in teologia (o nelle altre discipline ecclesiastiche, es diritto canonico), un titolo conferito da una facoltà approvata dalla SS, oppure in alternativa che abbia come titolo l’attestato del compimento dei regolari studi teologici in un seminario o ancora che abbia la laurea magistrale in scienze religiose conseguita presso un istituto superiore di scienze religiose approvato dalla Santa Sede. È necessario uno di questi 3 titoli per la scuola secondaria di 1° e 2° grado. Per quanto riguarda la scuola primaria (elementari) e la scuola dell’infanzia, l’insegnamento della religione cattolica può essere impartito o dagli insegnanti che siano in possesso di uno dei titoli detti prima, oppure da sacerdoti, diaconi o religioni in possesso di una qualificazione riconosciuta dalla conferenza episcopale italiana, o dagli insegnanti della classe purché in possesso di uno specifico master di secondo livello per l’insegnamento della religione cattolica approvato dalla conferenza episcopale italiana. Accanto a questo è fattore necessario, per la nomina a docente di religione, che l’insegnante venga riconosciuto come idoneo dall’autorità ecclesiastica competente o sia necessario che ne sia certificato da parte dell’autorità ecclesiastica dipendente l’idoneità, non professionale ma morale e religiosa all’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche statali. Questo certificato di idoneità, esplicitamente previsto dall’accordo di modificazione del concordato, è rilasciato, su richiesta di chi intende insegnare religione dall’ordinario diocesano, cioè dal vescovo della diocesi. E consiste essenzialmente in un’attestazione che la persona è eccellente per retta dottrina, per testimonianza di vita cristiana e per abilità pedagogica. Il riconoscimento di idoneità all’insegnamento della religione cattolica ha effetto permanente salvo revoca da parte dell’ordinario diocesano e l’eventuale revoca determina (e sul punto la giurisprudenza è consolidata) la cessazione automatica dall’incarico e la decadenza dal rapporto di pubblico impiego. Sentenza della Cassazione del 2005—la perdita dell’idoneità per revoca del relativo nulla osta comporta l’impossibilità giuridica della prestazione, assoluta e definitiva. Art 4 della legge 186/2003—esso ha introdotto la possibilità alternativa per l’insegnante di religione cattolica con contratto di lavoro a tempo indeterminato al quale sia stara revocata l’idoneità, di fruire della mobilità professionale del comparto del personale della scuola (in quanto inserito stabilmente nel ruolo dello stato), con le modalità previste dalle disposizioni vigenti e subordinatamente al possesso dei requisiti prescritti per l’insegnamento richiesto. Ad esempio se possiede il titolo per insegnare lettere, può insegnare lettere se revocato da religione. La nomina e l’assunzione dell’insegnante di religione cattolica sono di competenza esclusiva dell’autorità scolastica competente, le quali tuttavia sono tenute a provvedervi di intesa con l’ordinario diocesano. Concretamente il DPR 175/2000 prevede che l’ordinario diocesano, ricevuta comunicazione dell’autorità scolastica delle esigenze relative l’insegnamento in ciascuna 55 istituzione scolastica, propone i nominativi delle persone ritenute idonee e in possesso dei titoli di qualificazione professionale. È necessaria un’intesa con l’autorità ecclesiastica competente. L’incarico può essere stabile o annuale. Sino al 2003, l’entrata in vigore della legge 186, l’insegnamento della religione cattolica era assegnato solo tramite incarichi annuali e la stipula di contratti a tempo determinato. Con la legge 186/2003 sono stati istituiti due ruoli regionali del personale docente di religione, articolati per ambiti territoriali che coincidono con le diocesi e corrispondenti ogni ruolo ai due cicli scolastici, primario e secondario, previsto dall’ordinamento. Come si accede? Si accede a questi ruoli mediante concorso per titoli ed esami. Concretamente la legge 186/2003 prevede che il 70% dei posti disponibili per l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche statali, debba essere coperto mediante ricorso a insegnati di ruolo e il restante 30% i dirigenti scolastici possono stipulare contratti a tempo determinato con docenti indicati dal docente regionale di intesa con l’ordinario diocesano. 70% degli insegnanti deve quindi essere di ruolo, il restante 30% annuale. Agli insegnati di religione, siano essi di ruolo o meno, si applicano le norme relative il trattamento economico per gli altri insegnanti, quindi sono equiparati agli altri insegnanti. Art 2 del DPR 175 lo dice: hanno gli stessi diritti e doveri degli altri insegnanti e partecipano alle valutazioni periodiche finali solo per gli alunni che si sono avvalsi dell’insegnamento della religione cattolica, fermo quanto previsto dalla normativa statale. Abbiamo quindi un’equiparazione degli insegnanti di religione ad altri con alcune caratteristiche peculiari (es valutazione degli alunni solo con quelli che partecipano agli insegnamenti religiosi e in caso di delibera e la sua opinione viene qualificato come giudizio motivato e non ponderato come voto, non partecipa quindi nei giudizi maggioritari). Minimo 18 ore settimanali. 23.11 Concorso pubblico statale—riguarda solamente le capacità pedagogiche didattiche, non le capacità scientifiche. Per quanto riguarda quest’ultime si presuppongono quelle ottenute mediante i corsi di studi seguiti dal docente di religione presso istituzioni religiose cattoliche. LA SCELTA DELLO STUDENTE E DELLA FAMIGLIA Accanto a questo abbiamo un altro punto essenziale, della scelta della famiglia, dei genitori e degli studenti. Scelta che deve essere effettuata all’inizio di ogni anno scolastico e che vincola lo studente per tutto l’anno scolastico. Con l’art 9 dell’accordo di revisione del concordato lo stato ha confermato quanto già affermato nel concordato del 1929 di assicurare l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche di ogni ordine e grado. Vediamo adesso il diritto di scelta di studenti e genitori—è il secondo cardine della disciplina concordataria. L’accordo del 1984 è esplicito sul fatto che l’obbligo dello stato di dare attuazione ad essa debba trovare attuazione nel rispetto della libertà di coscienza e nella responsabilità educativa dei genitori. Significa che vi deve esser da un lato l’obbligo dello stato per impartire l’insegnamento e dall’altro non vi è l’obbligo per gli alunni di partecipare all’ora di religione stessa. vi è un obbligo per lo stato di assicurare questo insegnamento e la facoltà dello studente di partecipare all’insegnamento stesso, che diventa obbligo una volta fatta la scelta. Questo significa che mentre nel sistema precedente avevamo un sistema (concordato 1929) di religione obbligatorio fatta salva la possibilità di chiedere disciplina—CC l’ha dichiarata illegittima in quanto la libertà di coscienza era fatta salva in negativo, cioè vi era la facoltà di essere esonerati dall’obbligo stesso. vi era l’obbligatorietà con possibile dispensa, prevista dalla legge 1159/19029. Il sistema attuale è diverso, in quanto accanto all’obbligo dello stato di impartire l’insegnamento della religione cattolica non vi è più l’obbligo di partecipazione ma una facoltà di scelta: l’insegnamento della religione cattolica deve essere scelta. L’accordo di revisione (1984) prevede 56 che il diritto di scelta sia esercitato all’atto di iscrizione (art. 9). Con alcuni atti normativi successivi si è precisato che questa scelta viene espressa dai genitori o da chi ne esercita la responsabilità. Può (e deve) essere esercitata personalmente dagli studenti solo dalle scuole secondarie di secondo grado anche se minorenni. La legge 281/1996 prevede che l’atto di scelta, il diritto, sia esercitato nella scuola secondaria di secondo grado (superiori) dagli alunni anche se minorenni e controfirmato da chi esercita la responsabilità genitoriale. La scelta di avvalersi o meno dell’insegnamento di religione cattolica, come ricorda il DPR 175/2012, ha effetto per l’intero anno scolastico cui si riferisce e per i successivi anni di corso nei casi in cui è prevista l’iscrizione d’ufficio, fermo restando anche nelle modalità di applicazione il diritto di scegliere ogni anno se avvalersi o meno dell’insegnamento della religione cattolica. Su questo punto si è soffermato recentemente il consiglio di Stato— esso affermò che in realtà l’opzione del DPR 175 non ha e non può avere effetto per tutto l’anno: se lo studente, giunto a metà anno intende non avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica o viceversa, egli ha diritto di interrompere la sua frequenza alle lezioni o viceversa ha diritto a frequentare le lezioni stesse. Questa scelta, che è un’interpretazione del consiglio di stato, costituzionalmente orientata nel senso che il consiglio di stato ha affermato che se noi guardiamo il diritto di libertà, la libertà non può essere compressa dall’esigenza burocratica di rendere stabile la classe di religione cattolica. Quindi interpretando in maniera costituzionalmente orientata il DPR 175/2012 si afferma che la scelta non può in realtà vincolare per l’anno intero. Lo studente può decidere liberamente anche durante l’anno di avvalersi o meno dell’insegnamento della religione cattolica. La sentenza del consiglio di stato (4634/2018) lascia perplessi, perchè l’approccio ermeneutico è tale che svuota completamente il significato della norma. La norma dice che vincola per tuto l’anno, lil consiglio invece dice che la scelta non vincola per tutto l’anno. vi è uno svuotamento del contenuto della norma (che è un atto esecutivo di un accordo da conferenza episcopale e ministero della pubblica istruzione) da parte del Consiglio di Stato. In realtà il consigli odi stato interviene modificando totalmente il senso del DPR (175) che è esecutivo di un accordo tra stato e chiesa. In realtà il consiglio di stato ha travolto completamente il senso della norma. Questo per capire quante volte la giurisprudenza ha una funzione creativa sulla norma. L’atto di scelta viene esercitato o dai genitori o dagli studenti stessi nel momento in cui essi si iscrivono alla scuola superiore (secondaria di secondo grado). L’atto di scelta è un vero e proprio esercizio di una libertà costituzionale (art 19 costituzione) e per questo la scelta compiuta dagli alunni o dai loro genitori non può logicamente dar luogo ad alcuna forma di discriminazione per gli studenti che si avvalgono e quelli che non si avvalgono dell’insegnamento della religione cattolica. Come ricorda il DPR 175 queste discriminazioni non deve avvenire neppure in relazione ai criteri per la formazione della classe e alla collocazione di detto insegnamento nel quadro orario delle lezioni. Queste esigenza di non discriminazione comporta la collocazione dell’insegnamento nell’orario scolastico secondo i normali criteri di condivisione tra le varie discipline: non si può mettere l’orario di religione a caso, nella 1 o ultima ora per vantaggiose chi non la frequenta. È un orario di lezione come le altre. É previsto che per gli studenti che non si avvalgono dell’insegnamento di religione cattolica gli istituti scolastici istituiscono (dovrebbero) una o più attività didattiche alternative da offrire agli studenti. Sentenza del 203/1989 della CC—molto importante dal pdv delle fonti di diritto. Sentenza in cui la CC ha enucleato i principio supremo di laicità dello Stato, affermando che le norme di derivazione concordataria e di esecuzione del nuovo accordo possono essere anch’esse sottoposte al vaglio di legittimità costituzionali solamente assumendo come parametro i principi supremi del nostro ordinamento costituzionale. Cosa ha affermato la Corte Costituzionale: ha affermato in primis la legittimità costituzionale dell’insegnamento della religione cattolica. È legittimo, è conforme ai diritti e libertà sanciti dalla nostra carta costituzionale che si è impartito 57 religiosa in quanto omogeneamente cattolica (unica religione era quella cattolica con l’eccezione di alcune zone dell’Europa orientale dove la religione cristiana non era quella cattolica ma quella ortodossa), con il 1500 tale omogeneità religiosa si disgrega e ciò comportò di conseguenza una disgregazione politica. Abbiamo la riforma protestante: siamo nel 1517 quando Lutero in Germania rompe con la chiesa romana. Siamo di pochi tempi successivi quando Calvino, soprattutto in Svizzera e in Olanda, anch’esso rompe l’unità della chiesa cattolica allontanandosi in maniera scismatica ed eretica dalla chiesa cattolica. Siamo nel 3° decennio del 1500 quando la chiesa d’Inghilterra in maniera scismatica si allontana dalla chiesa di Roma. Quindi quella unità religiosa che caratterizzava l’Europa che nel corso di 30 anni si disgrega: in Germania soprattuto con il protestantesimo luterano, in Svizzera e in Olanda ad opera del protestantesimo calvinista, in Inghilterra ad opera dell’anglicanesimo. Fu un fenomeno politico religioso e sociale complesso. Tutto ciò ebbe influenza anche sulla disciplina del matrimonio, perchè appunto l’unico matrimonio che produceva effetti anche per gli ordinamenti politici era quello cattolico. Quindi se mi sposavo per la chiesa cattolica ero sposato anche per lo Stato, gli altri matrimoni anche religiosi non erano riconosciuti dallo stato (es ebraico o musulmano). Con la disgregazione religiosa d’Europa si disgrega anche il regime matrimoniale, nel senso che i singoli stati riconoscono non tanto il matrimonio religioso cattolico ma iniziano a riconoscere il matrimonio religioso della confessione dominante in quello Stato. Ecco che allora la chiesa in Germania (in alcuni territori ma non tutti, alcuni rimangono cattolici) si riconosce solamente il matrimonio luterano e quello religioso cattolico non viene riconosciuto per gli effetti civili. O in Svizzera o in Olanda l’unico matrimonio che viene riconosciuto è quello calvinista, gli altri non vengono qualificati come coniugi. In Inghilterra l’unico matrimonio riconosciuto è quello della confessione religiosa anglicana. Questo vuol dire che se mi sposavo in Francia secondo il rito calvinista, quel matrimonio non veniva riconosciuto dallo Stato, i coniugi che lo erano per la religione calvinista, non lo erano per il regno di Francia. Come se due ebrei si sposavano nello stato della chiesa, lo stato della chiesa non riconosceva quel matrimonio, in quanto l’unico riconosciuto da loro era quello cattolico. Il primo paese a introdurre un matrimonio civile fu l’Olanda nell’aprile del 1580. Tale matrimonio civile non costituiva una forma obbligatoria bensì una forma alternativa. In quanto il matrimonio civile venne introdotto come misura di salvaguardia alla libertà religiosa. Capiamone il senso. Abbiamo detto che l’Olanda era un paese