Scarica Appunti lezioni economia e gestione della banca prof. Milena Migliavacca e più Appunti in PDF di Economia e gestione della banca solo su Docsity! Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 1 CAP 1 – IL SISTEMA FINANZIARIO E REALE E LA FUNZIONE CREDITIZIA Il sistema economico Il sistema finanziario è soltanto una parte, una delle due metà del sistema economico. Il sistema economico è tutto l’insieme dei contratti, delle persone, delle risorse, della forza lavoro… che vengono scambiati all’interno di un framework regolamentativo. Il sistema economico può essere scisso in due sottosistemi: l’economia reale, dunque il sistema reale, e l’economia finanziaria, dunque il sistema finanziario. Il primo è l’insieme di tutte le persone, i beni, la forza lavoro, i servizi scambiati all’interno di un’economia. Per questo si chiama economia reale. Si interroga sull’ ottimizzazione dello scambio delle risorse, di beni, di servizi e del comportamento degli individui. In contropartita di tutti questi scambi ci sono dei flussi finanziari. Per ogni contrattazione sull’economia reale, per ogni passaggio della forza lavoro, ci si aspetta in contropartita u flusso finanziario. L’insieme di tutti questi flussi finanziari costituisce il sistema finanziario. Non è un sistema stagno: i due sistemi sono ovviamente interrelati, non avrebbe senso l’uno senza l’altro. Sono l’uno il movimento in contropartita degli scambi dell’altro. Quando si parla di economia in senso lato ci si riferisce al sistema economico, dunque sia agli scambi reali che a quelli finanziari. Queste due metà teoricamente devono rimanere in equilibrio. Dalla teoria economica si ha: P * Q = M * V, devono uguagliare nel medio lungo termine. P che sono i prezzi e Q che sono le quantità di beni reali definiscono il sistema reale. M che è la quantità di moneta e V che è la velocità di circolazione della moneta definiscono il sistema finanziario. La velocità di circolazione della moneta è la velocità alla quale viene scambiata un’unità di conto in un dato periodo di tempo. Più ci sono scambi nel sistema reale e più circola la moneta nel mondo finanziario, più si scambia moneta e più c’è compravendita nel mondo reale, dunque maggior sono i livelli di consumi e minori quelli di risparmio. Minore è la circolazione e maggiore è il risparmio, perché si tengono in portafoglio le proprie unità di conto. La quantità di moneta si può immaginare proprio come la quantità di moneta presente all’interno di un sistema finanziario. Esistono vari tipi di moneta. È una delle due variabili definitorie del sistema finanziario. I due sistemi devono essere in equilibrio affinché lo sia il sistema economico complessivamente. È però molto difficile che l’uguaglianza sia effettivamente verificata, perché la capacità di queste quattro variabili di restaurare l’equilibrio è molto diversa ed eterogenea. Quindi non è vero le quattro variabili in gioco hanno la capacità di riportare l’equilibrio, una volta che questo venga alterato, allo stesso modo. Si ipotizza uno shock dal lato del sistema reale: uno shock dei prezzi, che salgono nel sistema reale. Per restaurare l’equilibrio si può o abbassare Q, se si vuole agire sempre sul sistema reale, o alzare M e/o V, se si vuole agire sul sistema finanziario. Nella pratica però è più complicato, infatti se si agisce sul sistema reale abbassando la quantità di beni reali, significa o che si produce di meno o che vengono chiuse le aziende produttive. In questo modo però esplode la disoccupazione e il PIL precipita, dunque non è il cambiamento adatto a ripristinare l’equilibrio. Inoltre servono mesi e mesi, non sono manovre che si possono fare da un giorno all’altro. È difficile intervenire sulla velocità di circolazione della moneta, poiché è difficile far fare maggiori acquisti mentre i prezzi stanno salendo. Intervenire sulla quantità di moneta è invece più ragionevole, si aumenta la moneta all’interno del sistema finanziario. È quella variabile che è più efficace nel riportare equilibrio all’interno del sistema economico. Ci sono comunque diversi modi tramite cui aumentare la quantità di moneta. Affinché la quantità aumentata di moneta riesca a raggiungere il mercato e dunque riesca effettivamente a restaurare questo equilibrio, gli intermediari finanziari devono trasmettere questo impulso, questo aumento di moneta al mercato. Perché l’aumento e la diminuzione della quantità di moneta è nelle mani della banca centrale, che non può arrivare fisicamente al mercato. Questa operazione è fortemente nelle mani dell’intermediario, la banca centrale può emanare l’impulso, ma la sua trasmissione è completamente nelle mani del sistema bancario, dunque degli intermediari finanziari. Si ipotizza ora, invece, uno shock delle quantità, che salgono nel sistema reale. Per restaurare l’equilibrio si può o abbassare P, se si vuole agire sempre sul sistema reale, o alzare M e/o V, se si vuole agire sul sistema finanziario. L’inflazione avrà un ruolo fondamentale in questo tipo di shock. Imporre una diminuzione dei prezzi “barbara” non è semplice e così anche un aumento della velocità di circolazione della moneta (non è facile costringerei i consumatori a consumare di più o di meno). Questi due sono shock reali. Si ipotizza ora, invece, uno shock della quantità di moneta, che sale nel sistema finanziario. Per restaurare l’equilibrio si può o abbassare V, se si vuole agire sempre sul sistema finanziario, o alzare Q e/o P, se si vuole agire sul sistema reale. Si ipotizza ora, invece, uno shock della velocità di circolazione della moneta, che sale nel sistema finanziario. Per restaurare l’equilibrio si può o abbassare M, se si vuole agire sempre sul sistema finanziario, o alzare Q e/o Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 2 P, se si vuole agire sul sistema reale. Questi due sono shock finanziari. Non esiste uno shock nel lato finanziario che non comporti un cambiamento nell’economia reale e viceversa Le bolle speculative Se nonostante si mettano in atto queste manovre lo squilibrio persiste, allora in questo caso c’è il rischio concreto di una bocca speculativa. Una bolla speculativa è una situazione di squilibrio persistente, nella maggior parte dei casi nel lato del sistema finanziario, ma non può essere puramente finanziaria e ci deve essere sotto un sottostante reale. Ad esempio in un momento sull’economia reale si registra un eccesso di domanda di un determinato bene e quindi un aumento dei prezzi vertiginoso. Si crea una sorta di scarsità sintetica di quel bene. Si dice sintetica perché in realtà è il lato della domanda che è aumentato in modo imprevisto e vertiginoso. Questo aumento della domanda e dei prezzi crea un’aspettativa dal lato degli attori economici di continua crescita di questi prezzi: tutti vogliono quel determinato bene, il suo prezzo sta salendo enormemente e ci sono evidenti possibilità di affari e di rendimenti anomali. Per questo tutti iniziano ad investire, è come se partisse la “moda” di un determinato bene o di un determinato strumento finanziario. Dunque aumentano ad aumentare i prezzi perché sostenuti da un aumento della domanda. In questo modo tutti entrano nel mercato, anche attori economici non esperti che ne vengono a conoscenza iniziano ad acquistare quel bene. Nel momento in cui un mercato diventa un mercato fuori controllo, con un eccesso di domanda e anche da parte di attori non professionali ed educarli, avviene uno scollamento tra quello che si chiama valore del sottostante, ovvero il valore di quel bene determinato dalle sue caratteristiche e dal gioco della domanda e dell’offerta, e il prezzo. Il sottostante può avere un valore che cresce perché cresce la domanda, ma solo fino ad un certo punto, perché se i prezzi impazziscono e salgono in modo scollato, ovvero senza una ratio economica, senza che ci sia un collegamento con il sottostante, allora lì generalmente la bolla sta per scoppiare, appunto perché questa impennata enorme dei prezzi è completamente scollegata dalla dinamica di domanda e offerta e dalle caratteristiche del bene. Questa impennata dei prezzi deriva solitamente dal fatto che gli attori economici in questo momento iniziano a sovra investire e ad investire a leva, ovvero ad investire indebitandosi. In questo momento ci si indebita e generalmente in quel momento la domanda di credito è alta, quindi ci si indebita ad alto prezzo con dei tassi richiesti degli intermediari alti, ma lo si fa lo stesso perché si spera di beneficare di questa bolla. Ciò finché la bolla scoppia, cessa completamente la domanda perché il livello di debito è salito eccessivamente e perché il mercato si satura perché non si possono trovare compratori all’infinito. Quindi se si vuole iniziare a vendere perché si vuole ottenere il proprio guadagno, si inizia a non trovare più compratori, perché tutti hanno già comprato. Inizia quindi ad esserci il panico, tutti a quel punto vogliono cercare di vendere perché si capisce che il mercato non è più liquido, ovvero non si riesce a monetizzare il proprio investimento, non si riesce a venderlo, a smobilizzarlo. Il panico serpeggia e quindi tutti vogliono vendere. In un istante si ribalta l’equilibrio: da eccesso di domanda ad eccesso di offerta. Questo cambio repentino fa esplodere la bolla. Si aprono 3 scenari: il primo è il fallimento del mercato. Se hai il bene devi tenerlo perché non c’è nessuno che vuole comprarlo e se ti sei indebitato la banca chiede gli interessi. Nel secondo scenario invece interviene il prestatore di ultima istanza, ovvero una banca centrale, un governo… qualcuno che salda i debiti al posto di quelli che sono falliti. È molto raro ora, prima no. Il terzo scenario è lasciare che il mercato agisca: si svendono le posizioni, ovvero le si vende ad un prezzo bassissimo, e in questo caso gli speculatori riescono a reperire sul mercato quel bene che fino a quel momento valeva tantissimo a nulla. Si lascia dunque che piano piano il mercato si aggiusti in automatico. Tutti quelli che sono costretti a svendere registrano una perdita. Si lascia dunque la potenzialità di fallimento di alcuni attori, ma il mercato continua perché ci sono sempre contrattazioni, perché a pochissimo prezzo, ma c’è comunque c’è una compravendita. Piano piano idealmente il mercato si restaura in autonomia. In realtà spesso non si opta per una piuttosto che per l’altra opzione (uno dei tre scenari), ma per almeno due delle tre contestualmente. Alcuni esempi di bolle speculative sono la bolla immobiliare che poi ha causato la crisi finanziaria e poi reale del 2008 negli Stati Uniti (crisi dei subprime) e la bolla dei tulipani che ha dato il via alla prima crisi speculativa Il sistema finanziario I sitemi finanziari possono essere studiati o seguendo il profilo strutturale, dunque studiarne la struttura, gli elementi che lo compongono, i contratti, i mercati, gli intermediari, l’autorità di vigilanza… oppure seguendo il profilo funzionale, ovvero le funzioni che esso svolge. Merton nel 1995 era un sostenitore dell’approccio Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 5 Grafici Dal 2005 alle 2020 gli investimenti delle famiglie non sono praticamente cambiati, il loro portafoglio tipo è rimasto immutato. Stessa cosa le società non finanziarie, complessivamente a parte una diminuzione delle attività non finanziarie non ci sono stati grandi cambiamenti. Cambiamenti più importanti invece gli hanno avuti le società finanziarie: non hanno smesso di erogare credito, ma c’è stata una riduzione, tanto che attività e passività quasi si bilanciano. Tutta la liquidità che non stanno dando sotto forma di prestiti e crediti la investono in titoli, ma non in titoli rischio, non in investimenti azionari, investono di più dunque in titoli conservativi. Da una parte si è verificato ciò per la contingenza economica, ma ci sono state delle spinte regolamentari morto forti, che hanno costretto le banche ad essere meno rischiose e ad alleggerire i crediti e gli investimenti in titoli rischiosi. Le famiglie italiane continuano ad essere in perfetto surplus (soprattutto nel 2005 erano quelle più in surplus in confronto ad Europa e Stati Uniti) e sono le uniche che hanno perso potere d’acquisto, ovvero l’andamento non conosce un trend positivo dil grafico come quello che hanno invece tutte le altre. La ricchezza netta dal 2005 al 2020 infatti è aumentata leggermente, ma molto meno degli altri paesi e soprattutto ha conosciuto un lungo periodo di decrescita. È l’unico paese che non ha mantenuto il suo trend positivo. I segni e i trend dei saldi finanziari sono un ottimo predittore del fabbisogno che questi settori istituzionali hanno di trasferimento delle risorse. Se un settore istituzionale ha un saldo negativo e il suo trend è in peggioramento, ovvero diventa sempre più negativo, c’è la necessità futura di un trasferimento ulteriore di risorse, perché si parte già in deficit, si ha già un gap di potere di acquisto che ha già bisogno di più risorse finanziarie rispetto a quelle che può produrre e il trend negativo fa pensare che in futuro se ne avrà ancora più bisogno. Ciò interessa alle banche perché è quel punto potrà sviluppare nuovi prodotti e nuovi contratti più favorevoli. Sa che ci sarà una domanda di prodotti di credito crescente perché i soggetti in deficit rimangono in deficit e addirittura il loro deficit aumenta, dunque il trend è in questo caso negativo. Stessa cosa al contrario le famiglie con un saldo finanziario positivo, dunque soggetti tipicamente in surplus con un trend positivo (ad esempio gli Stati Uniti o il Canada). Probabilmente si deve trovare dei prodotti finanziari che siano più capaci di invogliare queste famiglie ad investire perché stanno accumulando molti risparmi. Vuol dire che non stanno investendo e che potrebbero investire di più, quindi è un segnale per il settore finanziario di creare prodotti più convenienti, prodotti con delle caratteristiche che involtino questi settori in surplus e con un trend positivo ad investire di più. Quest’analisi dei segni e dei trend è morto importante e ci dice se il segno è coerente con quel settore istituzionale in primis e il trend ci dice se il segno sarà stabile o se potrà invertirsi. Ad esempio il trend degli anni passati che ha portato le società non finanziarie ad essere soggetti tipicamente in deficit a soggetti in surplus, sono partiti da un segno negativo e con un trend molto debole, che ad un certo punto si è invertito Scambi finanziari Il fatto che esistano settori istituzionali stabilmente in surplus e settori istituzionali stabilmente in deficit è fisiologico è necessario affinché il sistema finanziario abbia un senso, altrimenti non potrebbe espletare la propria funzione creditizia: se non ci sono soggetti in surplus il flusso di risorse finanziarie non può andare da nessuna parte. Se non ci sono soggetti in deficit questo flusso non ha una domanda. C’è all’interno del sistema una dissociazione stabile fra risparmi ed investimenti, ovvero coloro che risparmiano tipicamente più di quanto spendano sono soggetti in surplus, le famiglie, mentre coloro che dovrebbero investire di più di quanto riescono a fatturare sono tipicamente le imprese. Questi soggetti devono in primis esistere ed in secondo luogo essere messi nella condizione di scambiarsi queste risorse e affinché ciò avvenga è necessario un certo grado di finanziarizzazione dell’economia. Ovvero il surplus di risorse finanziarie, la ricchezza, la parte di reddito non consumata dai soggetti in surplus deve poter essere incorporata in un contratto standardizzato. Un economia è finanziarizzata se il surplus dei soggetti che hanno un sovrappiù del potere di acquisto pio essere incorporato in contatti finanziari standardizzati. È necessario che siamo standardizzati. Questi contratti sono un investimento per le famiglie, i soggetti in surplus, per chi detiene i contratti, una forma di finanziamento per chi usa questo surplus di risorse finanziarie e una forma di finanziarie per i soggetti in deficit. Il titolo di stato ad esempio è un contratto finanziario standardizzato, è una forma di investimento per coloro che lo acquistano, per i detentori del contratto ed è una forma di finanziamento per l’utilizzatore finale che e lo stato, colui che lo emette. Lo stato infatti utilizza le risorse finanziarie in surplus delle famiglie finché il contratto scade e in quel momento lo stato restituisce quanto si è investito più un tasso di rendimento. È fondamentale che questi contatti che catturano ed incorporano il surplus di risorse Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 6 finanziarie siano standard. Questo potenziale scambio di flussi tra soggetti dal punto di vista teorico può avvenire in tre modi: scambio diretti autonomo, scambio diretto assistito ed indiretto. Lo scambio diretto autonomo è una modalità teorica che avviene tra due soggetti, uno in surplus ed uno in deficit, che autonomamente scambiano l’eccesso di ricchezza del soggetto in surplus a benefico del gap di potere di acquisto del soggetto in deficit. Ciò avviene autonomamente, si cerca un qualcuno che ha un bisogno compatibile sia con l’eccesso di risparmio che con l’orizzonte temporale. Si parla di scambio diretto autonomo anche quando il passaggio di ricchezze avviene in modo autonomo sui mercati finanziari. Lo strumento è emesso da un soggetto in deficit ed è comprato da un soggetto in surplus. Lo scambio diretto assistito invece implica la presenza di un intermediario, che però non entra direttamente nello scambio, che consiste comunque di un contratto solo da soggetto in surplus a soggetto in deficit. L’intermediario quindi facilita solamente l’incontro tra domanda e offerta. Ciò avviene ogni volta che si lasciano dei soldi sul conto corrente o che si compra un’obbligazione emessa da una banca. Non si sa a chi la banca darà quei soldi, ma si sa che la banca utilizzerà quel denaro. Lo scambio indiretto o intermediato avviene tramite l’intermediario finanziario che si interpone tra il soggetto in surplus e quello in deficit, quindi il flusso da surplus a deficit avviene tramite due contratti: uno tra soggetto in surplus e intermediario (tipicamente banca) e uno tra intermediario e soggetto in deficit. L’intermediario qui agisce da dealer, non solo indica al soggetto in surplus chi sarebbe il soggetto in deficit più affine alle proprie richieste, come avviene nello scambio diretto assistito, ma in questo caso si interpone anche fisicamente, il surplus non è più tra i due soggetti in deficit ed in surplus, ma il flusso finanziario va da soggetto in surplus a banca e da banca a soggetto in deficit. In questo caso il soggetto in surplus non ha la minima voce in capitolo su chi sta finanziando, mentre nei primi due casi i soggetti in surplus hanno completamente contezza di chi stanno finanziando. I mercati finanziari sono pensati come circuiti diretti. Nello scambio diretto autonomo si ha pieno potere decisionale su chi acquista l’obbligazione e quindi si sa esattamente chi si sta finanziando ed esattamente per quanto tempo. Le giacenze che gli individui lasciano nel conto corrente della banca la banca le dà ad altri soggetti in deficit sotto forma di credito. Da una parte prende a vista, ovvero a brevissimo termine dai soggetti in surplus e dall’altra da quel surplus ai soggetti in deficit. C’è questa trasformazione delle scadenze (ritirare quando si vuole e restituire in due anni) perché le necessità dei soggetti in surplus ed in deficit sono molto diverse. I soggetti in surplus hanno bisogno di depositare a breve e brevissimo termine e i soggetti in deficit che hanno bisogno in modo più stabile delle risorse finanziarie di cui non godono. Gli investimenti tipicamente sono pluriennali e non si possono interrompere a vista. Per questo il saldo sul conto corrente è un saldo puramente virtuale, la maggior parte di quei soldi in realtà non ci sono, la banca non li ha perché li ha impiegati in contratti creditizi che nom arriveranno se non a scadenza di questi contratti. Questo modo di operare della banca si chiama fractional reserve system: sistema a riserva frazionata, ovvero la riserva che una banca detiene di tutti il surplus che i correntisti le hanno affidato è solo frazionaria, è solo una parte, perché la maggior parte di tutte le risorse in surplus che gli investitori o i semplici correntisti lasciano presso una banca è investita altrove Le tre leve Affinché la funzione creditizia possa avvenire fluidamente il sistema finanziario ha tre leve che può spendere: la prima è la standardizzazione degli strumenti, che garantisce o comunque aiuta notevolmente la negoziabilità degli strumenti, la seconda è la funzione di trasformazione dei rischi compiuta dagli intermediari finanziari, se gli intermediari non trasformassero i rischi sottostanti un prestito o un credito sicuramente la funzione creditizia non sarebbe così fluida ed efficiente, la terza è il trattamento delle informazioni sui datori e soprattutto sui prenditori di fondi. È così impostante garantire che la funzione creditizia sia fluida (non dovrebbe avvenire naturalmente dato che ci sono tipicamente soggetti in surplus e in deficit?) perché le prestazioni creditizie sono differite nel tempo: i depositi vengono dati subito, ma i prestiti vengono restituiti in anni. È il differimento temporale tra le due prestazioni che fa sì che l’erogazione del credito sia rischiosa, perché in questo tempo può succedere di tutto al prenditore di fondi, ad esempio il suo progetto finanziario può non andare a buon fine, può fallire, può scappare… Il rischio di credito, ovvero che la controparte possa non restituire tutto o in parte il dovuto fa sì che è necessario che il sistema finanziario e dunque gli intermediari intervengano. Non è infatti scontato che soggetto in surplus e soggetti in deficit si incontrino, ma soprattutto non è scontato che le loro preferenze in termini di investimento e di finanziamento siano coerenti. C’è quindi assolutamente bisogno perlomeno di queste tre leve. È così importante che i contratti creditizi, ma in realtà tutti i contratti finanziari, dunque anche tutti i prodotti finanziari, le obbligazioni, le Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 7 azioni… siano standardizzati, ovvero abbiano delle caratteristiche standard facilmente riconoscibili perché ciò garantisce la probabilità di questi contratti. Ovvero garantisce che se il datore di fondi prima dello scadere del proprio contratto abbia necessità di riavere parte della liquidità investita egli possa vendere questo contratto ad un secondo investitore. Se non ci fosse l’intermediario finanziario e il soggetto in surplus desse i suoi depositi direttamente al prenditore di fondi, ovvero al soggetto in deficit, non sarebbe possibile avere due tempistiche differenti: non potrebbe l’uno ritirare quando vuole e l’altro riconsegnare in tot anni. Se è un contratto ad hoc privato non c’è modo di svincolare il contratto prima della scadenza, ovvero non si può ritirare il deposito prima che l’altro abbia restituito tutti i soldi. Se il contratto è standardizzato e ha delle caratteristiche comuni al mercato del credito, allora il soggetto in surplus potrebbe trovare qualcuno a cui vendere il suo credito, una terza parte. Il soggetto in surplus vende il suo credito alla terza parte, esso gli ridà il controvalore e torna in possesso del suo deposito. A questo punto il soggetto in deficit dovrà rispondere al terzo e dopo un certo tot di anni prestabilito il prenditore di fondi dovrà restituire al terzo il suo credito. Il fatto che questo contratto sia standardizzato fa sì che ci sia un mercato per questo contratto ed esso possa essere venduto a più persone e che quindi il fatto che duri tot anni non significa necessariamente che il datore di fondi debba mantenere per tot anni in portafoglio congelato quell’investimento, ma se può smobilizzarlo, allora quell’investimento ha una caratteristica fondamentale: la negoziabilità Gli asset Un asset è ogni entità materiale o immateriale suscettibile di valutazione economica per un certo soggetto/qualsiasi bene di proprietà di un’azienda che possa essere monetizzato e quindi usato per il pagamento di debiti. Un asset negoziabile è un asset facilmente vendibile sul mercato secondario, ovvero in tempi ragionevolmente brevi. Il fatto che sia standardizzato dunque garantisce che quel contratti possa passare di mano in mano anche prima della scadenza. Anche se il credito non fosse intermediato il fatto che i contratti siano standardizzati aiuta moltissimo a far fluire le risorse da un soggetto all’altro. Per la prima leva non è necessaria la presenza di un intermediario, ma perché le ultime due possano essere utilizzate è necessario che ci sia. Un asset liquido è facilmente trasformabile in moneta senza perdite. È molto difficile trovare sui mercati un asset liquido, perché è più semplice trovare un asset facilmente trasformabile in moneta, quindi che abbia un mercato secondario attivo, ma è più difficile che ciò avvenga senza perdite. Un asset che si è composto a 100 può essere definito liquido se si è sicuri di poterlo rivendere a 100. La standardizzazione assicura o aiuta enormemente la negoziabilità, assicura quindi che quell’asset potrà essere rivenduto sul mercato, ma non garantisce che potrà essere venduto allo stesso prezzo del prezzo di acquisirlo, quindi non garantisce che non ci siamo perdite e quindi che quell’asset sia liquido. Sia l’asset broker che l’asset transformer facilitano la funzione creditizia con un’efficacia diversa. Non necessariamente un intermediario è solo asset broker o asset transformer, ma sono solo due funzioni. Ad esempio le banche ad esempio operano alternativamente da entrambi, le SIM invece agiscono solo da asset broker… I broker sono degli individui che agiscono sui mercati e che agevolano il passaggio di fondi da un soggetto all’altro o consigliano quale strumento acquistare sui mercato. Gli asset transformer sono coloro che entrano negli scambi indiretti, intermediati. I circuiti indiretti infatti necessitano di un soggetto che trasformi le caratteristiche dei flussi dei surplus dei soggetti in surplus affinché questi fondi siano più affini alle richieste dei soggetti in deficit. Per questo si chiamano asset transformer, perché trasformano le caratteristiche del surplus dei datore di fondi per fare compatire meglio questi fondi a quello che i soggetti in deficit richiedono. Per questo la banca che prende un prestito a vista e lo trasforma in un contratto a due anni sta agendo da asset transformer, sta trasformando la scadenza. Le banche possono agire anche da asset broker, ovvero entrare nei circuiti diretti intermediati e agevolare e trovare il match tra domanda e offerta (un contratto solo). Come asset transformer agiscono sui circuiti puramente indiretti. Lo scambio diretto che sia autonomo o no non trasforma le caratteristiche del surplus di denaro dei datori di fondi. Lo scambio diretto assistito invece implica che gli intermediari funzionari agiscano da asset broker, quindi che facilitino lo scambio. Lo scambio indiretto intermediato implica che gli intermediari funzionari agiscano da asset transformer, perché solo in questo caso trasforma le caratteristiche del surplus finanziario dei datori di fondi in modo che incontrino le necessità dei soggetti in deficit, in modo che un deposito a vista possa essere utilizzato per finanziare un progetto pluriennale. Con i circuiti indiretti i depositi passano dall’attivo delle famiglie (surplus) al passivo delle banche (con il primo contratto, perché le banche dovrebbero pagare gli interessi sui depositi e perché hanno l’obbligo di restituzione di ess), poi passano all’attivo delle banche (quando diventano Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 10 funzione di monitoraggio della posizione, ovvero una volta erogato il prestito, ovvero una volta che c’è stata la valutazione dell’affidabilità la banca deve continuare a monitore l’andamento del progetto che sta finanziando. Quindi il rischio che la banca corre quando finanzia un progetto è innanzitutto un progetto ex ante, ovvero c’è un rischio di non selezionare bene ì prenditori di fondi, di selezionare quelli troppo rischiosi. Ma è anche un rischio ex post, dopo la firma del contratto, ovvero durante la durata del contratto. Possono infatti capitare diverse distorsioni se non si valuta bene ex ante e ex post le informazioni a disposizione della banca. Ci sono principalmente due distorsioni del mercato: la adverse selection e il moral hazard. La prima si ha se ex ante la banca non riesce a valutare bene la qualità del prenditore di fondi, ovvero se il prenditore di fondi ha un informazione privata, nascosta, allora non si ottimizza la selezione dei progetti da finanziare. Per questo motivo la valutazione dell’affidabilità del potenziale prenditore di fondi è fondamentale. Se c’è informazione nascosta si seleziona in modo sbagliato i prenditori di fondi e si incappa nell’adverse selection. La seconda invece la si ha se la banca nom continua a monitore la bontà dell’utilizzo di quei fondi. In questo caso il prenditore di fondi non nasconde un informazione ex ante, ma cambia delle caratteristiche del progetto che finanzia e lo rende più rischioso. È per questo necessario che la banca monitore costantemente l’ultimo dei fondi. Per una banca è piuttosto difficile cercare di non incappare in queste due distorsioni. Nel mercato dei prenditori di fondi ci sono sia buoni prenditori che cattivi prenditori, che una volta erogato il credito o lo investiranno in progetti fallimentari o non saranno in grado di far fruttare quei denari. La banca lo sa che non tutti i crediti che eroga potranno andare bene, ma ovviamente non può non erogare più crediti per non rischiare di prestare i propri soldi ai cattivi prenditori, dunque individua il cosiddetto tasso soglia. La banca distingue tra buoni e cattivi prenditori, perché sa che quelli buoni una volta che hanno preso i loro ad esempio 100€ di credito li investiranno e se le cose vanno male con il 50% di possibilità otterranno 110€, se le cose vanno bene con il 50% di possibilità otterranno 120€. In ogni caso dunque saranno in grado di ripagare i 100€ di prestito alla banca. Quelli cattivi invece una volta che hanno preso i loro ad esempio 100€ di credito li investiranno e se le cose vanno male con il 50% di probabilità perderanno parte di quel capitale di avviamento e otterranno 80€ (significa perdere il 20% e tutti gli interessi, è una perdita secca), se le cose vanno bene con il 50% di probabilità otterranno 150€. In ogni caso dunque saranno in grado di ripagare i 100€ di prestito alla banca. Anche in questo caso rischio significa imprevedibilità: si distanzia di più dal valore atteso di 100€, il cattivo prenditore non perde e basta, ma o va molto bene o va molto male, il risultato di quel progetto è più volatile. Questi due in media sono i due profili, il rendimento medio atteso sia dei cattivi che dei buoni prenditori è di 115€ (120*0,5 + 100*0,5 = 115 e 150*0,5 + 80*0,5 = 115), dunque del 15%. Guardando a questa situazione la banca sa che il suo tasso soglia, ovvero il tasso massimo a cui può erogare credito, è il 20%. I cattivi prenditori sarebbero disposti a pagare alla banca il 20% degli interessi, perché ex ante non sanno se andrà bene o se andrà male, ma anche se si pagassero questi 20€ di interesse comunque se le cose vanno bene rimane un guadagno di 30€ in tasca. I buoni prenditori invece non sarebbero disposti a pagare alla banca il 20% degli interessi, perché ex ante non sanno se andrà bene o se andrà male, ma se si pagassero questi 20€ di interesse anche se le cose vanno bene rimane un guadagno di 0€ in tasca (bisogna restituire 100€ di credito più 20€ di interesse, il 20% di 100€). È dunque il tasso soglia, perché la banca sa che appena raggiunge questo tasso è in pieno rischio di selezione avversa, perché solo i cattivi prenditori sarebbero sionisti a pagare il 20%, perché rischiano: se andranno male tanto sono falliti comunque, non riuscirebbero nemmeno a restituire i 100€, ma andranno bene avranno un guadagno. È la soglia oltre alla quale la banca fa selezione avversa. La banca è dunque incentivata a chiedere poco. La banca si deve tarare sotto il tasso soglia, ma c’è un enorme trade off nel scegliere quale tasso sotto quello soglia: se si chiede poco non si riesce a ripianare le perdite che causano i cattivi prenditore quando falliscono, infatti per ogni cattivo prenditore che fallisce la banca perde 20€, dato che esso non paga gli interessi e non restituisce nemmeno i 100, ma si prendono anche tanti buoni prenditori. Se invece si chiede tanto la banca fa meno fatica a ripagare le perdite causate dai cattivi prenditori, ma ha anche sempre di più il rischio di allontanare i buoni prenditori, che anche nel migliore dei casi avrebbero un proprio rendimento dall’investimento sempre più basso al netto dei costi. Non c’è una risposta a questo trade off, ma si può cercare di fare un’analisi delle informazioni ex ante per cercare di capire il più possibile se un prenditore è uno buono o cattivo. Questo è l’unico modo per diminuire la selezione di cattivi prenditori. Inoltre nella realtà non ci sono due tipi stigmatizzati di prenditori che si sa esattamente come si comporteranno, ci sono moltissimi livelli intermedi tra queste due tipologie di prenditori. È inoltre anche molto complicato riuscire effettivamente a predire la perdita. Ci sono però dei metodi abbastanza validi per ponderare la perdita attesa, ovvero capire il profilo di rischio (quanto guadagna Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 11 e quanto perde). Un cattivo monitoraggio porta la possibilità che il prenditore di fondi sposti il capitale ottenuto su progetti più rischiosi e dunque in questo caso non si hanno più le prospettive di guadagnano e si perdita di cui si era tenuto conto prima, ciò aumenterebbe molto il rischio di perdita. Aumenta il vero rischio di credito di quel contratto rispetto a quando pattuito. C’è un cambio di direzione d’uso dei fondi che la banca eroga Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 12 CAP 2 – LA FUNZIONE MONETARIA La funzione monetaria Si occupa di creare e di far circolare moneta e mezzi di pagamento tramite la piattaforma di gestione dei pagamenti, all’interno del framework normativo europeo. Tutti gli stati dell’Unione Europea fanno anche parte dell’unione economica e monetaria europea, ciò non significa che hanno tutti la stessa moneta, l’Eurozona invece è il nome che identifica i paesi della UE e della UEM che hanno adottato l’euro. Quando si parla di funzione monetaria i paesi che condividono la stessa moneta partono da una base di vantaggio nel creare la stessa piattaforma e lo stesso framework normativo. Ci sono alunni paesi UE che appartengono