Scarica "Arte Contemporanea. Le ricerche internazionali dalla fine degli anni '50 a oggi" (Poli) e più Dispense in PDF di Storia dell'arte contemporanea solo su Docsity! 1 ARTE CONTEMPORANEA LE RICERCHE INTERNAZIONALI DALLA FINE DEGLI ANNI ’50 A OGGI a cura di Francesco Poli INTRODUZIONE La svolta che ha cambiato le coordinate di fondo della ricerca artistica definibile come strettamente contemporanea inizia più o meno nella seconda metà degli anni ‘50, sviluppandosi nel decennio successivo. Tale svolta va in direzione di un definitivo sfondamento dei confini tradizionali della pittura e della scultura (che rimangono pratiche importanti, ma non dominanti), a partire da una critica radicale all’eccesso dell’espressività soggettiva ed esistenziale dell’Informale e dell’Action Painting, e più in generale alla dimensione illusionistica dell’opera. E si caratterizza attraverso un coinvolgimento concreto della realtà oggettuale quotidiana: un’apertura provocatoria della cultura d’élite all’universo della cultura di massa; un nuovo e più diretto rapporto fra arte e vita, in termini di interventi performativi e di installazioni ambientali; e anche come processo di riflessione sulla specificità e i limiti dei linguaggi artistici e sullo stesso sistema dell’arte. Il tutto prende forma attraverso l’utilizzazione di nuove tecniche e di nuovi materiali, e l’elaborazione di nuove procedure operative. Punti di riferimento essenziali per questo cambiamento sono state le esperienze estetiche più avanzate avviate nell’ambito delle avanguardie storiche da alcuni grandi precursori, tra cui innanzi tutto Marcel Duchamp. NUOVI REALISMI E POP ART(S) Catherine Grenier La vita, il reale Nel clima del dopoguerra, i giovani artisti non tarderanno a contestare tanto i valori dell’astrazione dominante che quelli del tardo Surrealismo, considerati superati e legati a un mondo ormai scomparso. Si mostreranno invece ricettivi nei confronti dell’arte volta alla riconquista della vita e del reale: grande progetto di questa nuova fase dell’arte che con loro si inaugura e che sarà l’arte contemporanea ( in America si definisce “contemporary art” il periodo che va dagli anni ’40 fino a oggi, prendendo di fatto come punto di partenza l’Espressionismo Astratto, e cioè il primo movimento d’avanguardia d’oltreoceano che si impone internazionalmente). Gli anni ’50 e ’60 vedono quindi la nascita di vari movimenti contestatari. I graffiti, l’art brut, la caricatura, il fumetto, ma anche i manifesti, la pubblicità, sono celebrati come “prelievi” diretti su una realtà prosaica e popolare che si contrappone alla cultura dominante e all’“arte”. L’abolizione delle frontiere culturali e disciplinari, la dimensione collettiva, la liberazione dagli obblighi morali e sociali sono i fattori principali di una nuova “condizione di spirito” che si vuole diversa, il cui ideale si diffonde a cominciare dai precursori dell’inizio degli anni ’50 fino ai movimenti di rivolta della fine degli anni ’60. Durante gli anni ‘50 lo sviluppo della “società dei costumi” e il trionfo della meccanizzazione impongono una rivoluzione nel modo di vivere e nel paesaggio quotidiano che costituisce una nuova sfida per gli artisti. Gli strumenti di diffusione – la fotografia, il cinema, il teatro, la musica, l’architettura – verranno utilizzati di volta in volta secondo le necessità del caso per costruire nuovi 2 sbocchi pubblicitari e promozionali a favore della “vita moderna” e per l’elaborazione di nuove forme d’espressione popolare. La società è immersa in un’estetica della città, dello spettacolo, dei media, della pubblicità, che non mancherà di stimolare le arti. Nell’ambito delle arti plastiche, gli artisti si oppongono alla modernità rappresentata dell’astrazione, costretta al dubbio delle circostanze storiche e confinata nell’introspezione o nella sublimazione. Si allontanano da una concezione dell’arte che giudicano elitista ed egocentrica per misurarsi al mondo e alla nuova società, per affrontare il reale, liberarsi da qualunque posizione eroica o morale. Questo ottimismo contestatario è ciò che meglio caratterizza questo periodo, pur comprendendo anche gli umori più melanconici di artisti come Andy Warhol, o le critiche amare di Bruce Conner. Di Jackson Pollock si ricorderanno innanzi tutto l’azione, il fatto di aver oltrepassato i limiti dell’arte entrando nella vita. L’Happening, la Performance si svilupperanno sulle tracce di questi artisti ma secondo regole molto diverse che assegnano all’artista un ruolo sempre più anonimo, con maggiore autoderisione e un contatto più diretto con il pubblico. La dimensione antieroica culminerà proprio in questo periodo in tutti i campi, e particolarmente in quello delle arti visive. Nel contestare la modernità, gli artisti riattiveranno le avanguardie. Pablo Picasso e Marcel Duchamp, ancora attivi in questo periodo che segue il dopoguerra, sono le due figure chiave, eredi di quello spirito originale delle avanguardie che le giovani generazioni intendono resuscitare. La dinamica erotica del primo, il ricupero, il détournement (= pratica interna al Situazionismo, che consiste nella modifica di oggetti esistenti prettamente legati alla comunicazione di massa. Se ne possono così cambiare significati e scopi) che pratica sulle sue sculture del dopoguerra, aggiungono una componente fisica e ludica agli apporti costruttivi del Cubismo. Il secondo, erede della dialettica dada, che arricchisce di una dimensione concettuale e teorica, unisce il pragmatismo allo spirito critico della sua cultura francese. Gli artisti della nuova generazione si muovono tra questi due poli, che sono il Cubismo o il Dada, nei quali ritrovano un gusto per l’oggetto quotidiano e una pratica del détournement, le tecniche del collage e dell’assemblage, del prelievo e della copia, che alimenteranno la loro arte nelle più varie ramificazioni. Proponendo l’immagine o l’oggetto di seconda mano, gli artisti andranno a cercare la loro ispirazione nei vari movimenti che li hanno preceduti: Dada, in primo luogo, ma anche il Surrealismo, fino alle scuole realiste degli anni della guerra. Da queste fonti nasceranno le tendenze che si delineeranno successivamente sovrapponendosi durante la maggior parte degli anni ’60: i “Nuovi Realismi” e le Pop Art(s). I Nuovi Realismi: Nouveau Réalisme, Neo-Dada, Junk Art Il termine “Nouveau Réalistes” è coniato nel 1960 dal critico d’arte francese Pierre Restany per designare un gruppo di artisti costituiti in movimento sotto questa sigla e che si coalizzano attorno a un manifesto. Questo termine sarà ripreso per l’esposizione organizzata dallo stesso Restany a New York, presso la Galleria Sidney Janis nel 1962, estendendolo a un gruppo di artisti americani nel quale coesistono le correnti dette “Neo-Dada” e le prime espressioni della pittura che sarà presto definita “Pop”. Di fatto, i corrispondenti statunitensi delle ricerche dei Nouveaux Réalistes sono associati a un certo numero di correnti di natura indefinita, che non sono legate né a una scuola né a un gruppo in particolare, e che sono stati chiamati, tra l’altro, Neo-Dada, Junk Art o più letteralmente “arte dell’assemblage” per riprendere il titolo di un’esposizione inaugurale organizzata nel 1961 al Museum of Modern Art di New York. 5 1) Quella nata dai Nouveaux Réalistes, la cui problematica supera di molto quella della figurazione in senso stresso e si svilupperà presso artisti pop come Andy Warhol, Roy Lichtenstein o James Rosenquist; 2) Quella più accademica degli artisti realisti americani degli anni ’40. Il “Nuovo Realismo” europeo Il 27 ottobre 1960, Pierre Restany redige la Déclaration costitutive du Nouveau Réalisme, riconoscendo a pratiche e a individui diversi il fatto di esplorare nuovi metodi di “percezione del reale”. Supremazia dell’esperienza, da un lato, e rivendicazione del reale, dall’altro, sono le parole d’ordine intorno a cui si raggrupperanno gli artisti, i quali si proclamano testimoni e rivelatori della società del loro tempo. La portata visionaria e critica dell’arte si afferma attraverso una nuova posizione dell’artista, che ripudia il soggettivismo da cui era ancora viziata l’astrazione a beneficio di un’attitudine di ricettività che lascia libero corso al caso. Nel clima del dopoguerra è tra i rifiuti, nei mercati dell’usato e nelle carrozzerie che gli artisti vanno in cerca dei materiali che costituiranno le loro opere, di cui una delle caratteristiche fondamentali è proprio il marcato interesse per gli oggetti. Interesse critico in Arman, che accumula oggetti banali ma anche maschere a gas, ironico in Spoerri, che “cattura” gli oggetti in situazione, in particolare le tavole dopo il pasto, poetico in Christo, che impacchetta mobili e oggetti: questa attenzione per le “cose” della vita quotidiana si sviluppa attraverso diversi procedimenti di appropriazione che costituiranno per ogni artista una sorta di “firma”. Così, al gesto fondatore di Yves Klein – esporre il vuoto – farà eco quello altrettanto radicale di Arman, esporre il pieno. Per l’uno come l’altro, l’atteggiamento indotto da questa forma paradossale di esercizio di esposizione rimanda a un’economia personale della creazione. Alla composizione viene sostituita l’esperienza: l’opera si apparenta a una manifestazione, al risultato di un processo di metamorfosi del reale di cui l’opera è un effetto, una tappa. Intorno a ogni artista viene in questo modo a crearsi una forma di mitologia, basata su un gesto fondatore. Il gesto, la creazione si può separare così dell’influenza della mano dell’artista. La grande innovazione che si manifesta nella “compressione” di César è dovuta a questo fattore di distanziazione dell’artista e dell’esecuzione della sua opera. L’apporto principale dei nouveaux réalistes consisterà proprio in questa riappropriazione dei principi del readymade trasferiti in un nuovo contesto, quello di un artista impegnato nella storiografia istantanea del suo tempo. Dal movimento alla performance Si deve sottolineare il ruolo determinante svolto dalle diverse forme di performance – event e happening negli Stati Uniti, azioni di natura diversa in Europa – nell’ambito del riavvicinamento dell’arte e del reale che operano i “Nuovi Realismi”. Molto importante è l’influsso delle esperienze condotte da John Cage e Allan Kaprow su artisti che parteciperanno o organizzeranno a loro volta numerose performance come Robert Rauschenberg, Jim Dine o Claes Oldenburg; altrettanto importanti sono però gli avvenimenti che fanno intervenire l’azione e il movimento nelle prime manifestazioni del Nuovo Realismo, come quella del nuovo concetto di esposizioni-dinamiche dell’Independent Group a Londra. In Francia, l’integrazione del movimento, che costituisce nello stesso tempo l’associazione del tempo reale nell’arte e l’interazione tra l’opera e il mondo, è un 6 fattore importante nella creazione dei Nouveaux Réalistes, ai quali si aggiunge l’affermazione di una dimensione fisica e sociale del processo di creazione. Il movimento viene qui consacrato dall’esposizione “Le mouvement” organizzata nel 1955 presso la Galleria Denise Renè, in risposta all’accademizzazione dell’arte astratta. Le opere di tutti i Nouveaux Réalistes testimoniano di un’azione preesistente, nettamente distinta dalle tecniche artistiche convenzionali. Dé-college di manifesti o di pannelli pubblicitari operati da Mimmo Rotella e François Dufrêne, tavole imbandite “intrappolate” da Daniel Spoerri, ricupero o realizzazioni collettive di “bidoni di rifiuti” di Arman, compressioni di César, impacchettamento di oggetti di Christo, fino agli spettacoli “antropometrici” di Yves Klein e ai Tiri di Niki de Saint Phalle, le opere costituiscono le azioni preliminari alla costituzione dell’oggetto d’arte nella coscienza del pubblico, il cui intervento arriva talvolta alla partecipazione. Questa integrazione del movimento nell’arte, e il fatto di mettere in primo piano il procedimento fisico e sociale dell’artista che presiede alla realizzazione dell’opera, sono fattori di un riavvicinamento degli artisti europei e americani nei primissimi anni ’60. L’esposizione “Bewogen Beweging”, iniziata nel 1961 dallo Stedelijk Museum di Amsterdam, sul tema del movimento nell’arte, unisce per la prima volta in un museo un certo numero di Nouveaux Réalistes francesi e diversi artisti americani. In tutti questi artisti la parte del sensazionale e dello spettacolare è intrinsecamente legata alla natura dell’opera. I lavori dei Nouveaux Réalistes si presentano generalmente meno come immagini o oggetti significanti che come mezzi per far reagire il pubblico. Queste opere si presentano come risultato di azioni, elementi di decorazione o reliquie fondati su una dimensione teatrale o cerimoniale. La dimensione del reale ha qui valore di testimonianza. Lo statuto delle opere di questi artisti si avvale della tensione tra l’azione, spesso percepita come violenta, e l’oggetto. La performance segue il percorso di Allan Kaprow, che presenta il primo happening nel 1959 alla Reuben Gallery di New York, e si afferma attraverso un gruppo di artisti americani che riunisce Kaprow, Jim Dine e Claes Oldenburg che trasferiscono nel campo dell’azione la loro riflessione sull’action painting e l’assemblage. La pratica dell’action-collage è, secondo i termini utilizzati da Kaprow, alla base dell’happening. Generalmente legata alla manipolazione di oggetti, richiedendo talvolta la costruzione di scene – come nelle performance di Oldenburg –, l’azione può anche trasformarsi in messa in scena del corpo (in particolare nel caso degli artisti europei). Nata nella scia dei Nuovi Realismi, la performance costituirà il legame comune tra diversi movimenti coevi fondati su estetiche e filosofie molto diverse fra loro, come la Pop Art, Fluxus (= un network internazionale di artisti, compositori e designer conosciuti per aver mescolato negli anni sessanta diversi media e diverse discipline artistiche lavorando nel campo della performance, del Neo-Dada, del rumorismo, nelle arti visive, nella pianificazione urbanistica, nell'architettura, nel design e nella letteratura), la Minimal Art, l’Azionismo Viennese. La macchina per creare La meccanizzazione, che è il fattore di trasformazione più radicale della società moderna e che ha generato le nuove forme d’arte che sono la fotografia e il cinema, è stato il principale oggetto di interesse e di rifiuto da parte degli artisti del XX secolo. Nell’arte nata dal dopoguerra, profondamente caratterizzata dal sentimento di umanità ritrovata e dal lirismo gestuale, pratiche come quella dell’action painting di Jackson Pollock, o in seguito dell’Hourloupe di Dubuffet, si 7 trovano al limite del gesto meccanico e raggiungono rapidamente una forma di desensibilizzazione. Gli anni ’50 prima, e i ’60 in seguito, segnati dall’entusiasmo per la conquista dello spazio, vedono apparire la proliferazione di un’iconografia che declina all’infinito le fantasie utopistiche di una società robotizzata. Nella sua applicazione diretta all’arte, la macchina per dipingere sarà designata come l’antidoto alla decadenza e alla preminenza dell’artista sull’arte. L’importanza che riveste la macchina presso i nuovi realisti americani ed europei non deve sorprendere. Che sia modello dell’iconografia: immagine dell’automobile e dei robot domestici, oggetto d’arte, materiale negli assemblage di Arman o Robert Rauschenberg, sostituito dall’artista nelle compressioni di César, la meccanica si oppone per questi artisti alla sentimentalità e al sublime che intendono escludere. Nello stesso modo, le performance sono regolate più secondo una meccanica che una drammaturgia. Il gesto meccanico è spesso valorizzato a scapito del gesto teatrale. Tuttavia, gli artisti esprimono chiaramente la loro preferenza per i meccanismi instabili, gli effetti dovuti al caso, così come sembrano preferire le macchine sporche, rumorose o rotte che permettono di conservare uno spirito poetico. L’arte dei nuovi realisti è fondata su una “crisi dell’io” paragonabile a quella che traduceva, nei romantici, l’invenzione del simulacro. Se Daniel Spoerri fa realizzare i suoi quadri dal pubblico che mangia i suoi piatti, se Jasper Johns si nasconde dietro l’emblematica sommergente della bandiera americana, se Robert Rauschenberg intende “depersonalizzare” la sua dinamica pittorica rendendola meccanica, resta pur sempre il fatto che la scomparsa dell’artista non resiste al piacere del fare e alla gioia davanti all’effetto felice di un caso spesso organizzato o quanto meno ben scelto. Per si è si è spesso voluto opporre: L’estetica “calda” di questi artisti meccanici – compresi coloro che, come Rauschenberg, Johns o Jim Dine, sono stati associati alla Pop Art; All’estetica “fredda” che sarà quella della Pop Art. La o le Pop Art(s) Nel 1960 la Pop Art si sviluppa negli Stati Uniti. Questo nuovo movimento, al quale si assoceranno molti nuovi realisti, si diffonderà a livello internazionale. Inventato dal critico inglese Lawrence Alloway per descrivere una nuova tendenza che visto manifestarsi a Londra, il termine si imporrà negli Stati Uniti, dove contrassegnerà un gruppo di pittori legati a immagini di massa. Qualche mese più tardi, Roy Lichtenstein e Andy Warhol dipingono quadri che sembrano usciti direttamente dai fumetti popolari e che segnano l’inizio della Pop. Nel 1962, entrambi gli artisti hanno creato lo stile distanziato, liberato dalla “mano” dell’artista, che caratterizzerà la loro opera e tutto il movimento che si cristallizza negli Stati Uniti e si diffonde in Europa. Nello stesso tempo, Claes Oldenburg organizza The Store e James Rosenquist inizia la sua serie di dipinti ispirati a immagini commerciali. Nel 1964 il movimento si è imposto e protende le sue ramificazioni in tutte le sfere geografiche e culturali. Al di là di un’arte pop, si può identificare un atteggiamento pop davanti al mondo, un ambiente pop, un’estetica pop. Claes Oldenburg, The Store, 1961 10 procedimenti come il primo piano e il piano allargato saranno adattati alla superficie della tela. Viene così tradotto il fascino per una cultura americana che produce modelli universali di “vita moderna”, come nel caso degli artisti del paesaggio industriale. Pop critico Simultaneamente al trionfo della Pop Art, appaiono opere “deviate” e di derisione che prendono le stesse forme di quest’arte. Si sviluppa allora, negli Stati Uniti e soprattutto in Europa, una critica interna tanto del repertorio di immagini quanto della neutralità ideologica della Pop Art. Così il vocabolario semplice, la visualità affermata, la figuratività emblematica sono manipolati, modificati nel senso di un’affermazione politica denunciatrice, che ritrova lo spirito dadaista dei fotomontaggi e la sovversione di immagini emblematiche. Questa reintroduzione dell’interpretazione all’interno dell’immagine segna la fine della Pop Art. Nel 1966, nel momento in cui raggiunge il suo pieno sviluppo, la Pop Art si indebolisce lasciando il posto a movimenti derivati che reintroducono la narrazione e la critica al centro della pittura figurativa. I SITUAZIONISTI Giorgina Bertolino Prefazione per un dizionario situazionista: una cronologia attraverso le parole Quando, nel giugno del 1958, sul primo “Bollettino” dell’Internazionale Situazionista compare un elenco di “Definizioni”, le parole chiave lì contenute sono già in circolazione da qualche anno: situazione costruita, psicogeografia, deriva, urbanismo unitario, détournement. La nascita dell’Internazionale Situazione (IS), nel luglio 1957, è una storia rintracciabile in un vocabolario di concetti, articolato poi in vero e proprio sistema. L’impegno alla nominazione fa parte di una precisa strategia volta alla critica radicale dell’esistente. La parola “situazione” viene proposta all’inizio del 1952 da Guy Debord, fondatore dell’Internazionale Lettrista (IL viene costituita da alcuni membri del Lettrismo, proponendo rispetto alle teorie di Isidore Isou anche una critica materialistica della società dominante e della cultura seria. Nel 1957 va a fondersi con l’IS). Parole come urbanismo, psicogeografia, deriva e détournement nascono allora. Sin dal Formulario per un nuovo urbanismo, scritto da Gilles Ivain nel 1953 – un incunabolo della teoria situazionista che anticipa i concetti di urbanismo, deriva e costruzione di situazioni – il campo d’analisi e d’azione è identificato nella città e nelle sue forme concrete e simboliche: architettura e urbanistica l’urbanismo è il tentativo della loro modificazione nel presente, attuato attraverso una serie di pratiche di ricognizione nell’urbano. Ivain parla di “modulazione influenzale”, un tipo di osservazione resa poi sistematica dalla psicogeografia: lo “studio delle leggi esatte e degli effetti precisi dell’ambiente geografico […] sul comportamento affettivo degli individui”. I situazionisti scendono in strada in piccole formazioni, in squadre di psicogeografi dotati di una tecnica – la deriva – destinata a una raccolta di risultati. Programmaticamente priva di una meta, attenua l’incidenza del caso attraverso il rigore del rilievo. Il détournement è una pratica che legittima l’“abusivo” e libero utilizzo del corpus letterario e artistico dell’umanità, svuotandolo di senso. Tale tecnica si colloca a pieno titolo nella 11 pertinenza del collage e dei procedimenti di associazione di matrice dadaista e surrealista, essa troverà un’ampia applicazione nei fumetti, nelle pubblicità e nei film. Anche la deriva mostra affinità con il portato concettuale del collage. La città, campo