confessionista calvinista, quindi l’unico matrimonio riconosciuto era quello calvinista, quelle delle altre confessioni religiose no. In Olanda vi erano forti minoranze delle altre confessioni religiose (quasi maggioranza cattolica, ad esempio oppure la forte comunità ebraica). Con il problema appunto che vi erano buona parte delle persone sposate di una confessione religiosa (soprattutto cattolici ed ebrei) che non erano considerati tali da parte dello Stato, con casi anche ben noti—caso del pittore Vermer (che ha dipinto la ragazza con l’orecchino di perla): vicenda spiegata in un famoso romanzo di Chevalier. Il pittore era cattolico che viveva nell’Olanda calvinista ed era sposato, però sposato come cattolico in un paese calvinista. Nel 1580 l’Olanda introdusse il matrimonio civile ma non come forma obbligatoria bensì alternativa per quelle persone che non intendessero o non potessero accedere al matrimonio religioso calvinista. Il culto cattolico era interdetto, era sanzionato chi professava il culto cattolico, tuttavia la minoranza cattolica necessitava un suo riconoscimento civile coniugale, lo stesso gli ebrei: a quel tempo non essere coniugati comportava delle grandissime capitis deminutiones dal pdv civilistico. Se i due coniugi non risultavano sposati per lo stato il coniuge che sopravviveva non poteva ereditare, i figli stessi non erano considerati legittimi. vi erano forti penalizzazioni per chi era sposato con un matrimonio che non veniva riconosciuto tale dall’ordinamento dello Stato. Nel 1580 si introdusse un matrimonio civile per permettere a chi calvinista non era di potersi sposare anche agli occhi dello Stato. La situazione civile del matrimonio fu prevista per i cattolici e per gli appartenenti ad altre confessioni religiose. Soprattutto per i cattolici—la congregazione per il concilio, che era un organismo di governo della 60 SS, nel 1602 riconobbe valido il matrimonio celebrato innanzi al magistrato civile, secondo le modalità stabilite dalla legge del 1580. Considerando la forma civile come straordinaria rispetto a quella ordinaria prevista dal concilio di Trento. Addirittura quindi la SS considerò come valida la forma civile. Elemento costitutivo del matrimonio è il consenso dei coniugi. Rimane tuttavia una forma facoltativa. Il matrimonio civile obbligatorio negli ordinamenti europei quando venne introdotto? La prima volta che si parlò di un matrimonio civile obbligatorio fu in Inghilterra nel 1653 con Cromwell quando introdusse il matrimonio civile obbligatorio, ma fu un regime molto breve. Già Carlo II nel 1660 abrogò questa forma obbligatoria civile di matrimonio. Fu una breve esperienza (7 anni). Diversa fu l’esperienza francese—vi fu una legge, la legge del 25 settembre 1792 che introdusse il matrimonio civile obbligatorio. Con la rivoluzione francese e le leggi rivoluzionarie successive, appunto questa, la Francia introdusse il matrimonio civile obbligatorio: l’unica forma di matrimonio riconosciuto dallo Stato era quella civile. Lo Stato non riconosceva alcuna forma religiosa del matrimonio, cattolica, ebrea, luterana eccetera, no. Solo il matrimonio civile. Anteriormente questa legge era stata preceduta dalla costituzione del 1791, la costituzione rivoluzionaria del 14 settembre 1791, il cui art 7 prevedeva che la legge considera il matrimonio solamente come contratto civile. All’interno di questa norma quadro costituzionale venne promulgata la legge del 1792, che considerava il matrimonio solo come un contratto civile. E come tale come tutti i contratti si stipulava ma poteva anche sciogliersi. La legge francese per la prima volta introdusse negli ordinamenti europei il concetto di divorzio civile del matrimonio. È diverso dalla nullità: a quel tempo anche il diritto canonico parlava di divorzio, ma si intendeva in realtà la nullità del vincolo coniugale. Un contratto cioè viziato in un elemento che ne produceva la nullità. In questo caso invece abbiamo un vero e proprio scioglimento del matrimonio. Mentre la nullità produce i suoi effetti ex tunc (dal momento della celebrazione del matrimonio) con il divorzio lo scioglimento è ex nunc (dal momento della pronuncia di divorzio). La legge del 25 settembre 1792 costituì la base della regolamentazione dell’istituto matrimoniale nel codice di napoleone. Ciò è importante perchè il codice di napoleone ebbe un’importanza fondamentale per un motivo: fu una regolamentazione che si diffuse in tutta Europa. Il matrimonio civile introdotto da napoleone si diffuse in tutta Europa. Il codice civile napoleonico prevedeva che l’unica forma valida di matrimonio riconosciuta era quella civile. Il matrimonio era considerato un mero contratto, il più sacro dei contratti, come si disse nei lavori preparatori ma pur sempre un contratto. E come tale poteva essere sciolto liberamente. Si dubitò se introdurre il divorzio nell’ordinamento francese, ma fu Napoleone stesso che lo volle, per motivi personali, voleva divorziare. Quindi era necessario che nel codice la legge sul divorzio venisse introdotta. La scissione della chiesa Inghilterra da quella cattolica, che iniziò appunto nel quarto decennio del 16° secolo iniziò proprio per la questione matrimoniale, perché Enrico 8° voleva divorziare dalla moglie che non gli dava una discendenza maschile e il matrimonio non fu considerato nullo dal pontefice regnante, perché nullo non era. Allora ecco che Enrico 8° volle effettuare un atto di superiorità rispetto alla Chiesa di Roma e si proclamò lui stesso capo della chiesa di Inghilterra. Fu un atto scismatico, ossia una rinuncia dell’autorità suprema della chiesa ponendo se stesso come autorità suprema della Chiesa. Una volta fatto ciò, la Chiesa gli concesse la nullità del matrimonio e gli permise di risposarsi (ebbe 6 mogli). Il codice napoleonico continuò a considerare il matrimonio come contratto, non come gli altri ma come il più santo (pur essendo tale). Un contratto che per sua natura è perpetuo, tuttavia veniva affermato che se è bene che il divorzio esista nell’ordinamento francese, questo non è strutturale al sistema francese stesso ma è una conseguenza della situazione politica e religiosa di Francia (come dissero nei lavori preparatori). Era un modo elegante per dire che era introdotto su pressione di Napoleone. Il divorzio fu introdotto nel codice civile francese ma ebbe grandi difficoltà sostanziali e procedimentali tale da renderlo difficile da applicare. Il legislatore considerava la relazione matrimoniale come un rapporto che doveva essere inteso e protetto nei 61 confronti della stessa volontà delle parti. Quindi in realtà il divorzio era un istituto molto eccezionale ma pur sempre introdotto nell’ordinamento francese. Il divorzio venne sospeso l’efficacia con la restaurazione e poi reintrodotto con la legge Nachè del 1884. Il codice di Napoleone fu il primo che introdusse il matrimonio civile obbligatorio. Tale codice fu introdotto in molti stati europei, che Napoleone conquistò nelle sue guerre europee e introducendo la legislazione napoleonica, costituì anche dopo la restaurazione (quindi dopo la cacciata di Napoleone e la restaurazione degli antichi stati) il modello per il nuovo ordinamenti europei. Se molti codici dell’Europa post napoleoniche, in particolare l’Italia pre unitaria, assunsero come modello il codice napoleonico, era praticamente una sola copia cambiando lingua—tuti questi codici traducevano letteralmente il codice napoleonico. Tuttavia vi fu una parte che si discostava, quella del matrimonio civile: tutti questi codici (dei vari regni d’Italia), pur essendo la fotocopia in Italiano del codice napoleonico, si discostavano da esso per quanto riguardava la disciplina matrimoniale in quanto nell’italia pre unitaria post napoleonica (dal 1815, congresso di Vienna sino al 1861)l’unico matrimonio destinato a produrre effetti civili era ancora quello canonico, il religioso cattolico. Non vi erano altre forme riconosciute di matrimonio, solo quello cattolico. Questo per capire che vi era un forte legame tra il trono e l’altare. Ad esempio il codice del regno delle due Sicilie: l’unico matrimonio riconosciuto dall’ordinamento era quello canonico. Non vi è altro riconoscimento. Art 189 del codice del Regno delle due sicilie—afferma che “Il matrimonio che nel regno delle due sicilie non sarà celebrato in faccia della chiesa con le forme prescritte dal concilio di Trento non produce gli effetti civile, ne riguardo i coniugi ne riguardo i loro figli”. Ferma la libertà di coniugarsi secondo i riti di una diversa confessione religiosa, tale matrimonio non produceva effetti civili. Solamente nel regno lombardo Veneto (sotto gli austro ungarici) si riconoscevano altri matrimoni, in particolare il matrimonio ebraico, matrimonio molto diffuso in quell’ordinamento (soprattuto in Austria e in Lombardia). La situazione si modificò radicalmente con l’unità d’Italia (1861). Con l’unità d’Italia venne creato il regno d’Italia (dal regno di Sardegna) tra le opere a cui si da avvio per una unificazione sociale e giuridica dell’Italia stessa è quella della costituzione di un codice civile, che serva per tutto il Regno d’Italia. Il codice del 1865 prevede un cambiamento totale di prospettiva rispetto la precedente: prevede che l’unico matrimonio destinato ad avere effetti civili sia quello civile. Non viene riconosciuto nessun effetto al matrimonio religioso. In questo codice si afferma in maniera chiara che l’unico matrimonio riconosciuto è quello civile. Art 93 del codice civile del 1865 afferma che: “il matrimonio deve essere celebrato nella casa comunale e pubblicamente innanzi all’ufficiale dello stato civile del comune ove uno degli sposi abbia il domicilio o la residenza”. Ferma restando la libertà per le parti di contrarre anche un matrimonio religioso. Un cattolico, un ebreo, un musulmano che volesse sposarsi con matrimonio che potesse aver anche effetti civili, doveva sottostare all’onere di una doppia celebrazione: celebrazione religiosa secondo la propria religione e celebrazione civile. Alcune legislazione, come la tedesca o quella francese, prevedevano (e prevedono ancora, addirittura con sanzioni penalmente rilevanti) che la celebrazione civile dovesse precedere quella religiosa. Non così il nostro ordinamento: esso nel 1865 non prevedeva l’obbligatorietà della precedenza della celebrazione civile su quella religiosa. Era semplicemente consigliata, anzi la stessa chiesa consigliava ciò. Se prendiamo i libri di catechismo di s.Pio X si afferma in esso in maniera esplicita che è conveniente che le parti si 6 sposino prima civilmente e poi religiosamente. Però non vi era un obbligo. Il motivo era il seguente: la Chiesa voleva salvaguardare la situazione coniugale anche innanzi 6 allo Stato. Con buon senso (come collaborazione con lo Stato) riteneva si importante lo status canonico, ma era più importante che lo Stato riconoscesse i coniugi canonici come coniugi civili, soprattutto per la tutela dei loro interessi e degli interessi e diritti dei figli. 62 protocollo addizionale al punto 4, che lo stato italiano riconosca a determinate condizioni anche la giurisdizione canonica sul matrimonio. Per quanto riguarda il matrimonio a cattolico, le intese stipulate a appetire dal 1984 riconoscono anch’esse la possibilità che lo Stato riconosca gli effetti civili al matrimonio celebrato secondo il rito di quella specifica confessione. Per le confessioni che non hanno stipulato intese rimane invece vigente la legge 1159/1929. Premessa—Fonti del diritto—la legge 121/1985 una volta che ha reso esecutivo il nuovo accordo ha modificato la disciplina del riconoscimento degli effetti civili del matrimonio concordatario, come previsto nell’accordo del 1929, però ha lasciato integro il sistema. Prova di tutto ciò è la vigenza attuale della legge 847/1929, la cosiddetta “legge matrimoniale”, la quale ha dato disposizioni per l’applicazione del concordato relativa al matrimonio. Paradossalmente non è più vigente il concordato del 1929 (neanche la parte relativa al matrimonio), è tuttavia vigente la legge che ha dato esecuzione a quel concordato. Non c’è più il concordato ma è valida la legge che ha dato esecuzione al concordato. Da qui deriva la difficoltà dell’interprete di coordinare un testo normativo esecutivo di una legge e di un accordo che non esistono più, coordinare questa legge (847) con un nuovo concordato (accordo del 1984). Accordo che prevede due norme specifiche (art 8 e punto 4 del protocollo addizionale) sul matrimonio ma non prevede una legge di specificazione, di applicazione nella parte relativa al matrimonio. Le norme attuali quindi non hanno una parte applicativa: bisogna armonizzare la vecchia normativa con la nuova e questo non è un compito facile per l’interprete, che ha dato luogo a diversi contrasti giurisprudenziali. Vediamo adesso concretamente quali sono le problematiche suscitate sia dal pdv sostanziale che processuale. Vediamo il procedimento di riconoscimento degli effetti civili del matrimonio sia dal concordato nel 1929 sia come l’attuale concordato l’ha modificato. Abbiamo detto che il matrimonio religioso ha effetti civili una volta che il relativo atto sia trascritto nei registri dello stato civile—la trascrizione (procedimento amministrativo) è l’atto produttivo degli effetti civili. Tuttavia la trascrizione del matrimonio richiede alcuni passaggi prodromici. Il primo di questi è LA PUBBLICAZIONE—le pubblicazioni sono un atto mediante il quale viene resa pubblica la volontà dei due futuri sposi di contrarre matrimonio. È un istituto tradizionale del diritto canonico fatto anche dal diritto civile. A cosa servono? La funzione è quella di rendere pubblica la volontà di sposarsi. Il matrimonio è si atto privato (si costituisce con la volontà delle parti, la causa efficiente del matrimonio è il consenso delle parti) tuttavia è anche vero che ha una rilevanza pubblica. Non è indifferente per lo Stato e per la Chiesa che più parti siano o meno coniugate, per l’eredità, la legittimazione dei figli eccetera. Vi è rilevanza pubblica della condizione giuridica matrimoniale. È un atto che nasce per volontà dei privati e acquista una sua specifica rilevanza pubblica, e come tale l’ordinamento ha un interesse a che l’atto sia un atto valido e legittimo (conforme alla legge). Le pubblicazioni servono a rendere pubblico l’atto in modo tale che eventualmente chi conosce motivi che possano ostare la valida celebrazione del matrimonio possa opporsi ad essa, per motivi previsti dalla legge. Se prendiamo l’ordinamento della Chiesa, viene affermata in maniera esplicita al canone 1066 che “Prima che si celebri il matrimonio deve constare che nulla si opponga alla sua celebrazione valida e lecita”. “Prima della celebrazione (canone 1069) del matrimonio tutti i fedeli