all’area economica europea, paesi UE che invece non vi appartengono e paesi UE che usano l’euro, paesi UE che invece non lo usano. Non si ha dunque una piena unione monetaria, se UE, UEM ed Eurozona combaciassero non si avrebbero problemi com i cosiddetti obblighi di convergenza. Per appartenere ad un’unione monetaria perfetta c’è bisogno di una certa omogeneità economica, politica, in materia fiscale… che non esiste in Europa. È un’unione imperfetta: ogni paese membro ha la propria autonomia politica, fiscale… motivo con il quale con il trattato di Maastricht si sono definiti dei criteri di convergenza di moto che a prescindere dalle politiche economiche, dall’orientamento politico, dall’orientamento di politica fiscale… i membri che fanno parte dell’Eurozona devono avere due obblighi di convergenza. La prima è la stabilità dei prezzi, ovvero un’inflazione (l’aumento dei prezzi al consumo annuali) nazionale nell’intorno inferiore del 2%. Ogni anno l’INSTAT crea il carrello della spesa dell’italiano medio e così calcola quanto sono aumentati i prezzi di quel carrello di spesa medio italiano all’interno dell’anno passato. Maggiore è il prezzo di un basket di beni comparabili, maggiore è la crescita dell’inflazione, più i prezzi dei beni di quel carrello crescono più l’inflazione cresce. Secondo il trattato di Maastricht coloro che vogliono entrare nell’unione monetaria devono avere questo incremento dei prezzi stabile e appena inferiore al 2% annuo. Il secondo obbligo di convergenza invece mette i paletti alla salute economica e finanziaria dello stato membro: il rapporto deficit/PIL non deve essere superiore al 3% e il rapporto debito/PIL non superiore al 60%. Il deficit è il sovrappiù di spesa pubblica annuale, ovvero ogni anno il saldo finanziario annuale dello stato non deve eccedere del 3% ciò che lo stato produce, ovvero il PIL. IL debito invece è la somma dei deficit, ovvero è tutto il deficit complessivo accumulato anno dopo anno. Ogni anno il deficit non può superare il 3% del PIL e complessivamente tutto il debito dello stato non può superare il 60% del PIL. Il 2022 però in media in Europa si chiude con un tasso inflativo del 10,4%. In Italia a fine 2022 il debito sfiora il 150%. Nel 2023 è stato emanato il fiscal compact in cui le regole di convergenza di Maastricht sono state temporaneamente sospese. Inoltre l’inflazione stimata dall’INSTAT è sottostimata, perché il cartello della spesa previsto sottostima alcune spese, come ad esempio quelle in viaggi e in beni tecnologici. Il sistema finanziario svolge questa funzione monetaria attraverso la creazione e la circolazione di mezzi di pagamento e garantisce il funzionamento del sistema dei pagamenti. Dunque crea la moneta, la fa circolare e fa sì che il sistema dei pagamenti porti surplus e deficit in maniera fluida tra i vari prenditori e datori di fondi. La funzione monetaria è svolta fondamentalmente e prevalentemente dal sistema bancario, ma in realtà è da circa 15 anni che essa non viene svolta esclusivamente dalle banche. Innanzitutto oltre alle banche possono creare moneta anche IMEL (istituti di moneta elettronica) e IP (istituti di pagamento), anche Poste Italiane è stata riconosciuta tra gli intermediari non bancari che possono creare moneta e con l’avvento del FinTech tantissimi attori non bancari possono creare moneta e ciò crea delle problematiche e delle distorsioni a livello di trasmissione degli impulsi di politica monetaria. Comunque il sistema bancario composto da banche centrali e banche è quello che crea il 90% della moneta in circolazione. Infatti anche oggi soltanto la moneta creata dagli intermediari bancari ha il criterio e il requisito della totale accettabilità La moneta La moneta è qualsiasi dispositivo personalizzato e/o insieme di procedure concordate tra utilizzatore e prestare di servizi di pagamento. Questa è la definizione generale generalista, esistono poi tante tipologie di monete con definizioni diverse, le definizioni micro sono quelle della funzione monetaria, mentre quelle macro sono i grandi aggregati quando si parla di politica monetaria. Dal punto di vista più microeconomico la moneta può essere distinta tra moneta legale, dunque le banconote e la moneta metallica, che è emessa da intermediari di natura puramente bancaria. La banca centrale emette la moneta e le banconote di carta stampata, non c’è nessun altro che può stampare euro. Questa è la moneta legale e la sua accettazione è Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 15 CAP 3 – LA FUNZIONE DI TRASMISSIONE DEGLI IMPULSI DI POLITICA MONETARIA Trasmissione politica monetaria Come il sistema finanziario e in particolare quello bancario riescano ad essere dei punti focali nella trasmissione degli impulsi che dalla banca centrale europea raggiungono o quantomeno dovrebbero raggiungere il mercato. La politica monetaria è l’insieme delle azioni intraprese dalla BCE per influenzare il costo e la disponibilità di denaro nell’economia. La parola cardine è denaro, ma anche influenzare, che è un termine volutamente molto ampio, significa creare un effetto che sia positivo o negativo o forte o debole. Il denaro ha la funzione di determinare il costo dei beni di consumo e ha esso stesso un costo. È strano pensare al costo di qualcosa, ovvero il denaro, che determina il costo dei beni al consumo. Con disponibilità di denaro si intende quanto denaro è disponibile all’interno del sistema finanziario e fa da specchio alle due variabili cardine del sistema finanziario, ovvero la quantità di denaro/moneta e la velocità di circolazione della moneta. Il termine denaro è equivoco perché la BCE non definisce mai cosa sia e dal punto di vista tecnico- finanziario non significa nulla. Abbiamo visto dal punto di vista micro quali sono le 4 tipologie di moneta e oggi vediamo altre tre tipologie, che vanno con diversi ruoli a riempire di significato la parola denaro anche da un punto di vista tecnico. Nella definizione di politica economica la BCE ha in mente la moneta circolante, la moneta offerta e soprattutto la base monetaria. La moneta circolante o legale o contante è l’insieme delle banconote e della moneta metallica, è tutto l’insieme della moneta fisica. La moneta offerta è il circolante, ovvero tutta la moneta fisica più i depositi, che sono le giacenze che i correntisti lasciano sui conti delle banche. La base monetaria è sempre il circolante, quindi sempre la moneta fisica, più le riserve bancarie, che sono costituite dalle riserve libere più la riserva obbligatoria, infatti le banche devono detenere un certo ammontare di liquidità presso la banca centrale in qualità di riserva obbligatoria e poi le banche volendo possono detenere quantità di liquidità ulteriore sottoforma di riserve libere. Quelle obbligatorie sono legiferate, hanno un minimo di mantenimento, mentre le riserve libere non hanno vincoli normativi. La base monetaria include sia le riserve libere che quelle obbligatorie, oltre al circolante. Ci sono delle variabili all’interno di queste tre che la banca centrale non può influenzare? Le variabili finanziarie e di natura economico-reale hanno un’efficacia diversa per restaurare l’equilibrio. Quanto lasciare sul conto corrente è deciso dal correntista, quindi il quantitativo di depositi non può essere determinato dalla banca centrale. Ci sono dei modi in cui può influenzare il quantitativo di depositi, ma non può decidere quanto lascia il singolo sul conto corrente. Inoltre per le riserve libere non c’è un limite o massimo legale, quindi le banche possono decidere di lasciare liquidità aggiuntiva oltre alla riserva obbligatoria, quindi anche su ciò la banca centrale ha poco potere di intervento. Può influenzare indirettamente, ma non direttamente l’ammontare di riserve bancarie libere. Per questo motivo la base monetaria è sì direttamente gestita dalla banca centrale europea, ma ci sono due variabili: la parte di riserve libere all’interno della base monetaria e i depositi. La base monetaria non corrisponde a tutto l’ammontare di moneta presente nel sistema, perché in essa non sono inclusi i depositi. Quindi a BCE può gestire la quantità di moneta presente nel sistema, ma lo può fare direttamente sulla base monetaria, tranne che nella componente di riserve libere, e indirettamente per quanto riguarda i depositi. Per questo con le sue politiche la banca centrale può ampliare la base monetaria. La banca centrale può creare base monetaria, quindi allargare la quantità di moneta presente all’interno del sistema finanziario, o distruggere base monetaria, quindi crea delle condizioni affinché la base monetaria diminuisca e si restringa. Può fare ciò non direttamente, ma attraverso 3 grandi strumenti che ha a disposizione per farlo indirettamente. Comunque agisce soltanto sulla base monetaria e nemmeno al 100% a causa delle riserve libere. Il rapporto tra la moneta disponibile, quindi il circolante e i depositi, e la base monetaria, quindi il circolante e le riserve si chiama moltiplicatore della moneta. Esso è definito come p+1 / p+b, dove p+1 è la moneta disponibile diviso i depositi e p+b è tutta la base monetaria diviso i depositi Gli aggregati La banca centrale nazionale ed europea quando vuole vedere se la sua politica monetaria ha l’effetto sperato utilizza tre aggregati monetari. Gli aggregati monetari sono ordinati in ordine decrescente in termini di Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 16 negoziabilità e liquidabilità, ovvero nella loro capacità di trasformarsi in contante o depositi e nella loro capacità di consentire transazioni, più liquidi sono e più è facile per gli aggregati trasformarsi in contante. Il primo aggregato monetario è M1, l’aggregato ristretto, ovvero la moneta offerta, tutto il circolante più i depositi. È il più facilmente liquidabile perché il circolante è quanto di più liquido esista ed è l’unica variabile/l’unico asset finanziario che gode della proprietà della liquidabilità. Anche i depositi sono capaci di trasformarsi in mezzi di pagamento praticamente in modo istantaneo e automatico. Il saldo del conto corrente può trasformarsi in un bonifico bancario, volendo anche istantaneo. La capacità di trasformarsi in contante o di consentire transazioni di questo aggregato è massima. Il circolante è già disponibile, il deposito può essere velocemente ed economicamente trasformato in un mezzo di pagamento, quindi consentire transazioni. Un po’meno liquido è M2, ovvero l’aggregato intermedio, che oltre a circolante e depositi, quindi oltre a M1 contiene anche i depositi monetari, quindi quelli con una durata/scadenza inferiore a 2 anni, oppure quelli che hanno una scadenza superiore, ma che sono ritirabili con un preavviso massimo di tre mesi. La capacità di questi due ultimi asset, i depositi sotto i due anni o sopra i due anni, ma con breve preavviso per smobilizzarli, è un po’inferiore a quello del circolante e dei depositi e quindi M2, l’aggregato intermedio, è intermedio in questa classifica, non è così facilmente trasformabile in contante come M1. Se a M2 si aggiungono i titoli obbligazionari con scadenza inferiore a 2 anni o le quote di fondi comuni monetari si ottiene l’aggregato monetario ampio M3. M3 è uguale a M2 più le obbligazioni con scadenza entro i due anni e quote di fondi comuni con un periodo consigliato di investimento sotto i 18 mesi, che è la definizione di fondo monetario. Un’obbligazione con una scadenza fino ai 5 anni sicuramente si può rivenderla prima dei 5 anni, ma bisogna sempre ricordarsi che è negoziabile, quindi si può rivenderla, ma non necessariamente al prezzo di acquisto, quindi magari è una perdita, quindi sì si trasforma in contante, ma non mantiene il valore facciale dell’acquisto. Bisogna sempre distinguere la funzione monetaria, quindi la capacità di uno strumento di essere utilizzato quale unità di scambio e quindi essere moneta e la funzione di investimento (specialmente bisogna fare attenzione con le cripto-valute, perché molte di esse fanno sì parte della moneta digitale, ma non sono tanto utilizzate come mezzo di scambio quanto di investimento. Cioè si acquista una cripto-valuta più per il suo apprezzarsi di valore più che per comprare dei beni attraverso essa). Gli aggregati sono l’anello conduttore, devono essere liquidi perché la banca centrale influenza il costo e la disponibilità di denaro, non di strumenti finanziari, quindi per questo influenza M1, è inoltre molto facile che influenzi M2, ma M3 non è direttamente influenzabile, perché la banca centrale può rendere più costoso o meno costoso il denaro, ma in questo caso per cambiare M3 deve anche influenzare la propensione degli investitori ad acquistare titoli obbligazionari o quote di fondi comuni. Per questo motivo la banca centrale monitora tutti e tre gli aggregati (sicuramente controlla meglio M1 rispetto agli altri perché lo fa direttamente), ma tiene d’occhio in modo particolare proprio M3 perché sì lo controlla di meno, ma in realtà è l’aggregato più stabile. Può influenzare direttamente il circolante, un po’meno direttamente, ma comunque abbastanza facilmente i depositi e mano mano che gli aggregati diventano più illiquidi, meno negoziabili, la banca centrale fa fatica a controllarli ed influenzarli. Ciò nonostante sono interessanti perché danno uno spaccato della fase in cui l’economia si trova. Una definizione più formale di politica monetaria è: un processo a più stadi in cui si fa ricorso a diversi strumenti perseguendo target operativi, intermedi e finali per ottenere un obiettivo primario ed un obiettivo secondario Gli strumenti Sono tre le categorie di strumenti: le operazioni di rifinanziamento marginale, le operazioni di mercato aperto e il vincolo di riserva obbligatoria. Questi sono i tre strumenti che la banca centrale ha per influenzare costo e disponibilità di denaro. Le operazioni di mercato aperto sono quattro: operazioni di rifinanziamento principale, operazioni a più lungo termine, operazioni strutturali e operazioni di fine tuning. La BCE influenza disponibilità e costo di denaro attraverso acquisiti e vendite di titoli tra la banca centrale e le banche. Quando si parla di banca centrale le caratteristiche delle operazioni di mercato aperto sono definite dalla banca centrale europea, mentre questi acquisti tra banche e l’autorità centrale avvengono per il tramite delle banche centrali nazionali. Quindi tecnicamente e fisicamente questi acquisti e vendite di titoli avvengono tra Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 17 le banche europee, quindi le singole banche, e banca d’Italia. Queste banche comprano e/o vendono titoli perché acquistando titoli dalla banca centrale le banche danno liquidità all’ente centrale e quindi quando la banca centrale acquista titoli in realtà rilascia liquidità. La banca centrale compra, le singole banche italiane danno titoli, la banca centrale dà liquidità e quindi la base monetaria aumenta. Al contrario se la banca centrale nazionale vende titoli le singole banche li acquistano e danno liquidità, in quel momento la banca centrale nazionale sta drenando liquidità dal mercato e dunque sta contraendo la base monetaria. Le caratteristiche delle operazioni di mercato aperto, ovvero i tassi, sono determinati dalla BCE, dal punto di vista operativo, fisicamente, i conti di scambio sono tra le singole banche nazionali e la banca centrale nazionale, quindi per l’Italia tra le singole banche italiane e banca d’Italia. La banca d’Italia non può comprare e vendere quello che le pare al costo che le pare, le caratteristiche di queste operazioni sono determinate dalla banca centrale europea per tutte le banche europee, quindi la banca centrale decide, fisicamente gli scambi avvengono tra le singole banche nazionali e la banca centrale nazionale (BCN) e quindi il mercato inteso come gli investitori non entrano in nessun punto di questo scambio, gli acquisti sono tra banche commerciali nazionali singole e BCN secondo le regole del gioco stabilite dalla BCE. BCE decide, a livello operativo agiscono le BCN e gli acquisti e le compravendite avvengono tra banche centrali e singole banche, nessun investitore entra a fare parte di questi scambi ed è questo il motivo per cui si dice che questa è la funzione di trasmissione degli impulsi di politica monetaria, perché essi partono dalla BCE, devono arrivare al mercato, ma in realtà il vero scambio si fa tra banche centrali e banche, quindi le banche hanno la funzione di trasmettere questi impulsi al mercato, in questo caso sono davvero intermediari nel senso pur del termine: si interpongono tra le decisioni della banca centrale e il mercato. BCE decide, BCN operativamente fanno gli scambi con le banche commerciali e a loro volta le banche commerciali hanno questa funzione di trasmettere questi impulsi al mercatoSono 4 le operazioni di mercato aperto e si dicono di mercato aperto perché tutte le banche commerciali (le singole banche) possono partecipare. La più importante in assoluto è il rifinanziamento principale perché queste operazioni si dicono segnaletiche, ovvero indicano qual è in quel momento la politica della banca centrale europea. Segnaletico è il tasso di interesse dei pronti contro termine, quindi quanto cara è quella compravendita di titoli è determinato dal tasso di quella operazione e il tasso di quella operazione sin chiama tasso di rifinanziamento principale ed è segnaletico, perché quando la banca centrale lo cambia. Ad esempio prima si poteva acquistare a pronti al 2,5%, da oggi il tasso di rifinanziamento principale è al 3%, queste operazioni sono più care, quindi la banca centrale non vuole più dare tutta quella liquidità alle banche commerciali e quindi rende più care queste operazioni, per quello sono segnaletiche, segnalano cosa la banca centrale vuole ottenere: se aumentano i tassi di queste operazioni sta rendendo più caro alle singole banche prendere a prestito liquidità, non smette di darla, ma la fa pagare di più, dunque sta cercando di drenare liquidità dal mercato. Il cambiamento di questi tassi indica qual è l’obiettivo della politica monetaria in quel momento. Queste operazioni avvengono a pioggia verso qualunque banca voglia entrare in operazioni del genere ogni settimana e il pronto centro termine dura una settimana. Qualunque banca può entrare e acquistare pronti contro termine. Le operazioni di rifinanziamento a più lunga scadenza invece non sono segnaletiche. Sono effettuate a cadenza mensile e durano tre mesi. Non sono segnaletiche, non interessa quali sono i tassi su queste transazioni, perché in questo caso il volume massimo che la banca centrale mette a disposizione è fisso e preannunciato, ma la BCE non decide il tasso, esso è deciso dal ranking delle offerte delle banche: i migliori tassi offerti si aggiudicano i pronti contro termine a lunga scadenza, quindi la banca centrale europea non decide il tasso, motivo per il quale non è segnaletico. Gli scostamenti di questo tasso non sono determinati dalla banca centrale, non corrispondono a che politica monetaria ha in mente la banca, sono determinati dalle singole banche. Per il resto la struttura è la stessa, cambia la scadenza, cambia la durata e l’importanza del tasso. Il tasso delle operazioni fi rifinanziamento principale invece è fondamentale, è quello che davvero fa capire che intenzioni ha la banca centrale di allargare o di drenare liquidità. Ci sono altre due operazioni, che sono quelle di fine tuning, sono molto flessibili perché non sono segnaletiche, non hanno necessariamente una scadenza predefinita a calendario, generalmente la banca centrale europea non se ne occupa e sono utilizzate dalle banche centrali nazionali (BCN) per fare fronte ad eventuali tensioni di liquidità a livello locale, quindi Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 20 tasso di rifinanziamento principale è compreso nel corridoio. Questi sono i tre tassi importanti della banca centrale: il tasso di rifinanziamento principale, che è il tasso segnaletico per eccellenza, il tasso di rifinanziamento marginale e il tasso di deposito alla giornata. Sono importanti perché l’andamento di questi tassi fa sì che il mercato capisca qual è l’intenzione della banca centrale: se questi tassi diventano più stringenti, quindi i rifinanziamenti salgono vuol dire che la banca centrale sta cercando di drenare liquidità, concede liquidità, ma ad un tasso più alto, ad un prezzo più caro. Se questi tassi scendono significa che la banca centrale sta cercando di dare più liquidità possibile alle banche in modo che esse a loro volta la facciano fluire sui mercati. Nell'ultimo anno il tasso di interesse principale ha iniziato a salire per la prima volta in decenni ed è arrivato al 3% (sempre stato intorno allo 0) e ciò è un messaggio molto chiaro al mercato: la banca centrale sta rendendo sempre più oneroso per le banche prendere a prestito liquidità, sta cercando di drenare liquidità dal mercato. Anche il tasso sui depositi è aumentato dall’1,5 al 3% e il tasso dui prestiti marginali è aumentato fino al 3,25% (per anni anche negativo). Maggiore è la distanza tra i tassi interbancari e quello marginale maggiore è la gravità della situazione in quel periodo storico, maggiore è il messaggio che la banca centrale vuole far passare, perché se si ha bisogno di liquidità per un brevissimo tempo (o si va sul mercato interbancario o se si va a chiederla per una giornata alla banca centrale) si paga un tot e un altro tot si paga se questa liquidità serve per una settimana. Maggiore è la differenza tra i tot e maggiore è l’urgenza con la quale la banca centrale vuole far passare il messaggio che se si è poco stabile e si ha solo un buco va bene, ma non va per niente bene se quel buco diventa una necessità più stabile di liquidità, quindi non si può avere bisogno di liquidità per una settimana intera altrimenti essa viene fatta pagare tantissimo. La distanza è una tolleranza ad una tensione di liquidità. Ci può essere una piccola tensione che può essere sistemata nella giornata, ma è grave se questa crisi arriva ad una settimana, è un enorme incentivo ad avere una gestione della liquidità molto accorta, di modo che le banche non arrivino ad avere bisogno di liquidità per lunghi periodi Le misure non convenzionali Ci sono delle misure non convenzionali o straordinarie alcune delle quali possono essere inserite all’interno delle operazioni strutturali e altre non hanno effetto di lungo periodo perché vengono riassorbite. Sono due le grandi famiglie di operazioni non convenzionali: il quantitative easing e il quantitative tightening. Il primo è l’agevolazione massiva delle condizioni finanziarie sui mercati, non è convenzionale, ma è una misura straordinaria perché generalmente avviene quando la crisi sul sistema finanziario è particolarmente severa. Il caso più eclatante è stato quello effettuato da Mario Draghi in quanto presidente della BCE con la frase “faremo qualsiasi cosa sia necessaria per salvare/mantenere/supportare l’Unione Europea”. Con il termine qualsiasi cosa ha quantificato un quantitative easing senza giorno e senza fondo, ovvero un acquisto enorme e massimo di titoli da parte della BCE. La BCE acquista titoli e dà liquidità. La qualità dei titoli che acquista generalmente deve essere coerente con il tasso che richiede: se le singole banche danno come garanzia titoli molto stabili e altamente negoziabili il tasso che la banca centrale europea richiede è molto basso, perché se anche le banche fallissero avrebbe quei titoli che può vendere. Durante questi periodi di misure non convenzionali i tassi richiesti erano molto bassi e in certi momenti quasi a prescindere dalla qualità degli asset dati in garanzia, ovvero la lista degli asset accettabili si è allungata molto e la qualità delle garanzie richieste si è abbassata di modo che se anche le banche non erano in possesso di garanzie così buone potevano comunque richiedere liquidità alla banca centrale. Questa è non convenzionale perché generalmente le garanzie rispettano determinati criteri. La banca centrale crea base monetaria, acquista titoli dalle banche e concede questi pronti contro termine anche a fronte di garanzie basse, in modo che le banche possono prendere a prestito liquidità dalla banca centrale a poco e darla altrettanto a poco ai prenditori di fondi, in modo che loro investono, spendono e idealmente l’economia esce dalla crisi. Questa è la ragione delle politiche espansive in generale e in particolare di quantitative easing. In questo momento invece si è quasi a rischio quantitative tightening, ovvero l’esatto opposto. Ovvero politiche monetarie molto restrittive che si hanno quando la banca europea non solo distrugge base monetaria, che è fisiologico, ma riduce drammaticamente i titoli di stato o gli asset che ha preso come garanzia. Quindi alzando i tassi e non volendo Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 21 più acquistare asset e titoli la banca centrale drena liquidità dai marcati, se non vuole più acquistare non dà più liquidità in contropartita. Oppure vuole disfarsi di tutti gli asset e di tutti i titoli di stato che le sono stati dati e quindi non vuole più quel genere di asset come garanzia, o se ne danno altri o essa non dà liquidità. Easing significa abbassare la qualità delle richieste interne di garanzie e tightening significa renderle più stringenti, alzare la qualità delle garanzie richieste e quindi drenare liquidità. È quello che sta succedendo e si può evincere anche dal trend del tasso di rifinanziamento principale La riserva bancaria Il terzo strumento è la riserva obbligatoria, che è un deposito molto liquido che le singole banche devono detenere presso la banca centrale nazionale. Devono detenere questo ammontare di liquidità ferma, che non possono investire perché è una sorta di contrappeso e garanzia alla raccolta diretta, che sono i depositi. Più ci sono depositi da parte della clientela e più la banca deve detenere liquidità ferma presso la banca centrale nazionale. Cosa cambia se la si tiene sui conti o nelle riserve? Cambia che non si prende l’interesse e non aumenta la riserva obbligatoria che si deve detenere. La riserva obbligatoria è proprio un ammontare di liquidità che si deve detenere e maggiore è la raccolta diretta, i depositi e maggiore è la quantità che in media si deve tenere sui conti della banca centrale nazionale. La banca centrale remunera questa riserva obbligatoria, ma la remunera al tasso di deposito alla giornata, quindi al tasso più basso del corridoio dei tassi. La riserva obbligatoria si calcola prendendo il bilancio della banca e si identificano tre aggregati: l’aggregato A sono tutti i depositi di durata inferiore a due anni, tutti i titoli di debito con scadenza fino a due anni e tutti i titoli del mercato monetario, ovvero quelli con scadenza inferiore ai 18 mesi. Questo fa capire la funzione della raccolta diretta dei depositi e poi delle obbligazioni che la banca vende, ma a breve termine. Teoricamente la banca deve anche quantificare l’aggregato B, ovvero tutti i depositi vincolati sopra i due anni, tutte le operazioni di pronto contro termine e tutti i titoli di debito con scadenza sopra i due anni. L’aggregato A è più liquido, sotto i due anni, e l’aggregato B le stesse cose, ma con scadenza più lunga. Bisogna epurare questo calcolo dalle passività verso la BCE, tutte la passività verso la BCN e tutte le passività verso le altre banche. Quindi si vuole tenere soltanto depositi e le passività verso la clientela. Il calcolo è l’1% dell’ammontare che risulta dall’aggregato A, si sommano tutti i depositi con scadenza minore di 2 anni, i titoli di debito sotto i due anni, i titoli di mercato monetario... Questa quantità va tenuta fissa e ferma presso la banca centrale nazionale sottoforma di riserva obbligatoria. Bisogna quantificare anche l’aggregato B perché normalmente ad esso va applicato lo 0%, ovvero non viene contato, ma in momenti particolarmente complessi la banca centrale europea potrebbe decidere di aumentare la richiesta di riserva obbligatoria applicando una percentuale anche all'aggregato B, quindi non solo l’1% dell’aggregato A, ma anche lo 0,1 o lo 0,2 o lo 0,5 o l’1%... dell’aggregato B. Ad oggi l’aggregato B ha un coefficiente di riserva dello 0%, non viene conteggiato. La franchigia a 100mila euro significa che se l’1% dell’aggregato A è sotto i 100mila euro quella banca non deve riserve obbligatorie. Se l’1% è superiore a 100mila allora la banca deve come riserva obbligatoria quel certo ammontare superiore. Se c’è anche l’aggregato B la riserva obbligatoria è pari all’1% dell’aggregato A più la certa percentuale data dell’aggregato B. Non bisogna assolutamente inserire le passività verso altre banche e verso le banche centrali, europea e nazionali. Gli obiettivi della riserva obbligatoria sono principalmente due: stabilizzare i tassi e aumentare o allentare il fabbisogno di liquidità. La banca europea utilizza questi strumenti, tra cui la riserva obbligatoria, per influenzare disponibilità e costo del denaro, quindi il fatto che la riserva obbligatoria abbia tra i suoi obiettivi quello di modificare il fabbisogno di liquidità è coerente. Ad esempio la riserva obbligatoria, quindi l’1% dell’ammontare dell’aggregato A, è pari a 1milione di euro. Essendo sopra i 100mila si deve tenere 1milione di euro sottoforma di riserva obbligatoria. In media durante il periodo di mantenimento bisogna mantenere quel milione di euro sottoforma di riserva obbligatoria, cioè la banca può utilizzare parte di quella liquidità a patto che in media durante il periodo di mantenimento quel minimo di riserva obbligatoria, cioè 1milione, venga mantenuto. Quindi oggi si può anche ritirare tutto il milione di riserva obbligatoria, ma bisogna fare sì che quello 0 di oggi in media sia sovrappesato nei giorni successivi. Quindi se il giorno dopo si hanno 2 milioni di euro va bene, perché in media si è mantenuto un milione di euro. Non si deve tenerla necessariamente ogni giorno, ma Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 22 bisogna tenere la riserva obbligatoria allineata con la richiesta del legislatore in media durante il periodo di mantenimento. Il periodo di mantenimento generalmente oscilla tra 6 e 7 settimane e viene fissato il calendario ufficiale della BCE. In media in 6 settimane ogni banca deve detenere l’ammontare minimo di riserva obbligatoria e va bene solo in media, alla banca centrale non interessa se per un giorno la banca prende (smobilizza) una parte o totalmente quella riserva. In media la giacenza di quella riserva obbligatoria presso i conti della banca centrale nazionale è pari ad 1 milione, all’1% dell’aggregato A. Se la singola banca ha bisogno di liquidità prima di andarla a chiedere alla banca centrale europea, che fa pagare il tasso più alto possibile o comunque un tasso molto alto, e al mercato interbancario può prenderne un po’dalla propria riserva obbligatoria, a patto che compensi questa liquidità che prende nell’arco del periodo di mantenimento. Ciò stabilizza i tassi perché non crea quei picchi di domanda sul mercato interbancario né presso la BCE, perché possono attingere a questa riserva e smobilizzare anche il 100%, quindi parte della richiesta di liquidità una banca può gestirla in autonomia prendendo in tutto o in parte la liquidità che chiede ferma presso la banca centrale nazionale. Per questo c’è questa funzione di stabilizzazione dei tassi, perché fa sì che un aumento della richiesta di liquidità possa essere gestito in autonomia semplicemente andando a prendere la liquidità necessaria dalla propria riserva obbligatoria senza dover andare a richiederla sul mercato interbancario o alla BCE. 6 o 7 anni, il periodo più breve fa sì che il controllo della banca centrale europea sia più stringente, ci sono meno probabilità di prendere e tenere questa liquidità sui propri conti invece che lasciarla nella riserva, quindi sarebbe un controllo molto stringente. Più breve è il periodo di mantenimento e più la singola banca deve gestire in modo accorto la liquidità che prende. La sanzione se non si rispetta c’è ed è pecuniaria. È una funzione indiretta di stabilizzazione dei tassi. La seconda funzione invece è il fabbisogno di liquidità: visto che ci sono questi tassi che determinano quanta porzione dell’aggregato A e idealmente dell’aggregato B, l’aumentare di quei tassi aumenta la quantità di liquidità che una banca deve detenere (se al posto dell’1% dovesse tenere il 5%), se invece si abbassassero la banca centrale sta cercando di rilasciare liquidità alle banche. Quindi il fabbisogno di liquidità è governato dalle due percentuali di A e di B da tenere. È relativamente nuovo il tasso all’1%, perché storicamente è sempre stato il 2% I target Servono dei target, la banca centrale europea non può decidere di fare una politica più stringente ed alzare i tassi. I target servono per vedere se l’obiettivo è raggiunto oppure no. La politica monetaria è come un nastro trasportatore, da un lato ci sono le banche centrali che mettono il loro denaro sul nastro sperando che raggiunga il mercato, ma non sanno esattamente di quanto denaro c’è bisogno perché ne arrivi sul mercato, perché in mezzo ci sono le banche e se esse svolgono la loro funzione di trasmissione degli impulsi di politica monetaria, allora ciò che viene messo sul nastro e ciò che arriva al consumatore finale è praticamente identico, ma se le banche iniziano a fare credit crunch o comunque non trasferiscono questi impulsi si continua a mettere denaro sul nastro, ma al consumatore finale non arriva nulla, per questo c’è bisogno di target intermedi su questo nastro che dicano effettivamente che la quantità di moneta che si è cercato di sbloccare sta arrivando sul mercato e sta dando gli effetti sperati. Non si può aspettare che sul mercato si crei l’effetto sperato perché il nastro è molto lungo e quindi se al consumatore finale sta arrivando la moneta sperata allora ciò significa che sul nastro c’è molta altra moneta ancora che sta arrivando e quindi alla fine di tutta la politica al consumatore finale arriva più di quella che era necessaria. Per questo si ha bisogno di target intermedi, che lungo il percorso dicano se sta arrivando o no. Potrebbe essere che una parte non arrivi perché gli intermediari la rimandano alla banca centrale: la prendono con un rifinanziamento marginale e ridato direttamente con un’operazione di deposito, in quel modo tutta la liquidità che la banca ha dato l’ha ritrovata sui propri depositi e non è arrivata al mercato. I target sono: operativi, intermedi e finali. Quelli che si attivano per primi sono quelli operativi, che reagiscono subito alle politiche della banca centrale, in seconda battuta agiscono quelli intermedi, quando si attivano il legislatore sa che la sua moneta sta arrivando sempre più vicino al mercato, e