del suo esercizio, ne fornisce i materiali: atmosfere, microclimi, rotonde e scorci da giustapporre nel “passaggio veloce attraverso svariati ambienti”, con un atteggiamento “ludico-costruttivo”. Pressoché contemporanee alle derive realizzate dai situazionisti a partire dal 1953 sono le operazioni di décollage di manifesti. La citazione surrealista all’inizio è quasi letterale – giustapposizione di manifesti strappati –, ma va nella direzione dell’happening e del coinvolgimento. Le pratiche situazioniste avranno una continuità, soprattutto dopo il 1968 – anno che segna la maggior diffusione dell’IS –, per giungere sino alle più recenti operazioni di decostruzione del linguaggio massmediatico e agli odierni “attraversamenti” nel territorio urbano. Un passo indietro. I contributi dell’arte nella prima fase dell’Internazionale Situazionista È nella critica al concetto di architettura che si salda l’incontro tra l’Internazionale Lettrista (IL) e il Movimento Internazionale per un Bauhaus Immaginario (MIBI). La messa in comune dei programmi delle due Internazionali avrà come esito la nascita dell’IS. Se per l’IL è la città a costruire il laboratorio privilegiato del progetto radicale, per il MIBI sono l’arte e un Laboratorio sperimentale i territori di elaborazione di una critica specificatamente diretta contro l’industrial design. Dalla convergenza tra due obiettivi polemici – il funzionalismo di Max Bill, fondatore della nuova Bauhaus di Ulm, e il razionalismo di Le Corbusier – i due gruppi arriveranno a concertare un’azione “da condurre attualmente in architettura” e quindi all’indirizzo comune dell’urbanismo unitario. In tutto questo, il ruolo dell’arte resta un punto critico in sospeso. L’inclusione dell’arte tra i mezzi situazionisti determinerà tutto il primo corso dell’IS, costituita “nominalmente” il 28 luglio 1957 dalla fusione tra IL, MIBI e comitato psicogeografico di Londra. A questo punto, la pittura può fare ingresso solo in qualità di détournement. Sta a Pinot Gallizio il merito dell’invenzione della “pittura industriale”, vero e proprio détournement, oggetto concreto e insieme teorico, che nella sua estensione in rotoli vendibili a metro inflaziona il concetto stesso di valore artistico. Artista scienziato, Gallizio è in grado di far convergere nell’equilibrio di un ossimoro, dato dalla coesistenza tra creatività e serialità, una critica al portato individuale, all’autorialità (la pittura industriale è un gioco collettivo) e alla standardizzazione, attraverso la conversione della macchina al “gesto unico, inutile, anti-economico”. La pittura industriale Pinot Gallizio, Rotolo di pittura industriale, 1958 Pinot Gallizio, Caverna dell'antimateria, Galleria Drouin di Parigi, 1958-59 12 nasce per essere applicata a un “ambiente” alla cui costruzione, tra il gennaio 1958 e il maggio 1959, s’indirizzano le sperimentazioni dell’IS. Destinata a “coprire tutti i muri” della Galleria Drouin di Parigi, in quella che sarà poi nel 1959 la Caverna dell’antimateria, la pittura con funzioni ambientali ha un antecedente nell’allestimento della “Prima mostra di pittura industriale” alla Galleria Notizie di Torino nel maggio 1958. Qui il détournement costitutivo dei “rotoli” è ampliato nello stravolgimento del rituale espositivo attraverso una parodia critica che, a partire dal comportamento dell’artista trasformato in venditore di stoffe, coinvolge lo spazio e l’atto di vendita dell’opera d’arte. La pittura industriale è la garanzia tipologica per la costruzione di uno di quegli ambienti o “scenari” che i situazionisti vogliono come precedenti delle future “situazioni costruite”, e che si fondano sull’individuazione di “desideri precisi” sotto la direzione di un “regista”. Il modello di riferimento di questi ambienti è il barocco con i suoi giardini, le grotte, i labirinti, secondo l’elenco contenuto nel formulario di Ivain. I prototipi sono rintracciabili nei Merzbau di Kurt Schwitters. Nei due anni di lavoro, il confronto tra Debord e Gallizio è serratissimo ma il risultato finale – la Caverna, un “anti- mondo” che Gallizio lega alle teorie fisiche dell’antimateria – è il motivo della rottura del sodalizio e quindi dell’espulsione di Gallizio dall’IS, ratificata più tardi nel 1960. La pittura, la sua destinazione espositiva all’interno di un sistema mercantile e non ultimo l’impiego per la Caverna di una pittura che “industriale” non è, sono gli elementi che convincono Debord a un’inversione di rotta che riposiziona al centro degli interessi del gruppo l’urbanismo unitario nella sua qualità di teoria critica dell’urbanistica. Le esperienze in questo campo resteranno però per la maggior parte irrealizzate, utopistiche, assimilabili alle contemporanee esperienze di happening e di environment, alla fulmineità costruttiva, fatta per prelievo dal reale, di Allan Kaprow. Una neoavanguardia senza opere Ciò che i situazionisti rifiutano è la cornice, il framework e qualsiasi altra forma di sottolineatura del fatto estetico. Rifiutata l’opera ne resta l’esecuzione, il “gesto” che è il “rovescio della merce”. L’esperienza situazionista segna il passaggio dalle avanguardie alle neoavanguardie, nella coesistenza tra un indirizzo rivoluzionario e una critica ai linguaggi operata dal loro stesso interno. Il rifiuto della produzione artistica è programmatico ed è esercitato proprio a partire dalla rilettura del destino delle avanguardie, la cui carica corrosiva non è sfuggita al recupero e al depotenziamento attuato dalla società capitalistica. Debord, in particolare, propone la via di un “dadaismo in positivo”. Un ossimoro speculare a quello che vincola il carattere insieme circoscritto e momentaneo della parola “situazione” alla solidità della costruzione. I situazionisti hanno scelto con “situazione” un termine che evoca contemporaneamente il tempo e lo spazio, il luogo e l’azione, e si sono dati strumenti che insistono incessantemente su questa compresenza. Geografi dei cambiamenti, i situazionisti tornano dalle loro esplorazioni con le uniche “forme fisse” del “verbale della deriva”, del “resoconto di un ambiente”, del “piano della situazione”. Disegnano i portolani di una nuova percezione, le mappe di una “cartografia influenzale” che registra i flussi dei passaggi, degli incontri, dei percorsi individuali, come sarà poi in molte operazioni artistiche di poco successive. Ma i fogli delle loro avventure e delle loro ricognizioni, a cui pure assegnano il valore di documento e la cura della catalogazione e della pubblicazione, non sono opere e non sono destinate all’esposizione. 15 Anni cruciali, quelli collocati fra le decadi dei ’50 e dei ’60. Sono gli anni nei quali si elaborano i concetti guida delle imminenti neoavanguardie. L’arte è dominata dalla presenza, a volte ancora vitale, dei grandi maestri della generazione dell’ottanta: Picasso, Léger, Braque, Arp, Le Corbusier, Gropius…, mentre il linguaggio più diffuso, vero e proprio stile internazionale, è l’Informale. Arte in qualche modo gridata, fortemente espressionista, parallelo europeo dell’Espressionismo Astratto statunitense. È con la situazione determinata appunto dall’esistenzialismo informale che si sono dovute confrontare le sperimentazioni e, più tardi, le tendenze operanti in nome di poetiche, teorie, tesi, valori non necessariamente univoci, ma tutti accomunati dalla volontà di investigare, senza troppe mediazioni, le ragioni oggettive del guardare, del vedere, del percepire, dell’illuminare, dell’ingannare otticamente e del creare opere “aperte”, tali cioè da imporre un comportamento integrativo e attivo da parte dello spettatore. Questo per quanto attiene agli aspetti operativi di ciò che è stato definito come arte programmata (che tale è per la predeterminazione dei suoi obiettivi e delle sue procedure), cinetica e anche gestaltica (dal tedesco Gestalt, forma). Chiariamo immediatamente: il cinetismo non è il macchinismo, e il movimento in quanto tale è un concetto, un’essenza, una categoria del pensiero prima ancora di tradursi in meccanismo, oggetto o altro. Raramente è accaduto – forse proprio con il Modulatore di luce e spazio di Moholy-Nagy – che il medium travalicasse il suo ruolo ausiliario per assumere integralmente anche il ruolo di forma e di immagine. Nel caso degli operatori dell’arte cinetica, il confronto non si pone dunque nei termini di un’infatuazione per l’era della meccanizzazione, ma piuttosto in quelli di un impiego consapevole di strumenti ritenuti neutrali, anti-sentimentali, asettici, puristici, che tuttavia presuppongono la più tipica fenomenologia del modernismo storico, le cui icone più paradigmatiche ed efficaci possono essere individuate nei dipinti di Fernand Léger. Il 1960 segna la linea spartiacque tra un prima e un dopo, è l’anno che incomincia a proiettare il Novecento verso il Duemila e che incomincia a progettarne il futuro dopo il precoce segnale d’avvio dato dalla mostra “Mouvement”, allestita a Parigi nella Galerie Denise René nel 1955 (anno di morte di Léger). È proprio tra il 1959 e il 1960 che in Europa e in Italia, la quale confermerà il suo ruolo centrale sulla scena internazionale dell’arte a partire da quel periodo, incominciano a precisarsi le circostanze che, dopo le premesse dei movimenti d’avanguardia negli anni tra le due guerre mondiali, porteranno di lì a poco alla definizione delle nuove linee di ricerca. Non più il gesto libero e i grumi di materia pittorica propri dell’Informale, ma il rigore di una sorta di “ritorno all’ordine”, fatto di un rifiuto sostanziale del colore. E poi, ancora, realizzazione di opere neutre, elaborate da “collettivi di lavoro”, cioè gruppi che agiscono impersonalmente. In sintesi, una risposta europea all’arte statunitense. Quasi contemporaneamente, fra Parigi, Milano e Padova, tra il 1959 e il 1960, si formano i principali gruppi che animeranno la scena dell’arte cinetica e programmata: - Nell’ottobre del 1959, a Milano, viene fondato il Gruppo T; - Sempre a Milano, nel 1959, vede la luce il primo numero della rivista “Azimuth” diretta da Piero Manzoni e Enrico Castellani: di vita brevissima, essa testimonierà un malessere vissuto, la necessità di produrre opere diverse dai “quadri” e di non praticare più la “pittura” e dunque di trovare alternative alle regole del mercato. Le inquietudini di cui si fa veicolo e le opere che pubblica (di Fontana, Manzoni e altri) indicano con sufficiente precocità la 16 direzione di una riduzione “essenziale” degli elementi che concorrono al costituirsi dell’opera d’arte; - In Germania, nel 1957, nasce il Gruppo Zero: vagamente orientato alle ricerche visuali e relativamente eclettico nelle adesioni (Arman, Manzoni, Fontana, Klein…) il gruppo allinea alcuni protagonisti della costituenda Nuova Tendenza; - Sempre nel 1959, a Padova, viene costituito il Gruppo N: nessuno degli artisti di questo gruppo firma individualmente le proprie opere, nel nome di una poetica e di una produzione, letteralmente, collettiva. Il milanese Gruppo T è stato capace di agire lungo il crinale che separa le ragioni dell’occhio da quelle degli altri organi preposti alla percezione o che invece le collega. Gianni Colombo, ad esempio, ha costruito situazioni spaziali para-architettoniche paradossali, destabilizzate e destabilizzanti. Egli era stato in grado di adoperare con grande consapevolezza il mezzo elettrico per ottenere risultati differenti, ma sempre indirizzati alla manipolazione e all’alterazione degli stati di quiete della forma, reale o virtuale che fosse. Partire dai dati della geometria per costruire fenomenologie del mutamento, del divenire, della pulsazione, dell’instabilità. Per proiettare più tardi tutto questo nella dimensione di un’arte ambientale. Soltanto più tardi, addirittura nel 1964, il contributo italiano alla definizione dell’arte programmata potrà contare sugli apporti di un altro gruppo milanese, denominato MID, decisamente più orientato, rispetto al Gruppo N e al Gruppo T, a operare sul fronte della comunicazione visiva “applicata”. Dal 1967 al 1992 il MID ha operato nel campo del disegno industriale, confermando per ciò stesso la connessione con la “cultura del progetto”, di volta in volta rappresentata dall’architettura, dal design e, appunto, dall’arte programmata. Del resto, se assumiamo l’arte programmata come uno stile internazionale, fiorito in non casuali circostanze storiche, anche come una moda (op art, optical art appunto) e addirittura come sorta di braccio secolare degli studi sulla percezione, possiamo retrospettivamente attribuire la giusta collocazione, nell’economia del tutto, anche al Padiglione Philips, realizzato da Le Corbusier all’Expo di Bruxelles, ancora nel 1958. Si trattò allora di una sorta di opera d’arte totale, relativamente estranea al consueto linguaggio del maestro svizzero. Una sorta di architettura multimediale, propiziata dalla nascente stagione dell’elettronica, concepita come un vero e proprio spettacolo di suoni e di luci mobili. Pretendere una lettura univoca dei fenomeni rubricati alla voce “arte programmata” sarebbe però errato e persino temerario. Certo è che in ciascuno vi è la volontà di respingere una pratica della pittura giudicata estenuata ed estenuante e pertanto incapace di esprimere valori e significati di quell’era “spaziale”, che un maestro della sperimentazione, come l’italo-argentino Lucio Fontana (1899-1968), aveva inteso quale sfondo ineludibile di un linguaggio innovatore, sin dalla seconda metà degli anni ’40. Gianni Colombo, Strutturazione pulsante, 1959 Le Corbusier, Padiglione Philips, 1958 17 Fra esiti da astrazione geometrica, concretista, meccanismi reali, azionati elettronicamente e cinetismi virtuali (basati cioè su una sorta di estetica della ricezione programmata, ovvero sulla progettazione di immagini appositamente studiate per imporre una precisa interazione fra l’occhio del riguardante e il carattere proprio dell’immagine, spesso costituita sia da una texture – struttura – sia da una tessitura), numerose si collocano le declinazioni delle ricerche visuali programmatiche. La realizzazione progettuale della forma e dell’immagine passa così attraverso: - L’impiego residuale di una pittura, non più tesa a realizzare “quadri”; - La costruzione di complesse immagini, oggettuali appunto; - L’elaborazione di congegni tecnologici, il cui scopo non è quello di esaltare la tecnologia ma quello di usarla per mostrare e dimostrare quanto siano complesse e imprevedibili le avventure della percezione, non solo visiva. Fra il 1960, anno della sua fondazione, e il 1968, anno del suo scioglimento, è stato attivo a Parigi il Gruppo di Ricerca sulle Arti Visive (GRAV). Contrari persino all’impiego della parola “arte”, i membri del GRAV intendono collocare le loro ricerche “sul piano immateriale situato fra l’oggetto plastico e l’occhio umano”. L’indagine della relazione immagine-movimento-tempo è tra gli obiettivi da perseguire. Ma ampia e socialmente connotata intende essere l’azione del GRAV, nella prospettiva, appunto, di un rinnovamento del rapporto arte-società e della stessa figura dell’artista, ancora unica e isolata, dedita a un pericoloso culto della creazione: il GRAV intende “Creare opere moltiplicabili, creare nuovi tipi di “realizzazioni” al di là del quadro e della scultura; liberare il pubblico dalle inibizioni prodotte dall’estetismo tradizionale”. La volontà di rinnovamento coltivata dal GRAV è sufficientemente radicale da respingere totalmente le forme d’arte della tradizione classico-naturalistica, della tradizione del moderno, non escluse l’arte astratta costruttivista e quella concreta, e persino l’Informale. Inteso come collettivo, il GRAV era uscito nelle strade, aveva realizzato delle performances, degli happening “europei”, consegnati alla memoria labile della macchina fotografica, cinematografica e televisiva. Le opere, anche molto differenti, dei suoi associati hanno interpretato gli aspetti canonici della fenomenologia della ricerca visuale programmata. Le dimensioni del virtuale, dell’oggettuale, del cinetico, sono state esplorate in profondità, ma forse con la relativa superficialità ed evasività che una componente spettacolare “mondana” recava in sé. Il tempo ha finito con l’attribuire la giusta collocazione a ciascuno e a distribuire ruoli e pesi. Di forte impatto sono ad esempio gli interventi a scala ambientale, come quello realizzato nel 1998 e progettato da Renzo Piano, nell’edificio Daimler-Chrysler, del quale un sottile neon invadeva un’intera ala la filosofia di un intervento del genere risale alle geniali anticipazioni di Lucio Fontana (si pensi alla struttura al neon per lo scalone d’onore della Triennale di Milano del 1951), più tardi intelligentemente raccolte da Gianni Colombo. In questo panorama variegato, lo stesso Manzoni aveva esposto su “Azimuth” opere di artisti che avrebbero poi preso parte al GRAV. Peraltro, sulla scia del clima creato dall’interesse diffuso per i linguaggi programmati, per l’arte di ispirazione ottico-cinetica, deve essere collocata anche la Lucio Fontana, Struttura al neon per la Triennale di Milano del 1951 20 superficie della tela, scandite solo da qualche striscia verticale di altro colore, sono pensati come espressione del “sublime”, come spazio cromatico totale cosmico. Solo attraverso una rilettura freddamente minimale e letterale queste opere possono risultare i prototipi di una concezione primaria della pittura, al di qua di ogni significazione simbolica. Un altro precedente significativo è quello di Robert Rauschenberg con i suoi White Paintings realizzati nel 1951 ed esposti nel 1953 alla Stable Gallery di New York. Si tratta di tele assolutamente bianche (una tela, un dittico, un trittico, quattro tele unite a formare un rettangolo), definibili allo stesso tempo come concettuali e minimaliste. Frank Stella è considerato il primo esponente del Minimalismo di rilevante importanza anche per gli scultori. I suoi quadri a strisce nere, i Black Paintings del 1959-60, sono influenzati dalla fisicità oggettuale delle Bandiere e dei Bersagli di Jasper Johns, oltre che dalla concezione dell’“arte per l’arte” di Reinhardt. La sua è una programmatica volontà di azzeramento dei valori tradizionali della pittura e di enfatizzazione del valore tautologico dell’oggetto artistico. L’intenzione di Stella è quella di fare una nuova pittura, in assoluta opposizione rispetto a quella espressionista astratta. Un’affermazione dell’identità della pittura in quanto tale, impersonale, senza illusionismi ed elaborazioni sul piano compositivo e cromatico, di carattere oggettuale, e cioè articolata come un “cosa bidimensionale” il cui processo di realizzazione risulti evidente a prima vista, esplicitamente autoreferenziale. L’artista tende a cancellare ogni significazione esterna, ogni complessa relazione interna e ogni preziosismo pittorico adottando schemi concentrici, simmetrici e ripetitivi nella stesura delle strisce nere dipinte sulla tela con un grosso pennello da decoratore (lasciando tra l’una e l’altra una sottile striscia di tela non colorata). La configurazione ripetitiva è strettamente coerente alla forma della tela e la larghezza della striscia coincide con lo spessore del telaio, molto più spesso rispetto alla norma. Quest’ultimo particolare, staccando la superficie dal muro, esalta la fisicità del supporto e la presenza del quadro come oggetto. La grande misura delle tele accentua la forza d’urto visive delle opere. A partire dal 1960-61 con Alluminium Series incomincia a realizzare tele sagomate, in cui la forma del supporto assume configurazioni geometriche variate, che coincidono con quelle dipinte in superficie. Il rigore minimal viene in seguito abbandonato per dar vita a composizioni che presentano elementi curvilinei e cromaticità vivaci anche con caratteri pop, il tutto però, come prima, direttamente connesso alla fisicità della superficie e del supporto. Robert Rauschenberg, White Painting, 1951 Frank Stella, Black Painting, 1959-60 Frank Stella, Portait Series (Alluminium Series), 1963 21 Agnes Martin e Robert Ryman sono gli altri due pittori di maggior interesse dell’area minimalista: - Anche se caratterizzata da una rigorosa elementarità geometrica e da un controllo accurato e analitico della procedura operativa, la pittura di Agnes Martin non ha la fredda e rigida impersonalità del Minimalismo più tipico. Le sue opere di maggior interesse, risalenti ai primi anni ’60, sono delle superfici quadrate monocrome quasi bianche, con delicate tonalità lievemente azzurre o avorio, ricoperte da una finissima griglia di linee orizzontali o verticali tracciate a mano con la matita. Il risultato è un alleggerimento della rigidità quadrangolare e una sorta di dematerializzazione della superficie, determinata da una particolare sensibilità cromatica e dalla vibrazione visiva prodotta dalle griglie mai perfettamente regolari; - Robert Ryman ha portato alle estreme conseguenze, sul piano della sensibilità fisica e su quello concettuale, il processo di riduzione minimale del fare pittura. I suoi quadri si presentano come supporti concreti connotati dalla materialità della stesura pittorica, ma, a differenza di Stella, non utilizza la rigidità delle configurazioni geometriche e non concepisce l’opera come oggetto, bensì semplicemente come superficie pittorica. Ryman incomincia a lavorare esclusivamente con il colore bianco a partire dal 1959, questo perché è un colore neutrale che consente di evidenziare aspetti letterali della pittura che resterebbero sommersi in una variazione cromatica più