sono tenuti all’obbligo di rivelare al parroco o all’ordinario del luogo (il vescovo) gli impedimenti al matrimonio di cui fossero a conoscenza”. vi è quindi questa necessità di pubblicità, tanto nell’ordinamento della Chiesa quanto nell’ordinamento dello Stato, il quale prevede norme specifiche: Art 8 dell’accordo di villa Madama—“Sono riconosciuti gli effetti civili ai matrimoni contratti secondo le norme del diritto canonico, a condizione che l'atto relativo sia trascritto nei registri dello stato civile, previe pubblicazioni nella casa comunale”. Come si ottengono le pubblicazioni? La disciplina è stabilita dal cc, l’art 96 e seguenti, nonché dal DPR 396/2000—è un decreto assai importante, di delegificazione che ha un’efficacia abrogativa. Ha abrogato (o sostituito) pur 65 essendo una norma regolamentare molte norme del codice civile in materia. Quindi le norme fondamentali per quanto riguarda le pubblicazioni sono il codice civile e il DPR 396/200. La richiesta delle pubblicazioni deve essere fatta da entrambi gli sposi oppure da persona delegata da essi verso l’ufficiale dello stato civile del comune dove uno degli sposi ha la residenza (uno dei due: esempio uno di Milano l’altro di Monza, può essere fatta a Milano o a Monza ) (art 7 94 cc). La richiesta deve essere anche poi effettuata nell’altro comune di residenza (se non è lo stesso)—art 95 cc (ora abrogata dal DPR 396/2000) prevedeva che la pubblicazione restasse affissa sulla porta della casa comunale per almeno 8 giorni, comprendenti le due domeniche successive. Nella richiesta di pubblicazione deve essere fatta esplicita menzione che le parti intendono sposarsi con matrimonio religioso a effetti civili, quello che l’ordinamento civile definisce in modo riassuntivo “matrimonio concordatario”. L’ufficiale di stato civile può rifiutarsi di procedere alla pubblicazione, rilasciando a questo riguardo un certificato con i motivi del rifiuto e contro il rifiuto dell’ufficiale è possibile ricorrere al tribunale, il quale provvede in camera di consiglio sentito il PM. Il fatto di sentire il Pubblico Ministero (art 737 e seguenti cpc)—egli interviene quando è in gioco un bene pubblico e qui il bene pubblico in gioco è l’istituto matrimoniale, appunto bene pubblico. Vi sono alcuni casi in cui le pubblicazioni possono essere anche omesse—questi casi sono ad esempio l’art 102 del cc (leggi), nel caso di imminente pericolo di vita di uno degli sposi: pericolo di morte, oppure art 100 cc (leggi) (per gravi motivi). Vi possono essere anche, una volta resa nota la volontà degli sposi, sono legittimate le opposizioni del matrimonio. Chi può opporsi alle pubblicazioni? In primis l’ufficiale dello stato civile, se conosce che osta alla valida celebrazione del matrimonio un impedimento, deve immediatamente informare il procuratore della repubblica affinché questi possa proporre opposizione del matrimonio. L’ufficiale civile quindi ha l’onere giuridicamente vincolante di informare il procuratore (il PM) affinché possa opporsi al matrimonio stesso in caso vi sia un impedimento non dichiarato. Non è l’ufficiale dello Stato civile che si oppone alla trascrizione, ma deve informare il PM affinché possa proporre opposizione al matrimonio. L’atto di opposizione è proposto con ricorso al presidente del tribunale del luogo dove la pubblicazione è stata eseguita. Il presidente del tribunale del luogo fissa poi con decreto la comparizione delle parti davanti al tribunale stesso. È interessante notare che il tribunale decide con decreto motivato avente efficacia immediata, positivamente o negativamente: questo sia qualora l’opposizione avvenga ad opera del PM (informato dall’ufficiale dello stato civile) sia di uno dei soggetti legittimati (vedremo poi chi sono) ad opporsi al matrimonio. Il presidente del tribunale una volta deciso può anche decidere che sia sospesa la celebrazione del matrimonio stesso. Supponiamo che (normalità dei casi) nessuno si opponga alla celebrazione del matrimonio e quindi le pubblicazioni decorrono per il tempo previsto senza nessun problema. In questo caso trascorsi 3 giorni dalla pubblicazione, l’ufficiale di stato civile rilascia un certificato di nulla osta, ossia un certificato in cui dichiara che non risulta l’esistenza di cause che si oppongano alla celebrazione di un matrimonio valido agli effetti civili. Qualora invece sia stata notificata opposizione (art 103 cc) l’ufficiale non può rilasciare il certificato e deve comunicare al parroco l’opposizione. Quindi vi è necessità del certificato di trascrizione (nulla osta) anche se vi è una norma della legge matrimoniale che potrebbe in qualche modo ritenere che tale nulla osta rilasciato dall’ufficiale dello stato civile non sia così necessario. Infatti l’art 12 della legge 847/1929 prevede che quando la celebrazione del matrimonio non sia stata preceduta dal rilascio del certificato di cui l’art 7, si fa ugualmente luogo alla trascrizione. Quindi da un lato l’ordinamento prevede l’obbligatorietà del rilascio del nulla osta, dall’altro se tale cercato non è rilasciato, l’ufficiale dello stato civile può procedere ugualmente alla trascrizione tranne in alcuni casi. L’art 12 della legge matrimoniale prevede tre casi: Fatta in entrambi i comuni, chiesta in uno solo. 7 66 1. La mancanza della libertà di status—se una delle due parti risulta legata da altro vincolo matrimoniale producente effetti civili; 2. Se le persone unite in matrimonio risultano già legate tra di loro da un matrimonio valido ed avente effetti civili; 3. Se il matrimonio sia stato contratto da un interdetto per infermità di mente. A queste fattispecie la giurisprudenza della CC ha aggiunto altre due fattispecie: 1. La fattispecie dell’incapacità naturale—con sentenza 32/1971 della CC; 2. La minore età (civile) di una delle parti—con la sentenza 16/1982. Questa normativa venne modificata parzialmente dal nuovo accordo tra Stato e Chiesa. Abbiamo la necessità del nulla osta da un lato, che deve essere rilasciato decorsi almeno 3 giorni dalla pubblicazione (una volta che non risultano opposizioni) e dall’altro vi è la possibilità, pur in mancanza di nulla osta, di poter procedere senza trascrizione, tranne in alcuni casi di intrascrivibilità assoluta (3+2) del matrimonio stesso. Abbiamo quindi la possibilità di celebrare il matrimonio anche in mancanza del nulla osta. Il matrimonio va celebrato entro i 180 giorni successivi al rilascio del nulla osta da parte dell’ufficiale dello stato civile, se no bisogna ricominciare il procedimento amministrativo di trascrizione. Questa è la funzione delle pubblicazioni. Vediamo adesso il procedimento concreto di trascrizione del matrimonio stesso, una volta terminata la fase prodromica delle pubblicazioni. Come avviene? In primis le parti sono autorizzate a celebrare il matrimonio religioso ad effetti civili. La celebrazione del matrimonio innanzi al ministro di culto della chiesa cattolica, il quale deve effettuare alcuni adempimenti di natura civilistica. Prendiamo l’art 8 dell’accordo di Villa Madama. Esso afferma al primo comma che: “Sono riconosciuti gli effetti civili ai matrimoni contratti secondo le norme del diritto canonico, a condizione che l'atto relativo sia trascritto nei registri dello stato civile, previe pubblicazioni nella casa comunale. Subito dopo la celebrazione, il parroco o il suo delegato spiegherà ai contraenti gli effetti civili del matrimonio, dando lettura degli articoli del codice civile riguardanti i diritti e i doveri dei coniugi”—questo è il primo adempimento: il ministro di culto legge ai coniugi l’articolo del cc riguardante i diritti coniugali (art 143,144 e 147 del cc ). Prosegue: “E 8 redigerà quindi, in doppio originale, l'atto di matrimonio, nel quale potranno essere inserite le dichiarazioni dei coniugi consentite secondo la legge civile”—successivamente quindi redige un atto di matrimonio. È un atto, come vedremo, pubblico (e redatto dal ministro di culto) che ha una sua specifica composizione. 4.12 (Segue sul matrimonio) Il matrimonio è un argomento molto ampio, fondamentale del diritto ecclesiastico, in cui i i rapporti tra stato e Chiesa sono stati i più intensi: sia di contrasto (quando venne introdotto il matrimonio civile obbligatoria) sia di armonia (concordato del 1929 e del 1984). Stavamo parlando del procedimento di trascrizione, ossia di quel procedimento amministrativo che determina il provvedimento di trascrizione mediante il quale un matrimonio religiosamente contratto assume anche rilevanza civile, cioè rilievo per lo Stato. Abbiamo parlato delle pubblicazioni nella casa comunale, e abbiamo visto come coloro che desiderano contrarre matrimonio devono effettuarle. La funzione è di pubblicità notizia, ossia di rendere pubblico, come dice il nome stesso, la volontà dei due coniugi di sposarsi, di essere Potrebbe sembrare poco liturgico leggere gli articoli del codice civile, però è un adempimento 8 necessario da parte del ministro di culto. 67 questo caso la santa sede avrebbe voluto, come nel concordato del 1929, che ci fosse stata una piena concordanza tra matrimonio canonico e matrimonio civile, senza restrizioni. Invece l’ordinamento dello stato introduce delle limitazioni che la SS pattiziamente accetta, per giungere così da un’unione perfetta a una sorta di unione imperfetta tra Stato e Chiesa in materiale matrimoniale. I casi in cui la trascrizione non può avere luogo sono i seguenti (in parte corrispondono a quelli visti dalla legge 847/1929, nonché dalla giurisprudenza costituzionale): • Quando gli sposi non rispondano a requisiti della legge civile circa l’età richiesta per la celebrazione— è necessario che gli sposi siano maggiorenni, a meno che (ai sensi dell’art 84 cc) non siano autorizzati dal tribunale a contrarre matrimonio. È necessario che le parti abbiano 18 anni, oppure se minori (ma comunque abbiano più di 16 anni) siano autorizzati dal tribunale; • Quando sussiste tra gli sposi un impedimento che la legge civile considera inderogabile— l’ordinamento afferma che se vi è un impedimento inderogabile (che non può essere tolto) la trascrizione non può avere luogo. Questi casi quali sono? La legge 121/1985 specifica questi impedimenti inderogabili nel protocollo addizionale —esso al punto 4 prevede quali siano 10 questi impedimenti: sono in buona parte quelli della legge 847/1929. Si intendono come impedimenti inderogabili (1) l’essere interdetto per infermità di mente (giudizialmente), (2) la sussistenza tra gli sposi di altro matrimonio valido ad effetti civili, (3) gli impedimenti derivanti da delitto o da affinità in linea retta. In più (4) anche se vi è incapacità naturale. La legge 121/1985 introduce una eccezione: introduce una norma di chiusura sul punto. Afferma che la trascrizione è ammessa quando secondo la legge civile le azioni di nullità o di annullamento non sia più proponibile. Questo vuol dire che mentre i casi di impedimenti matrimoniali canonici causano sempre la nullità del matrimonio, gli impedimenti civili possono causare la nullità (es mancanza libertà di status) o l’annullabilità dello stesso. Qualora l’azione di nullità o di annullamento non può essere più proposta, decorsi i termini prescrizionali, si può ammettere la trascrizione. Ad esempio quindi per quanto riguarda il matrimonio dei minori, se non vi è autorizzazione del tribunale (art 84 cc) possono trascrivere tardivamente il loro matrimonio, nel senso che dopo che sia trascorso il termine previsto dall’art 117 cc per impugnazione del matrimonio civile non autorizzato (ossia trascorso 1 anno dal compimento della maggiore età) quel matrimonio può essere trascritto. Quindi se due minori compiono un matrimonio non autorizzato nell’ordinamento canonico e richiedono la trascrizione, questo matrimonio può essere trascritto se essi richiedono lo trascrizione decorso 1 anno dal compimento della maggiore età— un anno dal compimento della maggiore età è il tempo in cui si prescrive l’azione di nullità civile del matrimonio contratto da minore, ai sensi dell’art 117 cc. Questa eccezione riguarda tutte le ipotesi in cui un impedimento civile è causa non di nullità ma di annullabilità del matrimonio e quindi può essere prescritto. Quindi in questo caso, nel momento in cui non posso più far valere la causa di annullabilità del matrimonio, il matrimonio stesso può essere trascritto. Altro esempio (oltre alla minore età) è l’infermità di mente—l’art 119 cc afferma che il matrimonio celebrato dall’interdetto per infermità di mente è annullabile (1° comma). Tuttavia non può essere più impugnato qualora i coniugi abbiano coabitato un anno dopo la revoca dell’interdizione. Quindi se dopo la revoca dell’interdizione le parti hanno coabitato (per almeno 1 anno) ne possono richiedere la trascrizione. In questa ipotesi può essere richiesta la trascrizione del matrimonio a suo tempo contratto—si parla di trascrizione tardiva. Oppure ancora, pensiamo all’affinità in linea retta—anch’essa (ai sensi dell’art 87) dà luogo a matrimonio è annullabile. Tuttavia quando il matrimonio da cui deriva un rapporto di affinità sia stato dichiarato nullo (non sciolto per divorzio ma nullo, inesistente ab origine) le parti possono ottenere dal tribunale l’autorizzazione al matrimonio e di conseguenza possono effettuare la trascrizione del matrimonio stesso. L’accordo Villa Madama del 1984 è composto da un articolato principale e da un protocollo 10 addizionale entrambi aventi medesimo valore normativo. 