per ultimi quelli finali, vuol dire che effettivamente può iniziare a smettere ed invertire la sua politica perché l’obiettivo finale è quasi raggiunto. Le prime variabili ad attivarsi e a rispondere alle politiche monetarie sono le riserve bancarie e i tassi di mercato, che sono i tassi sul mercato finanziario, Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 25 CAP 4 – GLI STRUMENTI FINAZIARI Gli strumenti finanziari Il surplus di potere d’acquisto delle famiglie fluisce verso i soggetti in deficit, che tipicamente sono imprese e stato, in modo autonomo tramite i mercati o tramite broker o tramite asset transformer. A fronte dei risparmi che le famiglie elargiscono agli intermediari, ai broker o ai mercati, queste possono avere in contropartita obbligazioni o azioni, contratti di investimento, quote di fondi comuni, contratti di deposito... in funzione di chi sia la controparte. Dall'altra parte negli scambi intermediati gli intermediari trasformano questi risparmi in contratti di prestito, ma gli stessi soggetti trasformano i loro contratti di prestito in obbligazioni e azioni che tornano sui mercati. Un’economia caratterizzata da una fluida funzione creditizia deve avere un buon grado di finanziarizzazione, ovvero devono poter esistere dei contratti che contengano il risparmio delle famiglie affinché questo possa fluire in modo standardizzato ai soggetti in deficit. Gli strumenti finanziari sono proprio questi contratti particolari che hanno come oggetto sottostante lo scambio di potere d’acquisto: i soggetti in surplus scambiano potere di acquisto attuale aspettandosi un potere di acquisto futuro maggiorato. In questa maggiorazione ci sono i tassi di interesse. Quando si parla di strumento finanziario, di attività finanziaria e di asset si intende utilizzarle questi termini come sinonimi perfetti, ci si sta riferendo alla medesima tipologia di contratti, ovvero a quelli che hanno come sottostante una prestazione finanziaria, uno scambio di potere di acquisto. Il fatto che la ricchezza reale possa essere incorporata in questo tipo di contratti, quindi che l’economia sia finanziarizzata, è un bene perché ne aumenta moltissimo il grado di negoziabilità e quindi fa di questo surplus di ricchezza una quantità molto più facilmente trasferibile. Non si va in giro a cercare una controparte che voglia prendere a prestito il mio surplus, ma semplicemente si acquistano degli strumenti, degli asset, delle attività finanziarie standardizzate sui mercati e quindi si sa esattamente al momento dell’acquisto cosa aspettarsi in termini di taglio, di durata dell’investimento, di rendimento atteso. In primis cosa caratterizza e quindi cosa differenzia le diverse attività finanziarie è la natura del rapporto contrattuale, è la cosa fondamentale e più importante. Come secondo la natura dell’emittente, ovvero dell’attore finanziario che crea lo strumento finanziario e che lo mette a disposizione degli investitori sui mercati, è colui che emette (crea e vende, cerca di collocare) lo strumento. Dunque in funzione della natura dell’emittente si possono aver asset creati ed emessi da enti governativi oppure asset creati ed emessi da enti privati. Il terzo elemento è la valuta di denominazione, che ha un effetto molto importante e rilevante sul tasso di rendimento. Si può avere uno strumento denominato in euro, quindi in valuta locale, o in valuta estera qualsiasi essa sia. È importante perché il tasso di cambio tra valuta locale e valuta estera è uno degli elementi che vanno considerati per il calcolo del tasso di rendimento effettivo. Ad esempio si acquista un’obbligazione in rubli ed essa di per sé va molto bene, ma alla scadenza il creditore, ovvero colui che ha venduto quell’obbligazione, ridà il valore facciale, ovvero quanto si è pagato più gli interessi. Se nel frattempo però il rublo si è svalutato del 40% quell’interesse assoluto non conta nulla, perché si sarà sì guadagnato il tasso di interesse, ma se nel frattempo il rublo si è svalutato così tanto in quel periodo nei confronti dell’euro il valore reale/il rendimento effettivo di quell’investimento è negativo. Il quarto elemento è la durata del contratto, tutti gli strumenti finanziari sono contratti a prestazioni differite nel tempo: oggi si presta del potere di acquisto affinché un domani, quindi alla fine del contratto/alla scadenza questo possa tornare arricchito del tasso di interesse. Il fatto che la prestazione sia dilazionata nel tempo fa sì che la solidità finanziaria dell’emittente possa peggiorare e quindi potrebbe manifestarsi anche il caso in cui durante la vita contrattuale dello strumento l’emittente non sia più in grado di onorare il prestito. Quindi si può aver acquistato un’obbligazione decennale, ma se alla fine dei 10 anni l’emittente di quella obbligazione non è più in grado di restituire il valore facciale dell’investimento, allora c’è un problema. Più lunga è la durata contrattuale a parità di tutte le altre condizioni maggiore è il tasso di rendimento che si richiede, perché maggiore è il rischio che la solidità finanziaria dell’emittente possa deteriorarsi. Per questo motivo generalmente i contratti sono distinti tra quelli a breve, a medio e a lungo termine. Le durate possono cambiare negli anni, ma ad oggi il breve termine è considerato sotto i 12 mesi o sui mercati internazionali sotto i 18 mesi, il medio termine è dai 2 ai 10 anni, il lungo termine oltre i 10 anni. Ci sono anche titoli perpetui, Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 26 che non hanno scadenza, e obbligazioni perpetue, che non prevedono il rimborso a scadenza. Un altro elemento fondamentale è la negoziabilità, quanto facilmente liquidabile sia l’investimento che si sta analizzando. La negoziabilità è la velocità e la facilità con la quale uno strumento si può trasformare in moneta contante. Un altro elemento da valutare è il trattamento fiscale. I titoli governativi italiani sono tassati al 12,5%, ovvero la rendita derivante da questi titoli è tassata al 12,5. Mentre le altre rendite finanziarie derivanti da investimenti privati sono tassate al 26% (fino a pochi anni fa era al 20%) Il rischio e il rendimento L’ultima caratteristica è poi quella del rischio e rendimento. Ci sono modalità di valutazione del rischio e misure che quantificano il rendimento, ma in realtà bisogna sempre guardare ai RAPM, ovvero degli indicatori che contengono contestualmente valutazioni sul rischio e sul rendimento, misure di rendimento aggiustate/ponderate per il rischio. Il rendimento è il fine ultimo dell’acquisto di uno strumento finanziario, si acquista affinché il potere di acquisto attuale di cui ci si priva aumenti in futuro. Il rendimento inoltre deve anche essere proporzionale al rischio, il rischio dipende dalla solidità dell’emittente, dalla natura del contratto e dalla durata dell’investimento. Il tasso di rendimento è quella percentuale che dice qual è il guadagno rispetto al valore/quantità di denaro che si è investito. Comprende gli eventuali flussi di cassa che l’emittente stacca durante la vita dell’investimento, si può quindi comprare un’obbligazione quinquennale e ci si può aspettare una cedola semestrale, si compra oggi un’obbligazione che dura 5 anni, ma ci saranno 10 cedole intermedie, perché ogni 6 mesi l’emittente stacca una cedola, cioè paga un pochino del tasso di rendimento. Non bisogna confondere il tasso cedolare con il tasso di rendimento complessivo: se un’obbligazione dà una cedola del 2% non significa che il tasso di rendimento di quell’obbligazione sia del 2%, perché all’interno del tasso di rendimento bisogna anche considerare l’eventuale spread e cambio di prezzo tra il prezzo di acquisto e il prezzo o di vendita o il valore nominale che viene riconsegnato in scadenza. Un’obbligazione quinquennale non implica necessariamente che si debba tenerla per cinque anni in portafoglio, dura 5 anni, ma durante questo periodo si può decidere di rivenderla a qualche altro investitore, ad esempio la si rivende dopo 2 anni e aver incassato 4 cedole, quindi la differenza tra il prezzo alla quale la si rivende e il prezzo alla quale la si è acquistata deve essere considerata all’interno del rendimento. Se si è acquistata un’obbligazione quinquennale con una cedola semestrale del 5%. La si è acquistata a 100 e ogni 6 mesi ci si aspetta 5. Dopo 2 anni la si rivende perché si ha bisogno di denaro o perché sui mercati finanziari ci sono strumenti con un rendimento superiore e quindi ci si vuole spostare. Può succedere o che la si rivende in perdita, dunque sul mercato in quel momento ci sono delle persone disponibili ad acquistate l’obbligazione, ma a massimo 90. il rendimento totale dunque non è solo quello delle cedole, ma anche lo spread tra i 100 già pagati e il prezzo finale a cui si è riusciti a venderla. C’è un 10% di perdita secca che deve essere contemplato all’interno del calcolo del rendimento totale: non si sono solo guadagnato 5 per 4 cedole semestrali, ma si è anche perso 10. Quindi complessivamente non è vero che il rendimento di quella obbligazione è il 5%, che è il rendimento cedolare, ma va considerata anche la perdita secca che si è registrata. Oppure può succedere che si vende quella obbligazione in un momento propizio in cui sul mercato è molto richiesta e quindi si riesce a venderla alla pari o a 110. Quindi quel 10% extra va sommato al 5% di tasso cedolare. Quando si calcola il rendimento non bisogna solo calcolare il rendimento cedolare, ovvero il surplus di liquidità che viene periodicamente remunerato dall’emittente, è soltanto una componente del rendimento complessivo. Il tasso di rendimento complessivo è sì determinato dai flussi di cassa intermedi, quindi delle cedole se si sta parlando di obbligazioni o dei dividendi se si sta parlando di azioni, ma bisogna anche considerare la differenza tra prezzo di acquisto e di vendita se la si vende o prezzo di acquisto e di rimborso se la si tiene fino a scadenza. Nella maggior parte dei casi il rimborso a scadenza avviene al nominale, ovvero al valore che deve essere restituito a scadenza che è pari al prezzo di acquisto, ma non è necessariamente detto che il prezzo di acquisto e il rendimento sono uguali. Ci sono altri due elementi da considerare quando si calcola il tasso rendimento, uno di questi è il tasso di cambio: se l’obbligazione è comprata in dollari bisogna stare molto attenti a come oscilla in questi 5 anni il cambio euro-dollaro, perché se il dollaro diventa troppo forte rispetto all’euro quando si va a convertire il rendimento in euro esso non è Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 27 uguale al rendimento che si avrebbe in dollari. Ogni volta che si compra un’obbligazione estera bisogna guardare se ci aspetta che il cambio con gli euro della valuta di quello specifico asset rimarrà stabile nell’arco di tempo di investimento, perché nel bene e nel male se le valute oscillano si può guadagnare un po’di più se la valuta si apprezza o un po’di meno se si deprezza. L’ultimo elemento è l’inflazione: se si ha un tasso di inflazione superiore al tasso di rendimento in realtà il rendimento reale è negativo. Se si ha un tasso di rendimento del 5% e un’inflazione dell’8,5% allora si guadagna sì il 5%, ma i prezzi di tutto quello che si acquista si apprezzano dell’8,5%, si è quindi perso meno di quanto si sarebbe perso se si fosse lasciata ferma la liquidità, ma comunque si è perso un certo spread. Non è stato un problema per tanti anni, perché l’inflazione era bassissima ed intorno allo 0 per un lungo periodo, ma ora bisogna tenere conto del tasso inflattivo. Quindi il rendimento di un’attività finanziaria non e solo rappresentato dagli stacchi di cedole o dividendi, ma anche dalle variazioni del prezzo di quelle attività finanziarie, dalle variazioni dei tassi di cambio se l’attività finanziaria è in valuta estera e dalle variazioni del tasso di inflazione. Il rendimento è parametrato al rischio dello strumento: più lo strumento è rischioso e più il rendimento atteso sarà alto. Maggiore è la rischiosità dell’asset class, ovvero insiemi omogenei di attività finanziarie, maggiore è il rendimento atteso. Il rendimento atteso è quello che ci si aspetta, quello ex post è quello che effettivamente si ottiene quando si chiude il proprio investimento. Da una liquidità ci si può aspettare un rendimento bassissimo, lasciare soldi sul conto corrente non rende nulla, ma anzi al netto nei bolli si paga. I bond governativi sono un po’più rischiosi, ci si può aspettare un rendimento anche se contenuto essendo poco rischiosi, anche la banca centrale li utilizza come asset preferito perché sono idealmente le attività finanziarie meno rischiose. Le azioni emesse da emittenti privati, che hanno alto rendimento rispetto al resto del mercato obbligazionario essendo obbligazioni ad alto rischio. Storicamente c’è sempre stato uno stacco tra il rendimento che ci si può aspettare da un’obbligazione e quello che ci si può aspettare da una azione, quindi ci si può aspettare un rischio e quindi un rendimento medio-alto da un’azione quotata sui mercati, che si alza ulteriormente se si facendo un investimento su un’azione, ma non quotata, da un emittente privato e ancora di più se si sta cercando di finanziare un’impresa ad alto potenziale, ma all’inizio del suo sviluppo. Aumenta il rischio e aumenta il rendimento atteso, con uno stacco fisiologico tra obbligazioni e azioni, proprio come natura contrattuale questi due strumenti sono così diversi. Questa è la teoria, ma poi la pratica può essere diversa: sui mercati emergenti il tasso di rendimento può essere nettamente superiore a quello di un’azione quotata emessa da un paese occidentale ben messo dal punto di vista politico. La parte fondamentale per determinare rischio e rendimento è la natura del contratto, il tipo di rapporto contrattuale; è solo una delle caratteristiche viste, ma è la più importante e di solito basta a trascinare il rendimento: più la natura del contratto è rischiosa e più ci si aspetta un rendimento superiore, ma ci sono anche altre caratteristiche che a volte riescono a sovra pesare la prima. Ad esempio se il contratto è obbligazionario e quindi non molto rischioso o quantomeno non rischioso quanto quello azionario, ma la natura dell’emittente è privata e di un paese emergente, quindi con un rischio politico molto alto, di conseguenza anche la valuta di denominazione è molto volatile, la durata contrattuale è molto lunga e con una bassa negoziabilità. L’obbligazione è sì meno rischiosa dell’obbligazione, ma se ha queste aggravanti l’emittente per convincere qualcuno ad acquistarla deve offrire un tasso di interesse elevato. Rischio e rendimento però vanno sempre di pari passo, dunque se un’obbligazione ha un rendimento più alto di un’azione probabilmente essa è più rischiosa La natura dell’asset Ce ne sono quattro più una ibrida. Il grosso spartiacque è tra le attività finanziarie con natura di indebitamento, ovvero le obbligazioni/bond e con natura di partecipazione, ovvero le azioni/equity. La differenza sostanziale è che le obbligazioni prevedono la rinuncia a qualsiasi forma di ingerenza della gestione dell’emittente: se si acquista un’obbligazione di una impresa si diventa semplicemente un creditore, l’obbligazionista non ha nessuna voce in capitolo su come l’impresa venga gestita, ma ci si può aspettare una remunerazione. Dunque se la natura del contratto è di indebitamento il diritto alla remunerazione è sancito. Oltre alla remunerazione si ha diritto anche alla restituzione del capitale a scadenza e nel caos l’emittente fallisse durante la durata del contratto gli obbligazionisti sono tra i primi ad essere rimborsati (con la liquidità Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 30 esserci più l’emittente, potrebbe esserci un’inflazione così alta che 100 tra quattro anni non serviranno a niente. Per questo motivo si deve scontare per il tempo tutti i flussi che si ottengono in futuro: più è remoto, quindi lontano dal tempo 0 questo futuro, maggiore è il tasso al quale si deve scontare. Le quattro cedole sono uguali, hanno la stessa grandezza, ma la prima cedola parità di tutto il resto è meno rischiosa della quarta, perché per riceverla si deve aspettare soltanto un anno e non quattro. Quindi il valore attuale, ad oggi, della prima cedola è maggiore del valore attuale dell’ultima, si deve scontare ad un tasso maggiore a quarta cedola rispetto alla prima, semplicemente perché a parità di tutto si deve aspettare più tempo per vederla fisicamente materializzarsi in portafoglio. Per questo motivo il valore secco della cedola, i 5 euro nell’esempio, devono essere scontati per 1 più un tasso di sconto elevato al tempo che si deve aspettare. Dunque questo denominatore cresce passando dalla prima alla seconda cedola, perché al posto di t ci sarà prima t al quadrato, poi t al cubo, poi t alla quarta... Quindi a parità di tutto il resto questa quantità aumenterà e quindi la cedola può rimanere fissa a 5 ma la si dividerà per una quantità che cresce nel tempo proprio in funzione del tempo. Il vero tasso di rendimento di una obbligazione è il TRES, tasso di rendimento effettivo a scadenza: viene calcolato come quel tasso i che rende uguale il prezzo di acquisto, il prezzo che si paga oggi, al valore attuale di tutti i flussi futuri, che è la prima cedola diviso 1 + il TRES alla prima, più la seconda cedola diviso 1 + il TRES alla seconda, più la terza cedola diviso 1 + il TRES alla terza, più la quarta cedola diviso 1 + il TRES alla quarta, più il valore di rimborso a scadenza (i soldi pagati inizialmente) diviso 1 + il TRES alla quarta. Tutta questa sommatoria è eguagliata al prezzo di acquisto ed è un’equazione ad un’incognita, ovvero il TRES, quindi si riesce a ricavarlo. Il prezzo di acquisto quindi deve essere uguale alla somma dei valori attuali dei flussi futuri. Non si può semplicemente fare 5+5+5+5+100, perché non è vero che oggi la promessa di quei pagamenti futuri valga quanto il loro valore nominale, non è vero che la promessa di un pagamento di 100 tra 4 anni oggi vale 100 euro perché si deve aspettare 4 anni per averli il portafoglio, è un rimborso rischioso e si deve scontare questo rischio. Questa quantità dunque non varrà 100, ma 100 diviso 1 + il TRES alla quarta. Il prezzo e il rendimento in particolare di un titolo a tasso fisso sono inversi: maggiore è il prezzo minore è il rendimento: se si ha un’obbligazione che promette un rendimento atteso del 5% e la si paga 100, tra un anno sul mercato escono nuove obbligazioni dello stesso emittente che promettono un rendimento dell’8%, che quindi è cresciuto. Il prezzo della prima obbligazione dunque scenderà perché nessuno vuole un’obbligazione che promette il 5% quando sul mercato c’è un’obbligazione identica che promette l’8%? Per questo se i tassi sul mercato salgono il prezzo dell’obbligazione a tasso fisso scende, la probabilità di trovare qualcuno che voglia acquistare la prima obbligazione diminuisce. Se si vuole smobilizzare il proprio investimento si deve farlo accontentatosi di un prezzo inferiore, perché si deve compensare con un prezzo inferiore il fatto che colui che acquisterà l’obbligazione riceverà solo il 5%, quando avrebbe potuto ricevere l’8%. Per questo prezzo e rendimento sono inversamente proporzionali La curva dei tassi La curva dei tassi è una descrizione grafica delle aspettative di mercato sull’andamento dei tassi di interesse, ovvero è un grafico che esprime come nell’arco del tempo il mercato si aspetta che i tassi di rendimento cambieranno. Quindi non è una fotografia di come sono adesso i tassi attuali, ma di come oggi mi aspetto che i tassi cambieranno in futuro. Le aspettative cambieranno nel tempo, dunque la curva dei tassi può cambiare forma, perché cambiano le aspettative sui tassi futuri. Per disegnare le curve dei tassi è necessaria la scadenza degli investimenti che ci sono su quel mercato, ad esempio sul mercato obbligazionario con emittente lo stato italiano si hanno titoli ad un anno, a 5 anni, a 10... e nel frattempo ce ne sono altri che scadono e dunque vanno a coprire i buchi intermedi. Si ha poi bisogno del rendimento effettivo a scadenza. È il grafico di come ci aspetta che i tassi cambieranno su uno specifico segmento di mercato, ovvero su strumenti che sono uguali in tutto tranne che nella durata, quindi si riesce a dare un prezzo al passare del tempo. Ad esempio se un'obbligazione di 2 anni dà il 3% e una uguale in tutto, ma di 10 anni dà l’8% si ha una misura pulita di quanto costa e quanto viene pagato quel periodo aggiuntivo di tempo. Le quattro principali forme delle curve dei tassi sono: la curva dei tassi sana e fisiologica si ha in un’economia sana in cui gli strumenti a breve hanno un rendimento atteso inferiore rispetto a quelli a lungo, a parità di tutto il resto. Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 31 Il problema però è che “a parità di tutto il resto” sul mercato non esiste: si possono considerare casi limite in cui due emittenti sul mercato sono uguali in tutto tranne che nella durata della loro obbligazione e questo è uno dei limiti, ovvero che è una rappresentazione molto pulita, si fa finta che gli emittenti di quel segmento di mercato hanno obbligazioni identiche in tutto tranne che nella durata. Quindi se un’obbligazione scade tra 2 anni o tra 10 è evidente che quella che scade tra 2 paghi di meno di quella che scade tra 10. Ma negli ultimi decenni si sono viste moltissime curve con attitudini differenti: discendente in cui i titoli a breve a parità di tutto il resto pagavano di più di quelli a lungo o ancora più comune quella in cui i titoli a breve e medio termine pagano molto e quelli a lungo pagano meno. Rischio e rendimento vanno di pari passo. Questa ultima curva dei tassi è giustificata dal fatto che ultimamente l’incertezza sui mercati è molto elevata e il mercato pensa che nel breve periodo la situazione finanziaria-economica-politica sarà molto incerta, ma se il mercato sopravvive nel breve-medio il pericolo è scampato, quindi i suoi tassi potranno tornare quelli fisiologici. È una forma di incertezza nel breve periodo: se in questi mesi di grossa crisi l’emittente/settore di mercato sopravvive, allora una volta passato quel pericolo non avrà problemi. È la classica curva di un emittente sano che affronta un problema temporaneo. Se supera quel periodo i tassi torneranno a scendere, non si avrà più bisogno di promettere tassi così alti affinché qualcuno compri le obbligazioni, perché il rischio nel lungo periodo è medio-basso. La curva non fisiologica dunque è dovuta ad incertezza contingente che ha messo sotto pressione alcuni segmenti di mercato agenti Gli strumenti derivati Sono degli strumenti sintetici, ovvero che il loro valore deriva dal sottostante, dall’asset sul quale sono costruiti. Questo asset, qualunque esso sia, si chiama attività sottostante/sottostante e la sua natura può essere duplice: o finanziaria, cioè gli strumenti derivati seguono in vario modo l’andamento di un asset finanziario, uno strumento finanziario, un’azione, un’obbligazione..., o reale, cioè gli strumenti derivati seguono in vario modo l’andamento di una materia prima (ad esempio l’oro, il piombo, il gas naturale, il petrolio, il caffè...) o di un paniere di questi asset (ad esempio del mercato energetico, agricolo...). Di per sé il derivato non ha delle specificità o caratteristiche proprie, ma derivano le loro caratteristiche dal sottostante. Tuttavia ci sono diverse specificità che distinguono diverse tipologie di derivati. Anche se non hanno un valore intrinseco sono importanti. Speculativo non ha accezione negativa, ma significa investire per ottenere il massimo del rendimento possibile. Gli strumenti derivati sono derivati con una finalità di copertura, ovvero quando l’investitore possiede in portafoglio un asset e poi acquista il derivato costruito su quel medesimo asset. Ad esempio si ha un’azione di una certa società e affinché lo strumento derivato che si compra sia di copertura bisogna comprare un’opzione costruita sul medesimo strumento, quindi sulle azioni di quella società. I derivati possono essere lunghi o corti: si va lungo quando si ha lo strumento in portafoglio e si compra il derivato che aumenta proporzionalmente all’aumentare del valore del sottostante, si va nella stessa direzione dell’esposizione dell’investimento (se va bene l’azione della società andrà bene anche il suo derivato, se scende il valore dell'azione scende anche il valore del suo derivato), si va invece in corto quando l’andamento del derivato è inversamente proporzionale all’andamento del sottostante, se l’azione della società va bene e si alza di un punto, il derivato di copertura scende di un punto, più va bene il sottostante meno performa il derivato, più va male il sottostante meglio performa il derivato. I derivati corti dunque vanno al contrario, l’andamento del derivato è contrario all’andamento del sottostante. La finalità di copertura di un derivato si ha quando si ha in portafoglio il sottostante e si acquista un derivato che ha come sottostante lo stesso strumento: si ha l’azione e si compra un derivato costruito su quella medesima azione. Se il derivato deve avere una funzione di copertura deve coprire in tutto o in parte l’investitore da eventuali andamenti negativi del sottostante, quindi se deve coprire da un andamento inatteso negativo delle azioni si comprerà un derivato di copertura corto, perché deve andare a coprire le perdite potenziali dell’investimento, quindi il comportamento del derivato deve essere opposto: se il titolo sottostante scende il valore del derivato deve salire. Se si ha un’azione di una società e si compra un derivato di copertura se il titolo sottostante scende il derivato corto sale, se il titolo sottostante sale il derivato corto scende. Si perde da una parte e si guadagna dall’altra. Se si fa una copertura perfetta ci si mette al riparo da qualsiasi Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 32 andamento inatteso derivante dal sottostante, ma non ci si guadagna niente, perché tutto ciò che si guadagna dal sottostante viene bilanciato da ciò che si perde dal derivato e viceversa. La copertura dunque ha senso se è parziale: si ha 100mila euro investiti in azioni di una società, se ad un certo punto diventa più volatile di ciò che si pensa ci si copre con 30/40/50mila euro di derivati di copertura short su quelle azioni in modo tale che se effettivamente le azioni perdono di valore si perde solo 70/60/50mila euro e non 100mila. Le coperture possono anche essere del 100%, quindi totali, per coprire 1 a 1 l’investimento, ma ha poco senso in un’ottica di lungo termine, se lo si prende invece per un brevissimo tempo ci si copre solamente quando serve. Un derivato è di copertura se è costruito su uno strumento che si ha già in portafoglio. Generalmente si procede ad una copertura parziale nel momento in cui si vede che gli indici di mercato di un investimento che si possiede non sono ottimali, ovvero l’investimento è più volatile di quanto si sperasse e non dà i risultati attesi, ma non si può o non si vuole liquidarlo. Ad esempio se si hanno 100mila di investimento si può decidere di coprirne il 40%, quindi si comprano 40mila euro di derivati a corto su quello strumento, in modo tale che per ogni euro perso sull’investimento si guadagnano 40 centesimi dal derivato e quindi si copre/compensa parzialmente la perdita. Se invece in portafoglio non si ha lo strumento finanziario sottostante, ma si compra solo il derivato, allora quel derivato ha natura speculativa: ad esempio non si hanno in portafoglio le azioni di una certa società, ma si vuole scommettere che quelle azioni andranno particolarmente bene e quindi si potrebbe decidere non di comprare fisicamente le azioni, ma di comprare uno strumento a lungo che guadagni quando le azioni di quella società guadagnano e che perdi quando esse perdono. È quindi uno strumento che segue in maniera passiva l’andamento delle azioni, che non si hanno in portafoglio. Quando invece si prende uno strumento derivato short su azioni che non si possiedono si sta scommettendo che le azioni di quella società andranno male. Se effettivamente le azioni vanno male si guadagna perché il derivato si comporterà in modo inversamente proporzionale. È speculativo perché non si ha il sottostante, non ci si sta coprendo, ma si sta solo commettendo sull’andamento futuro di quel determinato titolo. Ci sono derivati su qualunque cosa: se ad esempio si pensa che l’euro si deprezzerà nei prossimi mesi si può comprare un derivato a corto sull’euro e si guadagnerà da esso per ogni punto percentuale di deprezzamento dell’euro. Oppure ad esempio se si è un esportatore di grano si può comprare un derivato di copertura sul prezzo del grano in modo tale che se il prezzo futuro del grano scende si perderà dall’attività di export, ma si guadagnerà dall’attività di copertura. Gli strumenti derivati sono molto specifici, generalmente offrono una copertura per un determinato periodo di tempo, quindi si può comprare un derivato che copri per un mese, per tre, per sei... È molto importante la scadenza perché cambia giornalmente il mercato ed i valori dei derivati. Soprattutto quelli legati alle materie prime, in funzione anche del meteo. Sono contratti molto specifici sia nel tempo sia nel sottostante, ad esempio gli strumenti sul petrolio devono specificare esattamente di che tipo di petrolio si tratta, esistono almeno sei tipologie di petrolio differente con mercati differenti e con coperture differenti. Possono esserci strumenti che coprono per l’andamento del sottostante per lunghissimo tempo, ma sono molto cari perché gli shock che il sottostante può avere sul lunghissimo periodo sono tantissimi. Se invece il derivato ha una durata più corta si riesce a predire in maniera più precisa l’andamento del sottostante e quindi a prezzare in maniera più economica lo strumento. Spesso i derivati non seguono in maniera direttamente o inversamente proporzionale così perfetta l’andamento del derivato, ma spesso sono a leva, ovvero amplificano di un fattore, che corrisponde alla leva, l’andamento del sottostante. Ad esempio uno strumento a corto con leva 2 implica che per ogni 1% che le azioni della società guadagnano il derivato perde il 2%, per ogni punto che guadagna il sottostante il derivato ne perde il doppio e viceversa. Se il derivato è a leva l’andamento del derivato cambia seguendo il fattore di leva, leva 2 amplifica di due volte guadagni e perdite, leva 3 di 3 volte, leva 7 di 7 volte... Anche i derivati a lungo possono essere a leva. Gli investimenti corti funzionano tramite le vendite allo scoperto, ovvero si vende senza avere l’investimento sottostante, ovvero non si ha l’azione della società, ma pur non avendola in portafoglio la si vende ottenendo un controvalore. La controparte si aspetta di ricevere lo strumento finanziario, quindi alla fine del contratto di vendita allo scoperto si va sul mercato e con la liquidità ricevuta si compra quello strumento che non si ha ma che la controparte di aspetta perché ha pagato. I venditori allo scoperto scommettono sul ribasso, perché se si è presi 100 euro e dopo un mese si deve dare lo strumento che è stato Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 35 rischioso perché se la controparte fallisce si ha una grossa perdita, ma è uno strumento molto più flessibile perché non standardizzato I fondi comuni di investimento I fondi comuni di investimento possono essere visti effettivamente come strumenti, ma i fondi per come sono costruiti sono anche degli intermediari, dei broker di per sé, possono quindi essere sia uno strumento finanziario sia un attore finanziario. I fondi sono dei portafogli che contengono degli strumenti, quindi delle azioni, delle obbligazioni, dei derivati... Per questo si chiamano fondi comuni di investimento, perché sono dei contenitori, dei portafogli che contengono vari strumenti. Quindi se si acquista una parte di un fondo comune il rendimento di quel fondo seguirà il rendimento di tutti gli strumenti che ne fanno parte. Se si hanno 100 euro di liquidità extra si può decidere se investirli in un’obbligazione ovvero divento creditore di un singolo emittente, in un’azione ovvero divento socio quota parte di un singolo emittente... oppure in un fondo comune di investimento ovvero di compra una fetta di esso e si investe su un paniere di titoli. Questa è la forza del fondo, probabilmente non si sarebbe in grado con i 100 euro di comprare tutti i titoli che ci sono nel fondo comune, ma comprando una quota di esso comunque si ha un rendimento identico a quello dell’investitore che ha comprato ogni strumento all’interno del fondo. Solitamente i fondi hanno centinaia di titoli in portafoglio, quindi con i 100 euro non si potrebbe mai comprare 100 titoli diversi. Comprando una quota si compra un pezzetto di un fondo che dà un rendimento identico a come si fossero comprati tutti quegli strumenti. Questo è un vantaggio enorme, perché permette di diversificare anche un portafoglio molto piccolo: con quei 100 euro o si compra un’azione, o un’obbligazione, o un derivato... oppure un pezzetto di un portafoglio molto diversificato, di un fondo che contiene tantissimi titoli. Questo portafoglio si dice essere gestito in monte, ovvero da una società di gestione del risparmio, che amministra il patrimonio nel fondo comune di investimento senza che coloro che hanno comprato le quote possano avere un’ingerenza, ovvero dire la loro sulle scelte di investimento. Quindi si acquista una quota, semplicemente si guadagna quando il gestore del fondo guadagna da quel portafoglio e si perde quando il gestore del fondo perde, ma non si può dirgli nulla. Il fatto che il patrimonio sia autonomo fa sì che se colui che gestisce il fondo dovesse fallire coloro che hanno comprato le quote di quel fondo possono comunque rifarsi su quel portafoglio, perché è autonomo, ovvero il fondo è autonomo dal capitale della società che lo gestisce. Dunque se il gestore fallisce i creditori del gestore non possono rifarsi sul fondo, ovvero sul valore di quel portafoglio, che viene rimborsato quota parte a tutti coloro che hanno comprato una quota. I fondi tipicamente si distinguono in fondi flessibili, in cu il gestore ha carta bianca sulla composizione del portafoglio, ovvero il gestore decide al 100% quante obbligazioni, quante azioni e quanti derivati metterci, oppure ci sono fondi comuni azionari in cui almeno il 70% del portafoglio deve essere investito in azioni e il resto in obbligazioni o derivati, oppure ci sono i fondi obbligazionari puri che non possono investire in azioni (che non esistono, perché negli ultimi 15 anni le obbligazioni non hanno reso niente), oppure i fondi obbligazionari misti in cui il gestore può inserire