elevata. Utilizza vari supporti: lastre metalliche, fogli di carta, lino non intelaiato, cotone. In molti casi la presenza del supporto, e il suo rapporto con il colore, vengono evidenziati lasciando ai bordi una minima parte non dipinta, oppure non ricoprendo i segni dei pezzi di nastro adesivo utilizzato per appendere il supporto alla parete durante la lavorazione. In altri casi, i supporti sono leggermente distanziati dal muro per mezzo di graffe metalliche. La prima grande mostra collettiva che mette a fuoco criticamente l’area della ricerca pittorica americana definibile come minimalista è “Systemic Painting”, curata nel 1966 da Lawrence Alloway al Guggenheim Museum di New York, dove sono presenti, tra gli altri, Reinhardt, Newman, Stella, Martin, Ryman. Gli scultori minimalisti americani Le prime mostre con installazioni di sculture minimaliste si tengono a New York, tra di esse, la personale di Morris alla Green Gallery nel 1963. L’artista partecipa anche alla collettiva “Shape and Structure” tenutasi nel 1965 presso la Tibor de Nagy Gallery. “Primary Structures. Younger American and British Sculptors” è il titolo della rassegna, curata da Kynaston McShine al Jewish Museum nel 1966, che mette a confronto scultori inglesi (tra cui, Anthony Caro) e minimalisti americani (tra cui, LeWitt e Morris). Questa mostra sancisce ufficialmente l’affermazione dei minimalisti e la specificità dei loro lavori rispetto alle strutture caratterizzate da articolate relazioni interne di artisti come Caro e in generale degli esponenti delle tendenze neocostruttiviste e programmate europee. Agnes Martin, Night Sea, 1963 22 I minimalisti non attribuiscono alcun significato dimostrativo alla modularità geometrica e alla serie di derivazione matematica che utilizzano, e non sono interessati a implicazioni di carattere scientifico, filosofico o sociale come gli europei legati ancora alla tradizione neoplastica, costruttivista o del Bauhaus. Anche se le differenze tra i vari artisti sono chiaramente definibili, molte sono le caratteristiche di fondo che accomunano la loro ricerca. I lavori sono costituiti da consistenti volumi geometrici di diretto impatto visivo (la cui Gestalt è immediatamente percepibile come un tutto unitario); da unità primarie, monolitiche, come cubi, parallelepipedi, piramidi e simili; da elementi modulari standard organizzati in strutture aperte e sequenze seriali. I materiali utilizzati sono di tipo industriale e edilizio, quali pannelli di legno, lastre di metallo, formica, plexiglas, vetro, e anche mattoni, travi, tubi fluorescenti al neon. L’installazione degli elementi al suolo o sui muri ha una specifica connessione con lo spazio espositivo, in modo tale da metterlo in gioco direttamente come componente del lavoro artistica. Alla riduzione minimale delle relazioni significative interne delle sculture (assenza di centralità e di gerarchia degli elementi formali) si contrappone l’enfatizzazione della percezione delle relazioni tra spazio esterno e oggetti plastici, con la loro ingombrante e “ottusa” presenza fisica, e con le loro caratteristiche materiali e formali primarie. Questo fatto tende a suscitare nello spettatore delle reazioni sensoriali più immediate e fisicamente coinvolgenti. Gli scultori minimalisti accordano dunque una grande attenzione alla contestualizzazione ambientale. Le installazioni minimaliste sono un punto di riferimento essenziale per gli sviluppi successivi delle ricerche che vanno nel senso dello sconfinamento spaziale, in particolare per la land art e l’arte ambientale. Le ricerca di Robert Morris si è sviluppata nel tempo in modo diversificato. Con il suo lavoro, ma anche in particolare con i suoi scritti teorici, ha contribuito in maniera rilevante alle fasi cruciali del rinnovamento artistico degli anni ’60. È tra i protagonisti del minimalismo, ma anche, a partire dal 1967, del suo superamento in chiave antiformale e processuale, cui contribuisce con i Felts (dei pezzi di feltro spessi e molli, dove è la forza di gravità a determinare la forma dei lavori), con le installazioni ambientali di materiali vari sparsi e accumulati. Significativi sono anche gli interventi nell’ambito della land art. All’inizio degli anni ’60 si cimenta anche negli happening, collaborando in particolare a ricerche sulla danza, sia come performer sia realizzando oggetti e ambienti. Del 1961 sono due lavori, connessi a queste performance, che si collegano già a una problematica minimalista: Passageway, un lungo tunnel curvo e stretto, e Column, un grande parallelepipedo, realizzati entrambi in compensato colorato di grigio. Fondamentale in Morris è anche la componente concettuale duchampiana, evidente in una serie di oggetti e rilievi Robert Morris, Untitled (Tangle), 1967 Robert Morris, Passageway, 1961 Robert Morris, Column, 1961 25 pittoriche assolutamente minimali, con un marcato carattere concettuale, sottolineato dall’artista nell’opera più estrema: Linea infinita. Nell’autunno del 1959, insieme a Enrico Castellani, Manzoni fonda la rivista “Azimuth”. Il secondo (e ultimo) numero esce nel gennaio 1960 come catalogo della mostra “La nuova concezione artistica” alla Galleria Azimuth, una collettiva con opere per lo più monocrome di Klein, Castellani, Manzoni, e con superfici ottico-percettive. Anche a Roma ci sono artisti che elaborano una ricerca con specifiche caratteristiche riduttive. Il caso più significativo è quello di Francesco Lo Savio, perché la sua ricerca (1959-62) incentrata sul rapporto tra spazio e luce ha dato vita a lavori che per certi aspetti sembrano percorrere le esperienze minimaliste, anche se ben diverse sono le sue ragioni poetiche: nei suoi dipinti monocromi, infatti, la luce è l’unico elemento che definisce la strutturazione di superficie; nel passaggio ai Filtri e ai Metalli poi l’oggetto entra in contatto con lo spazio ambientale, fino a definire uno spazio integrato all’oggetto stesso. Un protagonista della scena torinese degli anni ’60 e ’70 è Giulio Paolini, esponente di punta dell’arte povera e dell’arte concettuale. Particolarmente importanti sono le sue prime opere (1960-66), dove la sua analisi degli strumenti del fare arte, e di tutto ciò da cui dipendono le effettive condizioni di esistenza della pittura, si presenta anche come un’operazione di azzeramento, di riduzione agli elementi primari del linguaggio. Fondamentale punto di partenza della sua ricerca è Disegno geometrico (1960), una tela bianca segnata solo dalla squadratura lineare: la tela propone sé stessa come lo spazio bianco puro e semplice, nel senso di superficie fisica e di luogo di ogni possibile rappresentazione. Nella sua prima mostra personale alla Galleria La Salita di Roma (1964) Paolini espone una serie di spogli pannelli di legno appesi o appoggiati al muro, che prendono il posto di quadri; l’esposizione si presenta come se fosse in corso di allestimento. Altre opere con caratteristiche per certi versi minimali sono per esempio Plakat Carton (1962), una serie di cartoncini colorati, presi dal campionario di un colorificio, attaccati su un telaio; oppure Ut-op (1966), tre tele bianche collocate nell’angolo di una sala, in modo da coincidere con le superfici dello spazio reale. Francesco Lo Savio, Metallo nero opaco uniforme, 1959-60 Giulio Paolini, Disegno geometrico, 1960 Giorgio Paolini, Plakat Carton, 1962 26 In Francia, al di là del riconosciuto ruolo di precursore di Yves Klein con i Monochrome iniziati nel 1957 (che tuttavia sono solo un aspetto della sua complessa e articolata opera concettuale connotata da un’ispirazione all’assoluto e alla purezza immateriale), vanno accennati altri due artisti: François Morellet e Roman Opalka. - Il lavoro di Morellet è di matrice razionalista ma piuttosto autonomo rispetto alle tendenze programmate in cui normalmente viene inserito. Notevole è il suo particolare metodo concettuale sistematico: all’inizio di ogni quadro l’artista si pone certe regole di esecuzione a cui si attiene scrupolosamente, regole relative al numero di trame lineari rette, e al grado di inclinazione di queste in rapporto alla perpendicolare del quadrato della tela. Il titolo stesso dei lavori annuncia il programma: per esempio, Quattro doppie trame: 0° - 22,5° - 45° - 67,5°, del 1958. Più che l’interesse per l’opera in sé, viene così stimolato quello per il suo processo di realizzazione, tanto razionale quanto ironicamente arbitrario, con effetti imprevedibili. È da notare un’ambigua somiglianza con i criteri utilizzati da Sol LeWitt per i suoi Wall Drawings, anche se questi ultimi hanno uno sviluppo ambientale; - Opalka, a partire dal 1965, su tele di misura sempre uguale (193 x 135 cm), riempie la superficie nera, iniziando in alto a sinistra con andamento di scrittura, con numeri progressivi dipinti in bianco. Finito un quadro prosegue la numerazione su un’altra tela, con una progressiva lievissima variazione di colori: il nero del fondo è diventato nel tempo sempre più grigio in modo tale che alla fine l’artista arriverà a dipingere le cifre bianche su bianco. Ogni opera si intitola Détail. Dal 1972 il rituale operativo diventa più complesso: alla fine di ogni seduta di lavoro l’artista fotografa il suo volto sempre nella stessa posizione: inquietante e affascinante operazione concettuale di analisi del tempo dell’esistenza individuale, una specie di singolare performance che tende a far coincidere arte e vita. Bisogna infine parlare di alcuni artisti tedeschi. In particolare, Blinky Palermo e lo scultore Ulrich Rückriem. François Morellet, Quattro doppie trame: 0° - 22,5° - 45° - 67,5°, 1958 Roman Opalka, Détail, dal 1965 Roman Opalka, Détail, dal 1972 27 - Blinky Palermo cerca di annullare ogni valore tradizionalmente collegato a una concezione illusionistica della pittura, elaborando installazioni con elementi di legno e interventi pittorici direttamente sulle pareti, coinvolgendo la dimensione ambientale e seguendo criteri rigorosamente riduttivi. Senza titolo (1967) è costituito da tre aste di legno sospese al muro che si incrociano irregolarmente, formando all’interno un triangolo acutangolo ricoperto di stoffa blu. Realizza anche grandi quadri dove supporto e colore coincidono: sono estese superfici con due o tre larghe bande orizzontali determinate dalla giustapposizione di stoffe di differenti colori standard (marrone, nero, verde ecc.); - Rückriem arriva a definire la sua specifica ricerca nel 1968, dopo aver scolpito prima delle grosse teste in pietra e poi costruito delle strutture in legno. Di fondamentale importanza per lui è l’esperienza nelle cave di pietra, dove rimane molto colpito dall’impatto fisico e dalla forza plastica dei blocchi appena tagliati. La sua prima scultura di nuovo tipo è un blocco rettangolare di pietra dolomitica, compatto ma tagliato in cinque pezzi. La scultura è ridotta qui all’espressività primaria della sua materia più classica, alle forme e masse elementari connesse agli elementi base della costruzione architettonica, e all’intervento essenziale dell’uomo nei confronti della pietra. ARTE E AMBIENTE Francesco Poli In questo testo verranno prese in considerazione le ricerche che si caratterizzano in modo particolare come superamento della concezione dell’opera tridimensionale (come forma plastica, oggetto o struttura costruita) autocentrata e cioè sostanzialmente autonoma dal contesto esterno in cui viene collocata. Un superamento determinato da un radicale spostamento di attenzione verso la dimensione dello spazio ambientale, che diventa parte integrante dell’elaborazione creativa nella misura in cui assumono un’importanza esteticamente decisiva le relazioni che gli elementi del lavoro instaurano con il luogo di esposizione (con le sue particolari connotazioni già esistenti o trasformate anch’esse dall’artista), relazioni definite da specifiche modalità d’intervento. A tal proposito, il critico d’arte Germano Celant afferma “La collocazione contestuale sollecita un senso di reciprocità basato su una mutualità reale, in cui l’arte crea uno spazio ambientale, nella stessa misura in cui l’ambiente crea l’arte”. All’interno di questi lavori rientrano sia gli “ambienti” veri e propri (definiti da pareti, soffitto e pavimenti) sia le installazioni ambientali in spazi interni o esterni, che al limite estremo comprendono anche gli interventi in territori naturali della Land Art. Le opere con un intenzionale coinvolgimento organico e strutturale dello spazio reale diventano un aspetto progressivamente sempre più importante delle ricerche artistiche a partire dalla fine degli Blinky Palermo, Senza titolo, 1967 Ulrich Rückriem, Untitled, 2000 30 - Ambiente bianco di Enrico Castellani: con superfici lisce e trapuntate con rilievi di rigorosa ritmicità seriale, quasi minimalista; - After Structure di Gianni Colombo: uno spazio ricoperto da regolari griglie quadrettate, con linee rosse, verdi, blu, che a causa di un programma intermittente di flash luminosi producono sorprendenti effetti visivi a livello di persistenze retiniche. Colombo si dedica in seguito alla costruzione di ambienti architettonici praticabili (come le Architetture cacogoniometriche) che non hanno più nulla a che fare con l’arte programmata, e che determinano una perturbazione straniante dell’equilibrio e della percezione sensoriale dello spettatore. Sono ambienti “abitabili” che progressivamente da spazi neutri e “astratti” (dove il pubblico è immerso in eventi cinetici di natura luminosa) diventano sempre più spazi legati a una progettazione architettonica con un diretto impatto fisico di elementi costruttivi messi in scena secondo un metodo definibile “decostruzionista”, nel senso di una intenzionale messa in crisi radicale dei presupposti classici dello spazio architettonico razionalista. Nell’ambito delle ricerche ottiche cinetiche sono molti gli artisti che hanno costruito ambienti di vario tipo negli anni ’60, tra cui esponenti del gruppo Zero e GRAV. “Le vide” di Yves Klein e “Le Plein” di Arman Di fondamentale importanza anche per i successivi sviluppi delle ricerche ambientali minimaliste e concettuali è l’opera-ambiente realizzata alla Galerie Iris Clert di Parigi (aprile- maggio 1958) da Yves Klein, intitolata “La Vide”. L’utopia artistica di Klein verte verso un’arte assoluta che superi ogni forma di condizionamento relativizzante per raggiungere la massima libertà di spirito e la purezza dell’essenza cosmica immateriale. A tutto ciò si collega la scelta della pittura monocroma, e specialmente quella del blu oltremare (che rimanda all’infinito e all’assoluto) e dell’oro, e anche quella dei quattro elementi della sua metodologia Enrico Castellani, Ambiente bianco, 1970 Gianni Colombo, Architettura cacogoniometrica Yves Klein, La vide, Galerie Iris Clert di Parigi, 1958 31 (acqua, aria, fuoco, terra). La sua ricerca si propone così come un rinnovamento rispetto alle precedenti concezioni artistiche e come un’inedita apertura mentale e materiale dell’arte alla vita e alla realtà. Con La Vide va oltre la pittura e il colore per dimostrare l’esistenza di “un’essenza immateriale dell’arte”, fruibile da parte degli spettatori attraverso un’esperienza estetica allo stesso tempo spirituale e sensoriale. La galleria vuota è tutta verniciata di bianco, i vetri all’esterno sono dipinti di blu IKB (International Klein Blue) e intorno alla porta d’ingresso viene installato una specie di baldacchino con tendaggi sempre blu. Allo spazio vuoto e immateriale e puro di Klein si oppone quello pieno, caotico, intasato di cose “impure” e degradate di Arman. Presentato alla mostra “Le Plein”, tenutasi sempre presso la Galerie Iris Clert di Parigi nel 1960. Portando alle estreme conseguenze l’attitudine dadaista di Schwitters per un coinvolgimento diretto degli oggetti della realtà (e in particolare quelli trovati e “vissuti”), nell’operazione artistica Arman, maestro di accumulazioni ossessive e di colères distruttrici, si diverte a riempire fino al soffitto lo spazio espositivo con ogni genere di oggetti d’uso vecchi e da buttare (ma anche cinquanta quadri di “artisti contemporanei”). Qui lo spazio espositivo si trasforma in un misto fra un magazzino di robivecchi e una discarica di rottami. Si tratta di una provocatoria estetizzazione della dimensione più degradata e caotica dell’ambiente urbano in cui siamo immersi, e di un’ironica e paradossale critica della società dei costumi, e anche della concezione dell’arte come realtà separata dalla “volgarità” e banalità dell’esistente. La Caverna dell’antimateria di Pinot Gallizio L’ambiente pittorico realizzato nel 1959 alla Galerie Drouin di Parigi da Pinot Gallizio rappresenta un caso a sé, per essere ancora legato a una poetica pittorica informale, ma soprattutto per le due dirette connessioni con le teorie situazioniste. La Caverna dell’antimateria è un ambiente realizzato con 145 metri di tela dipinta, utilizzata per ricoprire completamente pareti, soffitto e pavimento, creando uno spazio di intensa ed esplosiva energia organica, matrice pulsante di valori psichici, magici e mitici. Uno spazio dell’“antimondo”, metafora del caos primigenio, del mondo in formazione, luogo primario di emergenza di emozioni vitali. Certamente Gallizio ha pensato all’Ambiente spaziale di Fontana, ma i risultati sono molto diversi, anche se analogo per certi aspetti è il senso straniante di una dimensione spazio-temporale Arman, Le Plein, Galerie Iris Clert di Parigi, 1960 Pinot Gallizio, Caverna dell'antimateria, Galleria Drouin di Parigi, 1958-59 32 completamente altra. L’artista conosceva anche l’ambiente di Klein, ma la pregnanza coinvolgente della materia pittorica della sua caverna è naturalmente tutt’altra cosa rispetto alla mistica del vuoto assoluto. Va detto che l’attitudine di Klein è definita “mistica incantatoria” dai situazionisti, e come tale di fatto mistificatoria perché invece di stimolare situazioni creative attive nella gente, tendeva secondo loro a esaltare la passività contemplativa. Gli environment di Allan Kaprow Influenzato dalle teorie estetiche di John Cage e dallo spirito neo-dadaista degli assemblage, Allan Kaprow (insieme ad altri artisti americani protagonisti degli happening, come Claes Oldenburg, Jim Dine e Robert Rauschenberg) porta alle estreme conseguenze la fusione dell’attività artistica con la vita reale, quella del contesto urbano, dilatando i suoi interventi a livello ambientale, con il diretto coinvolgimento degli spettatori. Kaprow è il primo a definire teoricamente le caratteristiche degli happening e degli environment: per lui i primi sono uno sviluppo diretto dei secondi. Gli environment sono nati con l’idea di rendere i normali spettatori dei partecipanti attivi. Quando poi sono usciti dal contesto chiuso dell’arte (studi, gallerie, musei) e si sono immersi nella natura e nella vita urbana si sono trasformati in happening. Il primo environment è Beauty Parlor, realizzato nel 1957-58 alla Hansa Gallery di New York: due ambienti riempiti di fluidi strati pendenti di stoffe e fili multicolori, lampadine accese, specchi rotti, con un ventilatore che diffondeva odori chimici e altoparlanti che emettevano suoni elettronici composti dall’artista. I visitatori dovevano attraversare e immergersi in questa caotica dimensione multisensoriale. Un altro suo environment è Garage (1960), un vero parcheggio sotterraneo in cui l’artista realizza una confusa e debordante installazione con reti metalliche, nelle cui maglie si intrecciano giornali, lenzuola, frutti, rami con foglie e altri oggetti. Un labirinto ambiente emblema della “Junk Culture”. Ambienti pop di George Segal e Claes Oldenburg I due artisti dell’area pop americana che hanno dato un contributo decisamente originale all’arte ambientale sono Claes Oldenburg e George Segal, entrambi legati alle esperienze degli happening. - Segal, anche non realizza direttamente degli happening, collabora attivamente agli eventi dell’amico Kaprow, con cui condivide l’esigenza di un rapporto il più stretto possibile fra arte e realtà vitale. Ma il suo approccio al problema è sostanzialmente rovesciato: invece di cercare di inserire l’intervento artistico nella fluidità temporale della realtà, tenta di assorbire, anzi di bloccare, la dimensione dell’esistenza nell’opera d’arte. Per fare questo elabora una forma inedita di scultura d’ambiente o di situazione (“environmental sculpture”, “situational sculpture”) costituita da calchi al vero di persone in atteggiamenti quotidiani collocati nei George Segal, The Dinner Table, 1962 35 un’enfatizzazione degli stimoli a livello più freddamente mentale. In questo senso piuttosto esemplari sono i lavori di Giulio Paolini, nella cui ricerca lo spazio dell’opera tende sempre a coincidere con lo spazio intorno all’opera. Nell’Ipotesi di una mostra (un progetto del 1963 mai realizzato), i visitatori sono essi stessi il “contenuto” della mostra: quelli che entrano nella prima sala vedono un’altra sala divisa da un vetro con un altro gruppo di visitatori, il che produce un singolare effetto di rispecchiamento concettuale. Lo Spazio (1967) è un ambiente quadrato dove le otto lettere di “lo spazio” (caratteri in stampatello ritagliati in compensato e dipinti in bianco come le pareti) sono incollati tutt’intorno a distanza regolare, all’altezza dell’asse ottico: alla lettera, lo spazio è l’opera. Ma l’artista arriva ad assorbire nel suo lavoro l’intero spazio di un museo. In una sua mostra al Musée des Beaux-Arts di Nantes (1987) Paolini installa un’opera, L’autore? Un attore!, che si propone al centro come specchio