70 Finora abbiamo parlato di trascrizione “tempestiva”. Prendiamo però l’art 8 dell’accordo di Villa Madama che afferma che “La trascrizione può essere effettuata anche posteriormente su richiesta dei due contraenti, o anche di uno di essi, con la conoscenza e senza l'opposizione dell'altro, sempre che entrambi abbiano conservato ininterrottamente lo stato libero dal momento della celebrazione a quello della richiesta di trascrizione, e senza pregiudizio dei diritti legittimamente acquisiti dai terzi”. Questo cosa vuol dire? Vuol dire che esiste la trascrizione tempestiva ma esiste anche la trascrizione tardiva, ossia esiste anche la possibilità per le parti di far attribuire effetti civili al matrimonio religioso ancorché sia decorso tanto o poco tempo dalla celebrazione del matrimonio stesso, ossia ancorché la richiesta di effetti civili non avvenga contestualmente alla celebrazione del matrimonio. Ordinariamente le parti che effettuano contestualmente pubblicazioni civili e canoniche, il ministro di culto redige l’atto in doppio originale e il parroco contestualmente trasmette l’atto di matrimonio all’ufficiale dello stato civile per la trascrizione (che rientra nel novero delle certazioni amministrazioni)—è un unico procedimento complesso. Ebbene questo procedimento in realtà può essere composto anche da varie fasi tra di loro separate: una fase canonica e una fase civile. vi è la possibilità per le parti di contrarre solo matrimonio religioso, successivamente le parti possono definire quel loro matrimonio religioso agli effetti civili, con una trascrizione, che se anche tardiva, fa assumere al matrimonio religioso gli effetti civili sin dal momento della celebrazione del matrimonio canonico—Sempre l’art. 8 afferma che “Il matrimonio ha effetti civili dal momento della celebrazione, anche se l'ufficiale dello stato civile, per qualsiasi ragione, abbia effettuato la trascrizione oltre il termine prescritto”. Questa norma vale in generale per qualsiasi tipo di trascrizione. L’ordinarietà è quindi che vi sia contestualità tra i due atti, tanto che anche il decreto della conferenza episcopale italiana sul matrimonio prevede come ordinarietà che l’atto del matrimonio canonico coincida con gli effetti civili. Questa è l’ordinarietà, l’eccezione è che le parti possono contrarre solo matrimonio canonico, è necessaria la licenza del vescovo per contrarre solo matrimonio canonico. Nonostante le parti abbiano contratto solo matrimonio canonico, possono richiedere successivamente che il matrimonio solo religioso assuma anche effetti civli. La prassi della Chiesa è che le parti che abbiano ottenuto licenza dall’ordinario del luogo per celebrare solo matrimonio religioso, compilino anche in via di precauzione la richiesta di trascrizione, che poi non verrà effettuata ma le compilano in misura precauzionale e tale richiesta rimane nei registri parrocchiali fino a che le parti non chiedano che venga trasmesso all’ufficiale dello Stato civile—possibile trascrizione tardiva del matrimonio stesso. Quali sono le condizioni per richiedere la trascrizione tardiva del matrimonio? A questo riguardo dobbiamo coordinare la legge 847/1929 con l’accordo di Villa Madama . 11 1. In primis è necessaria la richiesta delle parti—è un atto che può avvenire solo su impulso di parte (non può avvenire d’ufficio) e può essere richiesta o da una parte o da entrambe. Qualora la richiesta sia effettuata da una sola parte (un solo coniuge), è necessario che l’altro coniuge ne abbia conoscenza e non si opponga; 2. É necessario che le parti abbiano conservato ininterrottamente lo stato libero dal momento della celebrazione del matrimonio a quello di richiesta di trascrizione—perchè? Ricordiamo che gli effetti della trascrizione sono retroattivi, quindi nel momento in cui la trascrizione viene effettuata dall’ufficiale dello stato civile le parti si considerano marito e moglie per lo stato dal momento della celebrazione canonica del matrimonio. Se le parti non avessero conservato ininterrottamente lo stato libero (si sono sposati tra di loro o con 3° durante questo periodo con matrimonio valido per lo Stato), vi sarebbe un periodo storico in cui le parti (una o entrambe) risulterebbero bigame, ossia sposate con due soggetti diversi e quindi attentando a una priorità essenziale nel matrimonio (monogamia) e violando un principio essenziale Che è la nuova normativa.11 71 dell’ordine pubblico, penalmente sanzionabile. È necessario, proprio perchè la trascrizione tardiva serve per recuperare gli effetti civli del matrimonio canonico, che le parti abbiano mantenuto lo stato di libero, se no risulterebbero bigame e commetterebbero un reato (contro l’ordine pubblico) sanzionabile agli effetti del codice penale; 3. La trascrizione tardiva deve avvenire senza pregiudizio dei diritti legittimamente acquisiti dai 3° —Terzo è, rispetto al vincolo coniugale, chiunque non sia parte del vincolo coniugale. Ogni persona quindi diversa rispetto ai due coniugi. Ad esempio la dottrina e la giurisprudenza hanno ritenuto che possa essere terzo anche l’erede di una delle parti . 12 La trascrizione tardiva viene richiesta all’ufficiale di Stato civile che affigge alla porta della casa comunale non le pubblicazioni del matrimonio da celebrarsi (perchè il matrimonio canonico è già stato celebrato) ma un avviso, contenente i termini del matrimonio da trascriversi con indicazione della generalità degli sposi, della data, del luogo di celebrazione e del ministro di culto. Tale avviso resterà affisso per 10 giorni consecutivi durante il quale possono essere effettuate la eventuali opposizioni al matrimonio stesso. Una volta decorso il termine l’ufficiale di stato civile procede alla trascrizione, che è produttiva di effetti dal momento della celebrazione del matrimonio, lasciando pregiudicati i diritti legittimamente acquisiti dai terzi prima della trascrizione e in eventuale contrasto con lo stato coniugale delle parti. Sentenza di Cassazione sulla trascrizione tardiva del matrimonio—la Cassazione ha ribadito che il matrimonio religioso con trascrizione tardiva produce effetti civili dal momento della celebrazione del matrimonio canonico. Sempre la cassazione (la n° 9464/2010) afferma che la retroattività degli effetti della trascrizione tardiva implica il venir meno dell’eventuale stato di nubile di uno dei due coniugi. Cessa anche il diritto del coniuge superstite alla pensione di reversibilità del coniuge defunto. Il senso di questa sentenza qual è? Sappiamo che un coniuge (vedova o vedovo) ha diritto a ricevere totalmente o parzialmente la pensione dell’altro coniuge se questo muore, ha diritto a subentrare nel percepire la pensione stessa. È la cosiddetta pensione di reversibilità prevista dalla legge 39/1945. Il diritto a percepire questa pensione di reversibilità cessa nel momento in cui la parte contrae nuovo matrimonio, perché presupposto per la ricezione della pensione di reversibilità è lo stato vedovile. Se la parte si coniuga nuovamente, viene meno lo stato vedovile e quindi viene meno il diritto di percepire la pensione di reversibilità. La fattispecie proposta dalla cassazione era la seguente: una signora vedova di un matrimonio civilmente valido si era sposata solo canonicamente (matrimonio non aveva nessun rilievo per lo Stato) e quindi la signora continuava a percepire la pensione di reversibilità, essendo coniugata solo canonicamente e non civilmente. Per lo stato risultava vedova. Successe che quella signora, forse mal consigliata o per motivi ignoti (non presenti nella sentenza) ha richiesto la trascrizione del suo matrimonio religioso. Ha richiesto la trascrizione tardiva, l’ufficiale dello stato civile ha trascritto tardivamente il matrimonio solo religioso contratto dalla vedova. La trascrizione ha effetti civili, questo vuol dire che la retroattività degli effetti della trascrizione implica il venir meno dello stato vedovile, derivante dal precedente matrimonio, a partire dalla celebrazione del matrimonio religioso. Questo vuol dire che lo Stato ha diritto alla restituzione delle somme versate alla vedova dal momento in cui tale vedova non viene più considerata tale. Es: persona vedova sin dal 1990, si è sposata canonicamente nel 1995 e ha richiesto nel 2000 la trascrizione tardiva—essa ha percepito 10 anni di pensione di reversibilità. Lo Stato, nel momento in cui richiede la trascrizione tardiva e gliela concede, è considerata coniugata sin dal 1995 e avendo percepito dal 1990 al 2000 la pensione di reversibilità, è tenuta alla restituzione della pensione di reversibilità percepita in quei 10 anni perché in quel periodo non è più considerata vedova. Il diritto alla pensione di reversibilità viene meno per sopravvenuto matrimonio. Non c’è un termine per chiedere la trascrizione tardiva del matrimonio (il giorno dopo o 10 anni dopo). In sede di successione vale il principio per cui l’erede prosegue la personalità del defunto.12 72 che non possono essere trascritti all’estero dai consoli italiani, perché i consoli hanno le funzioni di ufficiale dello stato civile nei confronti dei cittadini italiani all’estero ma non sono abilitati a questa trascrizione, in quanto possono assistere solamente al matrimonio civile fra italiani o fra un italiano e uno straniero, la cui legge nazionale gli consenta di contrarre matrimonio innanzi al console di un altro paese. Tuttavia se il matrimonio canonico celebrato all’estero non può essere trascritto, può assumere a determinate circostanze una indiretta rilevanza, ossia può essere la causa indiretta di effetti civili. Dobbiamo distinguere se lo Stato straniero riconosca o meno il matrimonio canonico come forma di matrimonio che può essere valida agli effetti civili. Ossia bisogna capire se il paese straniero abbia un sistema analogo a quello italiano per cui si riconosce l’efficacia civile di un matrimonio religioso. Ad esempio Portogallo, Spagna, la Polonia—sono paesi che hanno un concordato con la Santa Sede e questo concordato, in maniera analoga al concordato italiano, prevede che il matrimonio religioso celebrato in quello stato può essere trascritto e avere effetti civili. Vi sono paesi in cui il matrimonio religioso assume diretta rilevanza per lo Stato senza alcun procedimento di trascrizione—il matrimonio religioso ha diretta rilevanza con lo Stato: come accadeva in italia fino al 1865, dove lo Stato riconosceva come coniugati coloro che erano coniugati per la Chiesa. Vi sono paesi invece in cui ha rilevanza il cosiddetto statuto personale religioso (Medio Oriente con una forte pluralismo religioso: es Libano)—lo statuto personale religioso nel Libano ha una diretta rilevanza civile per lo stato. Chi è sposato per i musulmani è sposato per lo Stato, lo stesso per gli ebrei, per la chiesa cattolica, per la chiesa ortodossa. Questo comporta che lo Stato accetta pienamente come lo stato accetta anche la giurisdizione di quella confessione religiosa. Se la legge del paese straniero riconosce il matrimonio canonico come forma valida per la costituzione di un rapporto coniugale (o perché vi è un accordo con la chiesa o perchè vi è la diretta rilevanza dello statuto personale religioso) questo matrimonio sarà rilevante anche nel nostro ordinamento. Questi effetti civili del matrimonio non si avranno in virtù delle norme concordatarie italiane, bensì secondo le norme di diritto internazionale privato. Ossia il matrimonio celebrato all’estero rileva nel nostro ordinamento non come matrimonio canonico ma come matrimonio civile celebrato all’estero. Concretamente se prendiamo gli articoli 28 della legge 218/1995, 115 cc e 16 dell’ordinamento dello Stato civile (è il DPR 396/2000), a norma di esse il matrimonio fra cittadini stranieri può essere compiuto all’estero, fuori dal territorio nazionale, o a norma dell’art 115 del cc dinanzi alla competente autorità consolare o diplomatica ovvero anche con le forme stabilite dalla legge del luogo davanti all’autorità competente. In questo caso se il matrimonio religioso ha rilievo nell’ordinamento straniero, lo stato riconosce gli effetti civili di quel matrimonio ma solo gli effetti civili, non trascrive il matrimonio canonico origine di quegli effetti civili. Riconosce solamente gli effetti civili di quel matrimonio. È come se trascrivesse nel registro dello stato civile un matrimonio civile. Detto in definitiva, la trascrizione nei registri dello stato civile di quel matrimonio celebrato all’estero, (ai sensi dell’art 63 del DPR 396/2000) non si ha la trascrizione del matrimonio canonico agli effetti civili ma solamente la trascrizione degli effetti civili del matrimonio. La trascrizione nei registri dello stato civile ai sensi dell’art 63 sull’ordinamento dello stato civile non ha pertanto natura giuridica di certazione, come lo ha per la trascrizione del matrimonio canonico in Italia, ma ha un carattere meramente probatorio, proprio dell’atto del matrimonio civile. Ha efficacia probatoria anche la trascrizione del matrimonio civile. Trattandosi logicamente di un matrimonio che ha rilievo solamente come matrimonio civile, lo stato non riconosce la giurisdizione dei tribunali ecclesiastici sullo stesso matrimonio. Non viene trascritto il matrimonio canonico perchè impedisce di farlo il principio di territorialità, ciò che può essere trascritto sono gli effetti civili che produce quel matrimonio (nei paesi in cui viene riconosciuta tale possibilità). La giurisprudenza ha in alcune circostanze seguito un percorso diverso. Un po’ innovativo, creativo. Ha riconosciuto che il matrimonio canonico celebrato all’estero in un paese che riconosce la celebrazione come valida agli effetti civili è automaticamente efficace in italia in quanto matrimonio civile. Fin qua è quanto abbiamo detto fino ad ora. Quando invece il diritto 75 straniero non riconosce efficacia civile alla celebrazione religiosa (o perchè non vi è una norma concordataria che lo stabilisce o perchè non vi è una diretta rilevanza dello status religioso personale o per altri motivi) la giurisprudenza, parte di essa, ha affermato che il matrimonio canonico potrebbe essere riconosciuto secondo le norme concordatarie. Ai sensi del concordato. La giurisprudenza ha ritenuto che il matrimonio canonico celebrato all’estero a determinate condizioni può essere trascritto nei registri dello stato civile ai sensi del concordato. Questa interpretazione giurisprudenziale secondo prof non ha un suo specifico fondamento giuridico, in quanto i concordati hanno una efficacia meramente territoriale, quindi non possono essere applicate a fattispecie che si verificano al di fuori del nostro territorio. Soprattutto è anche ovvio che il cittadino italiano non può esercitare in un territorio straniero tutte le facoltà che gli sono riconosciute quando agisce in Italia. Fra queste, la facoltà di scelta tra matrimonio civile e matrimonio canonico con effetti civili. In realtà questa tesi, abbastanza creativa, in realtà interpreta ultra vires le norme concordatarie, attribuendole un’efficacia extra territoriale che esse in realtà non posseggono. Diverso è il caso del matrimonio di stranieri avvenuti in Italia—gli stranieri possono celebrare in Italia un matrimonio canonico destinato a produrre effetti civili in seguito a trascrizione, sia nel caso di matrimonio tra due stranieri che nel caso del matrimonio tra uno straniero e un cittadino italiano. Ricordiamo alcuni punti fondamentali previsti dal nostro ordinamento. • La capacità dello straniero, ai sensi dell’art 27 della legge 218/1995 (di diritto internazionale privata) è disciplinata dalla sua legge nazionale—è necessario che lo straniero sia capace secondo la sua legge nazionale e non secondo il suo ordinamento civile. • È necessario anche che lo straniero sia autorizzato a celebrare matrimonio secondo le norme proprie del suo ordinamento civile. È necessaria l’autorizzazione del tribunale o l’autorizzazione dell’autorità straniera a ciò preposta che rilascia che le parti possono contrarre validamente territorio nell’ordinamento italiano. • Art 116 cc: “Lo straniero che vuole contrarre matrimonio nella repubblica deve