fino al 20% di azioni, quindi la componente principale rimane obbligazionaria, oppure i fondi bilanciati che sono i più comuni insieme a quelli flessibili, in cui il gestore può investire in azioni dal 10 al 90%, oppure i fondi monetari o fondi liquidità che investono in strumenti del mercato monetario, ovvero in strumenti che hanno una scadenza al massimo di 18 mesi, quindi strumenti di brevissimo termine. In funzione della tipologia di asset che compongono la quota prioritaria del portafoglio i fondi comuni si chiamano in questi modi. Dall’unione tra azioni e fondi comuni di investimento qualche anno fa sono nati gli ETP, ovvero gli exchange traded products, che sono strumenti che sono quotati come le azioni, ovvero il mercato ne valuta il prezzo ogni istante e il possessore li può comprare o vendere sul mercato a piacimento, in ogni momento. Questa caratteristica la prendono dalle azioni, perché se si ha un fondo comune di investimento non si può comprare o venderlo in ogni istante e se si decide di venderlo non si sa esattamente a che prezzo lo si venderà, perché si deve aspettare 1/3/5 giorni che effettivamente l’ordine di vendita arrivi e la vendita avviene dopo quei giorni al prezzo ex post del momento in cui la vendita effettivamente avviene. Non c’è un prezzo, ma il NET (net asset value), ovvero il valore che tra tre giorni tutti gli asset dentro a quel fondo avranno. Quindi avere uno strumento ibrido come l’ETP che è un fondo, ovvero che ha un paniere di titoli sottostanti, ma che si può Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 36 comprare o vendere ad ogni istante sapendo per certo il prezzo di vendita o di acquisto è un enorme vantaggio. Lo svantaggio però è che al contrario dei fondi non hanno fisicamente un portafoglio di titoli, ma si comportano come derivati, ovvero utilizzano degli strumenti derivati per seguire l’andamento del sottostante/fondo. Quindi si servono di derivati long il cui valore segue quello del fondo comune di investimento sottostante. Sono strumenti regolamentati. Se hanno un fondo come sottostante si chiamano ETF, ovvero exchange traded funds, perché replicano l’andamento di un fondo comune: se il valore del fondo comune sale di un punto percentuale, allora anche il valore dell’ETF sale di un punto percentuale, è una replica passiva. Se il sottostanne invece sono dei beni reali lo strumento è detto ETC, ovvero exchange traded commodities, in cui il sottostante segue l’andamento di un bene fisico. L'ETN, ovvero exchange traded notes, invece significa che lo strumento segue l’andamento di un intero indice, di un intero indice di mercato. Sono strumenti ibridi, seguono l’andamento di un paniere quindi come se fossero fondi comuni di investimento, ma sono scambiabili tutti i giorni ogni istante di negoziazione ad un prezzo certo, uniscono il buono dei fondi, quindi una grande diversificazione, al buono di uno strumento come le azioni, i derivati regolamentati che sono quotati e che quindi hanno un mercato di riferimento che determina il prezzo ad ogni istante di mercato. Si può comprare o vendere ad un valore/prezzo certo Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 37 CAP 5 – I MERCATI FINANZIARI Cosa sono i mercati I mercati sono quei luoghi oggi non fisici, ma completamente informatici in cui si scambiano gli strumenti visti, ovvero le azioni, le obbligazioni, i derivati, i fondi comuni, gli ETP... In Italia il mercato per gli strumenti finanziari è gestito da Borsa Italiana, che per un decennio ha fatto parte del gruppo London Stock Exchange e dopo la Brexit è stato assorbito dall’Euronext, che è una piattaforma europea che gestisce le sedi di negoziazione oltre che italiane (di Milano) anche Amsterdam, Bruxelles, Parigi, Lisbona, Dublino e Oslo. Non è LA piattaforma europea perché sono escluse alcune città, ma c’è un’enorme componente delle negoziazioni europee che insistono su questa piattaforma. Generalmente ci sono due tassonomie dei mercati: i mercati in funzione degli strumenti che vi vengono negoziati (ad esempio il mercato obbligazionario, ovvero il mercato dove si comprano e si vendono strumenti obbligazionari, il mercato azionario, ovvero il mercato dove si comprano e si vendono azioni, il mercato valutario, ovvero il mercato dove si comprano e si vendono valute o derivati su valuta come nel caso dei mercati degli strumenti derivati). La tipologia di strumento dunque da nome al mercato, quindi quando si parla ad esempio dei mercati obbligazionari si intendono tutti i mercati che scambiano ogni genere di obbligazione. Una seconda accezione è invece suddividere i mercati/creare una tassonomia dei mercati in funzione della loro attività, quindi a seconda della funzione che svolgono i mercati possono essere: primario o secondario, monetario o dei capitali, regolamentato o OTC, all’ingrosso o al dettaglio. Il mercato primario è il mercato delle nuove emissioni, ovvero quando un emittente, ad esempio un’azienda, crea per la prima volta uno strumento esso viene collocato sul mercato primario, ovvero la prima compravendita di uno strumento avviene sul mercato primario e da lì prende il nome. Quindi quando lo stato crea il nuovo BTP Italia e lo vende all’asta significa che colloca gli strumenti che ha creato e li vende per la prima volta, c’è la prima compravendita, il primo scambio tra l’emittente, ovvero il governo italiano, che ha creato il BTP e l’acquirente, che acquista appunto sul mercato primario perché sta acquistando direttamente dall’emittente. Quindi l’emittente crea lo strumento, lo vende sul mercato primario e riceve in contropartita la liquidità da coloro che hanno comprato quello strumento. Un’azienda privata che si quota crea per la prima volta le sue azioni e nelle IPO (initial public offering), in queste sedi colloca per la prima volta le azioni neonate della sua azienda e coloro che vogliono diventare soci vanno sul mercato primario e le acquistano: acquistano in collocamento una nuova azione e in contropartita danno liquidità all’emittente. Se è un’obbligazione si compra un’obbligazione appena creata, si diventa creditore dell’emittente e gli si presta la liquidità di cui ha bisogno. Tutte le compravendite successive alla prima, quindi quelle che avvengono tra due investitori avvengono sul mercato secondario, quindi si compra sul mercato primario un’obbligazione quinquennale e si dà in contropartita dei soldi all’emittente, non necessariamente si deve tenere per cinque anni in portafoglio quella obbligazione, ma si può provare a venderla ad un altro investitore sul mercato secondario, quindi se c’è un altro investitore che vuole acquistare quell’obbligazione può comprarla da qualcuno che in quel momento la vuole vendere prima della scadenza. Quindi tutte le compravendite sul mercato primario avvengono tra emittente e investitore, tutte le compravendite sul mercato secondario avvengono tra due investitori. Significa che nessuna liquidità scambiata sul secondario entra nelle casse dell’emittente, se un’azione sale di valore ne guadagnano gli investitori che scambiano quell’azione sul secondario e non l’emittente, perché esso ha venduto per la prima volta la sua azione sul primario e quindi quell’azione è dell’investitore che la può tenere o la può vendere sul secondario e diventa proprietà di un altro investitore e così via... Nessuno degli scambi che avviene sul secondario da nuove risorse all’emittente, l’andamento di uno strumento sul secondario fa la ricchezza o le perdite degli investitori. Spesso gli emittenti riacquistano delle proprie azioni, perché si vuole tenere una parte del capitale sotto il proprio controllo: quando si compra un’azione si diventa socio quota parte e si può fare ingerenza nella gestione dell’emittente, quindi spesso gli emittenti si ricomprano una parte delle proprie azioni in modo da tenere parte del capitale sotto controllo. Questo però non succede con le obbligazioni, perché esse servono per prendere a prestito liquidità, gli obbligazionisti non fanno ingerenza e quindi non avrebbe senso se l’emittente ha bisogno di liquidità collocare delle obbligazioni e poi comodarsele da solo, Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 40 soltanto coloro che fanno parte di quell’organizzazione e possibilmente coloro che fanno parte del top management di quell’organizzazione, ovvero coloro che hanno delle informazioni rilevanti che potrebbero impattare il valore dello strumento finanziario. C'è però differenza tra l’efficienza informativa forte e l’aggiotaggio, che è reato che si ha quando un interno comunica ad una parte terza delle informazioni ed essa le utilizza per ricavarne profitti speculando sui mercati finanziari. Il side trading invece è sempre reato e si ha quando non si comunicano le informazioni ad una parte terza, ma si fanno investimenti in virtù di informazioni proprietari di cui si è in possesso soltanto per la carica che si ricopre. L’efficienza informativa quindi può essere debole, semi forte o forte, generalmente un mercato molto efficiente ha un’efficienza semi forte, difficilmente si arriva a quella forte vera e propria. L’efficienza allocativa invece è quando tutti gli operatori di mercato sono uomini economici, quindi agiscono in maniera razionale, quando i mercati raggiungono un equilibrio paretiano, ma non esiste nella realtà. L’efficienza tecnico-operativa si ha nell’ottimizzazione dei costi di transazione, ovvero di tutti quei costi che un investitore sostiene per entrare nel mercato, per acquistare e per vendere, quindi per operare all’interno di un mercato. 3 indicatori fondamentali che generalmente vengono utilizzati per valutare questa efficienza sono: ampiezza, spessore ed elasticità dei mercati. Molto spesso vengono utilizzati come misura della bontà di un mercato, della sua efficienza complessiva, della sua liquidità. L'ampiezza è la grandezza dei volumi scambiati, se su un mercato ogni giorno avvengono molti scambi, tante compravendite con un controvalore importante, allora quel mercato è ampio. Un mercato invece è spesso se le compravendite nell’arco di un’unità temporale, generalmente di una giornata, differiscono tra loro molto poco in termini di prezzi, cioè basta una minima variazione di prezzo per poter trovare una controparte. Ad esempio se si vuole vendere un’azione a 100 euro, ma non c’è nessuno disposto a comprarla, ma a 100,01 c’è qualcuno, quindi la distribuzione dei prezzi è molto fitta, c’è poca differenza tra i prezzi negoziati delle varie compravendite. Questo è importante perché se si volesse smobilizzare un titolo esso è negoziabile perché si trova velocemente qualcuno che lo compra, se un titolo è altamente negoziabile significa che il suo mercato di riferimento è spesso, perché magari non è il prezzo desiderato, ma è un prezzo molto molto vicino e quindi la distribuzione dei prezzi è molto fitta, ci sono compravendite per ogni prezzo. Un mercato è invece elastico se rimane attivo anche dopo degli shock di prezzo, ad esempio se c’è uno shock sul mercato e scendono le quotazioni, ma dopo che questa informazione è stata incorporata continuano ad esserci negoziazioni, seppur a prezzi più bassi, c’è qualcuno che continua a voler investire e comprare e qualcuno che vende, le negoziazioni dunque non si interrompono. Affinché il mercato sia ampio, elastico e spesso molto frequentemente ci sono delle figure e degli intermediari finanziari che intervengono per garantire queste proprietà dei mercati, ovviamente regolamentati. Esistono ad esempio le figure dello specialist, che sono degli intermediari che si occupano in un determinato periodo di tempo di agevolare le transazioni di uno specifico strumento. Ad esempio quando una società entra sui mercati finanziari per la prima volta, quindi quando crea le proprie azioni sul mercato primario, lo specialist che cura il collocamento sì che sul secondario subito ci siano compravendite di questo specifico strumento, quindi che il mercato anche sul secondario sia ampio e che i prezzi tra offerta e acquisto siano vicini, quindi che il mercato sia fitto e spesso e che anche se ci sono degli aggiustamenti un po’bruschi nelle prime settimane le negoziazioni continuino ad essere attive, quindi che il mercato sia elastico. Lo specialist si occupa del buon fine delle negoziazioni di uno strumento specifico per un determinato periodo di tempo. Generalmente dopo un aumento di capitale o una IPO ci sono queste figure che fanno sì che l’inizio delle negoziazioni di un nuovo strumento sia il più efficace ed efficiente possibile e che quel mercato sia mantenuto fluido, quindi ampio, spesso ed elastico. Poi ci sono i broker, ovvero coloro che agevolano l’incontro tra compratori e venditori senza entrare direttamente nello scambio diretto assistito. Diverso è il market dealer, in chiesto caso agevola sì lo scambio tra compratori e venditori, ma intervenendo direttamente con il proprio portafoglio: è un intermediario vero e proprio, che acquista da coloro che vogliono vendere e che vende a coloro che vogliono comprare. Generalmente essi hanno un portafoglio molto ampio e diversificato, perché più ampio e diversificato è il loro portafoglio, più sono in grado di vendere a coloro che richiedono un particolare strumento. Spesso sono specializzati, perché non si possono avere tutti gli strumenti possibili, quindi ad esempio che c’è il dealer dei bancari italiani, che ha sempre in portafoglio strumenti degli utenti di Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 41 natura bancaria italiani e anche quando sul mercato complessivo ci sono pochi strumenti o le compravendite non sono così frequenti esso ha comunque in portafoglio titoli di quel segmento. Queste ultime due tipologie non sono intermediari finanziari, ma questi tre intermediari (specialist, broker e dealer) possono trovarsi in una di queste due posizioni: o price taker o price maker. Il 99% dei casi questi intermediari sono price taker, ovvero non possono influire pesantemente sul prezzo e sulla valutazione di uno strumento che hanno in portafoglio sia se sono dealer sia a maggior ragione se sono spacialist o broker. Un broker ad esempio fa sì acquistare, ma al prezzo puramente di mercato, non cambia da solo in modo sostanziale l’andamento di uno strumento, uno specialist invece potrebbe riuscire di più. È differente invece quando un emittente è così grande o ha una quota degli strumenti così ampia da riuscire ad essere price maker, come l’esempio di prima dei due speculatori sul debito pubblico italiano: il controvalore di quelle operazioni era talmente grande da riuscire a spostare le aspettative del mercato, quindi sono price maker, perché fanno il prezzo o quantomeno ne influenzano il corso in modo sostanziale. Essi sono investitori istituzionali enormi. Quindi price maker è colui che riesce fisicamente con le sue attività di compravendita ad influenzare il prezzo di mercato di un determinato strumento. Il broker fa incontrare domanda ed offerta, quindi fa comprare uno strumento sul mercato e sul mercato quello strumento ha un prezzo solo. Il broker compra sul mercato delle azioni e esse valgono uguali per tuti, poi le rivende allo stesso prezzo con l’aggiunta di una piccola commissione. Un dealer invece vende le azioni generali che ha nel portafoglio e in quel caso il prezzo può essere un po’diverso da quello di mercato, ma se le fa pagare di più tendenzialmente “frega una volta sola”. Il prezzo al quale acquistano è il prezzo di mercato, che per definizione è uno solo, cambierà la commissione che applicano. Si possono rilevare dei fattori di imperfezione dei mercati, non tutti sono efficienti da un punto di vista informativo, allocativo e tecnico-operativo, pe 4 grosse ragioni sottostanti: la prima è la divergenza di preferenze dei soggetti in surplus e dei soggetti in deficit, coloro che hanno un surplus di risorse finanziarie vogliono acquistare strumenti poco rischiosi e possibilmente a breve, invece coloro che hanno bisogno di un finanziamento ce l’hanno bisogno probabilmente nel medio-lungo termine e devono poter finanziare tutte le tipologie di progetto, altrimenti non ci sarebbe sviluppo. Poi ci sono i costi di transazione: sui mercati finanziari non è semplice per un investitore non istituzionale trovare quello strumento che fa proprio al caso suo, anche perché i mercati diventano sempre più complicati e dunque è difficile pensare che da solo un investitore non istituzionale possa agire sui mercati finanziari. Inoltre gli investitori non sono perfettamente razionali, tutti i modelli decisionali finanziari hanno come ipotesi base la razionalità limitata degli attori, nessuno è perfettamente razionale. Poi c’è un grosso problema delle asimmetrie informative: l’investitore che acquista non avrà mai tutte le informazioni di colui che emette un titolo. Per questo c’è bisogno di intermediari finanziari, che si interpongano tra gli investitori e il mercato, perché gli intermediari finanziari e le banche in primis cambiano l’ampiezza, la liquidità e la scadenza degli strumenti. Tramite gli intermediari si congiungono necessità di compratori e venditori, tramite economie di scala e di scopo gli intermediari abbattono i costi di transazioni, consigliano gli investimenti agli investitori non istituzionali e quindi alleviano gli effetti della razionalità limitata degli investitori e con la loro attività creditizia gli intermediari diminuiscono enormemente i problemi di informazione e controllano l'informazione ex ante e durante i contratti. Gli intermediari finanziari quindi agiscono per fare sì che le imperfezioni dei singoli mercati diminuiscano o perlomeno siano più gestibili Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 42 CAP 6 – LA FINANZA SOSTENIBILE La finanza sostenibile Esistono mercati e strumenti un po’diversi, ovvero quelli sostenibili. In generale il modo più semplice e più corretto per approcciare il tema è pensare alla finanza sostenibile come un continuo tra la finanza tradizionale da una parte e la filantropia dall’altra, sono i due confini, i due estremi. La finanza tradizionale è quella votata all’estrazione di rendimento finanziario, l’obiettivo finale degli strumenti e dei mercati finanziari tradizionali è il rendimento finanziario, il tasso di interesse. L’obiettivo ultimo della filantropia invece è fare del bene, ovvero avere un rendimento non finanziario, vive di donazioni, trust, associazioni... Interessa l’impatto sociale, ma anche ambientale che i filantropi vogliono fare generalmente per una tematica di loro specifico interesse. La finanza sostenibile prende da quella tradizionale la ricerca di un rendimento finanziario positivo, mentre dalla filantropia prende la ricerca di un rendimento non finanziario. Deve avere entrambe queste componenti nel suo obiettivo: un rendimento finanziario ed uno non finanziario, altrimenti si cade in uno o l’altro dei due casi estremi. È un continuo tra queste due, ma non un continuo omogeneo, infatti ci sono moltissime strategie differenti. Si può dividere la finanza sostenibile in 3 grandi aree, comparti: - RSI, la finanza responsabile. È la più vicina alla finanza tradizionale, la ricerca di rendimento finanziario competitivo è ancora di primaria importanza, ma accanto a questa ricerca c’è la gestione dei rischi di sostenibilità. Sono i rischi ESG, ovvero in ambito ambientale, sociale e di governance. Le metriche ESG sono l’unità di misura della sostenibilità: quanto una strategia o un prodotto è sostenibile lo si misura attraverso le metriche ESG. La finanza responsabile ha un approccio poco reattivo, quindi una ricerca di rendimento finanziario competitivo, cioè di mercato, come la finanza tradizionale e la gestione di rischi di sostenibilità. Si preoccupa più di non creare un danno dal punto di vista della sostenibilità, piuttosto che creare un impatto positivo. Minimizza i rischi di sostenibilità, cerca di non creare un impatto negativo - finanza sostenibile in senso stretto. Cerca rendimenti finanziari di mercato competitivi. Minimizza i rischi di sostenibilità ESG, ma da un punto di vista più attivo integra nelle proprie strategie di investimento anche opportunità ESG, quindi non solo minimizza i rischi, ma cerca di creare un impatto positivo cogliendo delle opportunità di investimento votate al miglioramento dell’ambiente, del sociale e della governance aziendale - impact investing. È la più vicina alla filantropia, viene meno una caratteristica fondamentale: c’è la ricerca di un rendimento finanziario competitivo. Tutte le strategie di sostenibilità ricercano un rendimento finanziario, ma in questo caso non è necessariamente di mercato e quindi competitivo, ovvero si può accontentare anche di rendimenti finanziari sotto la media di mercato, perché l’ impact investing è fortemente votato a creare un forte impatto ambientale e/o sociale, quindi pesa molto di più il perseguimento di un rendimento non finanziario, rispetto a quello di un rendimento finanziario anche se continua ad esserci, cade l’aggettivo competitivo. Gestisce i rischi, che è il minimo per una strategia sostenibile e cerca di cogliere l’opportunità, ma soprattutto è l’unica strategia che ricerca un forte impatto socio-ambientale In realtà ci sono 5/77 strategie differenti, così è semplificato. L’idea di finanza sostenibile è nata verso il 1908 con una forte connotazione etico-religioso-morale, cosa che ad oggi non ha, il suo concetto è infatti evoluto e ha abbandonato completamente ogni connessione alla finanza religiosa, etica e morale. Esiste sì la finanza religiosa e quella etica, ma non hanno nulla a che fare con quella sostenibile. La finanza sostenibile intesa come lo è ora è nata nel 1999 con la nascita del Global Compact, che è il primo codice nato sotto leggi delle Nazioni Unite e fortemente voluto da Kofi Annan (ex segretario generale delle Nazioni Unite). Prima in 9 e poi in 10 principi cerca di tenere insieme la dimensione dei diritti umani, dei diritti del lavoro, la dimensione di cura ambientale quella di lotta alla corruzione. Coloro che le imprese sottoscrittrice del Global Compact sottoscrivono questi 10 principi. - Diritti umani: 1. Promuovere e rispettare i diritti umani Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 45 Le banche Nel 2019 sono nati anche i PRB, ovvero i principi per un’attività bancaria responsabile. In Italia i firmatari sono Monte dei Paschi di Siena, Intesa SanPaolo, UniCredit, FinecoBnak, BPER Banca, Mediobanca, Banca Mediolanum, quindi non moltissimi. I principi dei PRB a cui i firmatari devono sottostare sono 6: - alignment, prevede l’allineamento strategico delle banche sottoscrittici con quanto perseguito dagli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite (gli SDGS) e dall’accordo di Parigi, quindi completo allineamento all’agenda 2030 - impact, prevede l’identificazione, valutazione e miglioramento dell’impatto positivo e la riduzione di quello negativo attraverso l’emissione attiva di attività, prodotti e servizi ad hoc. Quindi le banche si impegnano prima di tutto a gestire i rischi, diminuire l’impatto negativo e per secondo a cogliere tutte le opportunità pro-attive di investimento sostenibile, creando delle linee apposta di prodotti, servizi e attività. Non è scontato creare linee ad hoc o addirittura cambiare le caratteristiche dei vecchi prodotti per renderli più in linea con i principi della sostenibilità - clients & customers, incentiva clienti e utenti a perseguire pratiche e scelte di investimento sostenibili e agevola attività economiche attivamente impegnate in progetti sostenibili. Questo è portare fuori dai confini bancari la sostenibilità, ovvero spingere quelli che si chiamano gli stakeholder, ovvero i portatori di interesse, i clienti e le attività economiche con le quali la banca ha a che fare a essere attivamente impegnate in ambito sostenibile, ambientale o sociale che sia. Dunque la banca non solo impegna la propria attività ad essere più sostenibile, ma si impegna anche a farsi apostola di sostenibilità e quindi portare fuori dai confini bancari e incentivare i clienti privati e non ad essere più sostenibili - stakeholders, prevede un lavoro di engagement e collaborazione proattiva affinché gli stakeholders implementino attivamente i cambiamenti necessari per soddisfare gli SDGS. Forzare e spingere tutti gli stakeholder, ovvero clienti, fornitori, retail, corporate... ad essere a loro volta più sostenibili - governance e target setting, prevede la creazione di strutture e assetti di governance atti a perseguire gli SDGS e promuove una cultura bancaria responsabile. Non si va da nessuna parte se in primis la governance, la cultura della banca non cambia, anzi si rischia il fenomeno del greenwashing. Bisogna quindi in primis cercare di cambiare la cultura bancaria e allinearla nella sostanza, oltre che nella forma, alla sostenibilità ambientale e sociale - transparency & accountability, prevede la creazione di un sistema di monitoraggio e rendicontazione dei risultati degli impatti e positivi e negativi conseguiti. Anche dal punto di vista legale, infatti il legislatore obbliga le banche ad essere più trasparenti, ma anche semplicemente sottoscrivendo i PRB le banche promettono di mettere in piedi queste attività di monitoraggio interno per vedere effettivamente e concretamente quali prodotti e fino a che punto sono efficaci nel ridurre l’impatto ambientale e nell’aumentar e l’impatto positivo sociale I sottoscrittori sono così pochi e così grandi, perché sono principi con un enorme impatto sulla governance e sull’operatività bancaria e che quindi implicano un enorme investimento per rendere più sostenibile il business bancario. Sono relativamente pochi i sottoscrittori, ma la proporzione di asset gestiti da questi investitori sul totale è grandissima, quindi sono pochi, ma enormi, quelli che contano davvero. In Europa si è molto indietro rispetto alla definizione di un pilastro di nuovo governo aziendale Gli strumenti sostenibili Perché uno strumento finanziario sia sostenibile deve soddisfare 3 caratteristiche: la prima è che deve avere un orizzonte temporale di lungo periodo, perché se non è così non può essere davvero sostenibile, non c’è nessuna politica di sostenibilità che si avvera sul mercato monetario in un breve o brevissimo tempo. Sotto i 5-7 anni non è possibile, deve essere di lungo periodo. La seconda caratteristica è che deve esserci la compresenza di rendimento finanziario e non finanziario, se c’è solo il primo è uno strumento tradizionale, se c’è solo il secondo è uno strumento filantropico. La terza caratteristica è che deve esserci la compresenza di fattori ESG, non significa che lo strumento deve perseguire un obiettivo, ambientale, sociale e di buon Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 46 governo, ma significa che uno strumento sostenibile deve considerare questi tre fattori. La definizione ufficiale europea di investimento sostenibile è data dal regolamento 2088, ovvero la SFDR del 2019 (direttiva relativa alla trasparenza della rendicontazione bancaria), e dice che: “investimento in un’attività economica che contribuisce a un obiettivo ambientale, misurato, ad esempio, mediante indicatori chiave di efficienza delle risorse concernenti l’impiego di energia, l’impiego di energie rinnovabili, l’utilizzo di materie prime e di risorse idriche e l’uso del suolo, la produzione di rifiuti, le emissioni di gas a effetto serra nonché l’impatto sulla biodiversità e l’economia circolare; o un investimento in un’attività economica che contribuisce a un obiettivo sociale, in particolare un investimento che contribuisce alla lotta contro la disuguaglianza, o che promuove la coesione sociale, l’integrazione sociale e le relazioni industriali; o un investimento in capitale umano o in comunità economicamente o socialmente svantaggiate a condizione che tali investimenti non arrechino un danno significativo a nessuno di tali obiettivi e che le imprese che beneficiano di tali investimenti rispettino prassi di buona governance, in particolare per quanto riguarda strutture di gestione solide, relazioni con il personale, remunerazione del personale e rispetto degli obblighi fiscali”. Il legislatore recepisce la tripartizione, la trivalenza di pilastri ambientali, sociali e di governance per definire un investimento propriamente sostenibile, ma non necessariamente devono essere perseguiti contestualmente tutti e tre gli obiettivi, l’investimento deve solo contribuire attivamente o al pilastro ambientale o a quello sociale e non recare danno alle tre dimensioni della sostenibilità. In questo modo il legislatore considera contestualmente tutte le dimensioni. Si può avere un singolo strumento che contribuisce ad un obiettivo specifico ambientale, ma se il suo emittente non rispetta prassi di buona governance, allora quello strumento non può essere definito sostenibile. La prima condizione è quella di non recare danno significativo, la seconda è quella che gli emittenti debbano rispettare prassi di buon governo, devono avere un rating di governance elevato. Le tre dimensioni vengono così definite: la dimensione ambientale gode della propria tassonomia, la direttiva 852 del 2020 infatti definisce cos’è il pilastro ambientale in Europa con 6 sotto obiettivi, che sono esattamente quelli che il legislatore riporta nella definizione. In Europa il pilastro ambientale include: l’impiego di energie rinnovabili, l’utilizzo di materie prime, la produzione di rifiuti ed emissioni di gas ad effetto serra e l’impatto sulla biodiversità, oltre che sull’economia circolare. Esiste quindi una tassonomia ben precisa e definita. Non si ha però una tassonomia sociale ed una di governance, quindi il legislatore per pendere la propria definizione nell’attesa di avere una tassonomia propria è andato a prendere gli SGDS 9,10,11,1 e 4, ovvero quelli a carattere sociale, per definire il pilastro della società (lotta alla disuguaglianza, coesione sociale, integrazione sociale, capitale umano e comunità economicamente o socialmente svantaggiate). Prende invece dal global compact la definizione di pilastro di governance, avere una buona governance infatti significasse avere strutture di gestione solide, attenzione alle relazioni con il personale, alla remunerazione del personale e rispetto del fairplay fiscale. È abbastanza complesso creare un investimento sostenibile, perché non basta che contribuisca ad un obiettivo o ad un’area, ma deve tenere conto perlomeno in modo indiretto di tutti e tre e ciò è fondamentale. Un'azione serve per finanziarie l’emittente, un’azione in sé non può essere più o meno sostenibile, ma può esserlo l’emittente. L'azione di per sé è una quota di capitale che si investe in qualità di socio in un’azienda. Quindi si può investire questo capitale in un business più o meno sostenibile, ma di per sé l’azione non ha caratteristiche sulle quali agire. Le obbligazioni invece si prestano particolarmente, infatti sono state create tantissime obbligazioni tutte sotto leggi della sostenibilità Tipologie di strumenti sostenibili In generale l’insieme più grande di obbligazioni sostenibili è quello delle GSS+. Sono nate per prime le obbligazioni GSS, ovvero green social sustainability, e poi quelle obbligazioni di transizione che sono i transition bond e i sustainability-linked bond. Sono quindi 5 le tipologie di obbligazioni sostenibili: green, social, sustainability, sustainability-linked e transition. Complessivamente vengono chiamate GSS+, se si parla di GSS si intendono solo green, social, sustainability. I green bond sono la prima tipologia di obbligazione sostenibili: si può definire un’obbligazione verde qualsiasi strumento obbligazionario che utilizza i proventi derivati dalla vendita per finanziare o rifinanziare progetti ambientali. Da quando è nata la definizione e la tassonomia europea, ovvero dal 2020 in Europa è molto facile capire che uno strumento denominato green deve utilizzare i proventi per uno o più dei sei principi che determinano la tassonomia ambientale. Per tantissimi anni sono coesistiti almeno 3 linee guide che definivano cosa fosse un bond verde, soltanto nel 2020 e soltanto in Europa è nata la definizione del pilastro ambientale. Ancora oggi queste linee guida sono Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 47 completamente ad adesione volontaria, ovvero si può decidere di emettere un bond, si può chiamarlo green, ma si può decidere di non allinearsi a nessuna di queste linee guida. Per questo all’interno dei green bond possono esserci sia green bond davvero green, che si allineano alla definizione ufficiale o ad altre linee guida, sia green bond che non si allineano a niente e che si chiamano così solo perché l’emittente li ha chiamati così. Per il fatto che queste linee guida non sono obbligatorie, ma hanno soltanto adesione volontaria si è lasciato enorme spazio al fenomeno del greenwashing (“lavaggio di verde”), ovvero il fatto di dichiararsi come emittente o come strumento più vicino alle tematiche ambientali di quello che in realtà non sia. Proprio questo fenomeno ha permesso al segmento dei green bond di quintuplicare rispetto al 2015. All'interno del mercato ci sono bond effettivamente attenti all’ambiente e che effettivamente utilizzano i proventi ottenuti dalla raccolta per promuovere progetti di natura ambientale, sia bond che sono green soltanto nel loro nome. Questo fenomeno colpisce anche bond social, perché affonda le sue radici nel fatto che non c’è una definizione univoca in tutto il mondo di cosa sia il pilastro ambientale e per quanto riguarda il pilastro sociale non c’è una definizione nemmeno all’interno dell'Europa. Un social bond invece è esattamente la stessa tipologia di strumento, ma in questo caso l’emittente utilizza i proventi per finanziare nuovi progetti o rifinanziare più progetti con un’attenzione sociale, ovvero che si rivolgono a disabili, poveri, persone non istruite, disoccupati, minoranze di genere, anziani e giovani vulnerabili... Se non c’è una definizione del pilastro sociale questo elenco vale relativamente poco, perché può cambiare nel tempo e a seconda degli individui. Le uniche linee guida per la creazione di social bond sono di nuovo ad adesione volontaria e sono di ICMA, ovvero un’associazione di mercato (International Capital Market Association), non è quindi nemmeno creata dal legislatore europeo. I social impact bond (SIB) invece sono differenti, non sono da confondere. Il sustainability bond è un bond che finanzia progetti sia di natura ambientale che di natura sociale. è un progetto quindi molto proattivo, perché idealmente si passa dal non creare un impatto negativo, ovvero il minimo, a creare un duplice impatto, quindi sia ambientale che sociale. L'ICMA è l’unica che ha delle linee guida, perché era l’unica che le aveva emesse per i social bond, quindi le linee guida