strutturale di tutto lo spazio espositivo, attraverso il profilo disegnato della sequenza di archi del doppio portico che caratterizza lo spazio interno del museo. L’esposizione stessa, e cioè l’insieme dei lavori esposti in questo luogo architettonico, e il museo che la contiene, diventa una sola unica grande “opera”. Nell’ambito delle ricerche poveriste e processuali tutte le installazioni hanno specifiche implicazioni spaziali e molti lavori si configurano come veri e propri ambienti. A titolo di esempio possiamo prenderne in considerazione uno di particolare importanza, di Joseph Beuys. Uno degli aspetti fondamentali del modo di operare di Beuys è costituito da un’accurata strategia nell’installazione ambientale degli oggetti e materiali delle sue opere, che sono spesso in stretta connessione con le sue azioni performative, le actions. In molti casi l’artista arrivare a creare dei veri e propri ambienti caratterizzati da un totalizzante coinvolgimento sensoriale, emotivo e mentale. Tra questi uno dei più affascinanti è Plight (= situazione difficile o penosa), un grande ambiente realizzato negli spazi della galleria di Anthony d’Offay a Londra (1985, vecchia idea del 1958), e oggi conservato definitivamente al Centre Pompidou di Parigi. Si tratta di due sale che formano una sorta di L, con le pareti completamente ricoperte da grandi rotoli di spesso feltro grigio-bruno posti uno accanto all’altro in doppia fila, verticalmente, come delle tozze colonne. Nella prima stanza si trova un piano a coda nero, chiuso, su cui è posta una lavagna appena segnata dalle linee di un pentagramma, con sopra un termometro. Il visitatore che penetra in questo ambiente è immediatamente sollecitato sul piano delle sensazioni fisiche: il calore del suo corpo, il suo respiro, il rumore dei suoi passi, l’odore del feltro e la stessa luce fredda dei neon vengono come soffocati e riassorbiti da Giulio Paolini, Ipotesi di una mostra, 1963 Joseph Beuys, Plight, 1985 (vecchia idea del 1958) 36 un’atmosfera di silenzio opprimente, in una dimensione spaziale e temporale completamente straniante. La presenza immobile e ingombrante del pianoforte, la cui energia musicale potenziale è bloccata all’interno, enfatizza per contrasto la forza dell’impatto a tutti i livelli di questo inquietante “suono del silenzio”, che ha anche le valenze di morte. L’unica cosa mobile è la colonnina di mercurio del termometro, che registra le eventuali variazioni di temperatura dell’ambiente. Land Art Land Art è il titolo del film di Gerry Schum (1969) che documenta i lavori, fra gli altri, di Robert Smithson. Con questa etichetta (ma anche con quella di “Earth Works”, titolo di una mostra alla Dwan Gallery di New York nel 1968) vengono definite quelle operazioni artistiche che, a partire dal 1967-68, vanno al di là degli spazi espositivi dell’arte, e anche delle aree urbane, intervenendo direttamente nei territori naturali. Lo sviluppo maggiore e più spettacolare di questa tendenza ha luogo negli Stati Uniti, dove gli artisti sono affascinati soprattutto dagli immensi spazi incontaminati come i deserti, i laghi salati, le praterie. Questa dimensione naturale “assoluta” si oppone dialetticamente all’artificialità e alla fredda e geometrica monumentalità delle metropoli, rappresentando l’altra faccia dell’identità geografica americana. In questo senso la Land Art si oppone alla Pop Art e alla minimal art. In ogni caso è da sottolineare la notevole influenza del Minimalismo sulla Land Art, dato che artisti come appunto Smithson provengono dall’arte minimalista. L’operazione dei land artisti non è, ovviamente, quella di collocare sculture nella natura, ma di utilizzare lo spazio e i materiali naturali direttamente come mezzi fisici dell’opera, attraverso interventi su grande scala. Dal punto di vista delle configurazioni formali questi interventi hanno un carattere minimalista, ma qui entrano in gioco valenze molto diverse, legate anche alla specifica natura dei materiali utilizzati (terra, rocce, sabbia, ghiaia, catrame) con effetti antiformali e fluidi legati alle ricerche processuali. Le forme geometriche primarie (scavate, tracciate, costruite attraverso accumulazioni) sono segni artificiali destinati a essere riassorbiti completamente dai processi di erosione e trasformazione degli elementi naturali: il grande impiego di energie umane e meccaniche risulta alla fine ben poca cosa di fronte alla forza primordiale e ai tempi lunghissimi della natura. Va notato che la quasi non accessibilità dei luoghi, e il progressivo degrado degli interventi nel tempo, tendono a rendere queste opere praticamente invisibili e immateriali per la maggioranza del pubblico. Quello che rimane da vedere (progetti, foto, filmati) si trova solo nelle gallerie e nei musei, proprio quegli spazi separati da cui volevano sfuggire gli artisti. Smithson è tra i primi a realizzare grandi lavori sul territorio naturale. Ma anche altri artisti come Morris, Christo e Serra sono autori di interventi notevoli: - Robert Morris già nel 1966 aveva progettato un grande anello di terra ricoperto d’erba per l’aeroporto di Dallas e altri interventi (colline a spirale, rilievi con forme tortuose), ma solo nel 1971 riesce a realizzare, in Olanda, Observatory, una complessa costruzione ad anelli concentrici; - Christo è noto per i suoi interventi di “impacchettamento” sia di monumenti cittadini sia Robert Morris, Observatory, Olanda, 1971 37 di luoghi naturali, come la scogliera di Little Bay in Australia (1969). Tra i suoi successivi interventi ambientali si può citare Running Fence (1972-76): una barriera lunga 24 miglia, formata da un’alta tenda di tessuto sintetico che si snodava nel paesaggio come una sorta di Muraglia Cinese, effimera e di grande leggerezza; - Robert Smithson crea una stretta interconnessione fra territorio esterno e spazio espositivo della galleria attraverso la dialettica fra site e non-site, luogo e non-luogo, che in inglese è per assonanza anche un gioco di parole fra vista e non-vista. I Non-Sites, realizzati a partire dal 1968, sono dei contenitori di varie forme geometriche semplici, con all’interno materiali grezzi (pietre, ghiaia, minerali vari) raccolti dall’artista in determinati luoghi da lui esplorati, appunto i site. Dato che un non-site è la sottrazione di un sito in un contesto artistico, gli osservatori di questo non-luogo sono costantemente rimandati al sito reale. Essi sono stimolati a visitare il sito originale, che in galleria viene visualizzato attraverso foto, carte geografiche e disegni. Durante un viaggio nello Yucatán in Messico (1969), Smithson installa in svariati luoghi naturali i suoi Mirror Displacements, lastre specchianti, in configurazioni regolari nella sabbia, nella terra, tra la vegetazione, in modo da riflettere a livello del terreno la luce, il cielo e altri elementi della natura. Di questa esperienza artistica rimane solo un reportage, con foto e testi dell’artista, pubblicato su “Artforum”, documento questo che è diventato in sé un’opera concettuale. Nel 1970 riesce a portare a termine il suo intervento più impegnativo di Land Art. Si tratta di Spiral Jetty, una grande banchina a forma di spirale nel Great Salt Lake (Utah), Christo, Little Bay in Australia, 1969 Christo, Running Fence, 1972-76 Robert Smithson, Non-Site, dal 1968 Robert Smithson, Mirror Displacements, Yucatán in Messico, 1969 40 1. Stati Uniti Process Art, Antiform Negli Stati Uniti gli estremi dell’arco di tempo che delimitano l’affermazione di nuovi modi plastici possono essere identificati con due mostre: 1) “Eccentric Abstraction”, presentata da Lucy Lippard alla Fischbach Gallery di New York nel 1966: Pochi mesi dopo la consacrazione istituzionale della Minimal Art al Jewish Museum a New York, nella rassegna “Primary Structures”; Primo modesto rilevamento di un’emergente attitudine “postminimalista”, con una serie di inconsueti lavori a pavimento o a parete caratterizzati da materiali industriali fino allora poco usuali in ambito plastico, da forme “soft” dagli angoli smussati, ambiguamente organiche, e da controllate contrapposizioni di ordine e disordine. 2) “Anti-Illusion: Procedures/Materials”, organizzata da Marcia Tucker e James Monte al Whitney Museum di New York nel 1969: Segna la piena maturità delle ricerche processuali e antiformali; Tra le opere esposte: Casting (1969) di Richard Serra, un work in progress con detriti combustili di Robert Morris, il primo corridoio di Bruce Nauman e Expanded Expansion (1969) di Eva Hesse, costituito da tessuti impregnati di lattice sospesi tra aste in fibra di vetro; Si situa già in pieno clima di Conceptual Art. I titoli delle due mostre sono rivelatori della posta in gioco: “Astrazione Eccentrica”, “Anti-Illusione”, “Procedimenti”, “Materiali” sono nozioni che lasciano trasparire un’inequivocabile presa di posizione rispetto all’orientamento minimalista, impostato sull’organizzazione rigorosamente logica di anonimi e nitidi oggetti geometrici, standardizzati e prefabbricati. L’interesse si sposta verso procedimenti ed esiti che eludono univocità e chiarezza, regolarità e stabilità, a favore di situazioni aperto, mutevoli, aleatorie. L’attitudine di fondo mira a una smaterializzazione della scultura intesa come corpo impenetrabile – volume chiuso e stabile – e a un superamento dell’idea di oggetto in sé concluso. Il coinvolgimento artistico si concentra anzitutto su processo del “fare” e del “situare”, anziché sulla preoccupazione di un risultato estetico in sé compiuto l’uso funzionale dei materiali è soppiantato da una libera manipolazione e sperimentazione della materia e delle sue possibilità di interazione con l’instabilità e la mutevolezza dei fattori contingenti (ambiente, forza di gravità, luce, deperibilità). La preminenza del processo sul prodotto porta a situazioni di equilibrio precario, che identificano l’opera come possibile “episodio” di una processualità potenzialmente illimitata. L’attenzione è orientata su materiali quali plastica, tessuti, resine sintetiche, fibra di carbonio, Richard Serra, Casting, 1969 Eva Hesse, Expanded Expansion, 1969 41 caucciù, i quali stimolano una libera manipolazione, che riqualifica l’importanza del gesto, della manualità, del processo operativo, banditi tanto dalla Pop Art quanto dalla Minimal Art (da qui la rilevanza di Oldenburg, i cui manufatti amorfi realizzati in ogni sorta di materiali a partire dai primi anni ’60 – in particolare le Soft Sculptures, dal 1962 – costituiscono un importante riferimento per i postminimalisti). In alcuni casi, l’attenzione per la fattura e il “fare” contaminano l’approccio plastico con una qualità “pittorica”, talora avvalorata mediante l’uso del colore. Alla manualità e alla manipolazione dei materiali corrisponde pertanto, sul piano della fruizione, un’inedita sollecitazione sensoriale. La componente “impura” che introduce nell’oggetto l’indefinito, la provvisorietà, la dissociazione e la dispersione trova riscontro, sul piano percettivo e sensoriale, nell’impossibilità di ridurre le situazioni plastiche a una lettura unitaria e coerente. L’investigazione di questi principi di fondo prende strade sensibilmente diverse, come ben rivelano i lavori riuniti nella mostra “Nine at Castelli”, presentata da Leo Castelli a New York nel dicembre del 1968: Eva Hesse è presente con Augment e Aught: - Augment (1968): allestito al suolo, vede diciannove tele impregnate di lattice sovrapposte in ordine sfalsato a formare un’ordinata progressione, come recita il titolo; - Aught (1968): propone quattro grandi unità (doppie tele impregnate e sigillate con lattice) sospese a parete a intervalli regolari e riempite con scarti di plastica e corde, in modo da apparire rigonfie, con una superficie irregolare e indeterminata (il pronome del titolo designa “qualcosa”, “alcunché” o nell’accezione avverbiale “per niente”, “affatto”). Bruce Nauman espone due lavori dall’aspetto minimale che implicano un’inquietante dicotomia tra l’evidenza fisica e ciò che sfugge alla percezione o all’assimilazione cognitiva: - John Coltrane (1968): è una lastra di acciaio con il lato inferiore, a contatto con il suolo, lucidato a specchio; - Steel Channel (1968): è costituito da un piccolo megafono collegato a un registratore e montato su una trave cava di acciaio distesa a pavimento che diffonde degli anagrammi ottenuti dalla doppia ripetizione di “lighted steel channel” (in inglese lighted significa sia “alleggerito” sia “illuminato”). Claes Oldenburg, Soft Sculpture (Floor Cone), dal 1962 Eva Hesse, Augment e Aught, 1968 Bruce Nauman, John Coltrane, 1968 42 Richard Serra esegue tre interventi: - Splashing (1968): presentato in un luogo pubblico, getta 210 chili di piombo fuso nella giuntura fra parete e pavimento su una lunghezza approssimativa di sei metri, in modo che solidificandosi aderisse alla parete, visualizzando l’azione della forza di gravità e, nell’insieme, modificando la percezione delle coordinate spaziali; - Scatter Piece (1968): strappa e getta a terra dei pezzi di caucciù, fino a ottenere un disordinato ammasso di materia; - Prop Piece (1968): costruisce una situazione di equilibrio precario con una lastra di piombo antimonio trattenuta contro il muro da un elemento cilindrico che funge da puntello. Se l’assunzione del principio di indeterminazione è il comune denominatore di questi lavori, sostanzialmente diversi sono i metodi della sua applicazione; se il carattere processuale delle opere è una preoccupazione condivisa, la natura dei processi in gioco resta distinta. Alcuni artisti affrontano il superamento dell’oggetto statico e in sé compiuto attraverso l’integrazione dell’ambiguità, dello straniamento e della contraddizione: l’opera si presenta come situazione mutevole, percettivamente inestricabile, “assurda” nella sua serialità illogica e ambigua nel suo statuto (Hesse). Per Bruce Nauman – che occupa un ruolo di primi piano negli sviluppi postminimalisti, con oggetti e installazioni a forte impatto esperienziale e comportamentistico, lavori video, performance, opere concettuali – l’esperienza artistica è un’ininterrotta ed eterogenea sperimentazione della dissociazione fra percezione sensoriale e lettura cognitiva. Nei suoi lavori il carattere processuale si manifesta anzitutto attraverso l’instabilità dell’esperienza percettiva, che spinge ossessivamente le cose fino al punto imprevedibile in cui si rovesciano in qualcos’altro, relativizzando l’unità, l’univocità e la determinazione, sia sul piano formale sia su quello semantico (in modo esemplare, fra il 1966 e il 1969, nei calchi di parti del proprio corpo o di oggetti famigliari, come pure nelle scritte al neon). Richard Serra, al contrario, focalizza l’attenzione sull’azione processuale e integra il principio di indeterminazione nella manipolazione non organizzata della materia grezza approccio che distingue la posizione antiformale più radicale, formulata in chiave teorica da Robert Morris in due testi pubblicati sulla rivista “Artforum” intitolati: 1) Antiform (aprile 1968); 2) Beyond Object (aprile 1969). Vertono essenzialmente sulle nozioni di “indeterminatezza” e di “campo”, che riassumono in modo eloquente il contesto da cui queste indagini traggono i principali impulsi: Pollock e la “situazione ampliata” dell’esperienza estetica minimalista. Il dripping e l’allover sono radicalizzati e assunti come criterio metodologico: il colore fatto colare sul piano continuo della tela suggerisce la libera e diretta manipolazione dei materiali nello spazio ambientale – gravitazionale – a prescindere dal ricorso a qualsiasi strumento operativo, in modo che il risultato finale, imprevedibile e svincolato da una fissazione assoluta, sia l’immagine stessa dell’azione che l’ha prodotto, senza altra giustificazione estetica. Di conseguenza, l’“oggetto” si dissolve in un “campo di materia” aperto, senza centro focale, e il modo percettivo focalizzato sul rapporto figura-fondo appare dilatato al massimo grado, fino a Richard Serra, Scatter Piece, 1968 Richard Serra, Prop Piece, 1968 45 2. Europa Le attitudini “antiformali” maturate in Europa fra il 1967 e il 1970 possono essere divise sostanzialmente in tre situazioni: 1) Europa settentrionale: ricerche più affini al contesto americano della Process Art, Earth Art e Land Art; 2) Germania: il principale epicentro artistico è Düsseldorf, dove si distingue Joseph Beuys, il decano della “nuova scultura”; 3) Italia: in particolare Torino, dove si sviluppano le ricerche dell’Arte Povera la designazione è coniata da Germano Celant nel 1967, nell’intento di cogliere e promuovere (non solo in Italia) il contributo di alcuni giovani artisti italiani al contesto internazionale di rinnovamento artistico. Formulata sullo sfondo dei fermenti intellettuali e delle tensioni sociali in atto intorno al 1968, l’operazione di Celant si articola in una serie programmatica di esposizioni e testi critici realizzati fra il 1967 e il 1971. Ripresa da Celant nel 1984 – nel momento in cui predomina la Transavanguardia – attraverso una nuova serie di mostre e pubblicazioni internazionali, l’etichetta rimane definitivamente il “marchio registrato” per designare i percorsi individuali di tredici artisti italiani: Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Pier Paolo Calzolari, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Mario Merz, Marisa Merz, Giulio Paolini, Pino Pascali, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Emilio Prini e Gilberto Zorio. Europa settentrionale Le pratiche artistiche che nella seconda metà degli anni ’60 si fanno strada tra Amsterdam e Londra sono caratterizzate dallo spirito antiformale e dall’approccio processuale di matrice statunitense, così come dalla volontà di scavalcare tutte le “cornici”, da quella che delimita l’oggetto e definisce l’esperienza estetica tradizionale a quella che confina la pratica artistica allo spazio istituzionale. Joseph Beuys Nella primavera del 1968 lo Stedelijk Van Abbemuseum di Eindhoven ospita la prima importante esposizione personale di Joseph Beuys. In parallelo lo stesso museo presenta la prima retrospettiva in Europa di Robert Morris. In margine al doppio evento, l’allora direttore del museo osserva: - Mentre gli oggetti di Morris funzionano attraverso il loro rapporto reciproco e in relazione con l’ambiente e lo spettatore, quelli di Beuys funzionano non solo come tali, ma anche come interpretazione del mondo; - Gli oggetti di Morris agiscono sulla coscienza dello spettatore in modo molto reale e concreto: sono immediati; - Rispetto a Morris, dove il tempo è attualizzato come densità, come qualcosa di non fluido e di assolutamente empirico, in Beuys l’aspetto fluido del tempo e la dimensione del passato occupano ruolo di primo piano: l’impressione generale della mostra è connotata da un senso di arcaicità. A Berna, nel 1969, mentre Richard Serre esegue il Splashing con piombo fuso, Beuys realizza una Wärmeplastik: spalma accuratamente nell’angolo dell’ambiente e lungo la giuntura fra parete e pavimento del grasso, installa al suolo un registratore con un nastro magnetico che riproduce in 46 continuazione “ja ja ja ja ja, nee neee neee neee nee” e allestisce un’ordinata catasta di panni di feltro, collegati con una lastra di metallo sotto tensione. La percezione di un lavoro di Beuys rileva innanzitutto un insieme eterogeneo e incongruo di oggetti e materiali organizzati fra parete e suolo, accostati o sovrapposti a prescindere da un ordine verificabile: una sorta di “cantiere” caratterizzato da condizioni e proprietà fisiche antitetiche (attivo/passivo, morbido/duro, cristallino/organico, ruvido/liscio ecc.). Ma ciò che vedo non funziona mai solo come tale: per il funzionamento, la decifrazione delle informazioni visive deve essere prima convertita in attività di pensiero. Il feltro, allora, funziona come accumulatore di calore, il metallo come naturale conduttore di energia – insieme riprendono il principio della “batteria” – mentre il grasso malleabile genera “calore” sulla fredda struttura costruita. La Wärmeplastik mette in opera l’idea del “principio termico” – il cardine del pensiero di Beuys –, secondo cui il calore è l’elemento evolutivo che consente la trasformazione di uno stato irrigidito, formalizzato, dualistico e “freddo” (in senso lato, per Beuys, la condizione “ammalata” e alienata dell’uomo contemporaneo, governato dal pensiero materialista, dal razionalismo e dalla tecnica) in un nuovo stato di energia attiva, fluida, aperta (in senso lato, in un nuovo concetto di società privo di dualismi, in cui i contrati diventano forze creative complementari). Il calore, per Beuys, è il principio attivo che riscatta l’inerzia dello status quo: il grasso simboleggia la possibilità di metamorfosi. L’interpretazione dei contrari – rappresentati dalla cantilena “sì sì sì sì sì, no no no no no” nell’installazione di Berna –, la dilatazione sensoriale e tutta l’attività di pensiero che le opere di Beuys sollecitano sono intese propriamente a produrre e veicolare questo “capitale” creativo: per sciogliere i confini, liberare le energie bloccate, far convergere le polarità (vita/morte, Occidente/Oriente, terra/cielo, natura/cultura, mito/pensiero materialista, spirito/materia) in energia positiva, trasformare la staticità in fluidità universale. L’opera vuole essere l’epicentro di un processo evolutivo e rigenerativo di ampia portata: uno strumento di trasmissione di impulsi ideali. I contenuti processuali che Beuys trapone nella materia devono essere “ritrovati” e riattivati dallo