presentare all’ufficiale dello stato civile una dichiarazione dell’autorità competente del proprio paese dalla quale risulti che, giusta le leggi a cui è sottoposto, nulla osta al matrimonio”—lo straniero secondo il proprio ordinamento deve essere capace e questa capacità deve essere provata documentalmente. Sempre l’art 116 ricorda come nei confronti dello straniero valgano in ogni caso gli impedimenti, l’interdizione per infermità mentale, di libertà di stato, di parentela in linea retta e collaterale di 2°, di affinità in linea retta, adozione, delitto e lutto vedovile. Sono tutti gli impedimenti previsti dall’art 85-86-87-88-89 del cc. Valgono gli stessi impedimenti del cc; Una volta compiuti questi adempimenti civilistici, lo straniero (o due stranieri) possono contrarre matrimonio religioso in italia trascrivibile agli effetti civili. POSSIBILI EFFETTI CIVILI DEL MATRIMONIO DELLE ALTRE CONFESSIONI RELIGIOSE Ai sensi dell’art 83 del codice civile. Il cc nel suo art 83 prevede che: “Il matrimonio celebrato davanti ai ministri di culto ammesso dallo Stato è regolato dalle disposizioni del capo seguente, salvo quanto stabilito nella legge speciale concernente tale matrimonio”. Chiariamo una cosa: non esiste una legge speciale. Quando fu redatto il cc (1942) esisteva una legge speciale, la legge 1159/1929. Essa prevedeva che negli articoli da 7 a 12 il riconoscimento degli effetti civili del matrimonio religioso celebrato da una confessione religiosa diversa dalla cattolica, in un culto ammesso dallo Stato. Quindi per compensare in virtù di una sorta del principio di uguaglianza quanto concesso alla chiesa cattolica, ossia il riconoscimento degli effetti civili del matrimonio religioso, lo stesso riconoscimento veniva fatto alle confessioni religiose diverse dalla cattolica, con alcune limitazioni. La limitazione maggiore forse era proprio che mentre per la chiesa cattolica lo stato si impegnava a riconoscere anche la giurisdizione della chiesa stessa sul matrimonio (addirittura riconosceva una giurisdizione esclusiva della chiesa) tale 76 giurisdizione non è riconosciuta nel matrimonio acattolico. Ossia, il matrimonio acattolico è semplicemente considerato una forma di celebrazione del matrimonio, tanto che l’art 83 cc dice che il matrimonio acattolico è regolato in tutto dalle disposizioni del cc. Oltre che dalla legge speciale (= legge 1159/1929). Quindi il legislatore nel 1929, dopo aver riconosciuto agli effetti civili il matrimonio cattolico, ritenne di dover agevolare anche chi apparteneva alle confessioni religiose di minoranze consentendo di celebrare un matrimonio valido per lo stato davanti ai ministri di tali confessioni. Questa è la legge speciale a cui fa riferimento l’art 83 cc. Oggi vi sono anche altre leggi speciali in materia, perchè a partire dal 1984 lo stato italiano ha dato attuazione all’art 8 3° comma Costituzione—vuol dire che lo Stato ha stipulato intese con le confessioni religiose diverse dalla cattolica approvate mediante legge. Ora i rapporti con lo stato di queste confessioni (che hanno appunto stipulato intese) non sono più regolate dalla legge 1159/1929 bensì dalla legge di approvazione di quell’intesa. Tutte le intese, come clausola finale, pongono la deroga applicativa per quelle confessioni religiose della legge 1159/1929. Ossia dal momento in cui entra in vigore la legge di approvazione dell’intesa cessa di avere efficacia la legge 1159/1929 verso quella determinata confessione religiosa. La maggior parte di queste intese regolano specificamente anch’esse la materia del matrimonio religioso ad effetti civili, ossia le modalità attraverso cui il matrimonio (di quella determinata confessione religiosa) assume effetti civili per lo Stato. Ovviamente le confessioni che affermino il matrimonio: le intese con i buddisti non parlano di matrimonio. Quindi lo Stato si impegna a riconoscere il matrimonio celebrato da una confessione religiosa acattolica, sia che questa abbia celebrato un’intesa ai sensi dell’art 8 3° comma Costituzione, sia quando non abbia stipulato una intesa. Lo stato riconosce solo la forma di celebrazione, non la giurisdizione religiosa su quel determinato matrimonio, anzi vi sono alcune intese (es con la confessione ebraica) dove lo si afferma esplicitamente che la giurisdizione ebraica ha efficacia interna (tra di loro) ma non esterna (nell’ordinamento italiano). Non possono essere riconosciuti quei matrimoni che contrastino con l’ordino pubblico. Ciò lo impedisce l’art 16 della legge 218/1995. Contrasta con il nostro ordine pubblico il matrimonio poligamico, previsto dal diritto islamico e da altre confessioni religiose. Il matrimonio poligamico contratto nel nostro paese non può assumere rilevanza nel nostro ordinamento. Questo nemmeno attraverso la normativa sul ricongiungimento famigliare. Vi è al riguardo una direttiva dell’UE del 2003 (la n° 86)—l’art 4 di questa normativa stabilisce che “In caso di matrimonio poligamo, se il soggiornante ha già un coniuge convivente sul territorio di uno Stato membro, lo Stato membro interessato non autorizza il ricongiungimento familiare di un altro coniuge”—neanche tale normativa, molto ampia e molto favoritiva. Norma molto chiara. MATRIMONIO CELEBRATO AI SENSI DELLA LEGGE 1159/1929—Prevede un requisito importante, ai sensi dell’art 7 di questa legge, ossia che la nomina del ministro di culto deve essere approvata dal ministro dell’interno. L’approvazione della nomina del ministro di culto è un requisito della validità civile del matrimonio. Infatti ai sensi dell’art 3 di questa stessa legge, “Nessun effetto civile può essere riconosciuto agli atti del proprio ministero computi da tali ministri di culto se la loro nomina non abbia ottenuto l’approvazione del governo”. Inoltre il ministro di culto abilitato ad assistere alla celebrazione di matrimonio deve avere la cittadinanza italiana e parlare la lingua Italiana, ai sensi dell’art 21 del decreto regio 289/1930 (applicativo della legge 1159/1929). [Anche il ministro di culto cattolico che assiste la celebrazione del matrimonio deve avere la cittadinanza italiana, con l’eccezione della diocesi di Roma ] questo perchè il 13 L’eccezione della diocesi di Roma è che al matrimonio canonico può assistere un ministro di 13 culto non italiano, mentre la norma concordataria prevede che il ministro di culto abbia cittadinanza italiana, è prevista questa eccezione. Può essere anche un cittadino straniero. 77 2° SEMESTRE 8.02 Sia le lezioni del venerdì che del lunedì si tengono nell’orario del primo semestre. TRATTAMENTO GIURIDICO DEI MATRIMONI DELLE CONFESSIONI ACATTOLICHE Acattoliche: diverse dalla cattolica. Nel trattare di questo tema occorre distinguere in primis il caso in cui la condizione giuridica della confessione religiosa diversa dalla cattolica sia determinata da un’intesa, stipulata ai sensi del 3° comma dell’art 8 C, dal caso in cui quella medesima confessione religiosa non abbia stipulato un’intesa e dunque la sua condizione giuridica sia retta dalla legge sui culti ammessi del 1929. Quindi per trattare del matrimonio acattolico dobbiamo distinguere questi due casi. 1)CONFESSIONI ACATTOLICHE PRIVE DI INTESA. Nel 1929 (prima dell’avvento della Costituzione) il legislatore dopo aver riconosciuto effetti civili al matrimonio canonico, ha ritenuto anche di dover agevolare in qualche misura anche gli appartenenti alle confessioni religiose acattoliche (non cattoliche), consentendo a queste ultime di celebrare un matrimonio valido per lo Stato davanti ai ministri di culto di tali confessioni. Tale istituto è disciplinato dagli articoli da 7 a 12 della legge 1159/1929 (la legge sui culti ammessi) nonché dagli articoli da 25 a 28 del regio decreto 289/1930. Tali matrimoni non possono (e non potevano) comunque ottenere riconoscimento qualora essi contrastino con l’ordine pubblico. Anche oggi è così: l’art 16 della legge 218/1995 (legge vigente nel diritto internazionale privato) vieta il riconoscimento di matrimoni contrastanti con l’ordine pubblico. Quale può essere oggi un matrimonio di una confessione acattolica che contrasti con l’ordine pubblico? Un esempio? Si pensi ad esempio al matrimonio islamico poligamico, previsto dal diritto islamico. Esso sicuramente contrasta con l’ordine pubblico dello Stato. Ora come allora quindi i matrimoni acattolici possono ottenere riconoscimento a condizione che non contrastino con l’ordine pubblico. Dobbiamo chiederci se il matrimonio degli acattolici è un matrimonio religioso rilevante agli effetti civili, un matrimonio civile oppure un terzo tipo di matrimonio. Tale ultima tesi (quella del terzo genere) non è stata ritenuta fondata da una tesi maggioritaria—perchè: perchè si è detto che la legge italiana non riconosce un matrimonio disciplinato dalle norme statutarie delle varie confessioni religiose, ma al contrario disciplina essa stessa tutti i requisiti per la valida celebrazione del matrimonio acattolico. Ad esempio requisiti che ineriscono alla capacità dei ministri di culto assistenti, ai necessari adempimenti civilistici che il ministro di culto deve svolgere. Detto in altre parole, per la legge italiana dunque la celebrazione religiosa è del tutto indifferente. Sintomatico di quanto detto è il fatto che la legge sui culti ammessi dispone che gli impedimenti e le cause di nullità del matrimonio degli acattolici sono disciplinate dalle stesse norme previste dal legislatore per il matrimonio civile. Approfondendo questo tema, le norme confessionali, che se nel caso dovessero disciplinare gli impedimenti o la nullità di tale matrimoni, non hanno alcun rilievo per il diritto dello Stato, in quanto si applicano le norme civili. Le sorti del rapporto civile di coniugio sono del tutto indipendenti dalla sorte che potrà avere il matrimonio religioso nell’ordinamento confessionale. Le sorti del rapporto civile di coniugio sono del tutto indipendenti dalla sorte che potrà avere il matrimonio religioso nell’ordinamento confessionale. Il matrimonio degli acattolici dunque non è un matrimonio religioso trascritto, ma è un matrimonio civile celebrato in forma speciale. 80 Perchè è un matrimonio civile celebrato in forma speciale? Il matrimonio civile non è sempre necessariamente celebrato davanti l’ufficiale dello stato civile, perchè la legge prevede che esso possa celebrarsi anche dinanzi ad altri soggetti, investiti del potere di certificazione. Tra questi soggetti (es il console) a ciò abilitati rientra anche il ministro di culto delle confessioni acattoliche la cui nomina però sia stata approvata dall’autorità governativa. L’approvazione governativa del ministro di culto assistente al matrimonio è un requisito di validità civile del matrimonio degli acattolici. A questo requisito (approvazione governativa) bisogna aggiungere altri due requisiti: • La cittadinanza italiana; • Il ministro deve parlare la lingua italiana. Questi sono requisiti necessari ma non sufficienti ai fini della validità del matrimonio acattolico. È necessario anche che siano osservate alcune formalità che altre disposizioni della legge sui culti ammessi prevede. Per semplicità dividiamo queste formalità per step. In un primo step rientrano le seguenti formalità: • Le parti devono richiedere le pubblicazioni all’ufficiale di stato civile territorialmente competente. • Nel richiedere le pubblicazioni le parti devono dichiarargli l’intenzione di voler celebrare matrimonio avanti a un ministro di culto acattolico. L’ufficiale dello stato civile, una volta effettuate le pubblicazioni, accerta che: 1. Non vi siano impedimenti al matrimonio tra le parti; 2. Che a seguito delle pubblicazioni, non siano state proposte opposizioni da parte di eventuali interessati; 3. Che il ministro di culto indicato dalle parti sia stato approvato, cioè la sua nomina sia stata approvata dagli uffici del governo. Come si fa questa verifica sul ministro di culto: se le pubblicazioni sono state effettuate nello stesso comune in cui risiede il ministro di culto la cosa è semplice, perchè copia del decreto di approvazione della nomina è trasmessa dagli uffici governativi agli uffici dello stato civile dello stesso comune, quindi l’ufficiale dello stato civile sostanzialmente ha già il decreto di approvazione della nomina. Se invece il matrimonio acattolico è da celebrarsi in un comune diverso da quello in cui risiede il ministro di culto, il ministro di culto dovrà farsi riconoscere dall’ufficiale dello stato civile (esibendo i documenti ufficiali) e dovrà anche produrre copia del provvedimento di approvazione di nomina. Questo è il primo step. Il secondo step—effettuate le formalità preliminari appena viste, l’ufficiale dello stato civile rilascia una autorizzazione scritta, nella quale è indicato anche il nominativo del ministro di culto davanti al quale avverrà la celebrazione nonché anche la data del provvedimento dell’approvazione della sua nomina. L’assistenza alla celebrazione del matrimonio da parte del ministro di culto non è una facoltà che può esercitarsi a discrezione del ministro di culto stesso. Non è una facoltà discrezionale, perchè occorre un’autorizzazione che di volta in volta viene rilasciata dall’ufficiale dello stato civile nel singolo caso. Quindi secondo step: autorizzazione scritta. Terzo step—é costituito dalla celebrazione del matrimonio acattolico. A proposito, la legge sui culti ammessi pone a carico del ministro di culto acattolico dei precisi adempimenti: • Deve dare lettura agli sposi degli articoli 143, 144, 147 del codice civile. Cioè di quelle norme che disciplinano i diritti e i doveri dei coniugi; • Deve anche ricevere, alla presenza di due testimoni, la dichiarazione espressa di entrambe le parti, l’una dopo l’altra, di volersi prendere reciprocamente quale marito e moglie. Tale dichiarazione non deve essere soggetta ne a termini ne a condizioni. Se così non fosse, cioè se la dichiarazione fosse soggetta a termini e a condizioni, il ministro di culto non dovrebbe celebrare il matrimonio oppure se il matrimonio fosse celebrato ugualmente, il termine o la condizione si avrebbe per non apposta. 