dei sustainability bond sono quelle che obbligano gli emittenti ad utilizzare i flussi finanziari ricevuti sia per progetti sociali che per progetti ambientali, è una doppia sostenibilità. Questi sono i GSS. I transition bond finanziano quelle società che ad oggi operano in industry che vengono definite brown, ovvero che hanno un forte impatto ambientale, ma vogliono cercare di diventare più sostenibili dal punto di vista ambientale, non cambiando industry, ma cambiando dal punto di vista tecnologico i propri sistemi produttivi per abbattere l’impatto ambientale. Cercano di finanziarie la transizione da brown a green di queste imprese, finanziano quegli emittenti che vogliono aumentare la propria sostenibilità, diminuire il proprio impatto ambientale in particolare in settori che hanno naturalmente un impatto molto pesante forte (ad esempio tipicamente il settore agricolo, dell’estrazione, oil and gas, chimico...). Nei sustainability-linked bond, che sono diversi dai sustainability bond, la struttura dell’obbligazione (ad esempio la frequenza, il pagamento della cedola, il tasso di pagamento, il tasso cedolare...) generalmente dipende dal raggiamento di determinati obiettivi ambientali o sociali. L'emittente paga o non paga la cedola, la paga ad un determinato tasso o ad uno più alto, la paga semestralmente o annualmente in funzione del fatto che raggiunga determinati obiettivi. Per prima cosa quindi bisogna determinare gli obiettivi specifici, che si chiamano KPI (Key Perfonmance Indicators). Ad esempio quindi un emittente può creare sustainability-linked bond con cedola minima garantita dell’1%, ma se ogni anno si riesce ad abbattere dell’1% la propria emissione di CO2, allora paga un premio dello 0,5%, quindi se dopo un anno si è raggiunto il proprio KPI, ovvero si sono abbattute le immissioni di CO2, allora la cedola sarà un po’più alta perché si paga un premio. Oppure possono esserci anche sustainability-linked bond che hanno una cedola minima garantita e che pagano meno se raggiungono gli obiettivi di sostenibilità, ovvero chi compra questi bond sta scommettendo che l’emittente non raggiungerà quegli obiettivi di sostenibilità. Non c’è una regola fissa, quindi è l’emittente che decide quali sono i suoi KPI, e come questi impattano sulla struttura del bond, le caratteristiche sono definite contrattualmente, non c’è una regola fissa, l’emittente decide il proprio obiettivo, i propri KPI e come il loro raggiungimento impatti sulla struttura del bond. Aggiungendo questi ultimi due ai GSS si ottengono i GSS+. Il mercato è lo specchio dell’attenzione estrema al pilastro ambientale, infatti fatto cento una quota prioritaria del mercato sostenibile GSS+ è occupata dai green bond, anche se i social hanno avuto un boom enorme soprattutto durante e dopo il covid, i transition sono praticamente nulli Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 50 bilancio. Quindi gli investitori di un fondo comune di investimento sanno che qualora la società che lo gestisce fallisse i creditori non possono attaccare i loro risparmi, quindi i risparmi all’interno del fondo in cui hanno investito sono al sicuro. Ciò però non significa che esiste una garanzia di restituzione al nominale, non è una garanzia per cui non si può perdere, ma è semplicemente una garanzia che nel momento di fallimento della società di gestione del risparmio il valore dei titoli inclusi nel fondo sono appannaggio degli investitori e non dei creditori della SGR. Il valore del fondo infatti dipende dal valore di mercato dei singoli titoli che lo compongono. Quindi se il valore di mercato di quei titoli si è molto svalutato, allora sarà su quel valore inferiore che gli investitori possono avere delle pretese. Di un fondo comune si occupano esclusivamente le SGR, ovvero le società di gestione del risparmio, che gestiscono in monte, ovvero in modo accentrato i fondi comuni di investimento. Significa che gli investitoti del fondo comune, sottoscrivendo una quota delegano completamente alle SGR la gestione dei propri risparmi, quindi all’interno del perimetro del mandato, cioè se si investe in un fondo obbligazionario sicuramente i propri risparmi non verranno investiti all’80% in azioni, l’investitore delega completamente le scelte di investimento alla SGR e non può avere nessuna pretesa di ingerenza delle scelte di investimento. È l’unico intermediario che può fare gestione del risparmio, infatti le banche non possono svolgere gestione del risparmio, cioè non possono creare dei propri fondi comuni, possono soltanto allocare dei fondi comuni creati e gestiti da SGR. La maggior parte delle banche però ha le proprie SGR captive, ovvero le SGR che in autonomia creano dei fondi che vengono collocati poi direttamente dalle banche senza commissione. Le SGR devono essere incluse in un Albo e devono essere autorizzate una ad una da Banca d’Italia a svolgere l’attività di gestione del risparmio. La gestione di OICR è proprio il core business delle società di gestione del risparmio e in assoluto l’attività più remunerativa. Le SGR possono prestare anche servizi di gestione di portafogli, di consulenza di ricezione e trasmissione degli ordini, sono parte dei servizi di investimento complessivi. Dal momento che fatto 100 il mercato degli OICR i fondi comuni di investimento costituiscono il 99% degli ASSET gestiti, i restanti sono SICAV e SICAF SICAV e SICAF Gestisce la società di gestione del risparmio, l’SGR. Spesso le SIM vengono promosse a SGR. Non solo fa tutte quelle attività che si sono viste, ma può anche creare e gestire propriamente i propri fondi comuni, gli OICR. La differenza tra SICAV e SICAF: la SICAV (società di investimento a capitale variabile) è una società a capitale aperto, esattamente come un fondo comune, perché ogni giorno un investitore può decidere di acquistare una nuova quota di un fondo o di una SICAV, o decidere di venderlo e quindi il capitale gestito è variabile, cambia in funzione degli acquisti e delle vendite di quote. La vendita di quote di un fondo però non è istantanea e non ad un prezzo certo, se oggi si decide di liberarsi della quota di un fondo comune o di una SICAV, si emette l’ordine di vendita e dopo 3/5 giorni lavorativi la quota viene liquidata, ovvero viene restituito il controvalore, ovvero quanto vale quel giorno quella specifica quota, ovvero quanto valgono tutti gli investimenti dentro al fondo con il loro valore di mercato di quel giorno della liquidazione, poi quota parte viene liquidato il controvalore della quota. Per questo non si sa a che prezzo si sta vendendo, perché non si vende ad un prezzo, ma si viene liquidato al NAV, net asset value, ovvero il valore netto degli asset che ci sono all’interno del fondo comune, la stessa questione vale per le SICAV. Si può comprare o vendere quote di fondi e di SICAV, ma con questa particolarità: con 3/5 giorni di ritardo e al NAV. Per calcolare il NAV si fa la somma dei valori di mercato in quello specifico giorno di tutti gli asset in quel fondo e poi si calcola la percentuale cdi esso posseduta dall’investitore, ad esempio se possiede un millesimo del fondo gli si restituisce un millesimo di questo valore appena calcolato. Il valore che viene restituito all’investitore non è necessariamente il valore che ha conferito, perché il valore dei titoli che compongono il fondo o la SICAV cambia di giorno in giorno, come quello di qualsiasi strumento. È per questo che quando i mercati sono molto volatili, ovvero salgono e scendono molto frequentemente e senza che si possa prevedere con esattezza il loro andamento, è pericoloso vendere OICR, perché si può sapere che oggi è un buon momento per vendere, ma tra 3/5 giorni le condizioni di mercato potrebbero essere cambiate, il NAV dell’investimento potrebbe essere cambiato di conseguenza. Non si ha questo limite invece con gli ETP, perché li si compra e li si vende all’istante. Fondi e SICAV sono veri e propri strumenti finanziari, la SICAF invece è un ibrido perché è una Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 51 società che investe soltanto in strumenti finanziari della quale però l’investitore acquista un’azione, che non è un fondo separato, il capitale della SICAF è il capitale del gestore. Gli OICR sono fondi SICAV e SICAF, le SGR gestiscono fondi SICAV e SICAF e sono le uniche che possono fare gestione collettiva del risparmio, le banche non possono gestire il risparmio tramite fondi comuni, SICAV e ISCAF, dunque le banche non possiedono e non gestiscono OICR. Le SGR devono essere iscritte all’albo delle SGR di Banca d’Italia oppure possono anche prestare servizi di consulenza finanziaria o di gestione di portafogli privati, è però molto marginale, anche la loro importanza nel bilancio è molto marginale, la loro attività principale è la gestione dei fondi, SICAV e SICAF. Oppure possono anche prestare servizi di consulenza, ma anche ciò è abbastanza marginale, perché è un’attività che principalmente viene svolta da banche e reti di promozione tramite le figure dei promotori finanziari. Non fanno nemmeno da broker, ovvero comprare per conto d’altri la singola azione o obbligazione, ciò è la funzione di prestazione di servizi di ricezione e trasmissione di ordine. Possono quindi svolgere tutte e quattro queste attività, ma poi la loro attività principale è solo una. Una categoria molto particolare di fondi sono i fondi pensione, che sono uno strumento ancora più ibrido, perché sono fondi comuni di investimento, ma non sono propriamente a capitale variabile, ovvero l’investimento in questi fondi è vincolato per periodi molto lunghi di tempo. Per questo motivo la ratio di questi fondi è creare un flusso finanziario integrativo alla pensione che verrà ricevuta quando si smetterà di lavorare Gestione collettiva del risparmio Può crearsi il proprio portafoglio finanziario, può acquistare e vendere per conto proprio, può gestire sistemi multilaterali di negoziazione. Ci sono i mercati finanziari regolamentati e quelli OTC, ma in realtà esiste anche una categoria intermedia che è proprio quella dei sistemi multilaterali di negoziazione, sono dei mercati regolamentati, ma non così pesantemente come i mercati ufficiali, hanno degli orari di apertura e di chiusura diversi da quelli regolamentati e non hanno quelle figure come i market specialist. La loro liquidità e in particolare il loro spessore è un po’inferiore, però non l’ampiezza e l’elasticità. Il più importante tra i mercati multilaterali di negoziazione è l’MTS perché ha delle caratteristiche molto simili al classico mercato di borsa, ma chiude un quarto d’ora dopo i mercati regolamentati. Ciò è importante perché tutte quelle news che arrivano alla fine delle contrattazioni sono delle contrattazioni ufficiali a chiusura dei mercati ufficiali e quel quarto d’ora a volte può essere molto prezioso per fare degli acquisiti e delle vendite proprio in funzione di queste news arrivate in chiusura di mercati. Sono mercati riconosciuti e regolamentati, tanto che esiste il MOT, che è il mercato delle obbligazioni ufficiale e regolamentato, e il sistema multilaterale speculare, che si chiama extraMOT, che è gestito da Borsa Italiana esattamente come il MOT. Gestiscono i portafogli, possono fare consulenza e possono svolgere dei servizi accessori. Questi sono i servizi di investimento ufficiali, che possono svolgere le banche, ma possono svolgerle anche le SIM, quindi su tutti questi servizi banche e SIM sono competitor diretti. Quando si parla di gestione collettiva del risparmio si pensa a quel servizio che gestisce in monte, ovvero in modo accentrato, i risparmi di più investitori, quindi la gestione collettiva passa dalla creazione, la promozione e l’organizzazione di fondi comuni, ma anche la gestione e l’amministrazione dei rapporti tra gli investitori o perlomeno di quelli principali dei fondi. Quando si parla di fondi in generale si parla di OICR, organismi di investimento collettivo del risparmio, che includono i fondi comuni di investimento, le SICAV e le SICAF. Questi tre strumenti hanno in comune il fatto di gestire capitale di terzi in monte, ovvero c’è un gestore che gestisce direttamente e senza dover chiedere nulla agli investitori il loro capitale. In funzione della composizione di questo capitale ci sono poi i fondi azionari, obbligazionari, misti... Il plus della gestione collettiva del risparmio è che permette di diversificare gli investimenti anche di investitori reatail, gli investitori istituzionali hanno un capitale tale che possono tranquillamente allocarlo su un paniere molto diversificato di strumenti, possono investire in azioni, obbligazioni, derivati, in valuta, in euro, industrie... L’investitore retail invece non ha questa capacità e questa possibilità e quindi o investe in modo poco diversificato, cioè acquista qualche azione e qualche obbligazione di un paio di emittenti diversi, oppure acquista una quota di un OICR, ovvero una quota di questi fondi e panieri già diversificati, si prende una piccola fetta di questi panieri, ma è una fetta già perfettamente diversificata. Sono come gli investimenti in azioni frazionarie, perché con queste non si deve necessariamente acquistare un’azione intera, ma si può acquistare una frazione di azione che costa meno e dunque si può diversificare il proprio portafoglio, con lo Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 52 stesso capitale si possono infatti prendere ad esempio 10 azioni intere o 50 frazioni di azioni diverse. C'è però un problema di affidabilità di coloro che vendono le azioni frazionarie, problema che non esiste per coloro che gestiscono gli OICR, perché le società che le gestiscono hanno il loro patrimonio completamente separato da quello del fondo che gestiscono. La società che gestisce un OICR infatti, non possiede il capitale che gestisce all’interno del fondo, non iscrive quel capitale nel proprio bilancio, il capitale del fondo è separato da quello della società che lo gestisce, quindi nel caso remoto in cui la società di gestione del risparmio) dovesse fallire i creditori possono attaccare il capitale della SGR (società di gestione del risparmio, ma non possono attaccare il capitale dell’OICR che gestisce, perché questi fondi non sono di proprietà della società, semplicemente li gestisce per conto degli investitori che hanno acquistato quote di quel fondo o SICAV o SICAF, il capitale è solo dato in gestione. Ciò mette gli investitori degli OICR in una posizione di sicurezza e possono riprendere i loro soldi anche se la SGR è fallita, non devono rientrare nel processo di fallimento o concorsuale della SGR. Una OICR è un organismo di investimento collettivo del risparmio in cu si trovano fondi di investimento SICAV e SICAF, i loro vantaggi sono la diversificazione, la certezza della separazione del capitale della OICR e della SGR e il fatto che se si sceglie correttamente i gestori di un fondo hanno una conoscenza del mercato e una professionalità altissima, quindi è molto meglio affidare i propri risparmi ad un professionista che li gestisca piuttosto che cercare di fare da soli, la professionalità di coloro che gestiscono il fondo garantisce un rendimento superiore a quello che il singolo investitore retail potrebbe ottenere dai mercati. Un altro vantaggio sono i costi che in teoria la gestione in monte fa risparmiare: comprare una quota di un fondo comune è più economico che comprare singolarmente le 100 azioni dalle quali quel fondo idealmente è costituito, abbatte i costi di transazione, anche se comunque non è economica, l’unico strumento economico che fa le veci di un fondo comune sono gli ETP La banca Esistono modelli, ad esempio quelli tedeschi, che prevedono che almeno la maggioranza del capitale di una banca sia pubblico, le banche sono nate così anche in Italia, ma poi a partire dai primissimi anni ‘90 c’è stata un’enorme ondata di privatizzazione. C'è un modello simile anche in Spagna, mentre in Italia non esistono banche dichiaratamente con maggiore azionista il Governo. Si possono suddividere le banche guardando al loro modello istituzionale: ci sono banche più generaliste, che servono diverse tipologie di clienti, con varie eterogenee linee di business, oppure banche che decidono di specializzarsi e quindi la loro offerta è focalizzata su una particolare attività o un mercato geografico specifico, con una tipologia di clientela determinata. Per scegliere quale modello istituzionale accogliere. Per scegliere quale modello istituzionale accogliere tra quello più generalista e quello più specializzato si possono studiare 4 fattori determinanti in questa scelta: il primo è la grandezza e la complessità della banca, più è grande e complessa e più tenderà ad un modello generalista con un’offerta più ampia ed eterogenea. L’ambiente bancario, l'industry bancaria, è fondamentale: quando era ancora in vigore il Glass Steagall Act c’era un incentivo a specializzarsi in banca d’affari o in banca commerciale, ma caduto questo vincolo normativo una banca poteva spostarsi sicuramente verso un modello più generalista e quindi offrire entrambe le tipologie di servizio. I vincoli normativi in passato erano fondamentali, mentre ora meno, ci sono stati delle forte spinte regolamentarti rispetto alla decisione di quale modello istituzionale scegliere. In Italia in particolare ce ne sono state due molto forti negli anni ‘90, anni in cui l’ambiente bancario italiano è cambiato tantissimo. In primis per una serie di privatizzazioni e poi perché nel 1990 la legge non solo ha dato il via a questa serie di privatizzazioni, ma ha anche spinto in modo più o meno efficace verso un modello istituzionale preciso, che era quello del gruppo polifunzionale. Nel 1994 dalla creazione del Testo Unico Bancario si percepiva come il legislatore in realtà sembrava indirizzare la banca non più verso il modello del gruppo, ma quello della banca universale. Per questo i vincoli normativi non possono determinare al 100% una scelta, possono forzarla, ma sicuramente possono creare gli incentivi per guidare questa scelta. La legge 287 legifera questioni di anti-trust e sistematizza la materia delle partecipazioni bancarie e influenza indirettamente i modelli istituzionali. Queste sono le 3 spinte normative che in Italia hanno influenzato di più la scelta del modello istituzionale delle banche. Anche la dimensione e la complessità bancaria guida la scelta, infatti la banca grande e complessa tipicamente ha una visibilità economico-politica maggiore rispetto alla banca piccola e da una parte ha sicuramente un rapporto più diretto con l’autorità di vigilanza, mentre dall’altra parte è la prima interfaccia Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 55 decidere se acquistare dalle altre banche consociate uno specifico servizio per un cliente, acquistarlo all’interno delle banche del network o fuori chiedendo partnership con altre banche oppure erogare lei stessa quel servizio. Il fatto che la capogruppo non abbia partecipazioni di controllo in tutte le banche del network fa sì che esso non abbia una strategia comune e nemmeno una politica di prezzo comune. Il fatto che sono rimasti così informali è il punto di debolezza di questo strumento, che in passato ha funzionato perlomeno all’interno di un medesimo contesto geografico proprio con i network di banche di credito cooperativo, di BCC. In un determinato contesto geografico ci si poteva rivolgere ad una BCC appartenente ad un network e quindi beneficiare anche dei servizi delle altre BCC. Da una parte la pressione a diventare sempre più grandi e quotate, dall’altra il fatto che il network sono accordi informali privati ha fatto sì che questo modello istituzionale aveva delle ottime premesse, ma in realtà non è mai sbocciato davvero o quantomeno non ha mai messo in pratica quelle potenzialità che mostrava. Questa è la differenza tra il network e il gruppo finanziario, che è un insieme organizzato di banche specializzate e la capogruppo del gruppo ha delle partecipazioni dirette e anche di controllo nelle banche che fanno parte del gruppo, tantoché viene fatto un bilancio consolidato di un gruppo bancario. È una banca che assume partecipazioni più o meno elevate in una SIM, SGRR, assicurazione... in modo che ampli enormemente i servizi che può offrire. Il gruppo è quindi l’evoluzione o la formalizzazione del network bancario. Esistono almeno 3 modelli organizzativi di gruppo, anche se nella realtà poi i gruppi sono tutti misti. Ad esempio idealmente si può sviluppare il modello funzionale, ovvero ogni banca controllata svolge una funzione a sé. Non sono solo banche, ma possono essere SIM, SGR e assicurazioni. Oppure ci può essere un modello federale, che è come il network bancario, ma formalizzato, ovvero nel quale la holding (capogruppo) partecipa direttamente negli intermediari, quindi la specializzazione delle partecipate è una specializzazione geografica: la holding controlla i diversi intermediari sul territorio nazionale in modo da poter coprire idealmente tutto lo Stato. Oppure ci può essere un modello divisionale, ovvero la holding controlla delle divisioni in cui ogni sub-holding, ovvero ogni controllata si specializza in un segmento di clientela, un prodotto... Si prendono tante banche specializzate in aree strategiche differenti e li fa coordinare in modo univoco da una holding, che le partecipa e quindi partecipa anche eventualmente delle perdite a livello finanziario di bilancio aggregato. Sono delle divisioni vere e proprie, delle aree strategiche di affari vere e proprie o che si occupano a 360° di una specifica area geografica oppure contestualmente nelle quali c’è una controllata che si occupa di un’unica funzione per tutto. È molto frequente che determinate funzioni siano accentrate, ovvero che siano una funziona unica svolta per tutto il gruppo da una controllata. La finanziaria di partecipazione che controlla tutto il gruppo può essere una holding pura, ovvero il cui core business è l’assunzione di partecipazioni in altre controllate, oppure una società di partecipazioni mista, ovvero è una banca che svolge la stessa attività bancaria e inoltre ha queste partecipazioni all’interno degli intermediari del gruppo, svolge quindi attività operativa e di partecipazione, mentre quella pura svolge solo attività di partecipazione in tutti gli intermediari del gruppo. Un grosso vantaggio è che dal momento che il gruppo è così accentrato e accentrato in modo formale, sicuramente la visione strategica della holding è quella omogenea per tutto il gruppo. Questo è il motivo per il quale perlomeno fino a 10 anni fa era il modello istituzionale di punta per le banche italiane. È molto più semplice “tagliare i rami secchi” all’interno di questa organizzazione, ovvero alleggerire o diminuire la partecipazione in controllate che non performano bene, se invece si è in un’unica grande banca universale e una funzione non performa bene è molto più complicato chiuderla, nel gruppo invece si può eliminare la partecipazione e partecipare ad una nuova controllata più performante. Inoltre non ci sono quei costi e quelle difficoltà organizzative a seguito di una acquisizione perché l’acquisita non si deve integrare all’interno di un’organizzazione precostituita come una banca universale, ma semplicemente rimane con la configurazione che ha sempre avuto e si inserisce all’interno del gruppo così com’è. Ci sono però comunque degli svantaggi: tenere insieme tante imprese finanziarie non omogenee che addirittura fanno riferimento ad organismi di vigilanza diversi non è semplice. Inoltre il fatto che le controllate comunque mantengano una propria identità fa sì che non sempre partecipino mansuete alla visione strategica della holding e sicuramente perlomeno nei momenti iniziali di ingresso in un gruppo osi devono limare quelle aree di sovrapposizione che la nuova area potrebbe avere con altre aree strategiche o altre controllate. Non si vuole che due intermediari controllati Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 56 dalla medesima holding si facciano competizione tra loro sullo stesso mercato, questi sono i costi di coordinamento ed integrazione I modelli ibridi Questi sono i 4 grandi modelli istituzionali che una banca può avere, anche se nella maggior parte dei casi i modelli concreti sono quelli ibridi, quindi ad esempio una banca che è sì una banca universale, ma magari ha una partecipazione in una SGR, oppure un gruppo che è sì un gruppo vero e proprio, ma che magari ha accentrato come se fosse una banca universale tutta una funzione. Un'altra particolarità sono i conglomerati finanziari, che sono relativamente recenti perché nati all’interno di un ordinamento italiano del 2006 quando Banca d’Italia, CONSOV e IVAS, cioè l’autorità di vigilanza delle banche, dei mercati e delle assicurazioni si sono messe d’accordo per creare un framework regolamentativo per quei conglomerati che nonostante le riserve di legge svolgono un’attività ibrida assicurativa e bancaria, oppure assicurativa e sui mercati finanziari. Tecnicamente l’attività assicurativa per riserva di legge le banche non la possono svolgere, ma nella realtà non è così, per questo ad un certo punto le autorità di vigilanza di questi 3 ambiti si sono messe d’accordo e hanno creato un corpus di leggi ad hoc ‘er quesì conglomerati che svolgono contestualmente attività assicurativa e attività bancaria o attività di investimento sui mercati finanziari. In Italia non esistono conglomerati con tutte e tre le aree attive. Ad oggi l’unico conglomerato italiano è Generali, che tecnicamente è un’assicurazione, che è il settore prevalente, ma svolge ampiamente anche il servizio bancario, infatti l’autorità che coordina il corpus regolamentativo la quale è sottoposto Generali è l’IVAS, ovvero l’autorità delle assicurazioni, ma questo corpus comprende anche le norme bancarie. Fino all’anno scorso banca Mediolanum era un conglomerato finanziario, dove era prevalente l’attività bancaria, quindi l’autorità di vigilanza coordinatrice principale era Banca d’Italia, ma all’interno del corpus regolamentativo c’erano anche regole ad hoc per l’attività assicurativa che svolgeva. Da quest’anno però non è più con conglomerato, ha quindi ha esternalizzato l’offerta di prodotti assicurativi. I conglomerati sono nati nonostante ci fosse una riserva di legge, perché esser un conglomerato amplia esponenzialmente le capacità di cross-selling: se una banca può permettersi di fare cross-selling, che è molto remunerativo, soltanto tra strumenti bancari, un conglomerato che ha anche accesso ai prodotti assicurativi può fare cross-selling molto più eterogeneo. Inoltre ci sono anche possibilità di arbitraggio cross-border, ovvero si può decidere di partecipare ad un’assicurazione nell’est europeo perché la regolamentazione assicurativa in quel paese è molto basa rispetto a quella europea e quindi italiana. Questo è un incentivo per le banche a diventare un gruppo, di modo da avere partecipazioni anche in intermediari che non sono strettamente bancari, e poi diventare un grande conglomerato, ovvero includere anche partecipazioni. Il fatto di poter avere questi arbitraggi regolamentativi è un valore aggiunto enorme, la banca non solo può offrire dei servizi che in Italia non potrebbe offrire, ma partecipa anche in un'assicurazione che ha una pressione regolamentativa in quanto assicurazione inferiore. Questa è competizione sleale rispetto a tutti gli altri intermediari che più diligentemente non sfruttano questi possibili arbitraggi. Per questo motivo si è deciso di creare un corpus regolamentativo che tiene contestualmente insieme le aree bancarie, assicurative e di intermediazione sul mercarti finanziari. È stato necessario avere tre autorità coordinatrici delle aree di vigilanza contestuali, perché il corpus normativo è enorme già solo per le banche, combinando sotto un'unica cosa tutto il corpus normativo bancario e quello assicurativo è ancora maggiore e a livello concreto è un'operazione pesante e importante L'evoluzione dei modelli istituzionali Il vero spartiacque formale sono stati gli anni ‘90, prima di essi la regolamentazione bancaria è sempre stata identica ed immutata per decenni, c’erano i soliti medesimi player perlomeno a livello nazionale, immutati, che non si facevano competizione tra loro. Dagli anni ‘90 la spinta in primis a privatizzarsi ha portato un dinamismo ed una competizione superiore, perché se si deve iniziare ad attrare capitale di rischio, ovvero azionisti, il bilancio deve essere fruttifero, si devono staccare i dividendi per cercare di mantenere gli azionisti all’interno del proprio capitale di rischio e poi l’aumento del grado di digitalizzazione all’interno delle banche Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 57 ha portato un dinamismo enorme, che le ha fatte uscire dalla “foresta pietrificata” nella quale si trovavano le banche. Inoltre c’è stato un altro enorme shock con il Fin-Tech, ovvero con l’avvento non solo di competitor all’interno della propria industry, all’interno del territorio prima nazionale e poi internazionale, ma anche una competizione di player che non sono né banche, né intermediari finanziari, sono grandi conglomerati che hanno una competizione serrata ad esempio sui servizi di pagamento che possono offrire. Per questo motivo si parla di un passaggio tra banca come istituzione, garante dell’articolo 47 della costruzione, a banca come impresa, che deve generare flussi di cassa, che deve tenere contenti gli azionisti, con tutti i differenti gradi di esposizione rispetto alla concorrenza: la banca istituzione non ha concorrenza, non può fallire, invece la banca impresa ha un’enorme concorrenza sia interna che esterna alla propria industria e soprattutto è stato dimostrato che le banche possono fallire. Quindi il modello prevalente è passato da un modello che accentrava nella banca tutte le attività di intermediazione (per fare un mutuo, avere una predita...) a un’attività sempre più crescente e sempre maggiore nei cosiddetti circuiti indiretti, in cui la banca fa da tramite, da broker, in cui guadagna soltanto per via di pagamenti riferiti al servizio, le commissioni, è ciò che distingue il circuito diretto (la banca di interpone da transformer vero e proprio) da quello indiretto (la banca agisce da semplice broker, ovvero colloca, suggerisce, fa attività di consulenza, ma non si interpone davvero nell’attività finanziaria...). per questo motivo di parla di una forte disintermediazione del business bancario, che è un ossimoro, perché le banche sono intermediari per definizione, si interpongono per definizione tra i soggetti in surplus e quelli in deficit. Per sopravvivere in questo mondo sempre in evoluzione e sempre più complicato sia dal punto di vista normativo che di competizione tra le banche esse sono state costrette ad entrare anche nei circuiti indiretto, quindi essere anche prestatori di servizi, che fino a 20 anni fa circa non erano necessariamente servizi strettamente bancari. Per questo la lista delle cose che la banca può fare è sempre più presente all’interno dell’offerta bancaria, anche la banca più piccola svolge 3/4 attività extra, che l’attività può fare, oltre a quelle che deve fare. Un’altra caratteristica fondamentale dell'industry bancaria moderna è il fatto che stata scendendo drasticamente il numero di sportelli fisici, che è un trend in atto già da 25 anni e porta le banche ad essere sempre più attive sui canali digitali, non fino a diventare internet banking, ma sicuramente almeno online banking. Rimane comunque la banca un’impresa speciale altamente monitorata dall’autorità di vigilanza perché il fatto che il mercato sia sempre più accentrato e il fatto che i player siano sempre più grandi fa sì che il rischio di effetto domino e il rischio sistemico del fallimento di una banca cresca enormemente, ovvero anche banche che non sono enormi e di per sé sistemiche, hanno il rischio di innescare questo effetto domino, perché il mercato della banca moderna è sempre più concertato e sempre più attento a competere su circuiti indiretti anche con competitor non storici, ma anche con nuovi competitori che non sono nemmeno intermediari. Per questo motivo nel nuovo settore bancario non serve essere giganteschi come una volta, ma serve che conglomerati, gruppi e banche universali siano rapide nell’adattarsi ai cambiamenti di mercato, che in questo momento significa disintermediare, essere attivi sui circuiti indiretti e cercare di rendere la competizione per tutti. Dopo la spinta del ‘94 tante banche si sono focalizzate su organizzare le proprie attività seguendo alla lettera come doveva essere un gruppo bancario, ovvero una holding, sub-holding e controllate, ma il fatto di dover essere così rapidi ad adattarsi ha fatto sì che prevalesse sempre di più un modello ibrido al 100%, perché anche il gruppo che era così agile nel modificarsi non è riuscito concretamente a stare dietro a questa competizione. Il modello prevalente è dunque quello ibrido, perché bisogna essere veloci, non interessa essere al 100% coerenti con quello che il modello istituzionale richiede. Per essere veloci si fa qualunque cosa sia necessaria e nel modo migliore per essere competitivi ed esserlo subito, anche se ciò significa avere partecipate anche se si è una banca universale e assumere e creare divisioni anche se si è un gruppo. I modelli istituzionali puri funzionavano fino a che la competizione non è stata così elevata (almeno fino ad inizi anni 2000) Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 60 raramente, e quindi demanda l’esecuzione ad un altro intermediario. La differenza i punti 1,2,3 e il 4 è sostanziale, perché nelle prime la banca a vario titolo ha una posizione attiva, ovvero acquista in nome e per conto del cliente sul mercato regolamentato su una piattaforma multilaterale di negoziazione o addirittura da dealer in conto proprio, ma assume una posizione, ha un parte in causa nella compravendita. Quando la banca invece semplicemente riceve e trasmettere gli ordini, la banca prende l’ordine dal cliente e lo delega ad un’altra istituzione finanziaria. La banca chiede ad una banca terza di comprarle un tot di azioni in nome e per conto del suo cliente, quindi non solo non è un dealer, ma non è nemmeno un broker, non acquista direttamente in nome e per conto, ma demanda ad un terzo l’acquisto, riceve e trasmette gli ordini. O la banca non è abilitata all’esecuzione di ordini, oppure quando una banca è molto grande ha una propria società captive, ovvero una controllata, che fa soltanto quello e che esegue soltanto ordini di compravendita sui mercati, quindi demanda sì, ma ad una propria controllata che si occupa soltanto di trading mobiliare. L’attività 5 è la sottoscrizione o collocamento di strumenti finanziari, che significa che quando un’impresa si quota per la prima volta in