spettatore: la processualità in questione è inscritta in un contesto di riferimenti che trascende ampiamente la situazione contingente ed è anzitutto mentale (spesso i componenti delle opere derivano da performance e come tali portano in sé un potenziale di energia fisica e spirituale). La condizione “ampliata” che distingue la ricerca artistica di Beuys interessa la dilatazione della sensibilità e della coscienza: è di carattere sostanzialmente progettuale, in vista del progetto di autodeterminazione individuale, inscritto a sua volta nel disegno di una rivoluzione collettiva. Da qui, anche, l’ampliamento in senso stretto della pratica artistica all’attività pubblica (dialogo, discussione), fino all’azione politica, intesi come momenti equivalenti all’interno di un medesimo progetto di trasformazione sociale e culturale. Arte povera Nel contesto europeo, l’Arte Povera, per quanto accostabile alla sensibilità beuysiana, al suo coinvolgimento con l’energia intrinseca ai materiali e al suo concetto ampliato di scultura come strumento di attivazione del pensiero, si distingue per un approccio vitalistico e per un’intuitiva Joseph Beuys, Wärmeplastik, 1969 47 naturalezza, intimamente radicati nella cultura italiana e nella tradizione umanistica. La designazione di “Arte Povera” interessa peraltro attitudini plastiche e modi operativi che si distinguono ognuno per la propria individuale originalità. I lavori di Giovanni Anselmo, caratterizzati da una processualità al presente indicativo, rendono direttamente percepibili delle situazioni attive di energia. Nel lavoro intitolato Direzione (1967-68), un ago magnetico incastonato in un blocco di pietra a forma triangolare orienta la pietra secondo il campo della Terra. Il Senza titolo (1969) con una pietra sospesa in alto alla parete mediante un cavo d’acciaio disposto a cappio mette in opera l’azione diretta della forza di gravità. In un altro lavoro, una lattuga fresca funga da zeppa tra un piccolo blocco di granito e un parallelepipedo più grande, collegati da un filo di rame: la “vita” di questa “struttura che mangia” esige un continuo ricambio del vegetale che disidratandosi provocherebbe la caduta del blocco più piccolo (lo stesso principio di continua “alimentazione” vale per la “struttura che beve”, con il cotone idrofilo, esposta in “Nine at Castelli” nel 1968). Nella Torsione (1968) una sbarra di ferro che blocca contro la parete una forte torsione operata su un panno di fustagno restituisce, attraverso la spinta di ritorno, l’energia investita e accumulata nel corso del movimento di torsione. Jannis Kounellis costruisce i suoi lavori, con forti valenze visuali e simboliche, a partire dalla dialettica che contrappone una struttura rigida, chiusa e fredda a una sensibilità calda, mutevole, errante; in senso lato, ponendo a contrasto l’inerzia della moderna conditio humana dell’era industriale al potenziale energetico di una forza naturale, primordiale, antica. La contrapposizione è formulata, per esempio, attraverso il contrasto fra un supporto rigido (carrello di ferro, lastre o contenitori di acciaio, telaio di legno) e una materia “antiformale” o addirittura viva (carbone, cotone, lana, fuoco, pappagallo, cactus). Nel 1969 la medesima dicotomia è messa in atto attraverso l’esposizione in una galleria d’arte di dodici cavalli vivi (gennaio, Attico di Roma) oppure di sacchi di iuta riempiti con patate, caffè, fagioli, e granaglie nello spazio istituzionale del museo (mostra di Szeemann a Berna). Giovanni Anselmo, Direzione, 1967-68 Giovanni Anselmo, Senza titolo, 1969 Giovanni Anselmo, Senza titolo, 1968 Giovanni Anselmo, Torsione, 1968 Jannis Kounellis, Cavalli, 1969 50 In tutte queste situazioni di energia, la materia importa non tanto nella sua espressività grezza quanto piuttosto come entità in cui si cristallizza dal vero, al vivo, un flusso di energia: un processo fisico, un’idea, un sogno. L’energia in questione è sempre legata a una spinta vitale, i lavori sono “vivi” e “vivono” in funzione del nostro vivere; traggono il loro più intimo significato dal loro orientamento radicalmente antropocentrico: sono reazioni, fatti e tensioni che nella materia cercano e ritrovano la situazione di energia del nostro stesso vivere. In questo senso, a volte le opere funzionano come elementari prove di identità rispetto al reale; a titolo di esempio: Io che prendo il sole a Torino il 19 gennaio 1969 (1969) di Alighiero Boetti. La materializzazione di un istante di vita quotidiana o di un frammento infinitesimale di tempo coincide con un gesto elementare di partecipazione al reale, di “decifrazione” del proprio esistere ed essere parte del mondo. L’adesione alla quotidianità è intesa come modo di porsi in relazione simpatetica o in osmosi con la fluidità vitale, come trasposizione o prolungamento della propria percezione del mondo. Laddove il corpo non lascia una traccia diretta nell’opera, la dimensione umana resta il metro di misura indiretto, il punto di partenza e di arrivo: i materiali organici sono usati in quanto appartenenti alla medesima “materia” ontologica; i processi messi in atto sono inscritti nella processualità vitale cui appartiene anche l’uomo. Nell’Arte Povera l’esperienza artistica coincide con l’esperienza stessa del proprio sentire e del proprio vivere: lo spettatore è invitato a sua volta a prolungare le proprie sensazioni e pensieri, secondo un orientamento di massima apertura e adesione alla mutabilità della vita, delle idee, in esplicita contrapposizione alla rigidità dell’inerzia e dei confini prestabiliti. In questo senso è di particolare rilievo la ricerca di Michelangelo Pistoletto, sviluppata a partire dai quadri specchianti del 1962-63 – lastre di acciaio lucidate a specchio, appoggiate al suolo, con applicata una riproduzione fotografica scontornata di una figura in grandezza naturale –, che consentono il passaggio dallo spazio immutabile della rappresentazione (pittura, fotografia) allo spazio instabile e mutevole della vita e del mondo (lo specchio annulla continuamente ogni valore assoluto). Lo specchio rappresenta un vuoto e al tempo stesso il tutto possibile: è un luogo per eccellenza della progettualità, della speculazione. Pistoletto sviluppa questa dinamica concettuale negli Oggetti in meno (1965-66), costituiti da un’eterogenea moltitudine di oggetti realizzati senza alcuna coerenza né finalità, come successione di momenti di un vivere libero: ogni oggetto “in meno” è un pensiero esternato, un gesto consumato che libera energia per una nuova e diversa azione. Come negli specchi, anche nella Venere degli stracci (1967) la dialettica fra un’immagine immutabile (icona della classicità, valore assoluto) e la presenza multiforme, variopinta e mutevole dei vestiti consumati Alighiero Boetti, Io che prendo il sole a Torino il 19 gennaio 1969, 1969 Michelangelo Pistoletto, quadro specchiante, 1962-63 Michelangelo Pistoletto, Quadro da pranzo (Oggetti in meno), 1965-66 Michelangelo Pistoletto, Venere degli stracci, 1967 51 (indici di cambiamento, rinnovamento, mutevolezza) fa convergere passato, presente e futuro, virtualità e realtà, arte e vita, proponendosi come momento di riflessione progettuale. La commistione fra elementi iconografici antichi e contemporanei, il “nomadismo” fra epoche e generi, tra il qui e un altrove distingue in modo peculiare la ricerca di Luciano Fabro. Le Italie (dal 1968) sono lavori che di volta in volta propongono la sagoma geografica dell’Italia in configurazioni materiali accuratamente elaborate (cristallo, piombo, ferro, pelo di renna, pelle, ottone forato, bronzo dorato, rete metallica, carta stradale) e in allestimenti diversi (posizione coricata, capovolta, sospesa, in piedi, a parete, a pavimento). I Piedi (1968- 72) si compongono di grottesche “zampe” scolpite (marmo lucidato, vetro di Murano, bronzo polito), sovrastate da un “calzone” di seta, in alcuni casi lavorato nei modi della più raffinata sartoria. Tre modi di mettere le lenzuola (1968) propone tre paia di lenzuola di cotone bianco con le relative federe, recanti a ricamo il nome dell’artista, appuntate ognuna in modo diverso – quasi fossero studi di panneggio – su un telaio di legno. In Fabro, la “forma” dell’opera è un potenziale implicito, che nasce e cresce in relazione alla situazione espositiva e all’esperienza estetica: le Italie come i Piedi non sono “un’idea” predefinita, bensì “tutte le idee” che il loro apprendimento sinestetico innesca. Ogni volta le situazioni innescate suggeriscono un’intima complicità, stimolano un’attività di pensiero che attraversa tutti i registri, oltre ogni coerenza e contingenza: dalla familiarità e dagli umori quotidiani all’aulicità dell’arte e della classicità, dalla contemporaneità alla storia. 3. Antiforma, non-forma e situazioni di energia: oltre l’oggetto, incontro al mondo Al di là delle differenze inerenti alle “mitologie individuali”, c’è lo spirito di un’epoca, che inscrive le singole attitudini in un preciso clima storico-artistico, alimentato da una medesima esigenza di apertura verso il mondo e di contatto con la dimensione reale delle cose. L’ambientazione del gesto artistico nello spazio reale e quindi l’emancipazione da tutte le cornici che per convenzione isolavano e definivano l’opera d’arte come oggetto autonomo in sé concluso aprono l’orizzonte verso relazioni, fattori e aspetti fino allora inesplorati. L’apertura dei confini implica un autentico sconfinamento dentro il reale, l’esperienza artistica diventa sostanzialmente un’investigazione dei modi e delle possibilità di situare un materiale nello spazio reale. Situare un materiale nello spazio reale significa: - Attribuirgli una posizione, gestire la sua collocazione fra pavimento, parete e soffitto. Le nuove situazioni nascono e vivono prevalentemente in situ, per la durata della loro esposizione; vanno installate ogni volta da capo e implicano una fruizione dal vero. Il processo del situare – il fare in situ – sostituisce il processo di formalizzazione predefinito e Luciano Fabro, Italie, dal 1968 Luciano Fabro, Piedi, 1968-72 Luciano Fabro, Tre modi di mettere le lenzuola, 1968 52 definitivo: in molti casi, l’opera è l’azione che di volta in volta la genera e che lo spettatore ritrova e prolunga attraverso la propria esperienza (da qui il carattere “processuale” dei lavori). Pertanto, il momento dell’esposizione acquista un nuovo significato: si fa teatro per definizione dell’accadere dell’opera che, mutata da oggetto in sé compiuto in “situazione ampliata”, conosce solo la misura del presente in cui di volta in volta il gesto dell’artista e la relazione con lo spettatore lo attivano e lo inverano; - Operare con delle entità fisiche attivate nella loro realtà naturale, in conformità alle loro peculiari proprietà fisiche. Materiali non rigidi sia industriali sia organici (resine sintetiche, polietilene, fibra di vetro, plastica, tubi al neon, tessuti, gomma, grasso, terra, pietre, cera, sostanze chimiche) spingono a procedimenti elementari e “antiformali”, che ne valorizzano le qualità intrinseche (flessibilità, elasticità, fluidità, mutevolezza, malleabilità, calore, reattività). Il contatto dei materiali con l’ambiente e fra loro stessi partecipa in misura considerevole all’aspetto, alla durata, alla mutevolezza dell’opera e quindi al suo carattere processuale; - Agire nello spazio esperienziale, in cui l’apprendimento delle cose e dei fenomeni si svolge a partire da un insieme di relazioni empiriche, contatti sensoriali, sperimentazioni dirette. Vuol dire proporre l’esperienza di una cosa, piuttosto che la sua descrizione: presentare un’idea dal vivo piuttosto che rappresentarla in astratto. L’idea viene inscritta nei materiali in maniera che il suo apprendimento scaturisca attraverso la loro esperienza sensoriale e mentale, anziché attraverso un rapporto a distanza. Una forza invisibile viene resa intellegibile direttamente attraverso un materiale sottoposto alla sua azione. Il significato dell’opera si sviluppa di volta in volta e sempre da capo attraverso il processo di conoscenza che la sua esperienza implica, sollecita, provoca. Si sviluppa così un rapporto diretto, un dialogo, un interscambio: autore, spettatore e oggetto non sono più divisi da una relazione di alterità e separatezza, dal momento che l’opera è uno strumento con cui l’autore e lo spettatore compiono una medesima esperienza di conoscenza e di autocoscienza. ARTE CONCETTUALE Maria Teresa Roberto “La designazione di arte concettuale apre a forme artistiche che non possono essere giudicate e comprese sulla base di creazioni concrete e manifeste, ma che si basano su procedure e processi” dal testo introduttivo con cui Rolf Wederer apriva la mostra “Conception” che, da lui organizzata e inaugurata nell’ottobre del 1969 allo Städtisches Museum di Leverkusen, fu la prima rassegna museale specificatamente dedicata al tema dell’arte concettuale, attraverso le presenze, tra gli altri, di Alighiero Boetti, Joseph Kosuth, Sol LeWitt. L’impegno qualificante dell’arte concettuale fu quello di sottrarre importanza alle qualità formali e stilistiche delle opere, in base a un progetto di de-estetizzazione e semplificazione delle procedure di produzione, e di trasferimento delle energie sulla trasmissione e la discussione delle idee e sulla loro diffusione il più possibile estesa. - Nel momento iniziale, negli anni cioè che vanno dal 1966 al 1968-69, i suoi sviluppi internazionali si sono intrecciati, e in molti casi sovrapposti, a numerose altre linee di ricerca postminimaliste, dall’Arte Processuale alla Land Art, all’Arte Povera; 55 le certificazioni che attribuivano a singoli individui a singoli individui uno statuto artistico temporaneo o permanente; - In Francia, Yves Klein con la cessione di Aree di sensibilità pittorica immateriale in cambio di una quantità equivalente di oro (vende spazi vuoti in città in cambio di oro puro); - Negli Stati Uniti, Robert Morris con lo Statement of Aesthetic Withdrawal del 1963. In questo caso il riferimento a Duchamp era duplice, fondandosi su una citazione e su un capovolgimento di procedura; l’opera consisteva infatti in una certificazione dell’autore – vidimata da un notaio – che, a fronte dell’eventuale mancato pagamento da parte del collezionista, privava di ogni valore estetico la scultura Litanies, sulla quale era possibile leggere la trascrizione di un estratto della Boîte verte di Duchamp. L’influenza di Duchamp si intrecciava a quella di John Cage, entrambi infatti furono determinanti per quella generazione di artisti intenta a disimpegnarsi dal dominio della visibilità. L’atto di interdizione visiva rappresentato dalla cancellazione era stato individuato nel 1953 da Robert Rauschenberg, in quegli anni vicinissimo a Cage, come la via più efficace per un definitivo allontanamento dalle implicazioni psicologiche ed esistenziali che avevano caratterizzato l’Espressionismo Astratto; incorniciando e intitolando Erased De Kooning Drawing il foglio da cui aveva laboriosamente cancellato le intricate tracce materiche di un disegno di Willem De Kooning, Rauschenberg non si era limitato a compiere un gesto insieme di omaggio e di sabotaggio, ma aveva liberato il campo per nuovi interventi artistici, posti all’insegna dell’azzeramento e del vuoto. Il cerchio si chiuse quando nel 1969 Bruce Nauman distrusse il suo esemplare di un piccolo libro di Edward Ruscha, un artista californiano, esponente di punta della Pop Art, che a partire dal 1963 aveva esplorato in quadri, libri e disegni la relazione tra parola e immagine. Il volume Various Small Fires del 1964 (un’opera proto-concettuale che metteva in sequenza le fotografie di un fiammifero, di una candela, di un sigaro, di un accendino…) era stato pensato dall’autore come un regesto di readymade fotografici, e Nauman lo bruciò producendo a sua volta un “piccolo fuoco”, così da realizzare l’opera fotografica Burning Small Fires. L’analisi del rapporto tra parola e immagine mette tra l’altro in gioco un ulteriore precedente importante, quello René Magritte, che nel suo intervento Les mots et les images pubblicato alla fine del 1929 sulle pagine de “La Révolution Surréaliste” – una sequenza alternata di disegni e didascalie – e nei dipinti a esso correlati, aveva Yves Klein, Aree di sensibilità pittorica immateriale, 26 gennaio 1962, rituale con Dino Buzzati Robert Morris, Statement of Aesthetic Withdrawal, 1963 Robert Rauschenberg, Erased De Kooning Drawing Bruce Nauman, Burning Small Fires 56 proposto una serie di enunciati negativi, basati sulla patente contraddizione tra la formulazione verbale e quella iconica e sull’inserzione di uno scollamento tra i diversi ordini linguistici. Un ulteriore legame unisce il concettuale, nelle sue componenti più interessate alla prassi e alla trasformazione sociale, al contesto delle ricerche artistiche contemporanee. Nelle esperienze riconducibili a Fluxus e, più in generale, nella diffusione delle pratiche performative che interessano trasversalmente l’intero campo dell’arte degli anni ’60, si trovano le radici di molti interventi concettuali pensati come sequenze di istruzioni rivolte dagli artisti a sé stessi o al pubblico. Card File di Robert Morris, del 1962 – la prima opera nella quale è possibile individuare la contemporanea presenza di molti caratteri costitutivi dell’arte concettuale, con largo anticipo rispetto all’affermarsi ufficiale del movimento –, si costituì all’incrocio di tali problematiche. Concepita nelle sale di studio della New York Public Library, essa consiste di uno schedario verticale, sulle cui schede l’autore registrò in forma dattiloscritta tutti i passaggi relativi alla progettazione e alla realizzazione dell’opera stessa, e che dunque conserva traccia, in ordine alfabetico, di pensieri, di azioni – compiute o semplicemente progettate – e di eventi accidentali. Un sistema di rimandi interni stabilisce i presupposti per una fruizione circolare dell’opera, che si offre come un readymade autoriflessivo e aperto, di natura linguistica e tautologica, ma anche come il diagramma di un’azione. Il nuovo protocollo artistico, in cui la realizzazione concreta dell’evento e la sua registrazione erano fatti secondari, divenne centrale, a fine anni ’60. Le procedure della performance vennero per tale via analizzate e decostruite, ma pur attraverso il filtro concettuale la dimensione corporea vi manteneva la sua vulnerabile centralità. Attitudini seriali L’“attitudine seriale” fu lo snodo di passaggio dal Minimalismo al Concettuale. Nel dicembre del 1966, Mel Bochner aveva organizzato presso la School of Visual Arts di New York quella che è spesso ricordata come la prima mostra concettuale: “Working Drawings and Other Visible Things on Paper not Necessarily Meant to be Viewed as Art”. Tra agli artisti coinvolti figuravano i principali esponenti della tendenza minimal (Carl Andre, Eva Hesse, Sol LeWitt, oltre allo stesso Bochner). Furono presentati esclusivamente disegni, schizzi, diagrammi e note di lavoro, sotto forma di fotocopie racchiuse in classificatori ad anelli collocati su parallelepipedi bianchi posti al centro di una sala vuota, seconda una modalità espositiva che poneva su basi nuove le relazioni tra il lavoro curatoriale e quello artistico, arrivando quasi a proporne la sovrapposizione. Era iniziato per Bochner e LeWitt il passaggio dalla dimensione ancora oggettuale dell’astrazione minimalista a quella mentale dei sistemi logici e matematici. Il tramite di questo scarto fu la concezione dell’opera non come oggetto singolo, ma come elemento di una progressione seriale, condivisa peraltro anche da altri protagonisti del Minimalismo quali Andre e Morris. Caratteristica specifica dell’opera di LeWitt era quella di utilizzare strutture vuote, trasparenti, in particolare griglie cubiche appoggiate direttamente a terra e ridotte alla loro ossatura geometrica. Robert Morris, Card File, 1962 57 Il Serial Project No. 1 (A, B, C, D), del 1966, è una struttura complessa basata su progressivi passaggi dalle due alle tre dimensioni e da forme aperte a forme chiuse. La presenza attiva di un a priori ideale che rappresenta il vero motore dell’opera è il nucleo forte dei Paragraphs on Conceptual Art che LeWitt pubblicò su “Artforum” nel 1967: “Nell’arte concettuale l’idea, o il concetto, costituisce l’aspetto più importante del lavoro. […] tutto il progetto e tutte le decisioni vengono prese anticipatamente e che l’esecuzione materiale si riduce a un fatto meccanico. L’idea diventa una macchina che realizza l’arte”. Pur sottolineando il carattere complementare dell’ideazione e della realizzazione fisica dell’opera, LeWitt arrivava a suggerire che l’idea in sé potesse essere un’opera d’arte e che appunti, schizzi, disegni, errori, modelli, studi e conversazioni potessero a loro volta acquisire lo statuto di opera. Nel 1969, LeWitt inaugurò poi la stagione dei Wall Drawings, trasposizioni della tecnica del disegno dalla carta alla parete e dunque allo spazio architettonico. Riservandosi il ruolo di ideatore dei meccanismi combinatori che governano l’intervento e delegando ad altri l’esecuzione, da quel momento LeWitt ha conferito alle sue opere una dimensione ambientale, avvolgente e onnicomprensiva. L’opera abbandona così definitivamente il suo carattere oggettuale, ma senza rinunciare del tutto alla dimensione percettiva: questo aspetto rende specifica e insieme anomala la presenza di LeWitt nel contesto dell’Arte Concettuale, che egli era stato il primo a definire nel 1967. Mel Bochner affrontò il tema