81 Quarto Step—la formazione dell’atto di matrimonio da redigersi immediatamente dopo la celebrazione in lingua italiana e curando di indicare in esso una serie di informazioni, cioè: • Generalità delle parti e dei loro genitori; • Dati relativi alle pubblicazioni; • Data e luogo di celebrazione del matrimonio; • Nome del ministro di culto celebrante. L’atto di matrimonio potrà (non dovrà) contenere anche delle dichiarazioni accessorie, ad esempio quella relativa alla scelta del regime patrimoniale di separazione dei beni o al riconoscimento/ legittimazione di figli naturali. L’atto di matrimonio è un atto pubblico, e nello svolgimento degli adempimenti di sua competenza, il ministro di culto riveste la qualifica di pubblico ufficiale. Quinto e ultimo step—il ministro di culto cattolico deve trasmettere al massimo entro 5 giorni dalla celebrazione l’originale dell’atto di matrimonio all’ufficiale dello stato civile, il quale a sua volta lo trascrive entro le 24 ore successive alla sua ricezione ai ministri dello stato civile. Secondo la dottrina prevalente la trascrizione in questione ha efficacia costitutiva e non meramente probatoria. A differenza del matrimonio concordatario (matrimonio canonico trascritto con effetti civili) mancano norme relative alla trascrizione tardiva. Tuttavia in caso di irregolarità dell’atto o smarrimento dell’atto o trasmissione in ritardo da parte del ministro di culto acattolico all’ufficiale dello Stato civile, potranno applicarsi le norme relative al procedimento di rettificazione da parte del tribunale previsti dagli articoli 454 e seguenti del codice civile. CAUSE DI INVALIDITÀ del matrimonio acattolico— si applicano in via generale le cause di nullità e di annullabilità previsti dagli articoli 117 e seguenti del codice civile. vi sono poi anche delle cause di invalidità proprie della speciale forma di celebrazione del matrimonio che stiamo analizzando. In primis determina nullità del matrimonio acattolico la mancata approvazione governativa della nomina del ministro di culto. Tuttavia non costituiscono cause di invalidità ne la mancata autorizzazione da parte dell’ufficiale dello stato civile (non dell’approvazione governativa), neppure la differenza di religione tra il ministro di culto e i nubendi e neppure il fatto che l ministro di culto che assiste al matrimonio lo faccia in un luogo diverso dalla sua residenza. 2)CONFESSIONI ACATTOLICHE CON INTESA CON LO STATO (Art 8 3° comma Costituzione) La disciplina di queste confessioni è abbastanza semplice, perchè fatta eccezione per l’unione dei buddisti italiana e per l’istituto buddista italiano “Soka Rakkai”, tutte le altre intese ad oggi stipulate tra lo stato italiano e le confessioni acattoliche contengono norme sulla celebrazione religiosa e il matrimonio civile. La gran parte di queste norme sono identiche nell’intesa, determinando un procedimento analogo che può essere così riassunto. Anche qui diversi step. Primo Step—i nubendi devono manifestare all’ufficiale dello stato civile la loro intenzione di celebrare matrimonio con rito religioso davanti al ministro di culto della loro confessione di appartenenza, che, secondo alcune intese, a pena di nullità deve essere anche cittadino italiano (non per tutte le intese ma per alcune) e richiedere le pubblicazioni. Secondo Step—l’ufficiale dello Stato civile effettuate le pubblicazioni e accertato che non sussistano impedimenti civili alla celebrazione o che non ci siano state opposizioni, rilascia un nulla osta in doppio originale. Il quale nulla osta oltre a precisare che la celebrazione avverrà davanti un ministro di culto acattolico e nel comune indicato dai nubendi, deve anche attestare di aver dato lettura a questi ultimi degli articoli 143, 144 e 147. Particolarità: per le intese con le comunità ebraica e l’intesa con la chiesa di “Gesù Cristo dei Santi degli ultimi giorni”, per queste due confessioni religiose la lettura degli articoli 143, 144 e 147 è rimessa al ministro di culto celebrante, non dall’ufficiale dello stato civile ai coniugi. 82 reparto di giurisdizione—I tribunali della chiesa cattolica sono competenti a decidere sulla validità o invalidità del matrimonio canonico trascritto e il giudice italiano è competente a decidere sugli effetti civili del matrimonio medesimo nonché sul procedimento di trascrizione, che rientrano con gli effetti civili del matrimonio pienamente nella cognizione del giudice italiano. Abbiamo quindi una riserva di giurisdizione alla chiesa cattolica per quanto concerne la validità o invalidità del matrimonio canonico trascritto e una competenza del giudice italiano per quanto concerne gli effetti meramente civili del matrimonio nonché il procedimento di trascrizione. [Questa è la posizione a cui era giunta la giurisprudenza alla vigilia del nuovo concordato (1984). Prima ribadiamo che era stata emanata una importante sentenza della CC, la sentenza 16/1982, dal quale anche alla luce della giurisprudenza della Cassazione aveva introdotto la necessità di un controllo sull’ingresso nel nostro ordinamento delle sentenze canoniche di nullità matrimoniale. ] La situazione si modifica apparentemente con la riforma del concordato. Cosa succede con la riforma del concordato? Vi sono dei movimenti a favore del venir meno di questa riserva di giurisdizione. La lettera del concordato del nuovo accordo è meno chiara rispetto a quella del concordato del 1929. L’art 8 (1984) afferma che da un lato sono riconosciuti gli effetti civili ai matrimoni contratti secondo le norme del diritto canonico, dall’altro lato non si fa nessun riferimento (c’è un silenzio del concordato) sulla possibile riserva di giurisdizione. Non vi è nessun riferimento, come era previsto nell’art 34 del concordato del 1929, alla riserva di giurisdizione. Ci si chiede a questo punto se questo silenzio del concordato cosa significava? Che è venuta meno la riserva di giurisdizione, e quindi che i giudici italiani possono conoscere anche della validità o invalidità del matrimonio canonico trascritto, quindi possono giudicare sulla validità o meno del matrimonio nel momento in cui produce effetti civili, oppure, pur non essendo esplicitamente richiamata dall’art 8 la riserva di giurisdizione sussiste ancora? Ebbene, il problema senz’altro non è semplice, ha trovato una soluzione non omogenea, addirittura a livello di giurisdizione suprema del nostro ordinamento, in quanto paradossalmente la corte di Cassazione e la CC hanno dato una risposta esattamente contraria l’una rispetto all’altra sul problema. La Cassazione (SU) ha affermato specificamente che è venuta meno la riserva di giurisdizione, la CC invece ha affermato che esiste ancora questa riserva. Vediamo i due pensieri contrastanti: • La Cassazione in SU nella sentenza n° 1824/1993 afferma in maniera chiara che “è vero che lo stato riconosce alla chiesa l’esercizio della giurisdizione in materia ecclesiastica e attribuisce effetti cviili ai matrimoni contratti secondo le norme del diritto canonico, ma nell’accordo del 1984 non si rinviene una disposizioni che sancisca il carattere esclusivo della giurisdizione ecclesiastica in materia matrimoniale, quale era contenuta nell’art 34 del concordato del 1929 e quanto agli effetti civili dei matrimoni canonici si precisa che la trascrizione non potrà aver luogo quando gli sposi non rispondano ai requisiti della legge civile circa l’età richiesta per la celebrazione e quando sussista un impedimento che la legge considera inderogabile”. Ancora: “E’ anche vero che l’art 4 del protocollo addizionale (che ha lo stesso valore normativo del principale) stabilisce che si dovrà tener conto della specificità dell’ordinamento canonico, in particolare che richiami della legge italiana la legge del luogo in cui si è svolto il giudizio si intendono fatti al diritto canonico. Tuttavia ciò rappresenta il quanto lo stato, ritenuto di potersi sacrificare nella sua sovranità che per ogni altro verso viene invece riaffermata”. Quindi la Cassazione afferma che lo stato italiano non può sacrificare la sua giurisdizione fino al punto di non riconoscere la specifica competenza del tribunale italiano sul matrimonio canonico trascritto. Un tribunale italiano per la cassazione può giudicare su un matrimonio canonico produttivo di effetti civili è valido o invalido. Conclude la Corte che vi è giurisdizione del giudice italiano, vi è anche giurisdizione del giudice canonico. Questi conflitto di giurisdizione come si risolve? Abbiamo detto che la CC aveva affermato nelle 3 sentenze del 1971 che vi era un riparto di giurisdizione tra ordinamento italiano e canonico—il canonico sanciva sulla validità o meno del matrimonio canonico, quello italiano conosceva della trascrizione e degli effetti civili del matrimonio medesimo. Ebbene, la Cassazione (sempre in questa sentenza del 1993) afferma che questo è un potenziale conflitto di giurisdizione tra stato e chiesa, in quanto tanto lo Stato 85 quanto la Chiesa sono competenti per decidere della validità o invalidità di un matrimonio canonico trascritto. Come si risolve questo potenziale conflitto? Afferma la Cassazione che questo potenziale conflitto si supera mediante il criterio della prevenzione. Il criterio della prevenzione significa che il primo giudice adito è quello competente. Se le parti quindi ricorrono prima al giudice della Chiesa per far giudicare sulla validità o invalidità del matrimonio trascritto, è competente il giudice della chiesa. Se le parti ricorrono al tribunale civile, è competente il tribunale civile e non lo è più il tribunale della Chiesa. Il primo giudice adito quindi è quello competente, proprio perchè vi è un conflitto di giurisdizione tra i due ordinamenti. È così che la sentenza della Cassazione termina dicendo: “Alla stregua di quanto procede deve dunque affermarsi la giurisdizione del giudice italiano, in quanto giudice preventivamente adito”. Da un lato quindi è venuta meno la riserva di giurisdizione precedentemente prevista dall’art 34 del concordato, quindi lo stato vanta anch’esso un potere per decidere sulla validità o invalidità del matrimonio canonico trascritto. Dall’altro lato è altrettanto vero che rimane intatta la competenza della Chiesa. Tale conflitto di giurisdizione si risolve tramite il criterio della prevenzione: il primo giudice adito è quello competente, il secondo è incompetente. Per la Cassazione il mancato richiamo nel nuovo accordo della riserva di giurisdizione significa il venir meno della riserva stessa, e vi è concorrenza di giurisdizione tra Stato e Chiesa sul medesimo oggetto, entrambe possono decidere sulla validità o meno del matrimonio trascritto. Anche se viene adito il giudice italiano, egli dovrà applicare (per decidere sulla validità o invalidità) le norme di diritto canonico proprio perchè il matrimonio è sorto nell’ordinamento canonico sulla base dell’ecclesiale (non può giudicare in base alle norme del diritto italiano); • La Corte Costituzionale ha assunto una posizione diversa (secondo il prof più corretta)—essa nella sentenza 421/1993 ha assunto la posizione opposta rispetto quella della Cassazione. In definitiva la CC ha affermato che nonostante il mancato richiamo esplicito della riserva di giurisdizione nel nuovo accordo di revisione concordataria del 18 febbraio 1984, tale riserva di giurisdizione sussiste ancora. Qual è il ragionamento logico seguito dalla CC? La CC muove dalla sua precedente giurisprudenza, parte dalla sua giurisprudenza degli anni ’70 (da sentenza 169/1971)—in questa sentenza (n°169) afferma in maniera esplicita che il matrimonio canonico costituisce un presupposto in senso tecnico degli effetti civili. Quindi un presupposto a cui sono collegati con la trascrizione gli effetti civili. È un presupposto in senso tecnico in quanto il matrimonio canonico è la base, il presupposto appunto, degli effetti civili del matrimonio stesso che si dispiegano mediante la trascrizione. Afferma sempre la CC (nella sentenza 421) che “Se il negozio cui si attribuiscono effetti civili nasce nell’ordinamento canonico, e da questo è regolato nei suoi requisiti di validità, è logico corollario che le controversie sulla sua validità siano riservate alla cognizione degli organi giurisdizionali dello ordinamento, conseguendo poi le relative pronunce dichiarative della nullità l’efficacia civile attraverso il procedimento di delibazione”. Continua la sentenza: “Nell’accordo del 1984 permane il riconoscimento degli effetti civili ai matrimoni che per libera scelta delle parti sono stati contratti secondo le norme del diritto canonico, e che rimangono regolati quanto al momento genetico da questo diritto. Su quell’atto, posto in essere nell’ordinamento canonico, e costituente presupposto agli effetti civili, è riconosciuta la competenza del giudice ecclesiastico. L’atto quindi rimane regolato dal diritto canonico senza che sia operata nell’ordinamento italiano una ricezione di quella disciplina, con quanto ne segue in ordine alla giurisdizione. Se il negozio cui si attribuiscono effetti civili, nasce nell'ordinamento canonico e da questo è regolato nei suoi requisiti di validità, è logico corollario che le controversie sulla sua validità siano riservate alla cognizione degli organi giurisdizionali dello stesso ordinamento, conseguendo poi le relative pronunce dichiarative della nullità la efficacia civile attraverso lo speciale procedimento di delibazione”. La sentenza della CC non si ferma qui: una volta richiamata la giurisdizione precedente, in particolare la sentenza 169/1971 e la 18/1982, afferma che questa giurisprudenza è coerente anche con il principio supremo di laicità dello Stato. Ossia l’unica lettura possibile anche delle nuove norme concordatarie, che sia coerente con il principio supremo di laicità dello Stato, è quella che attribuisce alla chiesa una 86 giurisdizione esclusiva sul matrimonio canonico trascritto. Quindi non un concorso di giurisdizione (come prevede la Cassazione) risolvibile con il criterio delle prevenzione, bensì la permanenza della riserva di giurisdizione richiesta dal sistema stesso, con un logico riparto di giurisdizione tra stato e chiesa: la Chiesa ha competenza sulla validità e invalidità del matrimonio, lo Stato ha competenza sulla trascrizione e sugli effetti civili di esso. Tutto ciò è chiesto dal principio di laicità dello Stato, che afferma la Corte: “In base a tale principio i tribunali dell’ordinamento statale non possono giudicare sulla validità o invalidità di un atto che è esso stesso intrinsecamente religioso”. Lo stato non può applicare norme religiosamente qualificate. La CC afferma: “Nell'Accordo del 1984 permane il riconoscimento degli effetti civili, mediante la trascrizione, ai matrimoni che, per libera scelta delle parti, sono stati contratti secondo le norme del diritto canonico e che rimangono regolati, quanto al momento genetico, da tale diritto. Ne deriva che su quell'atto, posto in essere nell'ordinamento canonico e costituente presupposto degli effetti civili, è riconosciuta la competenza del giudice ecclesiastico. Coerentemente con il principio di laicità dello Stato (ricordiamo che è un principio supremo del nostro ordinamento, superiore alle stesse norme costituzionali), in presenza di un matrimonio che ha avuto origine nell'ordinamento canonico e che resta disciplinato da quel diritto, il giudice civile non esprime la propria giurisdizione sull'atto di matrimonio, caratterizzato da una disciplina conformata nella sua sostanza all'elemento