borsa si affaccia sul mercato primario, ovvero vende per la prima volta i titoli e le azioni di nuova emissione e in contropartita che li acquista non ci sono investitoti retail, perché nel mercato primario possono operare soltanto investitori istituzionali. Questi investitori si organizzano all’interno del mercato primario: generalmente esistono 2 tipi di collocamento, quello pubblico e quello privato. Il collocamento privato avviene tramite un’asta imperfetta tramite book building nel quale semplicemente l’emittente raccoglie tutte le offerte proprio come in un’asta di volontà d acquisto dei propri strumento in emissione. Ovvero gli investitori istituzionali interessati all’acquisto di questi strumenti in emissione comunicano la combinazione di prezzo massimo e volume che vogliono acquistare. Il book building, la costruzione di questo libro, è l’ordinamento in termini non solo di prezzo, ma di rapporto prezzo-volume di tutte le offerte. Ovviamente vincono coloro che nel ranking hanno il migliore rapporto volume di strumenti che vogliono acquistare in emissione, ovvero il volume di nuovi strumenti che vogliono acquistare dall’emittente, con il prezzo più alto. Avviene tra l’emittente e le banche, gli investitoti istituzionali. Questo è il collocamento privato, il collocamento pubblico è invece quello che avviene nella maggior parte dei casi. In esso gli emittenti si interfacciano solamente con istituzionali ed essi si coalizzano in consorzi di collocamento, ovvero non agiscono come nel collocamento privato uno per uno in competizione tra loro, ma si uniscono in consorzi di collocamento e l’emittente paga le banche che si consorziano, perché con diversi gradi di efficacia garantiscono il buon fine dell’emissione dei nuovi strumenti, perché l’emittente sa che esiste un consorzio di banche o di intermediari finanziari nel senso più ampio (ad esempio anche le SIM possono fare queste attività). Quindi l’emittente sa che esiste un consorzio di intermediari finanziari pronto ad agevolare il collocamento dei suoi nuovi strumenti. Esistono 3 tipi di consorzio con un livello di garanzia del successo del collocamento crescente: la garanzia più bassa è data dal consorzio di semplice collocamento, gli intermediari che fanno parte di un consorzio di semplice collocamento si impegnano ad esortare i propri clienti ad acquistare quegli strumenti, si impegnano a consigliare e a proporre ai propri clienti l’acquisto di quegli strumenti. Ogni intermediario si fa portatore di una quota, di una parte di tutto il collocamento di tutti i nuovi strumenti. Ad esempio la banca si impegna a collocare un tot di euro di strumenti di nuova emissione, se si fa parte di un consorzio di semplice collocamento ci si impegna a proporre questo tot di strumenti ai propri clienti, se essi non li acquistano o li acquistano solo in parte, la restante parte torna nelle casse dell’emittente che dovrà procedere a collocarlo in altro modo. Per questo è la minima garanzia di successo del collocamento, perché la banca si impegna soltanto a proporre l’acquisto ai propri clienti. Un po’diverso è invece il collocamento di garanzia in cui la parte residuale di strumenti che la banca non è riuscita a collocare presso i propri clienti viene acquistata dalla banca stessa, quindi in questo caso il collocamento è garantito, perché la parte che la banca non colloca e non vende ai propri clienti l’acquista lei stessa. Di conseguenza l’incentivo della banca a vendere questi titoli è massimo, perché tutto ciò che non vende ai propri clienti lo deve pagare, quindi il successo è garantito, ma il cliente dovrà aspettare qualche tempo che il consorzio Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 61 chiuda la propria attività, ovvero generalmente si ha qualche settimana per proporre gli strumenti ai clienti e poi per chiudere con un’unica transazione l’acquisto degli strumenti residui. Diverso ancora è il consorzio con funzione si assunzione a fermo, in questo caso la banca che fa parte del consorzio acquisto in toto immediatamente la quota di strumenti di nuova immissione che si è impegnata a collocare. L’acquista subito, istantaneamente e poi in un secondo momento sarà onere della banca facente parte del consorzio di collocare quanti più strumenti reputa giusto presso i propri clienti. Questo è un doppio vantaggio per l’emittente, perché in primis garantisce il successo del collocamento e poi non deve nemmeno aspettare la chiusura delle attività del consorzio, perché tutti i titoli emessi sono acquistati in toto immediatamente dalle banche o dagli intermediari che fanno parte del consorzio con assunzione a fermo. Anche in questo caso si sta parlando solo della parte residuale: se non si colloca tutto ai propri clienti la parte che non si è riusciti a collocare la si deve riacquistare. I titoli sono affidati alla banca, il cliente si affida a lei, ma essa non li acquista agisce solo da broker e li colloca dall’emittente al cliente e poi in seconda battuta se non è riuscita a collocarli tutti compra la parte di titoli per la quale si era impegnata, ma non è riuscita a collocare. Negli ultimi due casi il successo è garantito: nel primo perché in un modo, comprato dai clienti, o nell’altro, ricomprato dalla banca, l’emittente colloca tutto, ma deve aspettare quelle settimane di collocamento e la chiusura. Con l’assunzione a fermo è sempre certa la riuscita del collocamento perché la banca compra tutto subito e direttamente e poi cerca di collocare, ha un esborso totale immediato, mentre nel secondo caso più brava è a collocare meno esborso ha, più colloca e meno deve comprare. I titoli che le banche all’interno di un consorzio di collocamento semplice non riescono a vendere tornano nel bilancio dell’emittente, dove in realtà sono sempre stati, che li vende direttamente sul secondario. Nel secondo caso le banche si impegnano a collocare gli strumenti in emissione ai propri clienti nell’arco di qualche settimana (4-6 per convincere i clienti ad acquistare questi titoli), quindi l’emittente non guadagna niente fino a che questo periodo di collocamento non si chiude. Una volta che esso è finito la banca vede quanti titoli è riuscita a vendere ai propri clienti, acquista tutti i restanti e poi dà tutto il controvalore, ovvero tutta la liquidità, all’emittente. Si deve dunque aspettare un po’di tempo perché l’emittente veda la liquidità, però è certo del buon fine del collocamento, vedrà prima o poi quella liquidità. Con l’assunzione a fermo invece si riducono i tempi: la banca che fa parte del consorzio di assunzione a fermo compra tutto il pacchetto per cui si è impegnata direttamente dall’emittente e subito, poi cerca di collocare e quindi di rivendere quei titoli ai suoi clienti, l’emittente in termini di tempo non aspetta nulla. Nel terzo caso quindi è certo il buon fine, come nel secondo, ma anche immediato (un paio di giorni) Altre attività della banca La sesta attività è la gestione di portafogli: un cliente può delegare alla banca la gestione del proprio portafoglio titoli. Inizialmente il cliente crea una sorta di contratto di mandato nel quale cliente e banca si accordano su quali siano le linee guida, gli obiettivi di investimento del cliente, su qual è il rischio massimo che il cliente riesce a tollerare, a volte anche sulla composizione per asset class del portafoglio ad esempio un cliente può non voler investire in derivati o non vuole che più del 70% del proprio portafoglio sia azionario. A parte il mandato la gestione effettiva degli investimenti del cliente è effettuata dalla banca, che decide cosa comprare, quanto comprare e cosa vendere, quando vendere, comunque però all’interno di questo mandato. È differente dall’attività 7 nella quale la banca semplicemente dà consigli di investimento al cliente. L’attività di consulenza è a pagamento e così deve essere, se non è a pagamento non è consulenza. Se ci si affida ad un consulente finanziario che per professione studia la situazione finanziaria del cliente, crea un portafoglio ad hoc e cerca di comprare e vendere i titoli nell’esclusivo interesse del cliente, allora è da pagare. La consulenza vera e propria prevede uno studio degli obiettivi di investimento, della posizione verso il rischio del cliente (quanto si è avversi al rischio), della situazione famigliare, dell’holding period ottimale… Si paga per ottenere un portafoglio disegnato sulle proprie specifiche esigenze. Questa figura che effettua lo studio Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 62 è il consulente finanziario, iscritto all’albo dei consulenti finanziari. Il private banker è un consulente finanziario molto specializzato che ha a che fare soltanto con patrimoni elevati. Ad esempio Intesa San Paolo ha la sua rete di consulenza, che è FidEuram, che è una rete di consulenza divisa in fasce di cui la maggior parte è tranquillamente per investitoti retail. Poi c’è Intesa San Paolo private banking che si occupa soltanto di clientela di standing elevato. La banca per svolgere tutte queste attività ed in particolare la consulenza e la gestione del portafogli deve conoscere molto bene il proprio cliente, motivo per il quale esiste la normativa MIFID, merket in financial instrument director, che si occupa anche del fatto che le banche agiscono nel modo più professionale ed etico possibile, inoltre si occupa in particolar modo di garantire i diritti degli investitori di protezione degli investitori retail, che sono sempre la parte debole in un qualsiasi contratto del tipo investitore retail e banca. Per questo motivo quando la banca svolge attività di gestione del portafoglio e di consulenza deve necessariamente sottoporre il cliente ad un test, un questionario di adeguatezza, ovvero la banca deve conoscere l’esperienza del cliente in termini finanziari, il suo status lavorativo, se si lavora in ambito finanziario, quali sono gli obiettivi di investimento, la tolleranza verso il rischio, la situazione famigliare… Per svolgere le due funzioni la banca deve conoscere molto bene il cliente, se il cliente non si sottopone al test o si rifiuta di rispondere ad alcune domande la banca non può accedere a queste due attività, la gestione e la consulenza. Per tutte le altre attività viste invece basta un questionario di appropriatezza, che dà una conoscenza più superficiale del cliente, che comprende soltanto generalmente la conoscenza delle maggiori asset class finanziarie e generalmente informazioni sulla situazione finanziaria (quanto si ha in liquidità, quanto si ha investito, quanto si ha immobilizzato). Non è infatti necessario conoscere nello specifico gli obiettivi di investimento o la situazione famigliare per eseguire un ordine semplicemente come broker, o a maggior ragione se si è un’impresa per collocare degli strumenti. Addirittura quando la banca semplicemente riceve e trasmette ordini, l’attività 4, la banca non ha bisogno di nessun requisito e di nessun questionario. Solitamente il questionario MIFID lo si compila quando si inizia un rapporto bancario, teoricamente soprattutto quello di adeguatezza deve essere rinnovato ed aggiornato almeno annualmente Tipologie di sistemi finanziari 2 delle variabili cardine del sistema finanziario: il mercato e gli intermediari. Importanza relativa all’interno di un sistema economico dei mercati e degli intermediari finanziari, in particolare quelli di natura bancaria, su questa importanza relativa si basa la distinzione tra i sistemi banco-centrici e i sistemi incentrati sui mercati. Tipicamente c’è una netta distinzione tra sistemi tipicamente e storicamente banco-centrici come quelli tedesco e italiano e all’estremo opposto sistemi tipicamente e storicamente basati sui mercati come quelli anglosassoni, ovvero americano e inglese. Questo è vero dal punto di vista storico, è sempre stato così, questa distinzione ha sempre visto da una parte Italia e Germania fortemente banco-centriche e dall’altra Stai Uniti ed Inghilterra fortemente incentrate sui mercati e meno sugli intermediari, ma non è sempre vero, le cose negli ultimi anni sono in evoluzione. Si parte comunque dal dato storico, sistemi banco-centrici erano e rimangono quelli in cui l’intermediazione e in particolare quella bancaria è fondamentale all’interno della funzione creditizia, mentre nei sistemi mercato-centrici la funzione creditizia e più in generale le transazioni finanziarie sono svolte in modo più autonomo dagli attori e quindi che questi convergono in autonomia sui mercati finanziari. In più gli intermediari svolgono il loro ruolo di broker e non di più, sui mercati basati sul mercato. In più in parallelo c’è un’altra distinzione importante che riguarda quasi esclusivamente l’efficacia e lo svolgimento della funzione creditizia, ovvero tra i sistemi basati sulla relazione tra i prenditori di fondi e gli intermediari. Questi sistemi in cui le relazioni tra clienti e intermediari sono più stretti generalmente combaciano con i sistemi banco-centrici. I sistemi banco-centrici infatti erano storicamente basati su funzioni creditizie fortemente influenzate dalle informazioni private o privilegiate che gli intermediari riescono ad avere in virtù della relazione personale e puntuale che hanno con il cliente. Un network di banche fortemente Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 65 proprietario delle imprese partecipate. Una BCC tendenzialmente non ha liquidità sufficiente per avere un pacchetto di partecipazione rilavante in una grande impresa quotata. Quindi quando entrambi i sistemi finanziario e reale sono molto concentrati questa commistione tra grandi imprese e grandi banche che vi investono è quasi inevitabile. L'ultimo punto dui debolezza di questa visione banco-centrica è il fatto che se sono queste solite poche grandi banche ad entrare negli asset idi governance delle imprese quotate, allora non ci si aspettare che portino grande innovazione, perché le banche non possono portare nuove idee industriali possono portare nuovi capitali, ma sicuramente una banca con una impegnata anche con capitale di rischio in un’impresa non voterà mai progetti troppo rischiosi e troppo innovativi perché quella liquidità che sta investendo l’ha presa dai suoi correntisti e quindi ha un dovere di gestione prudente di quella liquidità. Viene meno quindi il benefico cardine di diffondere il capitale di rischio, ovvero di quotare la propria impresa. Il mercato italiano rientra in questa dicotomia: ha un mercato fortemente banco-centrico, fortemente concentrato, un tessuto industriale costituito da microimprese con pochi enormi player. Quindi questa questione della commistione, del limitato accesso al capitale di rischio, della possibilità di creare frizioni, l’innovazione la si sta scontando tantissimo in Italia. Imprese industriali davvero innovative sono difficili da trovare in Italia, con qualche eccezione veramente di eccellenza. Il rapporto tra tessuto industriale e tessuto finanziario è un circolo vizioso, è vero che si è nati microimprese ed è vero anche che con poco capitale di rischio e tanto indebitamento bancario è difficile finanziare l’innovazione quando la si sta finanziando con un capitale prestatoti dalla banca con un milione di garanzie e di vincoli che le banche devono necessariamente richiedere, proprio perché il capitale che prestano non è di rischio, ma di debito, e non è loro, ma dell’anello più debole della società, ovvero l’investitore retail. Quindi finché non ci si smarca da questo meccanismo gli imprenditori italiani continueranno a trovare terreno fertile per il loro ingegno più all’estero che in Italia. Il sistema basato sul mercato Il sistema finanziario basato sul mercato utilizza il mercato e quindi l’incontro autonomo tra domanda e offerta di capitale senza che questo venga intermediato da un asset transformer e quini da intermediari di natura bancaria. Teoricamente i mercati prezzano gli emittenti, danno un valore qui ed oggi al potenziale delle imprese emittenti e lo fanno in maniera molto più puntuale del bilancio, che lo fa comunque, ma a cadenza annuale, il mercato invece valuta l’emittente tutti gli istanti in cui i mercati sono aperti. Quindi il mercato aggrega le informazioni di tanti emittenti e contestualmente le inserisce all’interno del prezzo, che sconta le informazioni storiche, contemporanee e private, dipende dall’efficienza debole, forte o semi forte dei mercati. Anche se soltanto i mercati fossero caratterizzati da efficienza in forma debole comunque hanno la capacità di aggregare tutte le informazioni relative agli emittenti e tradurle in una quantità comparabile, ovvero il prezzo, e che si aggiorna in funzione della disponibilità di informazioni dell’emittente stesso. La diffusione del capitale, ovvero il fatto che ci siano molti azionisti che offrono capitale di rischio ad un emittente fa sì che la governance, il governo societario, sia eterogeneo, vario, cambi nell’arco del tempo, sia il più diversificato possibile. L'azionista diventa sì socio quota parte dell’impresa partecipata, ma in realtà il singolo azionista non ha un grandissimo potere di ingerenza sulla governance, soltanto i grandi azionisti, ovvero quelli che hanno dei pacchetti non necessariamente di controllo e rilevanti, ma comunque importanti. Se si ha una piccolissima parte del capitale di un’impresa non fa nemmeno parte del governo societario. Un altro punto di forza enorme di avere capitale quotato, di essere quotati e di avere azioni, è il fatto che si può parametrare i pacchetti compensativi, le politiche di remunerazione del top management, proprio all’andamento delle azioni. In questo mod osi crea un incentivo a doppio filo affinché il top management curi gli interessi dell’azienda perché così facendo ne fa aumentare il valore in borsa e quindi il suo pacchetto compensativo, la sua policy retributiva ne beneficia. Ad esempio le stock option, in cui si blocca un prezzo di acquisto, più il valore dell’azione cresce e più il possessore della stock option guadagna a scadenza dal differenziale tra il prezzo bloccato di acquisto e il prezzo potenziale di vendita, ovvero il prezzo di mercato Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 66 dell’azienda. Però essere troppo orientati al benessere esclusivo del portare di capitale di rischio fa sì ad esempio che l’impresa sia più incentivata a staccare buoni dividendi piuttosto che a utilizzare quell’eccesso di liquidità per reinvestirlo nel core business, questo è un approccio di breve termine, che rende felici oggi gli investitori, ma che probabilmente nel lungo termine non pagherà perché un’azienda in cui non viene reinvestito nuovo capitale perde tutte le possibilità di miglioramento e di innovazione che reinvestire flussi nel core business può portare. Quindi è sicuramente un posto di forza quello di avere capitale diffuso e di poter collegare le performance dei manager alla loro retribuzione passando per il prezzo azionario dell’impresa quotata, ma non è privo di punti di debolezza. L’ultimo punto di forza del sistema basato sul mercato è il fatto che non si deve pensare al mercato finanziario solo come il mercato azionario, come un luogo in cui si può quotarsi e reperire capitale di rischio, ma è anche un luogo in cui si può acquistare altri prodotti finanziari, ad esempio i derivati, che sono utilissimi per il trasferimento di rischi e quindi la minimizzazione della concertazione dei rischi e la diversificazione del rischio. Una tipologia di derivato è lo Swap, che è lo strumento che permette la gestione e il trasferimento dei rischi. Swap significa letteralmente scambio. Uno Swap molto semplice è quello per cui due controparti si scambiano alla fine della vita del derivato due tassi: il primo emittente scambia un tasso fisso, quindi paga alla controparte un tasso fisso e la controparte paga alla prima un tasso variabile, fanno uno Swap, uno scambio. Ad esempio un’impresa che si indebita con una banca e ha ottenuto il pagamento di un tasso fisso che all’epoca della contrazione di questo debito sembrava vantaggioso, passando gli anni però ci si ritrova in un contesto in cui i tassi di mercato sono bassissimi e quasi nulli. Qualche tempo prima di questo abbassamento dei tassi si può entrare in uno swap fisso su variabile in cui la controparte paga un tasso fisso pari a quello che si deve alla banca e poi si scommette sul fatto che i tassi scendono, quindi si paga alla controparte un variabile, un tasso che è imprevedibile ex ante perché è variabile. In questo caso si sta scommettendo sul fatto che i tassi sul mercato scendono, in modo che se ne beneficia e si paga un tasso che scende perché è variabile, mentre la controparte paga quel tasso che si deve alla banca. È uno swap perché si paga il variabile, perché il fisso che si deve dare alla banca lo sta pagando la controparte del derivato. Se un investitore ha un debito nei confronti della banca e ogni anno deve pagare si suppone il 2%, se è un contratto si lungo termine può accorgersi che cambiando la situazione macroeconomica cambia anche la convenienza di questo contratto, ad esempio se sui mercati finanziari i tassi stanno scendendo potrebbe essere conveniente entrare in un contratto di Swap con un secondo investitore e quindi scambiare il proprio tasso fisso con un tasso variabile. Per fare ciò l’investitore principale promette al secondo investitore di pagare il tasso variabile, che è ignoto ex ante, perché non si sa quanto sarà il tasso di rifinanziamento principale tra tot anni, ma il principale investitore sta scommettendo che questo tasso variabile sarà inferiore a quello fisso e quindi sta scommettendo su un ribasso dei tassi. Magari per un po’di anni questo tasso del 2% è convenuto, ma poi ci si è accorti che pian piano il tasso variabile stava scendendo sempre di più dunque dopo un po’ l’investitore principale decide di scambiare il tasso fisso per quello variabile, quindi paga invece del 2% di tutti gli anni paga quanto è il variabile (v%) in cambio del fisso che il secondo investitore pagherà quello principale, pagherà dunque sempre, per tutti gli anni il 2%. Dunque il principale prende il 2% che gli dà il secondo investitore e ha assolto alle sue incombenze. Mentre si paga il variabile al secondo investitore e la differenza, ovvero lo spread, tra il 2% fisso e il variabile è il puro guadagno. Se le cose vanno come l’investitore principale che stava scommettendo sulla discesa dei tassi ha “vinto”, ma il secondo investitore che è entrato in questa scommessa, ovvero in questo Swap, era convinto che il tasso variabile ad un certo punto sarebbe risalito e l’investitore principale avrebbe pagato un tasso più alto come contropartita di un 2% fisso. Il secondo investitore quindi continua a pagare il 2%, ma se il tasso variabile in futuro torna a crescere allora le cose cambiano: l’investitore principale continua a pagare un tot percentuale che cresce sopra il 2% e il secondo investitore continuerà puntualmente a pagare il 2% e sarà lui a guadagnarci. Con lo Swap si sta cambiando il pagamento di un fisso con il pagamento di un variabile che ex ante non è noto. Ogni volta che ci indebita a variabile l’investitore sta scommettendo che il tasso Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 67 scenderà, così da pagare sempre meno, mentre la banca sta scommettendo che il tasso salirà, così da guadagnarci sempre più. La banca dunque spinge per i variabili quando ha aspettative rialziste e si accontenta di un fisso quando ha aspettative ribassiste. Il fatto che un’impresa operi all’interno di un sistema mercato- centrico aiuta a ottimizzare e trasferire il rischio perché ci sono degli strumenti come lo Swap e molti altri che aiutano a trasferire il rischio ad una controparte che ha delle aspettative opposte, tutti i derivati funzionano così: la parte in acquisto e quella in vendita hanno aspettative opposte. I punti di debolezza del sistema basato sul mercato sono pochi: il primo e più impattante è il fatto che non c’è un intermediario e quindi le scelte di investimento sono demandate in capo agli investitori retail, alle famiglie. Se esse diventano prestatori di capitale di rischio diventano la categoria meno tutelata tra gli investitori. Con innovazione finanziaria probabilmente esiterebbero dei prodotti o fondi comuni di investimento o prodotti complessi che fanno sì che le imprese trasferiscano direttamente parte dei propri rischi, tra cui anche i rischi operativi e di controparte, in capo alle famiglie e agli investitori, senza necessariamente che questi se ne rendano conto. Ad esempio quando si acquista una quota di un fondo comune, anche se è obbligazionario misto ha una quota di azioni e di derivati, ma quali derivati non lo si saprà mai, in cosa effettivamente si sta investendo il proprio capitale fino in fondo in uno strumento così complesso non lo si saprà mai. Quando si apre la lista degli strumenti che costituiscono un fondo comune di solito si ha l’esposizione dei primi 20% circa investimenti, nessun gestore dice tutto ciò in cui sta investendo, altrimenti nessuno comprerebbe il suo fondo, si copierebbe la sua strategia e non si acquisterebbe il suo investimento. Più il sistema non ha intermediari e banche che trasformano il rischio dei prenditori di fondi e lo annullano per quanto riguarda il rischio di controparte ed il rischio di liquidità, tutti questi rischi finiscono direttamente in capo agli investitori retail che sono i più deboli proprio perché nella maggior parte dei casi non hanno neanche le conoscenze sufficienti per operare su questi mercati. Nel sistema mercato-centrico si compra direttamente sul mercato, si apre la propria piattaforma, non c’è la banca o al massimo c’è, ma fa da broker. Ci può anche essere la banca che fa da broker perché non trasferisce il rischio, quindi il rischio di un broker non esiste, il rischio di quella transazione è tutta in capo all’investitore. Indicatori Per capire se un mercato è basato su una banca o un mercato ci sono degli indicatori, in particolare di due tipi: misure relative, e misure assolute. Sono misure relative tra l’importanza delle banche e dei mercati finanziari disintermediati, che funzionano anche senza l’intervento delle banche. Il primo è il totale dei depositi bancari diviso per il totale degli asset puramente finanziari, ovvero degli asset comprati e venduti sul mercato finanziario, questo dà una misura, un’approssimazione del volume di affari delle banche al numeratore e del volume di affari disintermediato, quindi comprato e venduto, negoziato sui mercati finanziari al denominatore. Maggiore è questo rapporto e maggiore è l’importanza relativa delle banche rispetto alle imprese, se è maggiore di 1 significa che è un mercato più banco-centrico, minore di 1 un sistema più orientato ai mercati. Questa è la ragione di tutte le misure relative, quindi al numeratore un’approssimazione delle banche e al denominatore un’approssimazione dell’importanza delle imprese quindi maggiore è il rapporto maggiore è banco-centrico quel sistema. Un'alternativa è vedere tutti gli attivi bancari divisi per la capitalizzazione di mercato, che non è da confondere con il flottante. Il flottante è l’insieme delle azioni pronte per la negoziazione di un emittente, ovvero che sono libere di essere acquistate e negoziate sul mercato azionario. Quindi non si tiene conto delle partecipazioni di controllo, perché non sono disponibili per la vendita e l’acquisto, e delle partecipazioni vincolate, perché sono azioni che devono essere detenute per un periodo minimo all’interno del portafoglio. Borsa italiana per quotare un emittente setta una percentuale minima di flottante su tutto il capitale che è del 25%, ovvero un’impresa che si quota deve avere almeno un quarto del suo capitale libero di essere negoziato sui mercati. Quando questo 25% non viene rispettato, quindi quando le partecipazioni di controllo o quelle vincolate si fanno troppe rispetto al Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 70 la loro market cap in modo diverso e quindi la banca mondiale non può più continuare perché sarebbe eterogenea la misurazione e quindi interrompe. È più inaspettato invece quando l’importanza relativa del credito ed in particolare del credito bancario, anche in Inghilterra e negli Stai Uniti sta crescendo, il trend è sicuramente positivo per gli Stati Uniti e in decrescita, ma con una media stabile, nel Regno Unito. Ciò significa che perlomeno negli ultimi 20 anni è venuta meno la dicotomia di mercato banco-centrico o sistema basato sul mercato, perché ad esempio gli Stati Uniti hanno un mercato finanziario molto sviluppato, ma anche un sistema creditizio, quindi tipicamente intermediato, altrettanto sviluppato. Non sono né basati sul mercato né sulle banche, probabilmente è uno dei sistemi che riesce a derogare a prescindere dalla fonte che eroga il maggior numero di servizi finanziari all’investitore finale, questo perché è sviluppato sia il mercato che il sistema bancario. L’Italia ha un mercato poco sviluppato e un trend dell’importanza del credito abbastanza piatto, ma superiore, quindi è un sistema più banco-centrico, ma le banche non hanno aumentato le loro quote di mercato e i servizi offerti sui mercati finanziari, quindi i servizi disintermediati che non passano dalle banche non hanno aumentato la loro capitalizzazione. In Italia se si guarda il numero di banche alla fine del ‘98 e del 2021, che sono il primo e l’ultimo dato disponibili, è sceso nettamente. Questo però è sì un indicatore netto, ma non significa che si è diventati meno banco-centrici, perché ci sono sì meno banche, ma con una market share praticamente immutata, cioè semplicemente sono diventate meno e più grandi, non hanno perso potere di mercato. Le masse intermediate dalle banche sono rimaste le stesse, ma nel ‘98 venivano intermediate da 921 banche e nel 2021 da 456. C’è una spinta di diventare player più grandi e quotati a partire dall’inizio degli anni ‘90 e ha portato ai risultati sperati. È anche sempre meno rilavante guardare se un mercato sia imperniato intorno al funzionamento degli scambi disintermediati o intermediati, ovvero se sia basato sul mercato o sulle banche, perché ci sono state delle forze esterne che hanno fatto sì che player bancari e non bancari si trovassero a competere sullo stesso mercato. Si è già visto ciò nel Fintech, dove il progresso tecnologico ha fatto sì che dei player bancari entrassero nel mercato anche creditizio, che è quello core delle banche, e che quindi ne aumentassero la competizione, ciò significa che i mercati in generale sono sempre più disintermediati. Il fatto che un’economia sia più disintermediata non vuole necessariamente dire che ci sono meno masse che passano dalle banche, perché negli ultimi 20 anni le banche hanno disintermediato la loro attività. Il fatto che un’economia sia disintermediata significa che non c’è necessariamente una banca che agisce da asset transformer, ovvero che si interponga davvero nei flussi finanziari, la banca si interpone e quindi non c’è più una sola transazione, ma due, una tra banca e primo cliente e l’altra tra banca e secondo cliente. Dunque un’economia disintermediata storicamente si intende dire che ci sono meno banche, che l’attività bancaria di intermediazione di asset transformer è diminuita, ma stanno cambiando le cose, tante banche agiscono anche e sempre di più da prestatori di servizi puri, da asset broker, quindi che stiano disintermediando il loro stesso business. Non agiscono solo da asset transformer, ma piuttosto che lasciare tutta la parte di servizi puri ad altri player o ai mercati hanno semplicemente iniziato ad agire anche da prestatori di quei servizi , anche da puri broker, anche solo da dealer, quindi non fanno solo gli asset transformer, non intermediato ed interpongono e basta, ma hanno aumentato il loro ventaglio di servizi anche a tutti quei prodotti che non sono strettamente di natura bancaria, li si potrebbe acquistare anche da un intermediario che non è bancario. Il cross selling si ha quando un medesimo istituto bancario riesce a vendere e a collocare a uno stesso cliente prodotti provenienti o da più divisioni, se si sta parlando di una banca universale, o da più intermediari del gruppo, se si sta parlando di gruppo bancario. Si chiama così perché si deve pensare ad uno stesso individuo cliente che di solito ha necessità complesse sotto il fuoco incrociato, ovvero in cui tutte le banche o tutti gli intermediari di un gruppo vendono allo stesso individuo prodotti differenti. Ad esempio la SGR del gruppo gli propone il fondo, la banca il mutuo, la parte di corporate un’acquisizione di un pacchetto rilevante della sua azienda... Quindi se è un gruppo diversi intermediari del gruppo servono lo stesso cliente con esigenze complesse, se è una grande banca universale diverse divisioni o funzioni della banca propongono al medesimo cliente diversi prodotti. Il fatto che ci sia sempre più cross Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 71 selling fa sì che questa questione della disintermediazione di circuiti puramente intermediati o perlomeno in origine, quindi appannaggio delle banche come asset transformer, ha ampliato moltissimo il ventaglio di prodotti che una banca può offrire, quindi si è fatta ancora più presente la possibilità di cross selling, perché il grande gruppo può offrire prodotti assicurativi, prodotti bancari, consulenza in maniera di investimenti e finanziamenti... Quindi non si perdono quote di mercato, ma anzi le si prende includendo nella propria struttura organizzativa anche intermediari che non sono di natura bancaria. Ogni grande banca ha la sua SGR captive, la sua impresa assicurativa captive... Per la specializzazione il ruolo delle banche teoricamente è venuto meno o perlomeno non è così centrale per lo sviluppo dell’ambiente finanziario, dell’offerta di servizi finanziari, il fatto che siano nate degli intermediari finanziari non bancari specializzati in singoli prodotti o singole funzioni che tipicamente erano di natura bancaria. La combinazione minima per essere definiti banche è da una parte prendere risparmi a prestito dai soggetti in surplus e dall’altra erogare credito. Ci sono imprese che non sono banche, che sono specializzate solo nell’erogazione del credito, le imprese di credito al consumo. Il fatto che siano nate queste imprese iper-specializzate, che non sono bancarie, ma che offrono servizi in aperta competizione a quelli bancari ha fatto sì che non fosse più scontato il ruolo centrale e accentratore della banca in un’economia. Il fatto che le banche sono state furbe a diventare sempre più complementari con i mercati e, se è vero che sono nati degli intermedi non bancari che offrono prodotti che prima erano solo appannaggio bancario, è anche vero che ora le banche offrono servizi e prodotti che non sono tipicamente bancari, tipo