di interventi concepiti a scala ambientale nella serie dei Measurements, realizzati evidenziando sulle pareti di gallerie e musei le dimensioni di muri, porte e finestre con linee di nastro adesivo, interrotte dalle relative indicazioni numeriche. In un processo che percorreva una linea opposta a quella proiettiva seguita da LeWitt nei Wall Drawings, Bochner mirava a rendere visibile l’immanenza di una struttura geometrica negli ambienti in cui interveniva, comprese le irregolarità e le anomalie che ogni spazio costruito sempre presenta. Sol LeWitt, ABCD, 1966 Sol LeWitt, Wall Drawings, 1968 Mel Bochner, Measurements 60 medesimo oggetto di uso comune: l’oggetto nella sua fisicità, una sua riproduzione fotografica in scala 1:1, il fac-simile della relativa definizione tratta da un vocabolario. Con le successive Investigations Kosuth si limitò a utilizzare sistematicamente la riproduzione di voci e lemmari enciclopedici, che a partire dal 1968 dislocò in contesti espositivi e comunicativi diversi, utilizzando i canali della stampa quotidiana o periodica e le affissioni urbane, e allestendo in musei e gallerie Information Rooms in cui veniva offerta al pubblico l’opportunità di consultare materiali di studio e di riflessione. Art & Language è il nome scelto nel 1968 da un gruppo di artisti britannici per definire una pratica operativa basata sul dialogo, sulla discussione e sulla didattica. Ad essi si associò temporaneamente persino lo stesso Joseph Kosuth. Nel 1969 fu fondata la rivista “Art- Language”, veicolo privilegiato di intervento artistico affiancato dalla pubblicazione di libri e dalla messa in mostra di materiali di lavoro. Quest’ultimo aspetto utilizzava come strumento pratico la costruzione di indici. L’installazione Index OO1 di Kassel (in occasione di Documenta1 5, 1972) portava a scala ambientale il meccanismo del Card File di Robert Morris, mettendo il visitatore al centro di un processo di intersezione di centinaia di riferimenti incrociati, così da investire il pubblico di una vera e propria funzione autoriale. Erano anni in cui gli artisti tendevano a eliminare dalla loro opera ogni residuo fisico, ad esempio comunicando oralmente al pubblico le proprie riflessioni, realizzando installazioni sonore oppure ancora proponendo mostre di sole idee. Anche le pratiche della pittura, della scultura e dell’installazione furono sistematicamente messe in questione attraverso confronti linguistici. Non era questione, come per LeWitt, di far dipendere il momento della realizzazione concreta dell’opera da quello dell’ideazione, ma di dissociarli radicalmente e definitivamente. L’artista si dichiarava indifferente di fronte alla possibile messa in opera delle sue proposizioni, la cui identità risiedeva nella formulazione linguistica. Bruce Nauman – l’artista che forse più di ogni altro nella sua generazione si è allontanato da ogni posizione formalista – ha inserito l’elemento verbale nella sua opera fin dal 1967 (The True Artists Helps the World by Revealing Mystic Truths), utilizzando il neon come materia per una scrittura disegnata nello spazio con i colori accesi della comunicazione pubblicitaria. Ricorrente è in Nauman l’affermazione imperativa di elementi verbali ripetuti o combinati in serie, in un confronto serrato con il tema della violenza e della sopraffazione: tema che dal 1980 si presenta in termini radicali e apocalittici. Le parole 1 È una delle più importanti manifestazioni internazionali d'arte contemporanea europee, che si tiene con cadenza quinquennale nella città tedesca di Kassel. Art & Language, Index 001, installazione a Kassel, 1972 Bruce Nauman, The True Artists Helps the World by Revealing Mystic Truths, 1967 Bruce Nauman, American Violence, 1981-82 61 appaiono e scompaiono, mutando incessantemente colore e posizione, in American Violence e in Violins, Violence, Silence, entrambe del 1981-82, e in One Hundred Live and Die del 1984, un’elencazione enciclopedica compulsiva di attività e attitudini umane su cui torna ossessivamente a sovrapporsi l’alternativa estrema della vita e della morte. Contesti sociali, contesti istituzionali Se il riferimento al readymade duchampiano assumeva, nel concettuale linguistico, una valenza esclusivamente autoriflessiva e tautologica, altri esponenti del movimento ne svilupparono invece gli aspetti legati all’analisi dei contesti istituzionali. L’opera non si limitava in questo caso a interrogare sé stessa, ma affrontava il tema della funzione legittimante svolta dalle istituzioni artistiche, presentendosi come elemento residuale nei confronti di un insieme di norme simboliche e di aspettative sociali finalizzato a dettare le condizioni generali dell’esistenza stessa dell’arte. Anche alcuni artisti europei hanno proposto in quegli anni riflessioni originali e sottili sul sistema artistico in quanto repertorio consacrato e inesauribile di opere e di autori, in cui il museo opera per costituire “il corpo mistico dell’Arte” (cit. Daniel Buren). Con Giovane che guarda Lorenzo Lotto – una copia fotografica in scala 1:1 del Ritratto di giovane che il pittore veneziano dipinse nei primi anni del Cinquecento – Giulio Paolini affrontava nel 1967 le questioni teoriche proposte di recente dalla critica letteraria strutturalista con la formula “morte dell’autore”. “Ricostruzione” – recita la didascalia che accompagna l’opera – “nello spazio e nel tempo del punto occupato dall’autore (1505) e (ora) dallo spettatore di questo quadro”: l’autore e l’osservatore divenivano entrambi oggetto passivo di uno sguardo, e degli interrogativi a questo connessi. Attraverso un’inversione di senso, Paolini sottraeva così importanza al valore referenziale dell’opera e ne identificava il significato in un geometrico gioco di relazioni e di ruoli. La critica al potere istituzionale del museo emerse anche negli interventi di due figure non direttamente legate all’arte concettuale quali Christo e Jeanne-Claude, che tra il 1968 e il 1969 impacchettarono la Kunsthalle di Berna e il Museum of Contemporary Art di Chicago. Revisioni e sviluppi Nei primi anni ’70 la mancata elaborazione di strategie politiche efficaci da parte degli artisti a New York fu alla base della constatazione del fallimento del concettuale; il passaggio dal linguaggio della pittura e della scultura a quello della filosofia, della scienza, della linguistica non aveva saputo tradursi in volontà di intervento diretto. Questa critica fu sollevata non solo da alcuni personaggi che avevano seguito da vicino e con forte senso di partecipazione gli sviluppi del movimento, come Bruce Nauman, One Hundred Live and Die, 1984 62 Robert Smithson, ma anche da diversi dei suoi stessi protagonisti. Tra il 1975 e il 1976 i tre numeri della rivista “The Fox”, che raccoglieva intorno a Joseph Kosuth artisti concettuali di prima e seconda generazione, si incaricò di sancire la conclusione di quella esperienza. In parallelo al processo di interpretazione e di storicizzazione, dalla fine degli anni ’70 a oggi, il lascito dell’arte concettuale continua a essere rielaborato sia nelle forme dell’appropriazione dei generi artistici, dell’universo degli oggetti, dei linguaggi mediatici, sia nell’apertura a nuove definizioni della soggettività. Alcuni artisti hanno svolto un ruolo pioneristico nell’esplorare temi prima trascurati o censurati, e nel percorrere personalmente la transizione dall’uso di strumenti espressivi tendenzialmente incorporei e dal ridotto impatto visivo alla dimensione dilatata dell’intervento in spazi pubblici o dell’installazione in ambiti museali. Questo cambiamento di scala ha risposto in primo luogo all’esigenza di ridare all’arte udienza e capacità di coinvolgimento, dopo l’azzeramento di intensità sistematicamente proposto dal concettuale. Dagli anni ’80, alcuni artisti hanno riposizionato al centro del contesto pubblico gli interessi linguistici della prima stagione concettuale. L’impronta del concettuale è oggi riconoscibile internazionalmente nella compresenza di un ventaglio amplissimo di strumenti linguistici e nella complessità dei processi di significazione che l’uso di quei mezzi comporta, e ancora nella capacità di assimilazione e di appropriazione sia di nuove tecnologie sia di nuovi paradigmi di pensiero dimostrata dall’arte contemporanea; ma, nel loro tornare a varcare la soglia della spettacolarità, le ricerche attuali offrono anche il segno evidente di una distanza e di una inconciliabile alterità rispetto alle esperienze e agli obiettivi del concettuale storico. POESIA VISIVA Giorgio Zanchetti Il variegato insieme delle ricerche poetico-visuali delle seconde avanguardie internazionali si colloca, per definizione e per scelta, in una zona di confine e, tutto sommato, di margine rispetto ai più celebrati paradigmi della neoavanguardia e del concettualismo. Eppure, la più alta sperimentazione sul linguaggio verbale – rintracciabile appunto nel Neodadaismo statunitense ed europeo, nel Preconcettuale, in Fluxus, in alcuni spunti di partenza del Minimalismo e dell’Arte Povera, nel Concettuale angloamericano e in tutti i suoi successivi ritorni fino agli anni estremi del secolo – trova una precisa anticipazione e un’efficace semplificazione nell’analisi comunicazionale schematicamente proposta sin dagli anni ’50 da alcuni tra i più consapevoli rappresentanti della poesia concreta e visuale. È evidente che per questa tendenza, come per ogni altra esperienza di confine, molti tra i risultati più convincenti e più interessanti sono spesso stati raggiunti da personalità capaci di travalicare liberamente gli eventuali vincoli di schieramento e di ortodossia della poesia concreta e visuale strettamente intese. Esemplare, per questa pratica aperta di volta in volta a disparate declinazioni è, inoltre, il lavoro sulla parola scritta di numerosi operatori internazionali di area comportamentale, concettuale o narrative: tra gli altri, Joseph Beuys. L’equivoco sulla possibile individuazione di una definitiva specificità della poesia visuale (in buona parte prodotto e nutrito dalle stesse posizioni di alcuni degli artisti protagonisti, sovente fattisi unici critici di sé stessi) denuncia immediatamente la propria inopportunità, quando si riconsideri storicamente il ruolo di ponte e di modello di interazione tra differenti universi linguistici di una tendenza artistica destinata a superare, senza possibilità di ritorno, i suoi stessi raggiungimenti. 65 considerate solo le manifestazioni che partono dalla mera consistenza fisica, da un “esserci” che crea una relazione diretta tra artista e spettatore. Potremmo suddividere le manifestazioni di questo genere in due ceppi principali, a partire da differenze di metodo: 1) In primo luogo, da una matrice romantica che accentua il ruolo dell’interiorità dell’artista nascono quadri, sculture, o azioni fatte d’impulso, quasi in preda a un furore entusiasta. Una premessa può essere individuata in pratiche surrealiste come lo sgocciolamento di Max Ernst, precedente diretto del dripping di Jackson Pollock e di tutta l’Action Painting. Questa via si contamina con un’altra, la manipolazione del proprio corpo che vediamo negli autoritratti fotografici en travesti di autori come Marcel Duchamp e Salvador Dalì. L’esposizione di sé segue intenti diversi, ora tesi a sottolineare il narcisismo dell’autore, tematizzato come motore dell’arte almeno nella sua accezione occidentale, ora diretti a ridefinire i confini dell’identità personale e il suo possibile disperdersi; talvolta, ancora, rivolti a problematiche meno direttamente esistenziali e riguardanti il ruolo dell’individuo nell’epoca della massa; in questo quadro incontriamo pratiche tese a mostrare il lato psicologico delle relazioni interpersonali quali il sadismo, il masochismo, l’indifferenza o il voyeurismo. 2) Dal ceppo delle serate futuriste e dadaiste nasce invece l’assunzione in quanto opera di manifestazioni di gruppo rivolte – con sfumature più o meno rilevanti sul piano politico – a stupire i borghesi e a creare un processo in cui il singolo autore stimola la partecipazione collettiva e consente che la propria opera abbia margini indefiniti, su cui appunto è il pubblico a decidere. Le premesse storiche di queste manifestazioni stanno nel percorso che conduce dal corpo chiuso al corpo diffuso, ovvero dalla corporeità stretta in codici di comportamento, abbigliamento, atteggiamento, teso a negare la fisicità, fino a una corporeità che si libera, si manifesta, si diffonde attraverso protesi tecnologiche e relazioni interpersonali intensificate. Nel codice genetico del XX secolo sta, infatti, una nuova definizione dell’individuo come soggetto principale del vivere comune, ben chiara nell’evoluzione politica che ha condotto alla democrazia rappresentativa e al sistema economico liberista (es/ Costituzione americana e Dichiarazione dei diritti dell’uomo). Un effetto collaterale di questo nuovo valore attribuito alla persona è il bisogno di ripensarne i rapporti con la corporeità, propria e altrui. Freud intraprese la sua teoria dell’inconscio a partire da studi sugli effetti fisici dell’isteria, dunque sulla relazione tra mente e corpo. Il concetto stesso di pulsione, che include il vitalismo di Nietzsche, riconduce il comportamento anche a impulsi di origine fisica; né può sfuggire l’importanza che assumono, nella teoria psicoanalitica, elementi lungamente sottaciuti come escrementi, orifizi e il lato sporco della vita quotidiana. La letteratura e la filosofia testimoniano di questa relazione tra mente e corpo. Un altro aspetto da tenere presente, su cui ha riflettuto nello specifico Marshall McLuhan, è la mutazione di consuetudini che per secoli avevano regolato i rapporti umani, in massima parte Marcel Duchamp, Rrose Sélavy 66 conseguente ai cambiamenti in ambito tecnologico: ferrovia, telegrafo, telefono, automobile, collegamenti aerei, fino a giungere allo sviluppo di Internet, hanno intensificato e accelerato le relazioni con una ricaduta evidente sulle modalità dei contatti fisici. Tutto ciò va connesso alle condizioni che hanno reso possibile l’emancipazione femminile, favorita dalla rivoluzione industriale e destinata a sconvolgere la concezione del matrimonio e dell’economia familiare, ma anche del semplice contatto quotidiano tra maschi e femmine. Anche, il corpo del XX secolo tende a essere il più longevo e medicalizzato di tutti i tempi. Questo pone il problema di quanto il corpo possa venire manipolato, in senso terapeutico ma anche in direzioni quali il controllo della natalità, il miglioramento di imperfezioni estetiche, forse un giorno la manipolazione genetica già a livello del concepimento; risorgono inevitabilmente dal passato fantasmi come quello dell’automa o dell’uomo robotizzato: dal Frankenstein di Mary Shelley al robot che Fritz Lang inventò per Metropolis, fino ai cyborg dei videogame. Né va dimenticato che il mutare delle condizioni di vita materiale, oltre che morale, ha condotto a una drastica riduzione delle rigidità imposte al corpo da parte delle convenzioni sociali: niente più busti e corsetti per le donne, fine dell’obbligo di cappello e cravatta per gli uomini, per entrambi i sessi basta alle acconciature innaturali. Alle membra e persino ai cappelli viene restituita la loro naturale fluidità: segno che, se repressione esiste, va cercata in ambiti e forme diverse da quelle del passato. La nuova libertà offerta al corpo è ben testimoniata dalla danza, che abbandona le punte e una postura tanto apparentemente aerea quanto in realtà rigida e innaturale: la danza performativa ha insisto proprio su questo sentiero. Un fenomeno analogo di ribellione a ogni rigidità, della postura così come della sceneggiatura, si verifica nel teatro. Questa congerie di motivi si è resa evidente anche in fenomeni di costume come i beat degli anni ’50, i capelloni, le minigonne e gli hot pants degli anni ’60, le adunate oceaniche di Woodstock e delle manifestazioni giovanili del 1968, i jeans sexy, aderenti e a vita bassa degli anni ’70, persino l’uso di stupefacenti come tentativo di liberare la mente attraverso sostanze fisiche: lungi dall’essere mode superficiali, queste e altre manifestazioni attestano evoluzioni e perplessità inevitabilmente espresse anche dall’arte visiva; tenendo conto di una libertà di espressione che manca ad altre discipline, dalla danza alla moda, al teatro, ovvero quelle che implicano un vasto pubblico più o meno direttamente pagante. Nel suo relativo isolamento, l’arte visiva ha concesso di esplorare in vitro comportamenti estremi e solo apparentemente insensati. Dal quadro gestuale alle prime azioni Un film di Hans Namuth mostra Jackson Pollock mentre dipinge: ora lento e preciso, ora rapido, costantemente assorto in una trance controllata. Il ritmo delle sue mosse è vicino al jazz be-bop e, come quello, liberatorio di un inconscio di cui l’artista, peraltro, era ben consapevole: l’idea dell’impulso creativo come mezzo per superare la nevrosi. Pollock ha rivoluzionato il modo di dipingere per numerosi aspetti: - L’avere posto il supporto sul pavimento; - L’averlo scelto solitamente enorme; - Avere concepito uno spazio figurativo all over, senza centro né gerarchie interne; Fotografia di Hans Namuth che ritrae Jackson Pollock, 1950 67 - Avere accettato di mostrare il modo in cui lavorava, attraverso una serie di fotografie pubblicate su “Life” (1950) e con la proiezione di un film sul suo processo pittorico al Museum of Modern Art di New York (1951) fatto che testimonia quanto gli fosse chiara la novità del suo metodo. Molto interessanti sono anche alcune ricerche nate in Giappone, dove, nel 1954, era sorto il gruppo Gutai (= concretezza) che, nonostante lo scarso successo in patria, aveva coltivato relazioni internazionali soprattutto attraverso un bollettino inviato a numerosi artisti nel mondo. La sua impostazione conciliava una matrice europea soggettivista, nata grazie ai contatti dovuti alla Seconda Guerra Mondiale, con elementi prettamente orientali: l’espansione del calligrafismo, l’accettazione del caso – determinante nel consentire dipinti in cui l’aspetto formale non nasceva da un progetto ma dal fare –, la relazione tra espressione della mente e attività fisica. Si muove in questo ambito un’azione come Challenging Mud di Kazuo Shiraga (1955), presentata alla prima manifestazione ufficiale di Gutai, in cui l’artista si rotolava nel fango come a mostrare la sua lotta contro la materia e al tempo stesso il suo essere materia. L’influenza del gruppo Gutai si rivelò particolarmente significativa in Europa, soprattutto attraverso Yves Klein, in cui Occidente e lontano Oriente si incontrarono in una sintesi a tratti dissacrante, a tratti invece venata di spiritualità. L’esperienza di Yves Klein si pone come un caso limite nell’espressione del sé, dal momento che l’artista francese volle evitare l’aspetto meramente autobiografico, o piuttosto sublimarlo facendone un’espressione universale. Klein era convinto che il corpo fosse il centro dell’energia sia fisica che spirituale. Di qui, per esempio, il famoso collage che lo ritrae mentre salta nel vuoto vestito di tutto punto (1958): un’azione che si interpreta nel contesto di una sfida tra gravità e aspirazione mentale, dove si legge tra le righe un ultimo colpo di coda del protagonismo romantico. Una simile commistione tra cultura si riscontra nelle Antropometrie, quadri ottenuti usando come colore solo l’IKB (pigmento blu mescolato al legante opaco rodopac) e come pennelli il corpo vivente di numerose ragazze. In qualche caso, ciò accadeva di fronte a un vasto pubblico, arricchendo l’evento con una Monotone Symphony, che comportava di suonare una sola nota per venti minuti. I dipinti che ne risultavano, come del resto quelli del Gutai, erano all’apparenza di forte impronta informale, ma l’atteggiamento complessivo implicava una concezione dell’opera come qualcosa che ha a che fare con il contesto: una sensibilità che, in definitiva, impregna luoghi, suoni e persone, come accadde nella mostra “La Vide” da Iris Clert (1958). Klein vi espose lo spazio vuoto, dunque solo sensibilità, per poi venderla dietro compenso di foglie d’oro che egli stessi disperdeva nella Senna; nel frattempo offriva agli intervenuti cocktail blu Kazuo Shiraga, Challenging Mud, 1955 Yves Klein, collage del salto nel vuoto, 1958 Yves Klein, Antropometrie 70 avrebbe potuto capire con il tatto meglio degli uomini attraverso la vista, spesso distorta da preconcetti; in I Am a Transmitter, I Emit (1964, Galleria René Block, Berlino), l’artista si presentava avvolto in una coperta di feltro mentre parlava via radio con Robert Morris a New York. In I Like America and America Likes me (1974, Galleria René Block, New York), Beuys, quasi fosse un novello San Francesco, visse per cinque giorni con un coyote, cercando di comunicare con esso assumendolo come simbolo sia dell’America selvaggia, sia del suo sogno capitalista. In buona parte della produzione matura, l’insistenza sul sé, sul soggetto-poeta nei termini di mediatore tra realtà e assoluto, tende a lasciare spazio ad azioni che coinvolgano il pubblico in modo sempre più accorato e soprattutto corale, come nella poderosa azione senza fine denominata 7000 Querce (1982, Documenta 7, Kassel): per comprare e piantare le 7000 querce, Beuys aveva creato una filiera ritualistica, ovvero, aveva disposto davanti al Museo Federiciano 7000 lastra di basalto; queste lastre venivano adottate da chiunque lo volesse, e il denaro ricavato serviva a comprare e piantare le querce. L’indagine interpersonale negli