religioso, in ordine al quale opera la competenza del giudice ecclesiastico. Il giudice dello Stato esprime la propria giurisdizione sull'efficacia civile delle sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio, attraverso lo speciale procedimento di delibazione regolato dalle stesse norme dell'Accordo in modo ben più penetrante che nella disciplina originaria del Concordato. Permane inoltre pienamente, secondo i principi già fissati dalla Corte, la giurisdizione dello Stato sugli effetti civili”. In definitiva, alla luce del principio supremo di laicità dello stato vi è un riparto di giurisdizione. I tribunali ecclesiastici hanno competenza sulla validità o invalidità del matrimonio canonico trascritto agli effetti civili, lo Stato italiano ha competenza sugli effetti meramente civili del matrimonio, sulla trascrizione e sul procedimento di delibazione (procedimento mediante cui viene data efficacia civile alle sentenze pronunciate dai tribunali ecclesiastici). Non vi è una concorrenza di giurisdizione ma reparto. Ancorché non sia richiamato in maniera esplicita il nuovo accordo una riserva di giurisdizione a favore dei tribunali ecclesiastici, è intrinseco al sistema, corollario necessario, che tale riserva esista. Se il giudice dello stato giudicasse tale oggetto (matrimonio) dovrebbe applicare norme religiosamente qualificate e si troverebbe in violazione del principio supremo di laicità dello Stato. In nome di tale principio è intrinseco al sistema di relazione sta Stato e Chiesa che i tribunali ecclesiastici godano di competenza esclusiva a conoscere della validità o invalidità di un matrimonio canonico trascritto—riparto di competenza. Abbiamo un vero e proprio conflitto tra i supremi organi giurisdizionali del nostro Stato, conflitto che non ha mai trovato una sua pacifica soluzione. Secondo professore è più coerente la posizione assunta dalla Corte Costituzionale, in quanto più rispettosa del principio supremo di laicità dello Stato e più rispettosa dello spirito del concordato stesso, anche nella sua modifica del 1984. La lettura effettuata dalla Cassazione secondo prof è una forzatura del dettato concordatario, eccessivamente legata alla lettera della norma che non tenga conto del sistema. È quindi un problema ancora aperto, che non ha trovato una sua coerente soluzione. 2° PROBLEMA—Abbiamo detto che vi è un riparto di giurisdizione ( o un conflitto) tra Stato Italiano e Chiesa cattolica. Altro problema: rapporto tra giurisdizione italiana e cattolica qualora venga introdotto un giudizio di divorzio sugli effetti civili. Il matrimonio canonico può ottenere effetti civili e la delibazione delle sentenze canoniche matrimoniali produce effetti civili. Tuttavia la legge sul divorzio (898/1970) prevede che il giudice dello Stato possa dichiarare lo scioglimento degli effetti civili, il cessare degli effetti civili. [La legge sul divorzio non usa mai la parola divorzio, usa il termine “scioglimento degli effetti civili” o cessazione di essi]. La legge sul divorzio prevede 87 ordinamento giuridico. L’art 34 del vecchio concordato (1929) prevedeva una sorta di efficacia automatica delle sentenze. Con il concordato del 1984 alla luce anche della recente giurisprudenza di Cassazione, il concordato pone dei limiti, cambia le modalità di riconoscimento delle sentenze, fermo restando che le sentenze possono essere riconosciute nel nostro ordinamento, cambia però la prospettiva tecnica del riconoscimento stesso. Non è un procedimento ufficioso, ma avviene su iniziativa di parte e il giudice dello Stato effettua uno specifico controllo sulla sentenza canonica stessa, per valutare la sua compatibilità con l’ordinamento giuridico italiano. A questo riguardo leggiamo il nuovo accordo tra Stato e Chiesa l’art 8 della legge 121/1985 (che ha dato esecuzione all’accordo di Villa Madama)—al paragrafo 2 si afferma che: "Le sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici, che siano munite del decreto di esecutività del superiore organo ecclesiastico di controllo, sono, su domanda delle parti o di una di esse, dichiarate efficaci nella Repubblica italiana con sentenza della Corte d'appello competente, quando questa accerti le seguenti condizioni”. Nel nuovo accordo si afferma che le sentenze canoniche sulla validità e sul vincolo matrimoniale siano effettivamente riconosciute, però l’iniziativa è di parte. Non si richiede un procedimento ufficioso ma è necessaria, così come è necessaria la volontà delle parti e la trascrizione per il vincolo matrimoniale, per dare efficacia alla sentenza canonica di nullità matrimoniale. Tale efficacia implica il venir meno ab initio degli effetti civili del matrimonio stesso. Ha un’efficacia quindi ex tunc, retroattiva. La domanda quindi deve essere presentata da una o entrambe le parti, l’istanza di parte può essere presentata mediante citazione o mediante ricorso. Viene avviato il procedimento mediante ricorso quando le parti sono concordi nel richiedere la efficacia civile della sentenza canonica, vi sia accordo tra le parti che da origine a un procedimento camerale non contenzioso. Quando il procedimento viene introdotto in contraddittorio, dando origine a un contenzioso, introdotto mediante citazione: una delle parti cita l’altra per chiedere che venga dichiarata efficacia civile della sentenza canonica sulla validità del vincolo coniugale. La Corte d’Appello decide mediante sentenza, la quale una volta emessa verrà trascritta nei registri dello Stato civile—a differenza di quanto avviene per le sentenze straniere che vengono trascritte nel registro dello stato civile, nella sentenza canonica di nullità matrimoniale ciò che viene trascritta è la sentenza della Corte d’Appello. Mentre la sentenza di divorzio straniera viene trascritta lei stessa nei registri dello stato civile, per la sentenza di nullità matrimoniale canonica ciò che viene trascritta non è la sentenza di nullità ecclesiale, emanata dal tribunale ecclesiastico, ma la sentenza della Corte d’Appello, mediante cui si richiede la trascrizione della sentenza canonica. Il giudice della corte d’appello è il tribunale competente. Non vi sono altri tribunali competenti, ciò significa che nel caso in cui le parti siano insoddisfatte del giudizio della corte d’Appello l’unico ricorso possibile è presso la Cassazione, quindi un ricorso di legittimità presso la corte di Cassazione. Abbiamo un vero e proprio giudizio di merito solo del 1°, mentre il 2° grado può essere solo di legittimità. Questo non implica un giudizio di merito, perchè il giudice italiano non può vagliare nel merito della sentenza canonica. Cosa deve verificare il giudice? Quali sono i parametri di valutazione del giudice della Corte d’Appello? L’accordo tra Stato e Chiesa, il paragrafo 2 dell’art 8 della legge di attuazione dell’accordo di Villa Madama enuclea 3 parametri, che non sempre sono di facile interpretazione, nonostante anche le specificazioni nel protocollo addizionale. Essi sono: 1. La sentenza canonica deve essere munita del decreto di esecutività del superiore organo ecclesiastico di controllo—la sentenza canonica dunque deve essere esecutiva e questa esecutività deve essere attestata dal superiore organo ecclesiastico di controllo. Tale organo superiore è il supremo tribunale della Segnatura apostolica. Era una condizione richiesta anche nel precedente concordato del 1929. Tale decreto di esecutività deve essere allegato alla sentenza canonica di cui si chiede la delibazione; 90 2. Il giudice della Corte d’Appello deve valutare che il giudice canonico fosse competente a conoscere della causa in quanto matrimonio concordatario—deve valutare la competenza del giudice canonico, del giudice ecclesiastico; 3. Il giudice d’Appello deve valutare che nel procedimento davanti ai tribunali ecclesiastici é stato assicurato alle parti il diritto di agire e di resistere in giudizio in modo non difforme dai principi fondamentali dell'ordinamento italiano—viene qui ribadito un principio già sancito solennemente dalla CC nella sentenza 16/1982, quella sentenza cioè che aveva dichiarato l’incostituzionalità dell’art 34 del concordato (in particolare la sua legge esecutiva) nella parte in cui l’art 34 prevedeva il riconoscimento delle dispense pontificie che dichiaravano lo scioglimento del matrimonio rato e non consumato, perchè il riconoscimento di quelle sentenze veniva a violare il principio di tutela giurisdizionale (art 24 Costituzione), in quanto in queste dispense non era data la possibilità di agire e difendersi in giudizio in modo conforme ai principi fondamentali del nostro ordinamento. Il giudice deve quindi verificare che nel procedimento ecclesiastico le parti abbiano effettivamente potuto esercitare il loro diritto di agire e di difendersi, non in modo uguale all’ordinamento italiano (perchè è sempre un ordinamento diverso) ma non difforme dai principi fondamentali del nostro ordinamento; 4. Che ricorrono le altre condizioni richieste dalla legislazione italiana per la dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere—si pone qui un problema formale: il protocollo addizionale (n°4) fa riferimento per quanto concerne queste condizioni agli articoli 796 e 797 del codice di procedura civile italiano. Richiama in maniera esplicita il cpc italiano. Il problema è che questi due articoli attualmente non sono più vigenti nel nostro ordinamento. La legge 218/1995 (intitolata “Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato”) ha modificato la disciplina del diritto applicabile e anche la disciplina per quanto concerne il riconoscimento delle sentenze e dei provvedimenti emessi in un ordinamento diverso rispetto quello italiano abrogando l’art 796 e 797 del cpc e prevedendo degli articoli (64 e 65) le condizioni per il riconoscimento delle sentenze straniere. Ci si pone dunque il problema seguente: per comprendere quali siano le condizioni richieste dalla legislazione italiana per la dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere (e quindi canoniche) dobbiamo guardare gli articoli 64 e 65 della legge 218/1995 oppure gli articoli 796 e 797 cpc? La cassazione ha affermato che per quanto concerne il riconoscimento delle sentenze canoniche di nullità matrimoniale il rinvio effettuato agli articoli 796 e 797 cpc recepisce queste norme all’interno del nostro ordinamento e in un certo senso dona validità ai due articoli del cpc solamente in riferimento al riconoscimento delle sentenze canoniche di nullità matrimoniale. È vero che la legge 218 ha abrogato i due articoli del cpc, ma è altrettanto vero che tale legge (la 218/1985) è pur sempre una legge ordinaria, che non ha la capacità di abrogare o derogare una legge che pur ordinaria ha una resistenza passiva all’abrogazione pari alle norme costituzionali. In definitiva la legge 218 non può abrogare o derogare la legge di esecuzione dell’accordo di Villa Madama. La legge 218 quindi non ha modificato l’accordo del 1984 e per l’esecuzione delle sentenze canoniche di nullità matrimoniale sopravvivono limitatamente ad esse i due articoli 796 e 797 del cpc esplicitatamene richiamate. Non bisogna guardare gli articoli 64 e 65. La Cassazione nella sentenza 10211/2010 afferma ciò; 5. Ai fini dell’applicazione degli art 796 e 797 cpc si dovrà tener conto della specificità dell’ordinamento canonico per il quale è regolato il vincolo matrimoniale che da esso ne ha avuto origine—criterio ermeneutico: applico i 2 articoli del cpc ma l’applicazione di essi comporta alcune peculiarità, legate alle peculiarità dell’ordinamento di riferimento (canonico). E la norma stessa cita due casi di questa peculiarità. Fanno riferimento i due articoli alla lex loci, che qui è il diritto canonico. Le sentenze canoniche di nullità matrimoniale non passano mai in giudicato: diventano esecutive ma non passano mai in giudicato, non divengono mai definitive. Anche il diritto canonico conosce la res iudicata, però le sentenze sulla condizione giuridica delle persone (sentenze matrimoniali) non passano mai in giudicato. Sono sempre appellabili seppur a condizioni particolari. Si parla solo di sentenza esecutiva; 91 6. Al giudice dello stato è precluso un riesame nel merito della sentenza canonica—deve solo limitarsi a valutare che la sentenza adempia alle condizioni di cui art 796 e 797 cpc. 19.02 (Segue) Le sentenze canoniche emanate dai tribunali ecclesiastici possono essere dichiara efficaci all’interno del nostro ordinamento. Quali sono i presupposti processuali della domanda? Sono che la sentenza sia esecutiva e che tale esecutività sia attestata da un decreto del superiore organo ecclesiastico di controllo, ossia il supremo tribunale della segnatura apostolica. Accanto a questo abbiamo il giudice della corte d’Appello, il giudice competente, che deve accertare l’esistenza e l’autenticità dei provvedimenti ecclesiastici sulla nullità del matrimonio e del decreto della segnatura apostolica testante l’esecutività della sentenza, deve accertare che il matrimonio dichiarato nullo era un matrimonio canonico trascritto a norma dell’art 8 dell’accordo di Villa Madama e conseguentemente che il giudice ecclesiastico fosse quello competente a conoscere la causa, e che venga assicurato alle parti il diritto di agire e difendersi in giudizio. Quest’ultima norma venne introdotta nel procedimento di riconoscimento delle sentenze canoniche di nullità matrimoniale dalla sentenza 18/1982 e venne confermata dall’accordo. Il diritto di difesa è rispettato quando il convenuto sia stato regolarmente citato a comparire e abbia avuto un termini sufficiente per predisporre ogni sua difesa e che la sua eventuale contumacia sia volontaria. In definitiva come ha affermato la Cassazione (nella sentenza 4100/1990) che il compito della corte d’appello è quello di accertare che risultino rispettati gli elementi essenziali del diritto di agire e di resistere nell’ambito dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale dello Stato. La corte d’appello nel verificare la congruenza della sentenza canonica con il nostro ordinamento, deve verificare che sussistano tutti gli altri presupposti stabiliti per il riconoscimento delle sentenze straniere—queste condizioni non sono quelle determinate dall’art 64 e 65 della legge del 1995 ma quelle determinate dagli art 796 e 797 cpc, che seppur abrogati dalla legge 218/1995, sono mantenuti in vita nel nostro ordinamento limitatamente a tale argomento. Le condizioni stabilite dagli articoli 796 e 797 del cpc sono: 1. Il giudice dello stato nel quale la sentenza è stata pronunciata, poteva conoscere la causa secondo i principi della competenza giurisdizionale vigenti nell’ordinamento italiano—il giudice canonico è quello competente a decidere la causa; 2. La citazione è stata notificata in conformità alla legge del