servizi di investimento, consulenza finanziaria, cartolarizzazioni... La cartolarizzazione La cartolarizzazione o securitization si ha quando i diritti provenienti da uno strumento finanziario vengono iscritti, cartolarizzati, in un altro, vengono incorporati in un altro strumento. Uno strumento cartolarizzato è uno strumento ibrido che viene collocato sul mercato e quindi acquistato da investitori retail. Generalmente ha come sottostante un rapporto di debito, delle obbligazioni, ma sono obbligazioni particolari che si chiamano asset backed. I flussi che queste obbligazioni particolari pagano a coloro che li hanno acquistati provengono da un altro strumento, per questo si appoggiano e sono sostenute da un altro, quindi i flussi di cassa che vengono promessi sono tanto più sicuri quanto lo strumento dal quale provengono lo sia, più sicuro è lo strumento di partenza che produce flussi e più lo è il fatto che la ABS paghi il consumatore finale. L'investitore finale che compra l’ABS pretende un pagamento, una cedola, che viene però pagata solo e soltanto se l’asset che c’è alle sue spalle produce i suoi flussi. Il problema è che generalmente questo asset che è alla base, che deve produrre questi flussi, è un fondo in cui sono contenute attività e strumenti tipicamente illiquidi e con un basso rating creditizio, ovvero con poche probabilità di creare flussi. L'ABS è emessa da un emittente, un intermediario detto SPV, special purpose vehicle, che è un intermediario nato esclusivamente per la collocazione di questo strumento, quindi in rating si vede la bontà dell’SPV che emette quello strumento e poi si vede che il sottostante è un fondo di strumenti vari e ben diversificati. Il classico esempio di ABS è la MBS, mortgag backed securities, è il titolo che ha dato la spallata finale allo scoppio della crisi del 2008. L'asset che teneva in piedi tutto il sistema di creazione di flussi erano i mutui, che più banche avevano erogato ai propri clienti, i clienti che chiedono un mutuo e che quindi pagano la rata del mutuo, sono i motori e creatori di questi flussi, pagano la rata del mutuo, sono i motori, i creatori di questi flussi, pagano la rata del mutuo, queste rate servono per pagare affinché questo veicolo paghi la remunerazione a coloro che comprano queste ABS. Quindi la remunerazione arriva se i mutuatari pagano il mutuo, se non pagano invece non ricevono il loro compenso, ma avendo un contratto di credito la SPV fallisce, perché sono creditori e non prestatori di capitale di rischio, è da contratto che vengano remunerati e che venga restituito il capitale a scadenza. Se la SPV fallisce significa che la banca non ha ricevuto le rate dai propri mutuatari e quindi significa che bella banca ci sono un sacco di mutui non performanti. È esattamente ciò che successo, le banche americane hanno preso tutti i mutui non performanti che avevano, li hanno messi in fondi, hanno Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 72 creato dei veicoli esterni alle proprie banche. Pensavano che in questi fondi anche se tutti non avessero pagato comunque avrebbero avuto la liquidità per pagare le ABS e intanto le banche avendo venduto questi mutui avrebbero ricevuto molta liquidità, perché chi li acquista li ha pagati subito: la SPV vende il suo ABS che vinee pagato immediatamente. Il problema è che la qualità dei mutui in quei fondi è decresciuta, è peggiorata sempre di più con il tempo, perché tantissime banche avevano fatto questa mossa, quindi una volta che il mutuatario non riusciva più a pagare il mutuo la banca riceva la casa che era ipotecata e la cedeva sul mercato, ma così il mercato si è saturato, perché un sacco di persone avevano ricevuto un mutuo senza che potessero avere le garanzie necessarie, non avevano né lavoro, né reddito, né garanzie. Le banche quindi esternalizzavano il rischio dei mutui, perché tanto il rischio era di coloro che compravano le ABS, ma non hanno tenuto conto del fatto che vendendo così tane case il mercato si satura e dunque quelle case in ipoteca non avevano più il valore necessario a coprire la perdita. La cartolarizzazione quindi è la creazione di uno strumento sintetico, cioè che prende i flussi finanziari che servono per remunerare i compratori di questi strumenti da un secondo asset, che generalmente è un fondo, un portafoglio di più strumenti, che generalmente sono poco liquidi e di non altissima qualità. Questo portafoglio deve produrre i flussi di cassa necessari per remunerare coloro che acquistano gli strumenti cartolarizzati, che prendono il nome di ABS, ovvero di strumenti supportati da un altro strumento, supportati perché gli ABS ricevono fondi con i quali deve remunerare i propri investitori da un altro strumento che lo supporta e ne fornisce la liquidità. L’ABS sono emesse da veicoli con uno scopo preciso, infatti sono intermediari finanziari non bancari che nascono ad hoc per il collocamento di questi strumenti e che muoiono alla fine della vita dello strumento, dell’ABS Lo shadow banking Lo shadow banking è ogni forma di intermediazione creditizia che coinvolge entità o attività in parte o completamente al di fuori del sistema bancari tradizionale. Accade ogni volta che un intermediario non bancario svolge la funzione creditizia. Un intermediario non bancario che svolge funzione creditizia come core business sono le società di credito al consumo, non sono banche, ma erogano credito. Lo shadow banking ha diverse sfumature. In Italia sono anch’essi regolamentai, dalla vigilanza bancaria equivalente, che non è stringente come quella classica, ma fa sì che gli intermediari non bancari ma che colgono attività creditizia siano più solidi. C'è sempre stata, ma solo negli ultimi anni è diventata davvero stringente, per la questione delle società di credito al consumo che erano diventate tante e quindi un fenomeno importante e spesso non molto stabile. La rilevanza del sistema bancario ombra è tanto più importante maggiore è la pressione regolamentare sulle banche, infatti più vengono messi paletti e vincoli all’attività bancaria, più questa viene svolta da coloro che possono elude in tutto o in parte questa pressione regolamentare, quindi da non-banche. Si trovano tanta più liquidità gestita e tanti più attori in questa bolla di shadow banking quanto più il settore bancario è pesantemente regolamentato in uno stato, nazione, area geografica. In Italia c’è una regolamentazione bancaria rigidissima, probabilmente si ha un grosso incentivo allo shadow banking e per questo motivo il sistema bancario ombra è regolamentato comunque dalla vigilanza bancaria equivalente, che non è così stringente come quella puramente bancaria, ma che comunque regolamenta le attività che si svolgono nel sistema bancario ombra parallelo e alternativo. Il sistema bancario ombra è costituito da tutti quegli intermediari che non sono banche, ma che comunque svolgono la funzione creditizia, la rilevanza del sistema bancario ombra è inversamente proporzionale alla pressione regolamentare che il sistema bancario ufficiale deve sostenere-. Quindi maggiore è la pressione regolamentare alla quale sono sottoposte le banche, intuitivamente maggiore è l’incentivo di queste ad operare fuori dai canali ufficiali e a maggior ragione maggiore è l’incentivo per intermediari terzi diversi dalla banche di svolgere perlomeno in parte la loro funzione caratteristica, ovvero la funzione creditizia. Il mondo dello shadow banking non è omogeneo, ci sono diversi operatori che operano Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 75 il processo di cartolarizzazione e l’utilizzo di una SPV vengono portati fuori dal bilancio bancario, che sembra solo formalmente alleggerirsi di tutti quegli asset non liquidi, ad esempio i mutui sub-prime, cioè quelli concessi a prenditori di fondi che non hanno garanzie o caratteristiche tali da potersi aspettare che avrebbero onorato quel debito. Quindi il progresso tecnologico, la finanza creativa, l’ingegnerizzazione finanziaria… sono riuscite ad esplodere proprio in concomitanza della minor regolamentazione che i mercati finanziari hanno avuto e la globalizzazione, ovvero la crescente integrazione tra i mercati, ha aiutato questo processo di concentrazione, in primis perché il campo di gioco sul quale i player bancari si scontrano è passato da essere puramente nazionale ad essere internazionale e per essere un vero player internazionale bisogna avere una massa critica molto maggiore e di cui l’incentivo a concentrare i mercati e quindi a creare player sempre più grandi. Queste sono le tre leve principali che dagli anni ‘90 in poi hanno portato ad una forte concentrazione del mercato. Siccome concentrazione significa diminuzione dei player ci si aspetta che con meno player si ha meno competizione, ma così non è successo: maggiore concentrazione bancaria ha significato sì minor numero di player, meno banche, e sì banche con un potere di mercato maggiore, ma il grado di competizione tra questi grandi player non sembra necessariamente essere diminuito. La competizione non è diminuita perché ha visto entrare nuovi player non bancari nel mercato, ad esempio con il FinTech, ma all’interno del mercato bancario con meno player bancari con più quote di mercato, allora non c’è grande competizione tra i primi più grandi player a livello nazione né in Italia né in nessun'altra parte del mondo. È vero che la competizione non è diminuita, ma perché sono entrati a partire dagli anni 2000 player non bancari. L’industry bancaria si concentra tramite le 3 leve esterne e per integrazione verticale o orizzontale. Non c’è molta integrazione verticale a monte o a valle per quanto riguarda l’industria bancaria, si può pensare ad esempio ai fornitori come le SGR, che possono offrire dei prodotti, i fondi comuni di investimenti, che poi a valle le banche possono collocare, ma non ci sono dei veri e propri, generalmente i prodotti e i servizi che le banche collocano sono creati all’interno della banca stessa. Più pratica è invece l’integrazione orizzontale, ovvero una medesima banca si espande su segmenti di mercato differenti, segmenti di clientela differenti… Può fare ciò o spostandosi verso modelli tipo banca universale o verso modelli come il grippo bancario, in entrambi i casi si tratta di concentrazione di integrazione orizzontale, perché semplicemente da banca specializzata, diventa più grande e acquista quote di mercato perché si sposta su segmenti adiacenti di clientela, o a livello territoriale, o di prodotti… Nella stragrande maggioranza dei casi la concentrazione bancaria avviene per vie orizzontali. Le forme giuridiche che una banca in Italia può avere sono due: S.p.A. e società cooperativa per azioni. L’unica forma coerente con la nascita di grandi poli bancari è la prima, ovvero la società per azioni, perché non si riesce a recuperare tanto capitale di rischio tramite vendite obbligazionarie, oppure ancora meno raccogliendo la liquidità in eccesso dei clienti. Si ha quindi necessariamente bisogno di quotarsi in modo da raccogliere ingenti flussi di capitale di rischio che possono permettere di espandersi in altre aree di affari, o in altre aree geografiche, o aprire nuove filiali, acquisite altre banche più piccole… Per fare tutto ciò serve capitale di rischio, non si può pensare di finanziare queste attività così rischiose tramite capitale obbligazionario, non si può pensare di restituire necessariamente tutto il capitale necessario per questi investimenti a lunghissimo termine e dall’esito non scontato, quindi rischiosi, e più gli interessi. Per questo motivo ad oggi la forma giuridica prevalente per le banche è la S.p.A. con un forte impulso dagli anni ‘90, ma poi suggellato, in Italia, nel 2018 dalla riforma Renzi Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 76 Benefici di una grande banca Una banca vuole crescere e sottostare a questa pressione di diventare sempre più grande perché può trarne dei benefici: economie di scala e di scopo, il cross-selling, se il singolo polo bancario può offrire tanti prodotti o servizi differenti ad un unico cliente dalle esigenze complesse sicuramente si fidelizza moltissimo questo cliente: se il cliente imprenditore è seguito sia a livello di patrimonio personale che di gestione dell’impresa, di finanziamento, sia a livello patrimoniale, quindi la gestione degli immobili (ad esempio una collezione d’arte)… dalla medesima banca è impensabile per esso cambiare il proprio istituto finanziario di riferimento, perché significherebbe trovare o un altro istituto in grado di fornire tutti i servizi e i prodotti che la banca attuale offre oppure cercare banche specializzate ad hoc con le quali instaurare rapporti che forniscono i singoli servizi di cui si ha bisogno. Il fatto di diventare un player bancario grande fa sì che queste economie di scala e di scopo facilitino di molto il cross-selling che è più economico per la banca, ma ha anche la grande aggiunta di fidelizzare fortemente il cliente. Inoltre diventare un grande player internazionale fa sì che la reputazione della banca aumenti e ne aumenti il potere di mercato, quando si sorpassa una certa soglia critica di potere di mercato si passa dall’essere price taker a price maker, ovvero è la stessa banca a contribuire a determinare i prezzi di un determinato prodotto o servizio sul mercato bancario. Complessivamente non è venuta meno la competizione sul mercato bancario, ma sicuramente le grandi banche non si fanno una guerra di prezzo tutti i gironi, se le grandi banche contribuiscono a determinare i prezzi dei prodotti e dei servizi non gli serve giocare al ribasso, perché potrebbero sì rubare una fetta di clienti altrui, ma perderebbero tutti i guadagni potenziali. Inoltre avere un grande portafoglio crediti, un grande portafoglio titoli, un grande portafoglio di negoziazione... fa sì che si possa diversificarli e quindi minimizzare il rischio se si riesce ad avere un portafoglio clienti molto ampio e molto eterogeneo, probabilmente si riesce a diversificare anche il portafoglio crediti, ovvero creare dei contratti di credito verso dei soggetti differenti che rispondono in modo diverso al medesimo shock. Ad esempio ci sono dei prenditori di fondi che reagiscono di più ad una crisi, ad esempio persone con un contratto di lavoro a tempo determinato e persone la cui capacità di produzione del reddito reagisce meno, ad esempio un pensionato il cui flusso reddituale arriva a prescindere dalle condizioni economiche. In questo modo anche il portafoglio crediti, che è statico, può essere diversificato in modo da combatterne il rischio. A maggior ragione se si è una grande banca ci si può permettere da diversificare enormemente il proprio portafoglio titoli, quindi avere degli investimenti attivi sui mercati più disparati, con le valute più disparate... serve una massa critica di asset da gestire, di liquidità da gestire... per poter diversificare il proprio portafoglio. È la stessa logica degli investitori retail per giustificare l’utilizzo dei fondi comuni di investimento piuttosto che i singoli investimenti ad hoc. Per crescere in primis ci si espande per via orizzontale e poi si può scegliere se crescere per linee interne o per linee esterne, qui si differenzia la nascita di grandi banche universali, che crescono per linee interne, o di grandi gruppi bancari, che crescono per linee esterne. Quello per linee interne è molto più lento, si può esercitare molto più controllo su quali e quanti attività e sul timing con le quali svilupparle e fa sì che queste attività neonate siano immediatamente integrate all’interno dell’organizzazione bancaria. L'organizzazione per linee esterne è invece molto più rapida, si acquisisce un terzo intermediario o si investe con una partecipazione rilevante o di controllo in un terzo intermediario, ad esempio in un’altra banca, in un’assicurazione, in una SGR... e quasi istantaneamente si riesce ad ampliare il ventaglio di offerta, Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 77 ma i costi di integrazione di questa nuova entità all'interno del gruppo sono sicuramente superiori, inoltre spesso si possono creare delle sovrapposizioni tra i servizi che già il gruppo offriva e quelli del nuovo intermediario acquisito. Ad esempio se un grande gruppo acquisisce una banca sicuramente entrambi avranno una sezione retail, quindi su quella funzione, quella tipologia di servizio offerto si creano delle sovrapposizioni. Ci vuole molto tempo per integrare completamente la nuova entità. Un esempio è quello di Intesa San Paolo, che pochi anni fa ha acquisito Ubi banca, fino all’anno scorso rimaneva a sé stante la funzione di factoring e di leasing di Ubi, ma da quest’anno è stata completamente integrata nell’offerta a marchio Intesa San Paolo, ci vogliono tempo e costi per integrare completamente un terzo intermediario che viene acquisito per linee esterne. Inoltre ci si deve espandere anche all’estero, tramite la globalizzazione il campo di gioco si è spostato dal mercato bancario nazione all'industry bancaria mondiale, per essere un grande player ci si deve necessariamente spostare anche all’estero. La banca nazionale all’estero si espande per via diretta o indiretta, sono due grandi modalità. La seconda a sua volta può avvenire tramite rapporti di corrispondenza, ovvero una banca apre un conto presso un’altra banca in modo che se si ha un tot di clienti imprenditori che vogliono iniziare a sondare il mercato di un’altra nazione, ad esempio il mercato argentino da parte delle banche italiane negli anni ‘50-’60, si può continuare a seguirli pur non avendo una filiale in quella nazione: aprendo un conto cumulativo presso una banca di quella nazione e si gestisce la liquidità dei clienti in fondi tramite quel conto. Quindi perlomeno nelle prime fasi i clienti hanno comunque la loro banca nazionale come interlocutore primario, sanno sempre che anche in quella nazione possono appoggiarsi alla loro banca esattamente come se fossero nella loro nazione. Questa è sì una modalità di espansione, ma molto cauta, non è così che si diventa un grande player internazionale, ma sicuramente è così che si può cominciare. Un altro modo più incisivo è l’accordo una tantum, che non significa una volta ogni tanto, ma una sola volta in modo sporadico, quindi questi accordi sono accordi tra due banche per singole operazioni. Si fa un accordo con una banca locale affinché la banca possa comunque continuare ad operare e finanziare quel progetto in collaborazione con quella banca, ma questa collaborazione finisce quando finisce il finanziamento di quello specifico progetto. Ancora più pervasivo è l’accordo di join venture, la banca nazionale si rende conto di non essere in grado di fornire dei servizi specifici che possono essere richiesti da un particolare segmento di clienti. Ad esempio non si hanno fondi con legislazione di una certa nazione, quindi si fa una join venture con una banca di quella nazione. Non è per una singola operazione, ma per un’intera tipologia di strumenti o di servizi, che non si presidia, ma che invece un’altra banca offre. Invece che perdere il cliente e darlo ad un’altra banca ci si allea tramite una join venture con questa banca. L’ultimo livello è il franchising, in cui una banca cede il nome e i segni distintivi ad un’altra in un altro stato e quindi vede la propria rete automaticamente espandersi, sono modalità indirette perché l’operatività della banca non si è spostata all’estero, semplicemente ha cercato in un modo o nell’altro dei partner già presente all’estero che operassero in nome o per conto o a fianco della banca nazionale Espansione per canali diretti Un'altra questione è invece l’espansione per canali diretti, cioè quando fisicamente una banca si sposta a varo titolo all’estero e sposta parte della propria operatività all’estero. Anche in questo caso si parte dal modo più semplice: aprendo un ufficio di rappresentanza, che non può svolgere Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 80 quell’effetto domino che fa sì che una crisi bancaria di una singola banca diventi una crisi del sistema bancario. Il LGD è la perdita dato il default, ovvero una volta che la banca è fallita qual è la perdita che il sistema registra, invece il PD è la probabilità che una anca fallisca, vada in default. Il fatto che una banca sia o meno una GISIB non è legato ad una basa probabilità di fallire, ma ad un enorme LGD, non sono banche così stabili che la loro probabilità di fallimento sia molto bassa, quello sarebbe troppo grandi per fallire, ma sono troppe grandi per essere lasciati fallire, perché la perdita che causerebbero al sistema dato il loro fallimento, quindi una volta che siano fallite, sarebbe troppo grande. Innescherebbero un effetto negativo sulla stabilità dell’intero sistema bancario, molto probabilmente anche finanziario e reale. Inoltre il termine too big too fail minimizza e semplifica la questione, perché il criterio dimensionale è sì rilevante per essere dichiarati GISIB, ma non è l’unico, non è che più una banca è grande e più necessariamente ha rischio sistemico e quindi è sicuramente una banca GISIB, ma ci sono 5 criteri che il comitato di Basilea prende in considerazione per dichiarare una banca effettivamente GISIB Criteri delle GISIB Il primo è l’operatività internazionale che deve essere particolarmente elevata. Il secondo è la dimensione. Il terzo è l’interconnessione, maggiore è essa, maggiore è il suo rischio sistemico e maggiore è la probabilità che il fallimento di una banca molto connessa possa causare se non il fallimento comunque l’indebolimento dal punto di vista del merito creditizio di un’altra banca. Il quarto è la sostituibilità, il sistema bancario stesso si sta disintermediando, ovvero le banche sono prestatrici di servizi che un tempo non erano necessariamente erogati da un ente bancario. Le banche anche per affrontare il FinTech e quindi all’ingresso di nuovi player in ambito bancario hanno dovuto ampliare il loro ventaglio di offerte anche su strumenti di pagamento che non fanno parte generalmente dell’attività core e caratteristica della banca. Quindi più una banca ha un alto tasso di sostituibilità, ovvero eroga servizi che altri istituzioni non necessariamente bancari generalmente erogano, più il suo rischio sistemico è grande, perché il suo fallimento impatterebbe anche non solo sui circuiti bancari, ma sull’intero circuito finanziario, ad esempio anche con i prestatori di servizi di pagamento. Quindi da una parte i suoi competitor e dall’altra anche i player che dipendono dalla stabilità di una banca non sono soltanto bancari, maggiori sono i player che dipendono dalla stabilità di una banca e a maggior ragione se non sono soltanto puri competitor bancari, ad esempio società di credito al consumo o IMPEL, IP… maggiore è il rischio sistemico di quella banca, perché il suo fallimento indebolirebbe non solo le partnership con altre banche ma anche quelli con altri istituti finanziari non bancari. Il quinto è il fatto di essere fornitori di servizi complessi, che non si trovano iscritti all’interno del bilancio, sono quei servizi o quei prodotti ad esempio i derivati complessi, strutturati, cartolarizzazioni… che sono iscritti fuori bilancio, non entrano nei calcoli di attivo e passivo. Un’attività che non rientra nel calcolo del risultato netto di bilancio può influenzarlo, questo perché se c’è un grosso buco fuori dal bilancio deve essere colmato da risorse liquide che sono nel bilancio. Le attività fuori bilancio non sono inesistenti, la banca vi ha investito, quindi il fatto che non sono computate a bilancio è un trucco per non appesantire troppo le passività di un bilancio e a maggior ragione non far pesare troppo quelle attività rischiose. Tecnicamente sulla carta non intaccano sul bilancio, ma se si perdono dei soldi si sono persi in ogni caso, a prescindere che siano iscritti o meno nel bilancio, è una perdita vera. Per questo motivo più si è fornitore di quei servizi Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 81 che sono complessi, di cui una parte è fuori dal bilancio, più c’è il rischio che in quella parte fuori dal bilancio si stia eccedendo enormemente con il rischio. Non si mette un’attività a bilancio perché sarebbe molto rischiosa e quindi bisognerebbe in primis valutarla al valore di mercato, che oscilla e crea imprevedibilità, e poi costerebbe moltissimo in termini di capitale regolamentare: per un’attività molto rischiosa si deve tenere da parte un tesoro di liquidità, quindi se non la si iscrive a bilancio si avrà un’ottima ragione per non farlo, ovvero che è molto rischiosa. Se si hanno molte attività che è meglio non iscrivere a bilancio significa che si sta superando troppo il rischio, anche perché le attività complesse e a maggior ragione quelle fuori bilancio (non tutti i servizi complessi sono fuori dal bilancio) non rientrano nell’attività core della banca, quindi c’è anche il rischio che l’attività basica di prendere risparmi ed erogare credito sia messa in piano secondario al crescere di questi servizi complessi. Queste sono le 5 voci su cui una banca viene valutata per essere iscritta o meno nel registro delle GISIB, ogni voce pesa uguale e ha la stessa importanza. L’operatività internazionale viene misurata dalle attività e le passività all’estero, la parte di attivo e di bilancio che hanno come controparte qualcuno che è al di fuori dei confini nazionali. La dimensione è un’approssimazione del totale dell’attivo, è un indicatore dimensionale anche se in realtà è il totale delle esposizioni di una banca calcolate come indicato dagli accordi di Basilea 3. L’interconnessione sono le attività e passività, quindi negoziazione, verso altre società finanziarie che non sono necessariamente banche, quindi sia all’interno dei circuiti puramente bancari, ma anche con tutti gli altri player parabancari o non bancari che però erogano servizi che competono con l’offerta della banca e poi i titoli in circolazione. La sostituibilità come operatore di mercato e fornitore di servizi, più l’offerta è complessa più entra in competizione e più si interconnette ad altri player e quindi più una banca è rischiosa dal punto di vista sistemico. La variabile più semplice e che misura meglio questa sostituibilità sono le attività in custodia, perché non sono necessariamente caratteristiche dell'attività bancaria, ma sono mutuate, sono nella lista delle attività ancillari, le operazioni di pagamento, qui le banche vanno in competizione diretta con gli operatori IMEL, IP, Poste Italiane, FAG..., le sottoscrizioni su mercati azionati e obbligazionari, ovvero il portafoglio di negoziazione della banca, non quelle che prende per conto del cliente quando agisce come broker, ma quelle sottoscrizioni che passano per il bilancio della banca, le acquista e le tiene sul proprio portafoglio, agisce da dealer, il volume di attività detenute per la negoziazione. La complessità è l’importo dei derivati OTC, le attività sotto il bancone non sono regolamentate, rispondono in modo molto più forte a domanda e offerta di mercato perché sono contratti privati. Il prezzo di quello strumento dunque non è un prezzo di mercato, quindi più la banca è attiva sui mercati sotto il bancone e più la sua attività è complessa e quindi rischiosa. Le attività di terzo livello sono quelle attività delle quali è molto difficile determinare un prezzo, non esiste un prezzo di mercato. Quando si deve inserire uno strumento in bilancio esso può essere di valutazione di primo, secondo o terzo livello: di primo se esiste un valore di mercato oggettivo, di secondo se non esiste un emrcato di riferimento e quindi non c’è un prezzo, ma esistono strumenti molto simili che sono quotati e hanno un prezzo, quindi per analogia si prende il prezzo dello strumento simile, terzo se sia non hanno un mercato sia non hanno strumenti simili negoziati. Le attività detenute per la negoziazione disponibili per la vendita sono diverse dalle attività pure detenute per la negoziazione, sono le attività che vengono acquistate per puro fine di trading, non per essere detenute in portafoglio, ma solo per fini speculativi, si compravende perché si vede una possibilità di guadagno. Questa attività però di compravendita sui Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 82 mercati di trading è più simile a quella di una banca di investimento e non di una banca commerciale vera e propria, in Italia e in Europa queste banche di investimento non sono neanche banche, perché la loro attività è troppo rischiosa. Queste attività legittime, ma che dichiaratamente sono acquistate soltanto per essere comprate e vendute e per essere oggetto di trading sono un sinonimo di rischiosità e di complessità. L'indicatore delle GISIB è un indicatore relativo, è la rilevanza sistemica rispetto agli altri attori. Si prende il controvalore di una voce, di una categoria, ad esempio la dimensione, rispetto a tutte le dimensioni di tutte le altre banche del sistema. Viene fuori quindi una percentuale, quanto la banca è grande rispetto a tutto il resto del sistema. Lo si fa per tutti i 5 criteri indicati prima e li si moltiplica per 10mila per avere come unità di misura i punti base, ad esempio il 3% sono 300 punti base. Quando si hanno tutte le esposizioni di tutte e 5 le dimensioni si fa la media aritmetica. Quando si è ottenuta l’importanza media dei 5 indicatori si ordinano tutte le banche che si hanno all’interno del sistema e di anno in anno si determina quali sono i punteggi che demarcano non solo le banche too big too fail o le GISIB da quelle senza una rilevanza sistematica, quindi si individua la soglia al di sopra della quale si ha rilevanza sistemica e al di sotto no, ma si individuano anche 5 categorie, ciascuna delle quali indica un crescente rischio sistemico, quindi se si è nella prima categoria si è una banca GISIB, ma tra le meno rischiose da un punto di vista sistemico, nella quarta categoria invece si è una banca sistemica e tra quelle con un rischio sistemico maggiore in assoluto. Per costruzione l’ultima categoria di questo ranking è tenuta vuota, se non così non fosse, quindi se una volta identificata la soglia della quinta dimensione, ci fosse effettivamente una banca con quei criteri, quindi così grande e così complessa, allora si dovrebbe creare una sesta categoria vuota, così è stato deciso. L’unica banca italiana con veramente una rilevanza sistemica è Unicredit. Ci sono 4 conseguenze di essere una GISIB: la prima è molto immediata, è il fatto di dover detenere un capitale regolamentare aggiuntivo rispetto ai requisiti standard, ad esempio nella prima categoria oltre ai requisiti di capitale regolamentare standard si deve aggiungere l’1% in più. Ci sono poi dei requisiti patrimoniali che vengono definiti TILAC, ovvero la banca GISIB deve detenere degli asset con un requisito di negoziabilità elevatissimo, tanto che devono essere prontamente collocabili sul mercato secondario e quindi facilmente trasformabili in moneta. Serve per quando si è in crisi. Per le GISIB questo standard deve essere particolarmente elevato, almeno il 18% del totale dell’attivo ponderato per il rischio. Inoltre si devono avere dei piani di risoluzione che sono scrutinati con frequenza, ovvero un piano che una banca deve mettere in atto nel caso di crisi o alto rischio di crisi, sono un insieme di azioni che devono essere prontamente messe in atto per uscire da quello stato di crisi. Questo paino deve essere molto dettagliato e deve passere il vaglio del regolatore molto frequentemente. Inoltre le aspettative del regolatore in termini di gestione del rischio sono molto alte. La funzione risk management, risk governance... e tutte le altre funzioni relative al controllo e al monitoraggio del rischio sono cruciali per una banca e sono particolarmente sotto l’occhio attento del legislatore Intesa San Paolo Il gruppo Intesa San Paolo è uno dei principali gruppi bancari italiani e come tutte le banche cambia la sua mission nel corso del tempo, la sua ultima aggiunta è stato l’impegno ESG. Non si era mai visto nella mission di una banca che uno degli obbiettivi principali fosse l’impegno in termini di sostenibilità. Il posizionamento ai vertici mondiali per l’impatto sociale e un grande focus sul clima. Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 85 documenti di bilancio diversi, quindi il documento del bilancio servono in ultima istanza a dare la presentazione di questi 3 equilibri. Il patrimonio, quindi la dotazione di capitale proprio di una banca, l’equilibrio economico, quindi l’equilibrio dei flussi finanziari in entrata e in uscita, e quello puramente finanziario, quindi esclusivamente la liquidità della banca. Conoscendo lo stato di salute dell’impresa bancaria si capisce l’opportunità dal lato dell’investitore di investirci risorse, capitale, oppure non è rivolto quindi innanzitutto agli azionisti, i prestatori di capitale di rischio, che sono i primi ad essere interessati allo Stato di salute patrimoniale, economico e finanziario della banca alla quale hanno prestato capitale di rischio, della quale quindi sono soci quota parte. In modo più allargato tutto il mercato è interessato, è diretto fruitore del bilancio, perché gli indici di bilancio e in particolare alcuni, sono utilizzati da investitori che non necessariamente sono prestatori di capitale di rischio, quindi che non necessariamente sono azionisti, ma che vogliono prestare capitale o acquistare azioni nel breve termine di quella determinata banca. Gli attori del mercato, investitori istituzionali o retail, non guardano tutto il bilancio, ma la sua riclassificazione e gli indici. In ultima istanza il bilancio è rivolto a tutti i portatori di interesse, ad esempio l’autorità di vigilanza, i risparmiatori, i dipendenti, i fornitori… Questo è particolarmente vero se la banca è una di quelle complesse a sufficienza da essere portatrice di rischi sistemico, perché la comunità sociale ampiamente definita è sì interessata alla salute di una banca, ma indirettamente, finché la salute di questa banca non può innescare un effetto domino. Il bilancio è sottoposto per questa ragione, quindi per il fatto che così tanti portatori di interesse sono interessati alla sua rappresentazione chiara, veritiera e corretta, al vaglio del collegio sindacale, quindi un vaglio interno, ma anche del collegio di sorveglianza o della società di revisione, nella maggior parte dei casi, e poi del consiglio di amministrazione. Deve quindi passare una serie di vagli interni ed esterni. I principi di redazione di un bilancio sono gli stessi sia che si tratti di una banca che di un’impresa. I documenti principali sono lo stato patrimoniale, il conto economico, la nota integrativa, il prospetto della redditività complessiva, il prospetto delle variazioni del patrimonio netto e il rendiconto finanziario. Si aggiungono poi la relazione sulla gestione, scritta dagli amministratori, la DNF, ovvero la dichiarazione non finanziaria, che ad poggi è un documento obbligatorio, che non riguarda i tre equilibri patrimoniale, economico e finanziaria, ma riguarda la sostenibilità ambientale, sociale e a livello di governance della banca. Ci sono poi anche la relazione nel collegio sindacale, quella della società di revisione o del revisore legale dei conti. Il prospetto della redditività complessiva evidenzia come è stata generata la redditività della banca durante quell’anno, quindi quali sono state le aree gestionali all’interno della banca che hanno contribuito più delle altre a creare reddito, quali sono le aree più performanti, quali sono le aree che distruggono ricchezza… Per aree gestionali si intendono quelle suddivisioni ad esempio l’area di gestione dei rischi, di gestione della tesoreria, di gestione del portafoglio… che si occupano di un’attività ben specifica all’interno della banca. Il prospetto della redditività complessiva mette in evidenza quali di queste aree abbia apportato maggior redditività al risultato finale di esercizio. Il prospetto delle variazioni di patrimonio netto invece riporta le cause, se esistono, che hanno fatto variare la consistenza patrimoniale della banca. Come qualsiasi altra imprese il patrimonio della banca è costituito dal capitale sociale, le azioni proprie acquistate, il reddito di esercizio portato a nuovo e le riserve. Quindi questo prospetto si focalizza su queste 4 aree e sui loro eventuali cambiamenti. Il rendiconto finanziario è focalizzato all’equilibrio, alla rendicontazione dell’equilibrio finanziario della banca, ovvero alla liquidità della Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 86 banca, evidenzia inoltre quali delle aree gestionali della banca abbiamo assorbito liquidità oppure abbiano generato liquidità, che non è la stessa cosa di generare reddito. È proprio questa la differenza tra equilibrio economico ed equilibrio finanziario: come viene generato reddito, afflussi e deflussi di capitale, è contabilizzato all’interno del prospetto della reddittività complessiva e quindi costituisce il documento rilavante per capite com’è l’equilibrio economico di una banca mentre il rendiconto finanziario è focalizzato ai flussi di liquidità. Ci sono tre prospetti principali dedicati ai tre equilibri. La relazione del collegio sindacale è fatta perché il collegio sindacale si premura di redigere una relazione circa la correttezza delle operazioni che hanno contribuito a generare il reddito di esercizio. La medesima cosa è l’espressione dei legali e quindi il revisore dei conti e società di revisione, ci sono generalmente due parti: una prima molto più tecnica sulla chiarezza e la veridicità della tecnica di redazione del bilancio, la seconda parte invece è circa la correttezza della rappresentazione dei 3 equilibri. La nota integrativa funge da documento che specifica quegli aspetti poco trasparenti, poco chiari o che semplicemente devono essere riassunto in modo estremamente compatto all’interno del bilancio e che quindi hanno poi bisogno di una spiegazione ulteriore. Cita le politiche contabili, cioè perché si è deciso di valutare una determinata voce al costo storico piuttosto che al fair value o piuttosto che al costo ammortizzato, le regole sono piuttosto ferree soprattutto in materia di valutazione, c’è qualche spazio di manovra e quindi se ci sono due o più tecniche tra cui scegliere bisogna motivare la scelta in nota integrativa. Contiene anche l’informazione sui rischi e sulle relative politiche di coperture, ci si rifà alla funzione dei derivati a finalità di copertura, acquistati dalla banca. I derivati di copertura possono finire in due parti, o nel bilancio e quindi all’interno dello stato patrimoniale, oppure possono essere fuori dal bilancio, ma a prescindere dalla collocazione bisogna dare descrizione in nota integrativa di come il derivato acquistato con finalità di copertura svolga questa attività di copertura, ovvero qual è il sottostante perché se non c’è il derivato non può essere definito di copertura ma è un derivato speculativo e se effettivamente questo derivato di copertura ha offerto una buona copertura del sottostante e quindi se la variazione di valore del sottostante siano effettivamente state coperte come previsto e preventivato dal derivato di copertura. I derivati a fini speculativi, senza un sottostante, finiscono direttamente fuori bilancio, non hanno una voce per l’iscrizione in bilancio. Ci sono due finalità alternative con le quali si può comprare un derivato: il derivato di copertura, il derivato con finalità di hedging, derivato speculativo, la differenza è che se si ha il sottostante e si copre l’andamento incerto del sottostante con un derivato, esso è un derivato di copertura, se invece non si ha il sottostante e si fa solo un acquisto di un derivato short o long, esso è un derivato con finalità speculativa. Se la banca acquista un derivato e dichiara che è con finalità di copertura si può collocarlo in bilancio nel passivo di stato patrimoniale, oppure si può collocarlo fuori bilancio, a prescindere dalla collocazione effettiva si deve dare conto del fatto che si è acquistato quello strumento derivato con mera finalità di copertura in nota integrativa, indicando quale sottostante si sta coprendo. Non solo si deve comprare che quel derivato ha mera finalità di copertura e non speculativa, ma si deve anche dimostrare che quella copertura è efficace, cioè si deve dimostrare che gli scostamenti del sottostante sono stati coperti in modo totale o parziale dal derivato dichiarato. Quindi si deve dichiarare quali sono i derivati di copertura, a prescindere dalla collocazione, e se questa copertura ha funzionato, perché se essa non ha funzionato significa che è un derivato speculativo, se non copre il derivato sottostante, allora viene meno la sua finalità di Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 87 hedging. I derivati speculativi invece non hanno collocazione nello stato patrimoniale, sono collocati fuori bilancio Stato patrimoniale della banca L'attivo della banca è quello che genera flussi positivi che vanno nell’attivo del conto economico, mettendosi nei panni del cliente e non della banca è esattamente l’opposto: tutto quello che è attivo per la banca è passivo per il cliente. È redatto a sezioni contrapposte: si ha attivo, che è compilato secondo il criterio di liquidità decrescente, ovvero prima tutte le poste molto liquidità e man mano che si scende quelle meno negoziabili e poi quelle illiquide, e passivo, che è compilato secondo il criterio di esigibilità, crescente. Dal lato dell’attivo si hanno prestiti, investimenti finanziari che la banca fa, quindi quando agisce da dealer o da asset transformer, e poi le attività non finanziarie. Le attività fruttifere sono quelle attività che creano i flussi che vanno contabilizzati in conto economico, le attività non fruttifere invece sono quelle che non generano flussi di cassa. Dal lato del passivo si identificano le fonti, si parla infatti di un prospetto fonti e impieghi. Le fonti principali dell’attività bancaria sono i depositi della clientela, che vengono impiegato nelle attività, che sono gli impieghi. Dal lato del passivo c’è anche il capitale della banca, capitale sociale, patrimonio, riserve... Non tutte le attività e passività finanziarie sono valutare secondo i medesimi criteri. I criteri sono essenzialmente due: il fair value e il costo ammortizzato. Le attività valutate con il primo metodo sono le attività e passività finanziarie finalizzate alla negoziazione, i derivati di copertura e le attività e passività valutare al fair value (così si chiamano nel bilancio). Con il secondo criterio invece vengono valutate le attività finanziarie detenute a scadenza, i titoli in circolazione, i crediti e i debiti. Non per tutti gli strumenti finanziari che vengono iscritti a bilancio è possibile identificare il fair value, è quel valore univoco che costituisce la valorizzazione in bilancio di un’attività o di una passività. Ci sono tre livelli di valutazione al fair value: il primo è il più semplice, lo strumento che deve essere valutato per essere inserito in bilancio ha un prezzo, quindi è negoziato su un mercato attivo e quindi non esiste niente di più fair del prezzo, perché è determinato dal mercato, dalle dinamiche di domande e offerta e quindi per definizione è una valutazione imparziale, non è la banca che determina il prezzo che quello strumento ha sul mercato. Semplicemente recepisce il prezzo di quotazione dello strumento e quello è il suo fair value, se la banca acquista un’azione il prezzo di acquisto di quella azione è il prezzo a cui accedono anche tutti gli altri attori del mercato, è il prezzo di mercato. Quindi se esite un prezzo di mercato quello è il prezzo al quale la posta viene iscritta, dunque il prezzo equivale per definizione al fair value di un’attività finanziaria. Se non c’è un mercato attivo o se quell’attività o non è quotata o è quotata su un mercato poco elastico, poco spesso, poco ampio, allora ci sono due casi. Se è un’attività di secondo livello si può analizzare se sul emrcato, quindi sul emrcato attivo, esistono strumenti simili a quello che si deve valutare, con simili si intende con la stessa tipologia di emittente, ad esempio se è corporate si guarda all’interno degli strumenti emessi da imprese non finanziarie, se è in euro si guarda a quelli nella stessa valuta, se è a scadenza di 10 anni si evita di guardare tutto il mercato a breve termine. Si trova uno strumento con caratteristiche analoghe, simili a quello che si deve valutare e lo si deve trovare all’interno di un mercato attivo. Una volta che si ha uno o più buoni match per questa attività che si deve inserire in bilancio, si fa una media dei prezzi di mercato di quella attività e quello diventa il fair value della posta. Se si ha invece uno strumento unico nel suo genere, che non è quotato e non ha diretti pari Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 90 coperture che si hanno su quella posizione, quanto è efficace l’attività di escussione dei crediti… tutte quelle attività che se effettivamente quella probabilità di fallimento si manifesta il cliente può mettere in atto per recuperare parte della perdita. Per questo motivo il core della perdita attesa è la parte meccanica, la parte di default per la perdita che creerebbe, ma questa può essere limata da considerazioni di natura più qualitativa, se effettivamente fallisce si ha una copertura del tot % su quella posizione data da vari fattori (ad esempio una parte coperta da derivati o da particolari altre attività), quindi si toglie dalla perdita attesa quella percentuale. Tutte queste considerazioni ulteriori che diminuiscono la perdita effettivamente attesa non possono essere applicate se lo strumento che si sta valutando ha come contropartita una voce di patrimonio netto, perché in questo caso si applica il criterio più conservativo possibile e quindi si mette in bilancio la massima perdita attesa, al lordo delle coperture senza contare le attività di escussione, proprio perché in questo modo si calcola la massima perdita che effettivamente si può misurare su quella posta e poi se tutte le attività extra di copertura effettivamente vanno a buon fine allora semplicemente la perdita sarà un po’inferiore a quella massima attesa. Questo è per il principio di prudenza con il quale deve essere redatto il bilancio. Si distinguono le attività fruttifere, quelle che creano flussi finanziari che poi verranno iscritti in conto economico e quelle non fruttifere, che sono ad esempio le attività materiali, le attività immateriali (il brand, l’avviamento…). Generalmente viene dichiarato il valore del periodo corrente e del periodo precedente, in realtà la maggior parte delle volte c’è la variazione in termini assoluti o in termini percentuali rispetto all’anno precedente. Sono ordinate in termini di liquidità, le poste più liquide sono le prime, ovvero cassa e disponibilità liquide, poi pian piano ci sono quelle poste meno negoziabili e illiquide, che sono i finanziamenti, i crediti, le partecipazioni, e poi quelle meno liquide in assoluto che sono le attività materiali e immateriali. Il passivo si divide tra le passività onerose, cioè quelle che creano dei flussi di cassa negativi e che vengono contabilizzati in conto economico, e le passività non onerose. Con la stessa logica si riportano le passività in questo periodo e quelle nell’anno successivo, e generalmente un’indicazione del fatto che quella specifica posta sia cresciuta o decresciuta nell’anno. Chiude poi il patrimonio netto Le poste dell’attivo La cassa e le disponibilità liquide sono tutte quelle attività più liquide in assoluto. La cassa sono le banconote in euro o in altra divisa. Le disponibilità liquide sono quelle disponibilità letteralmente liquidabili, all'interno di essere vengono iscritti i depositi verso la banca centrale. Non può invece essere iscritta la riserva obbligatoria, ma solo le riserve libere, che una banca decide liberamente di parcheggiare sul conto della banca centrale. La riserva obbligatoria viene valutata nei crediti verso le banche, ciò ha senso perché sì la riserva obbligatoria può essere utilizzata anche al 100%, ma c’è comunque quel vincolo di smobilizzo per il quale all’interno della finestra di mantenimento il valore della riserva obbligatoria il valore medio giornaliero della riserva obbligatoria deve essere pari a quello di legge, quindi è sì completamente liquida in quanto si può prendere integralmente, ma non viene considerata qui perché è comunque sotto un vincolo: se prendo tutto oggi devo compensare nei giorni successivi per mantenere la media. Le riserve libere invece non hanno nessun vincolo, possono essere smobilizzate integralmente. I crediti principali sono 2, i crediti verso banche e i crediti verso la clientela. I crediti e i debiti di anno in anno se sono attività di stage 2 o 3 vengono rettificate in funzione dell’aumento della rischiosità. L'autorità bancaria europea ha cercato di Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 91 semplificare il ranking dei crediti. Banca d'Italia ha previsto una classificazione più puntuale di quella europea: all’interno del bilancio, quindi dopo la procedura di impairment in funzione dello stato di salute di quel credito si distingue tra le attività di stage 1 in cui non è cambiato nulla e quelle di stage 2 o 3 in cui è cambiato qualcosa, in maniera poco grave o molto grave. Il fatto che sia di stage 1, 2 o 3 però non dice nulla sull’effettiva rischiosità, dice soltanto se quella posizione è migliorata o peggiorata, ma anche un’attività molto rischiosa, quindi con uno scarso merito creditizio dell’emittente può essere anche di stage 1 se la sua posizione era ed è rimasta parimenti grave. Si è dovuto dunque riscorrere ad un ranking differente per capire la qualità del credito, questo ranking è ciò che distingue i crediti performanti o in bonis, da quelli non performanti o deteriorati (NPL). C'è poi un ulteriore ranking dei crediti deteriorati: in funzione di quanto grave sia quel deterioramento esso può essere una sofferenza, un’inadempienza probabile o un’esposizione scaduta sconfinante deteriorata. Sono tutti e tre crediti non performanti, ma di 3 gravità diverse: le sofferenze sono quelle più gravi, sono i crediti più deteriorati in assoluti tra tutti gli NPL. Sono tutti quei crediti che vengono iscritti a bilancio o che vengono lasciati fuori bilancio, quando la controparte è insolvente o in una situazione di alta probabilità di insolvenza, per il regolatore europeo è la stessa cosa, quindi quando è in bancarotta, è fallita o sta per fallire. Le inadempienze probabili sono medio gravi, la banca ritiene che è improbabile che il debitore adempia integralmente i propri obblighi a meno che non si ricorra ad azioni legali o azioni in generale di escussione del credito, quindi la controparte non è ancora in default, ma probabilmente si dovrà ricorrere alla smobilizzazione delle garanzie che ha dato oppure si dovrà fare attività di escussione e quindi muoversi per vie legali. Le esposizioni scadute sconfinanti deteriorati sono sì crediti non performanti, ma quelli meno gravi in assoluto dal punto di vista della banca, sono esposizioni in cui vengono varcati i confini dell’affido per almeno 90 giorni e deve essere anche oltre una soglia che la banca determina internamente, ovvero la banca decide che per essa una esposizione diventa scaduta se sconfina il fido per tre mesi oltre il 25%/30%… sull’accordato. Sono sì gravi, ma non è necessario ricorrere a grandi azioni di escussione, né la controparte si trova in stato di insolvenza. Questo è il ranking. Se ci si trova in una di queste situazioni quel credito è già deteriorato, non è più in bonis. C’è un’altra tipologia di crediti detti forborne, che possono essere sia in bonis che deteriorati, sono quei crediti che hanno subito un a modifica delle condizioni contrattuali per scongiurare il fatto che se sono in bonis diventino deteriorati e che se sono deteriorati passino ad una categoria più grave del ranking. Quindi se la banca si rende conto che il suo credito è ancora in bonis, il suo creditore sta continuando a pagare, ma è di livello 2, la sua situazione creditizia sta peggiorando per evitare che quel credito ancora in bonis diventi deteriorato può decidere ad esempio di aumentare il periodo del prestito e quindi abbassare la rata mensile, oppure può decidere di accordare di saltare il pagamento di una rata in uno specifico mese e poi recuperarlo con gli interessi in futuro o comunque si applica un cambiamento delle condizioni contrattuali che facciano sì che la posizione non peggiori. Possono essere crediti già deteriorati che non si vogliono far peggiorare ulteriormente, inadempienza che non si viole far diventare sofferenza ad esempio, oppure possono essere crediti che sono ancora in bonis, ma di stage 2 che non si vuole far diventare crediti deteriorati. I primi si chiamano forborne performing exposure, i secondi non-performing exposures with forbearance measures. I crediti possono essere verso banche, dove va anche la riserva obbligatoria, che è in tutto e per tutto un credito verso la banca centrale, ma anche quei crediti che le banche hanno con controparte un’altra Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 92 banca per prestiti sull’interbancario o altro... I crediti verso la clientela invece sono in primis quelli che si hanno verso i propri clienti, ma anche i crediti verso Poste Italiane e Cassa Depositi e Prestiti Altre voci di stato patrimoniale Sotto alle attività creditizie ci sono quelle puramente finanziarie, si parla di investimenti in titoli finanziari da parte della banca, quindi tutti quegli strumenti che la banca acquista, quindi quelli in cui la banca agisce in qualità di dealer, nessuno degli strumenti negoziati come broker, quindi in nome e per conto di altri, finiscono in bilancio, perché si sta soltanto consigliando e facilitando l’acquisto di uno strumento, ma esso non passa dal bilancio, dallo stato patrimoniale. Nelle altre attività finanziarie ci sono quegli strumenti che effettivamente la banca ha acquistato, che troveranno posto nel portafoglio titoli della banca. Si trovano le attività finanziarie detenute per la negoziazione, attività finanziarie valutate al fair value, le attività finanziarie disponibili per la vendita e le attività detenute fino a scadenza. Il criterio di iscrizione delle voci è di liquidità decrescente, perciò le attività più liquide sono quelle detenute per la negoziazione, quelle pronte per il trading, le attività valutate al fair value sono appena meno liquide delle prime, le attività finanziarie disponibili per la vendita hanno un livello di liquidità medio-basso perché sono più negoziabili soltanto di quelle detenute fino a scadenza, che per definizione sono quelle meno liquide in assolute, perché rimangono nel portafoglio fino alla loro scadenza. Ci sono poi i derivati di copertura, o perlomeno quella parte che viene iscritta a bilancio, e poi l’adeguamento di valore che fa riferimento all’andamento dei derivati di copertura. Il portafoglio di negoziazione, ovvero le attività detenute per la negoziazione, è quello maggiormente negoziabile, ovvero quello che la banca detiene proprio con finalità di negoziazione, per comprare e vendere abbastanza velocemente, per fini più speculativi: si vede un’opportunità sui mercati, si compra quel titolo per tenerlo fino a che questa opportunità sfuma e quindi si vende, ma non c’è intenzione di tenerlo nel medio e soprattutto nel lungo termine. Tutti gli strumenti del mercato monetario, ovvero sotto i 18 mesi, vengono iscritti all’interno di questa voce, le attività valutate al fair value sono quelle attività con un periodo di mantenimento più lungo delle attività detenute per la negoziazione, ma più breve delle attività disponibili per la vendita. Per questo è una categoria residuale: tutto quello che non si alloca nelle altre tre voci in funzione dell’holding period dichiarato, va nelle attività valutate al fair value. La terza categoria su quattro delle attività in portafoglio sono quelle disponibili per la vendita, non sono investimenti destinati a trading, quindi ad imminente negoziazione. La banca non ha intenzione di venderli nell’immediato, se così fosse sarebbero più in alto nel bilancio, dove ci sono le attività con un holding period minore, quindi in quelle detenute per la negoziazione. L’ultima categoria sono le attività detenute fino a scadenza, il fatto che un’attività acquistata da una banca sia tenuta fino a scadenza deve essere dichiarato all’acquisto, perché diversamente dalle altre categoria queste attività vengono valutate al costo storico ammortizzato, quindi il loro valore non viene aggiornato in funzione del valore di mercato tutti gli anni, ma semplicemente risente dell’ammortamento che è un processo molto prevedibile e ne andrà a diminuire o ad aumentare il valore nel corso del tempo, ma in modo assolutamente prevedibile, mentre se si valuta una posta a fair value, la si valuta al prezzo di mercato ed è molto complicato prevedere il prezzo di mercato, soprattutto se esso è efficiente. Per questo motivo l’unico caso in cui il regolatore permette di valutare uno strumento al costo storico ammortizzato è quando si dichiara di volerlo detenere in Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 95 derivati. Si possono iscrivere strumenti derivati con finalità speculative e con finalità di edging, quindi la banca può decidere se iscrivere in bilancio i derivati con finalità di copertura, oppure se lasciarli fuori bilancio. Invece non c’è posto all’interno del bilancio per i derivati speculativi, che vanno fuori bilancio. La seconda categoria di strumenti fuori dal bilancio sono le emissioni di garanzie che una banca può prestare, ad esempio fideiussioni, avvalli, accettazioni bancarie… Non hanno posto in stato patrimoniale, ma possono creare un impatto comunque in conto economico perché non è detto che queste garanzie vengano utilizzate dal cliente, se venissero utilizzate creerebbero un deflusso finanziario che troverebbe posto in conto economico, tra le operazioni di mercato che si sono viste e che rientrerebbero nel margine di intermediazione. In realtà entrambe queste categorie, ma specialmente le prime in modo più evidente non generano soltanto potenziali deflussi, ma generano flussi positivi certi, ovvero le commissioni, costa chiedere ed ottenere una fideiussione. Le commissioni sono molto preziose per la banca perché sono flussi positivi, ma che non prevedono l’acquisizione di un rischio da parte della banca. Se si emette un credito si ottiene idealmente un tasso di interesse positivo di rendimento, ma si assume anche il rischio di controparte, ovvero il rischio che quel credito non venga onorato. Con tutti quei servizi complessi ancillari che la banca offre e che con l’attività di disintermediazione sempre più la banca offre si aumenta la componente che fa sì che il margine della gestione del denaro e dei servizi ha un’importanza relativa all’interno del bilancio sempre maggiore, perché le commissioni vengono proprio dalla fornitura di quei servizi che sono ancillari all’attività core della banca e addirittura alcuni di questi sono completamente fuori bilancio. Ad esempio la cassetta di sicurezza, generalmente la banca è assicurata per quello che detiene all’interno della cassetta, quindi copre completamente il suo rischio e chiede una commissione, ha un guadagno puro, un margine di gestione del denaro e dei servizi. Quindi per aumentare in ultima battuta il reddito netto per una banca è più sicuro aumentare il ventaglio di servizi offerti, perché aumentano le commissioni senza aumentare la rischiosità del business, che aumentare le esposizioni in attività core, ad esempio in crediti, perché è vero che aumenterebbero gli interessi attivi attesi, ma è vero anche che quegli interessi non sono certi, derivano soltanto in virtù di un’esposizione ai rischi. L’autorità di vigilanza determina quanto capitale prudenziale una banca deve detenere in funzione di tutti i crediti che ha, perché sono attività rischiose, non esiste capitale regolamentare in funzione dei servizi che si offrono alla propria clientela, non è un’attività rischiosa, quindi i servizi che offre una banca non assorbono capitale. Quindi il margine di interesse prima era il margine da guardare per vedere se l’attività di una banca effettivamente era remunerativa oppure no, perché proprio l’attività core di una banca, prende a prestito e eroga credito, cioè ha interessi passivi da chi prende a prestito ed attivi da coloro ai quali eroga credito. Adesso l’importanza relativa dei due margini pende notevolmente per il secondo e per il terzo. Quella che viene quantificata nel margine di interesse è l’attività di pura intermediazione, l’attività di disintermediazione, ovvero l’offerta di servizi complessi che non fanno parte dell’attività core di una banca, invece quantifica il margine della gestione del denaro e dell’intermediazione L’analisi di bilancio Il fine ultimo dello studio del bilancio è saperlo interpretare e per saperlo interpretare generalmente servono degli indici di bilancio. Il primo passo è conoscere il bilancio, la sua struttura e la ratio della Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 96 valorizzazione delle varie poste, il secondo passo è analizzarlo, perché dalla lettura del bilancio in primis si deve poter capire la salute della banca o comunque dell’impresa che lo compila. Per capire la salute economico-finanziaria di un istituto bancario si analizzano 3 equilibri: quello patrimoniale, quello economico e quello finanziario. L’equilibrio patrimoniale è quello che misura la solvibilità della banca, quindi è un indice di stato patrimoniale, che dice se e che in misura le attività finanziarie coprono, ovvero sono superiori, alle passività. C’è una grossa distinzione tra attività fruttifere e non fruttifere e passività onerose e non onerose. Quando si parla di solvibilità non si fa questa distinzione, tutto l’attivo deve perlomeno coprire tutto il passivo, ma analizzando più da vicino il bilancio nulla vieta di guardare anche quale delle due componenti è quella che trascina il risultato. È importante vedere non solo se è in pareggio il bilancio, ma anche quali sono le componenti che hanno portato all’eventuale pareggio, perché può succedere che si ha un buon equilibrio patrimoniale, con una situazione di solvibilità, il passivo è coperto dall’attivo, ma guardando meglio in realtà ci si rende conto che per la maggior parte il passivo è coperto dall’attivo non fruttifero. Non è la stessa cosa di un banca con situazione opposta, ovvero con lo stesso grado di solvibilità, ma il passivo è coperto in prevalenza dall’attivo fruttifero. Non conta solo il fatto che una banca sia o non sia solvibile, ma conta anche come essa è solvibile. Le attività non fruttifere sono costituite sostanzialmente da immobilizzazioni materiali e non, per questo non è ottimale che il passivo sia coperto prevalentemente da esse. L’attività core della banca dee essere fruttifera al punto da coprire il passivo, in questo modo si verrà giudicati capaci. L’equilibrio economico riguarda la reddittività, ovvero se i costi superano o meno i ricavi. Anche in questo caso si guarda in primis se la reddittività è positiva o no, quindi se i ricavi sono maggiori dei costi, si vede così se l’attività è redditizia o no. Poi in seconda battuta anche in questo caso si va a vedere la composizione dei costi e dei ricavi, quindi quali sono le voci di costo che abbattono principalmente i ricavi, perché si identificano quelle aree che hanno probabilmente bisogno di un efficientamento, di un miglioramento. Quindi si può decidere ad esempio, se effettivamente sono costi operativi che incidono particolarmente sulla reddittività, ad esempio di aumentare la digitalizzazione di una banca o di mettere in atto altre manovre che ne aumentino l’efficienza operativa.. se invece sono i costi finanziari a spingere verso il basso la reddittività, ad assorbire la marginalità sui ricavi, allora le aree gestionali da efficientare sono altre. Ovviamente costi e ricavi sono un dato che viene estrapolato dal conto economico, così come la liquidità, che è la variabile che misura l’equilibrio finanziario, in realtà non c’è una voce specifica che riesce a misurare a prima vista l’equilibrio finanziario della banca. Sono tutti e tre equilibri fondamentali, ma il terzo è particolarmente insidioso per le banche. Per vedere se i flussi di cassa prodotti dall’attivo fruttifero coprono i deflussi di cassa causati dal passivo oneroso si deve fare un’analisi che si chiama di asset liability management (ALM). Non c’è però la voce di conto economico che misura così nitidamente i flussi finanziari attivi e passivi, anche perché questa è un’analisi dinamica, ovvero si deve suddividere l’anno in sotto-campioni (un giorno, una settimana…) e l’asset liability management, e quini quell’attività che si occupa di vedere se l’equilibrio finanziario è positivo, calcola su ognuno di questi sotto-periodi se i deflussi sono coperti dai flussi, per questo è un’analisi dinamica: non basta farla alla fine di un anno e vedere se complessivamente se tutti i flussi prodotti hanno coperto i deflussi. Non basta sapere che tutta la liquidità prodotta all’interno dell’anno è stata capace complessivamente di coprire tutti i deflussi prodotti, serve un’analisi puntuale e dinamica, basta che per una settimana una banca abbia un Economia e gestione della banca – Prof. Milena Migliavacca Anno 2, 2°semestre 97 buco di liquidità, ovvero che i flussi positivi non siano in grado di coprire i deflussi, che quella banca non arriva alla fine dell’anno, questa è una della cause di fallimento delle banche. Non importa se complessivamente, in media su tutto l’anno, la banca ha prodotto più flussi positivi che deflussi di cassa, interessa che tutti i giorni o tutte le settimane i flussi prodotti in quel periodo siano stati in grado di coprire i deflussi. La causa più famigerata di buco di liquidità di una banca, ovvero quando si trova senza liquidità, è la corsa agli sportelli: è un evento fatale per una banca, perché se troppi correntisti chiedono di essere rimborsati dei loro risparmi lasciati su conti corrente o conti deposito, siccome la banca opera in fractional reserve system, ovvero la banca ha soltanto una frazione dei depositi dei conti correnti come liquidità, a disposizione, e quindi se la richiesta di restituzione delle giacenze è superiore a questa frazione, che è la riserva obbligatoria più eventualmente le riserve libere, allora la banca va in crisi di liquidità. Non interessa se tra un mese entreranno ondate di flussi positivi, perché la banca è già fallita, per questo motivo l’equilibrio finanziario deve essere misurato su base temporale, molto più stringente e molto più frequente rispetto agli altri due. La prima analisi di bilancio è la riclassificazione del bilancio. Interpretare un bilancio significa che si è in grado di costruire gli indici di bilancio e di darne un significato economico. È importante che il bilancio venga redatto secondo i principi di chiarezza, correttezza e veridicità ed è molto comodo che la riclassificazione sia identica per tutte le banche perché permette di comparare anno dopo anno gli stessi risultati e gli stessi indici della medesima banca, ci si rende conto se quell’indice, che è sempre calcolato nello stesso modo, è migliorato o peggiorato anno dopo anno, è un modo molto rapido per vedere se la banca sta performando bene nel tempo o no, ciò è qualcosa di cui un potenziale investitore dovrebbe essere interessato. Questa analisi è detta analisi temporale: della stessa banca si guarda nel tempo come cambiano i suoi indici di bilancio. L’analisi cross-sezionale invece è quell’analisi che nel medesimo anno compara gli indici di bilancio di più banche differenti e questo lo si può fare perché gli indici sono calcolati in modo identico per tutti, si comparano quindi due quantità omogenee. È un’analisi cross-sezionale perché in uno stesso periodo si compara un indice su un campione di banche, è una comparazione di banche diverse nel medesimo anno, l’analisi temporale è invece una comparazione della medesima banca in anni diversi Gli indici di bilancio Esistono diversi indici: indici sulla qualità del credito, sulla reddittività, sulla struttura della banca, sull’efficienza, sul mercato… C’è però una differenza tra gli indici di bilancio, che fanno riferimento ad esempio al capitale sociale ad esempio e si fa riferimento soltanto alle quantità iscritte a bilancio, e gli indici che sono coefficienti relativi alla vigilanza, alla capitalizzazione regolamentare, il capitale regolamentare e il capitale sociale sono due quantità molto diverse. Se si sta parlando di un indice di bilancio e si parla di capitale, di capitalizzazione della banca si sta guardando al patrimonio della banca, al capitale sociale, se si calcola invece un indice, che magari può essere anche simile, ma si sta facendo riferimento agli accordi di Basilea, e quindi all’attività di vigilanza che la BCE, che le singole BCN, fanno per capire se il capitale di vigilanza di una banca è sufficiente per coprire i rischi, allora non si fa più riferimento a semplici poste di bilancio, ma ad un calcolo diverso da quello del capitale sociale, che è il capitale regolamentare. Quando si ha un indicatore di bilancio si fa riferimento alle poste di bilancio, mentre se si ha un indicatore regolamentare si fa riferimento alle sue variabili. C’è un indicatore di leva che fa parte della scomposizione dell’asset e poi c’è una leva