Stati Uniti Negli artisti statunitensi, la relazione tra individui viene letta, a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, in connessione a un fenomeno più pressante in quel paese che altrove: quanto stiano mutando le relazioni tra persone non solo di classi, ma anche di razze, etnie, continenti diversi. Se immigrazione e contaminazione erano sempre stati aspetti presenti nella cultura del Novecento, solo ora si inizia a porre veramente il problema di come integrare neri, ispanici, italiani, irlandesi, asiatici, all’interno di una compagine che li isola più ma li agglomera. Caso eclatante quello di Yayoi Kusama, giapponese che a lungo visse a New York: in Infinity Mirror (1966, Castellane Gallery, New York) tutto veniva replicato. L’ambiente Joseph Beuys, I Like America and America Likes me, 1974, Galleria René Block, New York Joseph Beuys, 7000 Querce, 1982, Documenta 7, Kassel Yayoi Kusama, Infinity Mirror, 1966, Castellane Gallery, New York 71 decorato con pallini iterati e altri elementi ripetitivi, era coperto di specchi che si riflettevano in una mise en abîme scintillante, propagando l’immagine dell’artista medesimo; lo stesso artista raccontò che il suo intento era mostrare le ossessioni che lo assillavano. Kusama agì precocemente in un campo che vide molti altri protagonisti esporre le proprie turbe, spesso legate a un j’accuse sul piano dell’insensibilità sociale. Il lavoro di Vito Acconci ha affrontato tematiche simili, sebbene senza rimandare a una specifica patologia personale. Le sue azioni si sono svolte all’insegna del rapporto tra la persona e il pudore, dei limiti invalicabili oltre i quali una relazione tra individui si trasforma in fastidio o in insulto. Notoria la sua performance Seedbed del 1972 (Galleria Ileana Sonnabend, New York). L’artista aveva fatto costruire una piattaforma di legno sotto cui poteva nascondere il suo corpo e nel frattempo muoversi strisciando e masturbandosi, inseguendo così i visitatori che gli camminavano sopra. Ancora, Acconci ha seguito persone per la strada come un fastidioso detective, o cercato di avvicinarsi al pubblico così tanto da superare quella barriera di sicurezza tra individui, fino al punto da suscitare una reazione di difesa e aggressività. Un aspetto interessante di ciò che ha significato la performance in America riguarda la reazione alla civiltà dello spettacolo: il doppio volto di Hollywood, mondo isterico se vissuto dall’interno e paludato, censurato, educato quanto ai film che ne uscivano, comunque e sempre a caccia di glamour, è stato lo sfondo di performance estreme. Ad esempio, Paul McCarthy in Hot Dog (1974, Oddfellows Temple, Pasadena, California) espose il suo corpo a un crudo trattamento culinario: inserì il pene in un panino, si cosparse le terga di senape, si riempì la bocca al punto che se avesse vomitato, cosa che stava per succedere, si sarebbe probabilmente soffocato. In seguito, ha continuato a esibirsi in travestimenti regressivi e iperbolici, giocando con ketchup che sembra sangue e altri cibi trattati in modo da alludere alle fasi orale e anale dello sviluppo. Anche il mondo della musica si è spesso contaminato con la performance di derivazione strettamente artistica. Jhon Lennon, ad esempio, si è avvicinato all’avanguardia artistica visiva tramite la moglie, Yoko Ono: i due sono stati protagonisti di un Bed-In, che avrebbe fatto spettacolo anche del concepimento di un figlio. La loro performance è stata una forma di protesta non-violenta contro la guerra in Vietnam. Performance come protesta nei paesi dell’est Europa Tutta l’arte non ufficiale dei territori sovietici e limitrofi ha visto nella performance un mezzo estremamente duttile, in quanto di rapida esecuzione, capace di non lasciare prove e di aver luogo, perciò, anche in clima clandestino. Non è un caso che l’arte russa più recente abbia usato come profusione questo linguaggio: a guidare i performer russi più noti è sempre il rapporto io/tu, benché talvolta riletto nei termini di una relazione soggetto/autorità repressiva o, più recentemente, cultura russa perdente/cultura occidentale dominante. Yoko Ono e Jhon Lennon, Bed-In 72 Ricordiamo le comparse in veste di cane di Oleg Kulik; in una di queste, I Bite America and America Bites Me (1997, Deitch Projects, New York), rifacendo il verso a Joseph Beuys l’artista è arrivato dalla Russia in una cassa per animale e rimase nudo, muto e a quattro zampe per due settimane, mangiando da una ciotola, rilasciando escrementi, esponendosi al voyerismo del pubblico. La meditazione di Beuys tra natura e cultura e tra due culture diverse viene riletta in chiave tragicomica: se il tedesco aveva immaginato una possibile conciliazione tra Europa e America, il russo si fa testimone di una completa sottomissione, potenzialmente aggressiva ma fedele come quella di un cane. Essere femmine Il rapporto tu/io diventa drammatico attorno al tema dell’emancipazione femminile, nuovo ampio capitolo della performance. Incominciamo ancora una volta dal Giappone: Shigeko Kubota, utilizzando sia l’eredità del Gutai sia quella di Fluxus, dipinse pubblicamente su di un supporto orizzontale, accovacciata, guidando un grosso pennello con la vagina (Vagina Painting, 1965, New York). Diversamente da quanto accadde in passato, oggi la storiografia dà grande importanza all’attività performativa di Marina Abramović. Nel mezzo c’è stato un processo di conoscenza diretta delle religioni più varie, da quelle asiatiche ai culti sudamericani. Le sue opere appaiono ora come il frutto di una preparazione che ricorda quelle di tutti coloro che hanno sottoposto il proprio corpo a forme di disciplina che potevano essere considerate come insegnamenti spirituali. In Rhythm 0 (1974, Napoli) l’artista serba si offriva al pubblico sdraiata, a disposizione di chiunque volesse usare su di lei uno degli oltre sessanta oggetti posati su un tavolo. L’azione reca in sé la memoria dell’offerta sacrificale, da quella di Abramo e Isacco a quella, molto più reale, del corpo femminile quotidiano, fino a un’indagine nel sadomasochismo: di fronte alla possibilità di usare violenza che la donna concede, l’altro non riesce a tirarsi indietro; poiché la donna lo sa, non può proporsi solo come vittima ma deve anche, necessariamente, riconoscere la sua non-innocenza. Le numerose performance realizzate negli anni ’70 con il compagno Ulay, in cui veniva messo in scena uno scambio di urti, o di aria respirata, o di sguardi muti, parlavano dei legami collusivi che si creano all’interno di una coppia: il modo più comune in cui ci si può mettere in pericolo. Il precedente immediato erano state le azioni in cui l’artista si lasciava scorrere nelle vene Oleg Kulik, I Bite America and America Bites Me, 1997, Deitch Projects, New York Shigeko Kubota, Vagina Painting, 1965, New York Marina Abramović, Rhythm 0, 1974, Napoli 75 Protesi, plastiche, mutazioni Da questi esempi emerge però anche un altro elemento, quello del corpo mutante che espone l’impatto di protesi e altri futuribili innesti sulla nostra materialità. Antesignana fu la tedesca Rebecca Horn, che dopo essere stata costretta a un anno di sanatorio ha incominciato a inventare prolungamenti degli arti che le consentissero di comunicare: di qui performance come Arm Extensions (1968), in cui le braccia erano prolungate da due lunghissime maniche rosse e il corpo risultava costretto in una bendatura incrociata: impedimento e sviluppo corporeo, evoluzione e involuzione si legano strettamente. L’iter di questo tema porta anche ad azioni che danno ampio spazio alla tecnologia, come The Third Hand (Tokyo, 1976-80) dell’australiano Stelarc: un ingegnere ha costruito per lui un terzo braccio collegato da elettrodi al suo ventre e alle gambe, che l’artista imparò a dominare solo dopo mesi di pratica. Come a chiudere il cerchio, la libertà guadagnata negli anni ’60 diventa, tra aspirazioni al look e soggiacenza al controllo della tecnologia, una nuova prigione. Eventi di gruppo: happening, Fluxus, arte relazionale La fuga dalla forma quadro era avvenuta negli Stati Uniti appena dopo che il dripping di Pollock e tutta l’Action Painting ebbero mostrato l’importanza del processo esecutivo dell’opera; nacque però anche in opposizione a questa stessa pittura, concepita per condurre a un prodotto finale da esporsi all’interno di gallerie asettiche in cui la presenza umana era quasi un disturbo già nel 1952 abbiamo quello che possiamo considerare come il primo happening ante litteram, organizzato da John Cage al Black Mountain College in North Carolina: l’azione nacque come una composizione musicale, cioè all’interno di un lasso di tempo preciso che fungeva da cornice. In questo tempo stabilito ciascuno degli intervenuti faceva la propria parte, suonando il piano, danzando, recitando poesie, offrendo bevande. In un contesto diverso ma a quello connesso per filiazioni culturali e amicizie, si formò colui che per primo avrebbe dato una teoria a ciò che egli stesso definì “happening”, Allan Kaprow. Il termine è connesso alle idee musicali di John Cage, in quanto implica l’accettazione di quanto accade (to happen) all’interno di un tempo e di un luogo prefissati. Kaprow teorizzò e mise in pratica eventi in cui una parte era stata decisa dall’autore, lasciando libero il pubblico di dare forma compiuta all’operazione. Kaprow, che pure riconosce l’influenza di Pollock sull’happening, ne sottolinea la continuità anche con l’assemblage e con tutti gli effetti dovuti all’espansione del collage cubista. La prima sua realizzazione pratica rilevante furono i 18 happenings in six parts, presentati alla Reuben Gallery di New York nel 1959. Lo spazio venne diviso in tre sale usando fogli di plastica traslucida, su cui erano state dipinte parole e incollati gli oggetti più disparati tra cui grappoli di frutta di plastica. I muri erano animati da proiezioni di film e diapositive; la colonna sonora erano Rebecca Horn, Arm Extensions, 1968 Stelarc, The Third Hand, Tokyo, 1976-80 76 dischi, strumenti giocattolo e poesie. Gli intervenuti erano invitati a svolgere le attività più diverse, a seguire istruzioni su cosa fare, quando spostarsi, quando applaudire: fu in sostanza la prima opera in cui il pubblico, da semplice spettatore, diventa anche autore, e in cui l’aspetto estetico dell’opera cedeva il passo all’importanza dell’interazione umana. Lo stesso accadde negli happening successivi, per esempio Yard (1962), in cui il pubblico era invitato a camminare su un mucchio di copertoni e spostarli a proprio piacimento. L’evento ebbe luogo nello stesso chiostro della chiesa in cui Claes Oldenburg aveva organizzato una serie di eventi intitolata Ray Gun Show, concepita come una sorta di incrocio tra teatro e pittura. In quest’ambito Oldenburg realizzò The Street (1960), un ambiente che sintetizzava la vita quotidiana nel Lower East Side di New York. Nella stessa serie di eventi Jim Dine aveva messo in scena il suo Smiling Workman (1960): con il volto dipinto di rosso, come il mantello che lo ricopriva, l’artista scrisse a grandi caratteri blu e arancioni, su di foglio per terra, la frase “I love what I’m doing”: l’America non ha sensi di colpa da smaltire. Il nuovo corso nasce in un clima di entusiasmo ed è mosso anche dal desiderio di valorizzare la vita così com’è, ogni giorno. I tempi degli scontenti dell’immediato dopoguerra cedettero il posto, almeno per qualche anno, a un nuovo spirito vitale. Il più famoso e l’ultimo rappresentante di tale spirito fu Andy Warhol, che pur nel suo mutismo teorico propose uno sviluppo estremo di questa estetica. Al di là dei suoi quadri, delle sue manifestazioni più legate alla firma personale, va ricordato che la sua Factory fu una sorta di ditta a getto continuo e un contenitore di happening senza tregua, frutto del lavoro di un’équipe: produzioni editoriali, musicali, cinematografiche si intrecciavano a una vita collettiva aperta ai nuovi arrivati. L’opposizione alla cultura dominante, che pure era presente all’inizio e che caratterizzò anche la nascita della Pop Art, nel corso degli anni ’60 e nello sguardo lungimirante di Warhol si trasformò in un’altra ala del trend vincente, in un sistema di comunicazione rivolto ai giovani ma non per questo polemico con la società americana. Lo stesso comparire di Warhol alle feste, con i suoi jeans e la parrucca bianca d’ordinanza, divenne una performance ricorrente che decretava il successo o meno di un party. Warhol fu insomma un interprete consapevole dell’uniformità giovanilistica che si andava formando come nuovo ambito consumistico. Jim Dine, I love what I'm doing, 1960 77 Fluxus e dintorni Le spinte critiche continuarono in settori diversi della comunità artistica, per esempio tra coloro che si affiliarono a Fluxus. Fluido per definizione e avvolto in un polverone storiografico, questo fenomeno è dubbio persino quanto all’atto di nascita: - 1962: festival musicale di Wiesbaden in Germania nucleo europeo di cui fece parte, tra gli altri, Daniel Spoerri; - 1961: a New York, dove il gruppo era già composto, tra gli altri, da Yoko Ono nucleo americano, influenzato dalla musica di Cage. Molti di loro hanno volutamente perso il treno della fama, rigettando le regole del sistema dell’arte e in generale dall’alta visibilità difficoltà della ricostruzione storica, malgradi i numerosi archivi fotografici, perché il genere di azioni cui diede luogo la compagine fu svariata e spesso votata alla distruzione istantanea delle prove. Qualunque cosa sia stata e dovunque sia nata, ciò che chiamiamo Fluxus ha inventato gli events o concept events – il termine è di George Brecht ( nucleo europeo) –, che assumevano dal linguaggio musicale l’idea di uno spartito minimo di base: sparare a palloncini pieni di colore per ottenere dipinti casuali (Niki de Saint Phalle, 1961); sgocciolare da una teiera in una bacinella stando in piedi su una scala (George Brecht, Drip Music, 1962, Copenaghen); gestire un ristorante (Daniel Spoerri). Un’altra nozione importante nata nell’ambito di Fluxus è quella di Intermedia: nulla a che fare con il mondo dei computer, considerando che siamo nei primi anni ’60. Il punto era, ed è rimasto a lungo, quello di non considerare cogenti le barriere tra musica, teatro, danza, pittura e quant’altro si manifesti come azione creativa. Il tutto, coinvolgendo lo spettatore, che non può fare a meno di partecipare all’opera, anche solo attraverso la semplice osservazione. L’estetica della partecipazione L’arte fondata sulla partecipazione e sulla commistione autore-pubblico, di cui si è parlato in precedenza riguardo a Fluxus e agli happening, è stata ampiamente riscoperta nei tardi anni ’80, dopo la fine dell’ondata neoespressionista, e soprattutto negli anni ’90, con la cosiddetta “estetica relazionale” (così definita da Nicholas Bourriaud). Per comprendere appieno questo nuovo corso occorre comunque fare un passo indietro agli anni ’60, giacché le nuove tendenze si sono avvalse della rivalutazione di operazioni precedenti. Non a caso la Documenta X del 1997 dedicata all’arte relazionale si apriva, fra gli altri, con l’italiano Michelangelo Pistoletto. È d’obbligo a questo punto citare le istanze partecipative che stavano alla base di azioni emerse nei primissimi anni ’60 in tutta l’arte che, non per nulla, nacque da gruppi che vollero farsi conoscere in quanto tali, cioè ponendo la minima enfasi possibile sulla soggettività. In Italia furono attivi il Gruppo T e il Gruppo N, tra l’altro molto vicini a Piero Manzoni. In Germania ricordiamo il Gruppo Zero, in Francia il Gruppo di Ricerca sulle Arti Visive (GRAV) che continuò a mescolare opere “ottiche” e sperimentazioni più ardite: lo stesso François Morellet si ritrovò a essere autore di griglie bidimensionali ingannevoli per chi guarda e di un evento che intese trasformare un’intera giornata a Parigi in un’opera d’arte. François Morellet, Quattro doppie trame: 0° - 22,5° - 45° - 67,5°, 1958 80 potenziale energetico piuttosto che l’innovazione formale che affascina il giovane studente e che lo porta ad attraversare le esperienze artistiche coeve con una leggerezza rabdomantica tale da affrontare l’angoscia del dramma del ricordo». Memorie personali e collettive si fondono nella capacità di Kiefer di guardare alla storia, di affrontare i tabù grazie a quello spazio offerto dalla tela che si fa superficie di una rappresentazione intarmata con innesti materici di forte valenza simbolica. I suoi paesaggi mescolati con sabbia, paglia, semi, girasoli e cenere attingono alla letteratura mitologica tedesca è così per le carcasse di aeroplani e le tavole dotate di ali, quasi allusioni a moti ascendenti che sembrano negare la pesantezza del piombo utilizzato spesso dall’artista con cognizione della sua qualità alchemica. Al simbolismo della materia rinvia la pittura di Georg Baselitz, carichi di colore e di violenza gestuale i suoi dipinti sembrano confermare l’interesse per la figurazione diffusosi alla fine degli anni ’70 che non può essere confinato in un “ritorno alla rappresentazione”, ma incarnano una sfida alla normativa progressista dell’arte con una posizione di dissenso che vede l’artista ripensare al proprio rapportarsi e allo stare difronte all’opera. Baselitz ricorre ad un gesto esemplare: dipingere al contrario, ovvero dipingere davvero al contrario e non diritto per rovesciare la tela solo in un secondo momento la sua pittura è stata etichettata come neoespressionista per il recupero di alcune modalità stilistiche di una tradizione figurativa tedesca antecedente al classicismo d’ispirazione nazionalsocialista e al realismo socialista che costituivano una sorta di forzata educazione visiva per chi proveniva dalla DDR del secondo dopoguerra. Baselitz – giunto nella Germania occidentale nella metà degli anni ’50 – mette in scena il grottesco e l’osceno nei suoi quadri che si allontanano dall’armonia e dalla bella forma dell’arte di regime, ma compie gesti che eccedono una semplice lettura formalistica rovesciare la tela significa collocarsi al di là del supporto investito dalla pennellata dell’artista. È un’azione che contesta tutta la storia dell’arte figurativa occidentale, è uno spostare l’attenzione dall’oggetto del quadro al soggetto che lo dipinge. Il dibattito accesosi alla fine degli anni settanta sul “ritorno alla pittura” favorì una notevole attenzione sull’opera di Baselitz, la quale però sembra avere matrici più remote e politicamente impegnate: ricavate ed emergenti da tronchi d’albero parzialmente lasciati grezzi, le figure scolpite dall’artista s’impongono come presenze che ci sollecitano a un’immediata identificazione, ma la tempo stesso appaiono compromesse dalla materia di cui sono fatte e dai riferimenti dell’arte africana, come se nella prospettiva altra di un certo esotismo fosse possibile ritornare alla propria storia decostruendola e considerandola sotto un differente punto di vista. Tale modo di rapportarsi al passato – che finisce col toccare anche temi di attualità come la riunificazione della nazione tedesca – viene investito da un giudizio politico e provoca inquietudine nei commenti dei critici come Buchloch, il quale nell’articolo del 1981 sottolinea come simili attitudini si erano già verificate nel corso del secolo accompagnandosi a fenomeni pericolosi come nel caso del richiamo all’ordine nella Francia degli anni ‘20. Il monito di Buchloch giunge alla vigilia di una massiccia presenza di artisti tedeschi sulla scena newyorkese: è il sintomo di una generazione che diviene un fenomeno internazionale e che pone “l’essere tedesco” come uno dei motivi privilegiati delle proprie opere: avviene nell’affresco della Germania divisa costituito da Cafè Deutschland, il ciclo di quadri di Iorg Immendorf caratterizzati da un cromatismo acceso e da una marcata definizione delle figure. Altri autori con cui collaborò l’artista utilizzarono la pittura come mimesi e approvazione di stili altrui, fino a parodiare le stesse opere di contemporanei indirizzando il dipingere verso una linea più concettuale. Tuttavia tali artisti – pur muovendosi in gruppo ed esprimendo analoghe aspirazioni – non hanno mai amato 81 l’omologazione sotto etichette come neoespressionisti o nuovi selvaggi, non adatte a dar conto di quella profonda tensione soggettiva verso la comprensione del passato e la capacità di affrontare il futuro; ciò di cui si ha bisogno è un altro concetto che consenta di afferrare l’essenza dell’arte. La transavanguardia al di là della storia Negli anni ‘70 era prevalsa un’arte di pura presentazione, l’artista esibiva materiali e tecniche compositive che contenevano in sé una sorta di regola interna, una coerenza operativa che divenivano esse stesse la ragione dell’opera. Alla fine degli anni ‘70 con la transavanguardia si è passati a un’arte della rappresentazione in quanto «l’opera denuncia volontariamente e con grande naturalezza l’impossibilità di darsi come misura di sé e del mondo» quest’affermazione del critico Achille Bonito Oliva (teorizzatore dell’avanguardia) sembra corrispondere e replicare alle parole di Buchloch: “Corrispondere” perché conferma che la rappresentazione gioca un ruolo importante nella pittura che cominciava ad affermarsi in Europa alla fine degli anni ‘70; “Replicare” perché a sua volta rovescia dialetticamente le accuse di autoritarismo dirottandole contro l’ideologia del darwinismo linguistico e la pretesa di modificare il sociale, caratteristici degli artisti delle neoavanguardie che credevano di poter proseguire sulla linea di sperimentazione segnata dalle