luogo dove si è svolto il giudizio ed è stato assegnato un congruo termine per comparire—rispetto del diritto di agire e difesa in giudizio. Il protocollo addizionale ricordiamo che prevede che quando si dice “al richiamo della legge del luogo” intende il diritto canonico, sempre; 3. Che le parti si sono costituite in giudizio secondo la legge del luogo o la contumacia è stata accertata e dichiarata validamente in conformità con la legge; 4. Che la sentenza è passata in giudicato secondo la legge del luogo in cui è stata pronunciata— il protocollo addizionale afferma in maniera esplicita che per “sentenza passata in giudicato” si intende sentenza esecutiva per l’ordinamento ecclesiale, perchè le sentenze matrimoniali nel diritto canonico non passano in giudicato, divengono esecutive (esecutività attestata e accertata) nell’ordinamento canonico ma non acuiscono l’autorità propria della res giudicata, in quanto possono essere sempre appellate (fuori dai termini ordini a determinate condizioni); 5. La sentenza canonica non deve essere contraria ad altra sentenza pronunciata da un giudice italiano; 6. Non deve essere pendente davanti al giudice italiano un giudizio sul medesimo oggetto e tra le stesse parti istituito prima del passaggio in giudicato della sentenza straniera— es: se tra le parti è pendenti un giudizio civile di divorzio, l’oggetto è diverso, perchè oggetto del giudizio 92 celebrazione del matrimonio o dopo che i coniugi abbiano convissuto successivamente a tale celebrazione. Le SU dunque hanno affermato in un primo tempo (anni ’80) che non contrastava in realtà con l’ordine pubblico la delibazione della sentenza canonica emessa pur dopo molti anni di convivenza coniugale, ribaltando quanto affermato precedentemente dalla prima sezione civile della Cassazione. Tuttavia la questione non è terminata: la Cassazione, disattendendo il proprio orientamento iniziato con la sentenza del 1988, ha nuovamente attribuito alla convivenza come coniugi, protrattasi per 3 anni dalla celebrazione del matrimonio, la natura ostativa di ordine pubblico al riconoscimento delle sentenze canoniche di nullità matrimoniale. La Cassazione quindi (sentenza 16379/2014) ritorna alla sentenza della prima sezione civile del 1987 affermando che la convivenza protrattasi per 3 anni dalla celebrazione del matrimonio, ha natura ostativa di ordine pubblico al riconoscimento delle sentenze canoniche di nullità del vincolo matrimoniale. Abbiamo quindi un vero e proprio impedimento alla trascrizione del matrimonio canonico qualora le parti abbiano vissuto come coniugi per almeno 3 anni. Dal pdv processuale la deduzione della convivenza triennale come limite alla delibazione ha natura di eccezione in senso stretto e pertanto deve essere posta a pena di decadenza nella comparsa di risposta. Questo vuol dire che se la parte non si oppone alla delibazione, la sentenza canonica, nonostante la convivenza triennale può essere riconosciuta. La convivenza triennale come coniugi quindi è ostativa della delibazione, ma ostativa non in se stessa ma nella misura in cui è posta come eccezione nella comparsa di risposta dalla parte convenuta. Quindi se la parte non convenuta non si oppone, la sentenza canonica di nullità matrimoniale nonostante la convivenza come coniugi per un periodo superiore a 3 anni, può e deve essere riconosciuta se concorrono le altre condizioni di riconoscimento. Da un lato quindi la Cassazione ha attribuito alla convivenza natura impeditiva al riconoscimento delle sentenze canoniche di nullità matrimoniale, dall’altro la deduzione della convivenza come limite alla delibazione ha natura di eccezione in senso stretto e pertanto deve essere posta a pena di decadenza nella comparsa di risposta. La sentenza di nullità del matrimonio NON può essere dedotta d’ufficio dal giudice: è sempre necessaria l’istanza di parte, che deve essere proposta o con citazione o con ricorso (art 8 accordo di Villa Madama). La Cassazione nella sentenza del 1988 ha stabilito che la domanda deve essere proposta con citazione solo quando le parti siano discorsi sull’efficacia civile della sentenza canonica di nullità del vincolo matrimoniale—in questo caso il procedimento segue il rito contenzioso ordinario. Quando le parti invece sono concordi si propone domanda mediante ricorso e la questione deve essere trattata in camera di consiglio, essendo ancora vigente l’art 17 della legge 847/1929. RATIO di questo indirizzo giurisprudenziale— per capirla dobbiamo introdurre un argomento diverso. Parliamo della “PROVVISIONALE” della corte d’appello. L’art 8 dell’accordo di villa madama prevede che, quando la corte d’appello riconosca civilmente una sentenza canonica di nullità matrimoniale può attribuire a favore del coniuge (che ne abbia fatto richiesta) una provvisionale sulle indennità spettantesi, rimandando le parti davanti al giudice di 1° competente per risolvere le questioni. In definitiva, la corte d’appello nel momento in cui riconosce gli effetti civili della sentenza canonica di nullità matrimoniale può attribuire a favore di una delle due parti dei provvedimento provvisori di tipo economico, i quali vengono valutati (determinati) in base agli articoli 128 e 129 del cc. Vengono cioè determinati in base a quanto stabilisce il matrimonio in tema di matrimonio putativo. [Matrimonio Putativo: matrimonio, esistente nel nostro ordinamento, che oggettivamente è nullo, tuttavia tale nullità non dipende dalla mala fede dei coniugi, o di uno dei due, ma da un fatto oggettivo esterno alla loro volontà. Supponiamo che le parti abbiano stipulato un matrimonio nullo per età ed essi fossero inconsapevoli di essere minorenni. In questo caso vi è buona fede]. Art 128 cc: “Se il matrimonio è dichiarato nullo, gli effetti del matrimonio valido si producono, in favore dei coniugi, fino alla sentenza che pronunzia la nullità, quando i coniugi stessi lo hanno contratto in buona fede”—qualora vi sia stata buona fede da parte dei coniugi o di uno di essi, quel matrimonio pur essendo nullo produce gli effetti del matrimonio valido sino alla dichiarazione di nullità. È un’eccezione rispetto la retroattività della dichiarazione di 95 nullità. Inoltre, il matrimonio dichiarato nullo ha gli effetti del matrimonio valido rispetto ai figli e “Se le condizioni indicate nel primo comma si verificano per uno solo dei coniugi, gli effetti valgono soltanto in favore di lui e dei figli”—è un matrimonio nullo in presenza di buona fede dei coniugi e in questo caso si producono gli effetti del matrimonio valido sino gli effetti di invalidità del matrimonio stesso. Gli articoli 129 e 129 bis prevedono alcuni effetti patrimoniali della dichiarazione del matrimonio poi dichiarato putativo (perchè ritenuto nullo). Concretamente l’art 129 cc prevede che: “Quando le condizioni del matrimonio putativo si verificano rispetto ad ambedue i coniugi (=qualora entrambi siano in buona fede), il giudice può disporre a carico di uno di essi e per un periodo non superiore a tre anni l’obbligo di corrispondere somme periodiche di denaro, in proporzione alle sue sostanze, a favore dell’altro, ove questi non abbia adeguati redditi propri e non sia passato a nuove nozze”—qualora entrambi i coniugi siano in buona fede, il giudice della corte d’appello nel dichiarare l’efficacia della sentenza canonica di nullità matrimoniale, può onerare una delle parti per un periodo non superiore a 3 anni a corrispondere somme di denaro a favore dell’altra. È necessario quindi che la parte favorita dimostri di non aver adeguati redditi propri e la parte onerata ha un obbligo non superiore ai 3 anni di elargire a favore dell’altro una somma periodica proporzionale alle proprie sostanze. Questo è il caso solo di entrambi i coniugi di buona fede. Diverso è il discorso del coniuge in mala fede (a cui è imputabile la nullità del vincolo matrimoniale)—l’art 129 bis cc prevede che il coniuge in mala fede è tenuto a corrispondere al coniuge in buona fede (qualora il matrimonio sia dichiarato nullo) una congrua indennità, anche in mancanza di prova del danno sofferto. L’ordinamento presume che la nullità del matrimonio costituisca un danno per la parte in buona fede che la parte in mala fede è tenuta a risarcire mediante una congrua indennità. La parte in buona fede è sollevata dall’onere della prova, in quanto il danno è presunto. Si tratta di una vera e propria indennità che deve comprendere una somma corrispondente al mantenimento per 3 anni e la parte onerata è tenuta a prestare gli alimenti al coniuge in buona fede sempre che non vi siano altri obbligati . 14 Qual è il problema posto da queste norme? Il problema è che i provvedimenti economici che onerano una parte a seguito della delibazione della sentenza canonica di nullità matrimoniale sono molto meno onerosi rispetto all’assegno di divorzio. Gli effetti patrimoniali che gravano su uno dei soggetti a favore dell’altro sono molto meno pesanti nel caso di delibazione della sentenza canonica di nullità matrimoniale piuttosto che nel caso del divorzio. Questo a volte produce un uso distorto della declaratoria di nullità del vincolo matrimoniale in quanto le parti (una di esse) preferisce ricorrere al giudice della chiesa per chiedere la delibazione sapendo bene che gli eventuali effetti patrimoniali a suo carico sono molto meno onerosi con la delibazione delle sentenze canoniche di nullità matrimoniale piuttosto che con un procedimento di tipo divorzile. La CC è intervenuta sul punto evidenziando come un differente agire patrimoniale nell’ambito del divorzio rispetto la delibazione canonica non è in contrasto con la nostra costituzione. Per la CC la diversità strutturale del divorzio e della nullità valgono di per se a escludere violazione del principio di uguaglianza (art 3 C), sotto il profilo della disparità di trattamento in quanto non è necessario che le situazioni di declaratoria della nullità canonica debbano ricevere lo stesso trattamento che l’ordinamento assegna alla disciplina delle conseguenze patrimoniali degli effetti civili del matrimonio, proprio perchè divorzio e nullità hanno una struttura diversa. Sempre la CC nella medesima sentenza (329/2001) ha comunque evidenziato che tanto nell’ipotesi di nullità quanto in quella di divorzio è possibile che dal matrimonio sia derivata l’instaurarsi tra i coniugi di una istaurata comunione di vita. Questo vuol dire che nonostante questa lunga comunione di vita, gli effetti patrimoniali a carico della parte “responsabile” sono meno onerosi nella delibazione. Non solo il coniuge è tenuto agli alimenti ma anche altri soggetti (es genitori) possono essere obbligati a 14 prestare gli alimenti al coniuge in buona fede. 96 Questo ci fa comprendere come il perchè la Cassazione abbia affermato che la convivenza come coniugi (per almeno 3 anni) possa impedire la delibazione. Qual è l’intento della Cassazione con questa pronuncia? È di salvaguardare la parte debole, di impedire cioè un uso strumentale della delibazione delle sentenze canoniche di nullità matrimoniale. È come dire: tu chiedi il riconoscimento della sentenza canonica di nullità matrimoniale dopo un lungo periodo di convivenza e lo chiedi (molto probabilmente) per sfuggire gli effetti della sentenza di divorzio, molto più onerosi. Io ordinamento giuridico ti impedisco di fare ciò, dicendo che data la convivenza (x almeno 3 anni) non posso concederti la delibazione, quindi l’unica modalità per far terminare il vincolo matrimoniale è quello del divorzio. La ratio dell’indirizzo giurisprudenziale si fonda sull’intenzione di tutelare il coniuge più debole, il quale, una volta riconosciuti gli effetti civili della sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale, sarebbe insufficientemente garantito dagli articoli 129 e 129 bis, laddove con il divorzio avrebbe diritto a un trattamento migliore a quello previsto dagli art 5 e seguenti della legge 898/1970, come poi successivamente modificata. Questo intervento della Cassazione, che in qualche modo lede però anche la libertà religiosa, in quanto lede la possibilità di riconoscimento di una sentenza canonica di nullità matrimoniale per un motivo introdotto dallo Stato (convivenza coniugale impeditiva della delibazione è stato introdotta unilateralmente dalla Cassazione, non in accordo con la Chiesa). Bisognerebbe uguagliare gli effetti della delibazione con la sentenza di divorzio ma non c’è ancora stato un intervento giurisprudenziale che ha fatto ciò, compete solo al legislatore il potere di modificare il sistema vigente nella prospettiva di un accostamento tra la disciplina della nullità matrimoniale e della cessazione degli effetti civili conseguenti alla sua trascrizione per gli effetti del divorzio. 22.02 LA GIURISDIZIONE SUL MATRIMONIO CONCORDATARIO Abbiamo visto che il matrimonio concordatario è un matrimonio canonico che, in quanto tale, nasce nell’ordinamento canonico e poi, attraverso la trascrizione, acquista gli effetti civili. Quanto alla validità del matrimonio canonico, la giurisdizione è del giudice canonico. Quanto agli effetti civili, la competenza è del giudice italiano. Quando parliamo di “matrimonio concordatario” dobbiamo tenere presente questa ripartizione. Attraverso il procedimento della delibazione può esserci il riconoscimento della sentenza di nullità data dal giudice canonico sul matrimonio canonico, che è diventato concordatario. Vediamo quali possono essere le questioni che possono essere portate alla cognizione del giudice italiano. Sono questioni inerenti il matrimonio concordatario (= contratto in chiesa, quindi 15 canonico, che poi acquista effetti civili con la trascrizione). 4 diversi tipi di matrimoni che si possono contrarre in Italia: matrimonio civile, matrimonio concordatario, matrimonio in base alla legge 1159/1929 (la cosiddetta “legge sui culti ammessi”) e matrimonio in base alle intese. —Il primo ambito di competenza del giudice italiano è quello riguardante le controversie sulla trascrizione—la trascrizione è il procedimento con cui il matrimonio canonico acquista gli effetti civili. Può esserci qualche problema: un avvocato deve essere in grado di verificare tutti i problemi che possono nascere. Le controversie sulla trascrizione rientrano nella competenza del giudice italiano. In caso di divorzio, la trascrizione cessa di produrre i suoi effetti ex nunc, cioè dal momento del divorzio, perchè il divorzio è un annullamento. Il divorzio è lo scioglimento del matrimonio civile, applicato al matrimonio concordatario è la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario. In caso di c cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario, E’ diverso sia dal matrimonio civile sia dal matrimonio stipulato con le confessioni diverse dalla cattolica 15 (legge 1159/1929) o in base alle intese. 97