avanguardie storiche. Attingere alla tradizione figurativa e pittorica non è un indice di regressione né di anacronismo, ma è sintomo di una rivendicata libertà eclettica nell’orizzonte dell’inattualità. Allontanandosi dallo storicismo e dalla politicizzazione, alcuni artisti sembrano valorizzare la sfera del personale, del frammentario contrapposto all’idealismo totalizzante e al senso di appartenenza a una storia che invita a considerare ogni avanguardia come una fase di un unico percorso dialettico si assiste ad una de-ideologizzazione dell’arte che non si traduce in oblio della storia, ma in u rivolgersi ad essa per recuperarne i modelli così da lavorare “contro il tempo e sul tempo”. In Italia è solo con gli artisti della transavanguardia che si realizza pienamente quel “felice manierismo” capace di uscire dalla ripetizione del passato senza contrapporvisi: la superficie della tela si offre come luogo privilegiato di un libero itinerario negli stili e nelle tecniche spingendo – per esempio – Sandro Chia a utilizzare la maniera di artisti come Chagall, de Chirico, Picasso e Carrà per equilibrare manualità e concetto. Ne adotta il modo di dipingere facendosene una maschera per affrontare la crisi d’identità del soggetto contemporanea nell’epoca delle ideologie le sue figure sono spesso sospese in volo, su una zattera oppure in una grotta marina. Le tele di Chia danno sostanza all’imponderabile, a un’impalpabile che pare trattenersi ella rotondità dei corpi aerei, contenitori antropomorfi di un tempo arrestato e oziosi alluso dal fumare dei protagonisti di Cane italiano (1979), Fumatore con guanto giallo (1980) e Sinfonia incompiuta (1980) in cui si vede una figura nuda chinata su un tavolino affinché dal proprio orifizio Sandro Chia, Sinfonia incompiuta, 1980 82 anale venga emessa una musica la cui partitura è accennata dalla chiave del violino e da alcune note dipinte come se fuoriuscissero sostituendosi a un’umana flatulenza. Spesso nei suoi quadri compaiono brevi testi, didascalie, commenti o piccole poesie che consentono all’artista di guardare con distaccata ironia alla propria stessa composizione pittorica. È come se Chia si mantenesse a debita distanza non solo dalla scelta definitiva di uno stile, ma anche dalla provvisoria compiutezza di ogni singolo quadro evitando di incorrere nel rischio di sospendere la propria ricerca che lo porta a mettere continuamente in discussione tutta la storia delle avanguardie di cui volutamente sembra voler ignorare le motivazioni temporali, per ricorrerne in tempo reale le sollecitazioni e consumarle. Dipingere diviene così una scelta consapevole, una strategia, l’esibire una disposizione etica da parte di artisti che rivendicano il piacere della figurazione. Un sintomo di questo dissenso, ma al tempo stesso una testimonianza di uno sguardo ancora rivolto all’arte delle neoavanguardie è individuabile nell’attenzione che si continua a riservare al linguaggio: le parole sono spesso dipinte all’interno delle tele di Chia e sono la “materia” di poesie o di lunghi e meditati titoli attribuiti alle proprie opere da tutti e cinque gli artisti della transavanguardia (Sandro Chia, Francesco Clemente, Enzo Cucchi, Mimmo Paladino e Nicola de Maria). Per loro però le parole sono l’occasione di una libertà eclettica e di un gusto per un’internazionale incoerenza narrativa che rompe con l’operatività analitica dell’arte concettuale, facendo del linguaggio non un modello, ma un pretesto per la pittura. L’arte de-ideologizzata esce dall’impasse del forzato sperimentalismo e osa una libertà espressiva che coincide con il fatto che l’opera torna ad avere un titolo, non ha più paura infatti di trovare un rapporto di comunicazione con il mondo. Il polo drammatico trova un suo ridimensionamento nell’introduzione di un accento ironico che porta l’opera fuori dal rapporto di scontro ambizioso ed ingenuo con il mondo. L’artista si sottrae al commento o all’”agire nella propria epoca”, esce dal tempo pubblico condivisibile – dalla cronaca – da un rapporto sussidiario alla storia alla quale contrappone la propria singolare esperienza. La pittura in Europa: istruzioni per l’uso Il 1980 è l’anno cruciale per l’affermazione internazionale dei protagonisti della transavanguardia italiana e per quei pittori americani che – dopo la mostra alla galleria newyorkese Mary Boone – vengono definiti Boonies: Ross Bleckner, Julian Schnabel e David Salle. Diverse istituzioni si aprono a una generazione di artisti che troverà ulteriormente consacrazione nel 1892 alla Documenta di Rudi Fuchs che presenta nel team curatoriale Germano Celant (teorico dell’arte povera). Il critico Jean-Christoph Ammann presenta alla Kunsthalle di Basilea i “Sette giovani artisti dall’Italia”, con Luigi Ontani ed Ernesto Tatafiore inseriti in quel gruppo che si sarebbe ridotto ai cinque protagonisti. La citata Biennale di Venezia e le quarantasette presenze nella speciale sezione denominata “Aperto” sono sintomatiche del fatto che il diffondersi del nuovo spirito nella pittura è davvero l’espressione di uno Zeitgeist, uno “spirito del tempo” al quale concorrono le esperienze di artisti provenienti da contenti e paesi diversi. La transavanguardia di Achille Bonito Oliva è la teorizzazione più convincente per rendere conto alle poetiche allora emergenti e diviene la “sigla” che accompagna il rapido successo di critica e di mercato dei suoi artisti. È lo stesso Oliva a parlare di “Constellazione transavanguardia” e a tentare di gettare luce oltre i confini italiani per comprendere questo fenomeno locale e offrirne una mappatura localistica con Transavantgarde International, un volume pubblicato nel 1982 da Giancarlo Politi, direttore della rivista Flash Art. 85 perdere ogni connotazione sociale e riscoprirsi come immagine/concetto, come “proiezione distaccata dell’immaginario”. Il riciclaggio è la strategia compositiva di Tony Cragg che pare fondere pittura e scultura in immagini a parete o su pavimento ottenute dispiegando una miriade di frammenti di materiali eterogenei recuperati. Tutti concorrono a disegnare un’unica silhouette che in molti casi coincide con la sagoma dell’artista come colmandole e materializzandone l’ombra in tal modo Cragg fa compiere uno scatto linguistico alla scultura, al fare minimalista e concettuale. Rispetto alla loro progettazione razionale e analitica, ripropone infatti l’hazard, ovvero un tuffo e un gioco surreali dove il soggetto per conoscere deve identificarsi con l’oggetto. Progressivamente il recupero di materiali trovati viene a formare altre figure in base alla disposizione dei frammenti e la selezione dei loro colori. Particolarmente suggestive sono le silhouette di bottiglie in Green, Yellow, Red, Orange and Blue Bottles del 1982, con cinque grandi sagome dei rispettivi colori, tutte realizzate con pezzi di plastica, ossia dello stesso materiale con cui si suppone possano essere costituiti gli oggetti reali. Cragg usa per le proprie opere tecniche e oggetti disparati: cere, armi da pesca e dadi da gioco. Raffinate sono le composizioni in vetro della serie degli Eroded Landscape, dove – liberandosi dalla referenza a una determinata figura – l’artista addensa vasi e bicchieri creando intricati equilibri instabili che gli consentono di generare lo sgomento per un assemblaggio enigmatico e inquietante. È l’emozione a ristabilire un ordine interpretativo in questi lavori e creare intorno a loro un’atmosfera d’irreale sospensione e di silenzio. FOTOGRAFIA COME ARTE Claudio Marra Non è esagerato affermare che l’arte degli ultimi 40-50 anni può trovare nella fotografia una sorta di felice sintesi teorica dei propri andamenti. Del resto, le crescenti e ormai consolidate fortune di questo mezzo non possono certo essere considerate un fenomeno casuale ed estemporaneo, trovando ragioni e motivi proprio nella particolare sintonia che la fotografia ha saputo dimostrare nei confronti delle poetiche emerse a partire dagli anni ’60. È impossibile non riconoscere come l’arte del periodo che stiamo affrontando abbia sostanzialmente viaggiato tra due sponde, che potremmo indicare con le etichette proposte a inizio Novecento da Kandinsky: 1) “Grande astrazione”; 2) “Grande realismo”. Formula dialettica azzeccata anche per l’arte novecentesca, in particolare per le figure di Picasso e Duchamp: Picasso: interprete della linea del “simbolico”; Duchamp: interprete della linea del “mondano”. Tony Cragg, serie Eroded Landscape 86 Se questo doppio binario era già intuibile a inizio secolo, non c’è dubbio che la sua manifestazione piena e totale sia avvenuta proprio negli ultimi quattro o cinque decenni, magari con un forte sbilanciamento in favore della linea del “grande realismo” o del “mondano”. Le esperienze di coinvolgimento diretto del reale, vuoi sotto forma di oggetto, vuoi come ambiente, se non addirittura come esercizio corporeo e di comportamento da parte dello stesso operatore, hanno sicuramente dominato la scena artistica dagli anni ’60 in avanti. Questo però senza che sia mancata una presenza dell’altra linea, quella della “grande astrazione” e del “simbolico”, prospettiva che anzi, in alcune fasi del periodo preso in considerazione, ha avuto momenti di rilancio assai intensi (es/ prima parte degli anni ’80). Se ci troviamo d’accordo sulla presenza delle due linee, allora occorre riconoscere che nessun mezzo come quello fotografico si è dimostrato congeniale a un loro simultaneo sviluppo. Il grande pregio, e limite, della fotografia è proprio quello di poter essere allo stesso tempo strumento di ricostruzione simbolica del reale, secondo il modello della pittura, nonché forma di prelievo e presentazione diretta seguendo, in questo caso, la logica del readymade duchampiano. Sta proprio in questo limite, in questa contraddittoria duplicità il fascino maggiore che la fotografia ha saputo esercitare nel corso del Novecento e in maniera ancora più accentuata negli ultimi decenni. Gli anni della pop È nella stagione della Pop, per tanti versi giro di boa dell’arte contemporanea, che per la prima volta si manifesta una chiara e fondante presenza della fotografia. In precedenza, segnali assai stimolanti in questa direzione non erano certo mancati, ma i contributi erano forse rimasti troppo episodici ed elitari per incidere in profondità nelle vicende complessive dell’arte. Sono proprio le cosiddette “avanguardie di massa”, quelle che si affacciano sulla scena tra gli anni ’60 e ’70, che invece ingloberanno in maniera forte e costante la fotografia all’interno dei propri linguaggi, manifestando così, in modo esplicito, tutti i debiti che la cultura di massa aveva accumulato nei confronti di un medium che più di tutti gli altri aveva contribuito all’affermazione di tale clima. È sempre con la Pop Art che per la prima volta si manifesta con piena evidenza la duplice modalità del contributo della fotografia alla ricerca artistica: 1) La presenza diretta e l’utilizzo esplicito del mezzo da parte degli operatori; 2) La presenza indiretta, identificabile con una sorta di filosofia del fotografico che sostiene e caratterizza la poetica pop. Un’efficace etichetta critica è quella offerta da Lucy Lippard, che ha definito la Pop un’arte “più estroversa che introversa”: non è difficile intravedervi un principio che sta a fondamento dell’identità fotografica, l’idea dell’estroversione, appunto, della frontalità, dell’essere necessariamente in faccia al mondo per esprimersi. Non meno stimolante è la definizione offerta da Maurizio Calvesi, cioè che la Pop è un’arte di “reportage”: non va però superficialmente ricondotta al genere fotografico (il reportage di stampo giornalistico), bensì va colta come richiamo di una potenzialità concettuale del mezzo. Reportage, dunque, come vocazione alla raccolta, alla ricognizione oggettiva, all’esibizione imparziale del mondo: carattere che meglio riassume la poetica pop che coincide significativamente con un principio fondante del fotografico. Vi è quindi un collegamento tra fotografia e Pop Art che può anche prescindere da un utilizzo diretto del mezzo, è il riconoscimento di una coincidenza concettuale più che materiale, tant’è che potremmo parlare di “fotograficità implicita della Pop 87 Art”. L’idea è insomma quella che la Pop sia fotografica anche quando i suoi esponenti non fanno un uso diretto del mezzo, perché alla lunga ciò che conta è il riferimento mentale a certi principi. Le idee dell’estroversione e del reportage sono semplicemente due caratteri macroscopici, questa tipologia di rilievi può però essere ampliata. Si pensi per esempio alle dilatazioni e agli ingigantimenti di oggetti proposti da Claes Oldenburg: in essi individuiamo i principi della decontestualizzazione, della zoomata e dell’ingrandimento che, ancora una volta, è possibile riferire al linguaggio fotografico. I principi della serialità e della ripetizione sono invece ossessivamente utilizzati da Warhol; mentre quello dell’oggettivazione rimane il più evidente denominatore comune per tutti i protagonisti di quella stagione. Si delinea così, con la Pop, una modalità di rapporti fra fotografia e ricerca artistica che in seguito continuerà a caratterizzare anche vicende successive. Un caso da cui partire è quello di Robert Rauschenberg che, se per alcuni aspetti (caoticità ed espressività magmatica) non può essere considerato un autore pop in senso stretto, ugualmente però anticipa alcuni usi della fotografia che saranno in seguito ripresi dallo stesso Warhol. Già nella seconda metà degli anni ’50, Rauschenberg intuisce la possibilità di considerare la fotografia al pari degli altri oggetti che caratterizzano la cultura di massa, ed è appunto sotto questa identità che essi cominciano a entrare nei suoi lavori: materiali accanto ad altri materiali, oggetti accanto ad altri oggetti. Quella che interessa a Rauschenberg non è tanto la dimensione artistica della fotografia canonicamente intesa, quanto piuttosto l’immagine comune prelevata dalla quotidianità e brutalmente presentata in quanto tale. Un’immagine, quindi, da fruire a livello concettuale più che formale, perché ciò che interessa Rauschenberg pare proprio essere la carica di emotività e di presenza diretta del reale tipica della comune fotografia. L’altro aspetto degno di nota del suo lavoro è il fatto che procede per readymade, cioè senza impegnarsi direttamente nella produzione materiale delle immagini, così da sottolineare nuovamente come il coinvolgimento della fotografia nel processo artistico non debba necessariamente passare attraverso un esercizio di manualità e di tecnica assimilabile a quello della pittura l’equivalenza fotografia = readymade si dimostrerà vincente anche nei decenni successivi, pur con diverse modalità di applicazione. Il contributo più ampio è però certamente quello di Andy Warhol, sia in termini quantitativi che qualitativi due motivi di interesse: 1) Mette in gioco la filosofia profonda del fotografico, fornendo un preziosissimo contributo ad ampia valenza sull’identità del mezzo in relazione allo sviluppo delle arti visive; 2) Più di tutti i suoi compagni, Warhol si muove benissimo sia sul piano della “fotografia implicita” sia su quello di una pratica effettiva. Il fatto che la concettualità fotografica lo abbia molto influenzato risulta evidente sin dallo slogan con il quale egli intendeva riassumere la propria poetica: “Vorrei essere una macchina”. Affermando di voler essere una macchina, Warhol, mentre clamorosamente ribalta l’identità che solitamente si crede di dover attribuire all’artista, contemporaneamente riabilita quella caratteristica di meccanica automaticità che, pur appartenendo per costituzione alla fotografia, si era fin lì creduto di dover obbligatoriamente superare, volendo accomunare la fotografia stessa all’arte. Mentre insomma, fin dall’Ottocento, chi intendeva affermare l’artisticità della fotografia aveva dovuto cercare in ogni modo di aggirare quell’aspetto di meccanicità che pareva inconciliabile con il dominio dell’estetico, ora ciò che concettualmente era stato censurato diviene la prima caratteristica da ricercare. Agli occhi di Warhol la fotografia rappresentava il prototipo perfetto di un’arte meccanica, in grado di esautorare completamente l’autore come soggetto psicologico, sostituendolo con un autore- macchina, perfettamente integrato alla logica e ai meccanismi dello strumento. 90 congelante e rilevante, la fotografia entra così nel progetto stesso dell’opera, ne è parte costitutiva ed elemento irrinunciabile. Si possono indicare due livelli di questa strategia dello specchio: 1) Ricerche tese a verificare possibilità e linguaggi del corpo considerato nella sua dimensione di primarietà fisica. Pensiamo in questo caso a certe indagini di Nauman sull’espressività del viso; 2) Ricerche nel quale il corpo, anziché essere verificato secondo i parametri di un rigido hic et nunc, viene proiettato nella dimensione del desiderio e dell’immaginario come, per esempio, accade nelle trasfigurazioni proposte da Luigi Ontani. Lo specchio, in questo caso, viene spavaldamente attraversato e la fotografia funge da strumento in grado di conferire credibilità e concretezza al sogno. In mezzo a queste due modalità si potrebbero poi collocare esperienze sul tipo di quelle condotte da Gilbert & George, per i quali la fotografia diviene una sorta di diario visivo per una quotidianità sapientemente sospesa tra realtà e finzione. La presenza e l’uso della fotografia negli anni ’70 potrebbero inoltre aiutare a risolvere il problema legato alla definizione di “arte concettuale”: se cioè con questa etichetta si debbano intendere solo i lavori strettamente dedicati all’investigazione dell’idea stessa di arte oppure la si possa estendere a operazioni di stampo narrativo, di ricognizione ambientale o emozionale. Lo spunto ci viene da un lavoro di Joseph Kosuth, peraltro uno dei sostenitori più convinti di una visione strettamente analitica del concettuale. L’opera in questione ha per titolo Una e tre fotografie e appartiene al famoso ciclo delle triangolazioni, nelle quali l’artista americano era solito presentare un oggetto reale, la sua replica fotografica nonché la definizione dell’oggetto stesso estratta da un dizionario. Ora in questo caso l’intrigo nasce dal fatto che la fotografia (esattamente la stessa immagine, tanto che risulta impossibile dire quale funge da oggetto e quale da definizione) è presente sia come oggetto fisico sia come fatto linguistico che descrive l’oggetto stesso. Si manifesta così chiaramente una doppia natura del mezzo, che anche nel momento in cui è chiamato a funzionare come linguaggio, e dunque come strumento puramente noetico, non può rinunciare al suo ruolo di evocazione virtuale della realtà, quasi a ricordarci che ogni atto linguistico, per quanto astratto, mantiene sempre una qualche forma di referenza mondana. Foltissimo è dunque il numero degli operatori che fanno ricorso alla fotografia come strumento di intervento concettuale sulla realtà, sfruttandone quelle potenzialità fino ad allora trascurate dalla ricerca artistica e invece presenti nell’uso quotidiano e familiare del mezzo: è proprio questo dato che ci permette di comprendere l’arte concettuale. L’idea di certificazione, quella di memoria, quella di raccolta e catalogazione, quella di intervento sulla temporalità, quella di supporto a una certa azione, sono tutte categorie che costituiscono l’identità della fotografia nella nostra esperienza quotidiana. Gli artisti concettuali le recuperano e le applicano alle loro ricerche, rinunciando allo stesso tempo a quella dimensione formale dell’immagine che invece aveva fino ad allora caratterizzato la presenza della fotografia nell’arte. Joseph Kosuth, Una e tre fotografie, 1965 Luigi Ontani, San Sebastiano, 1970 91 Per quanto riguarda un’applicazione della categoria della memoria, vanno ricordate le ricerche del francese Christian Boltanski, ripetutamente impegnato a celebrare quella dimensione del “tempo perduto” così cara alla cultura letteraria del suo paese. Ci ha proposto infatti una serie di lavori costruiti sul fascino dell’immagine comune estratta dall’album di famiglia e a volte integrata da un intervento di scrittura teso ad ampliare la risonanza emotiva suggerita da quell’indizio visivo. L’idea di fotografia come memoria va sostanzialmente ricondotta all’ipotesi di uno strumento che si fa protesi e sostegno di una facoltà naturale, integrando, per via artificiale, i nostri vari canali di relazione con l’ambiente. Tra le applicazioni in questo senso più diffuse, troviamo ovviamente quelle che riguardano questioni percettive e di relazione spazio-temporale. A tal proposito possono essere considerate esemplari le esercitazioni di Franco Vaccari, relative alla constatazione e all’epifanizzazione di un micro-evento. Per esempio, si fa immortalare da un fotografo in situazioni di totale banalità, come accade in Viaggio per un trattamento completo all’albergo diurno Cobianchi del 1971. Tramite le sue fotografie, Vaccari è stato anche in grado di raccogliere, in modo non occasionale, le tensioni e le istanze di rinnovamento provenienti dal dirompente fenomeno del Sessantotto (= fenomeno socio-culturale avvenuto negli anni a cavallo del 1968, nei quali grandi movimenti di massa socialmente eterogenei composti da lavoratori, studenti, intellettuali e gruppi etnici minoritari, formatisi spesso per aggregazione spontanea, interessarono quasi tutti gli Stati del mondo con la loro forte carica di contestazione contro gli apparati di potere dominanti e le loro ideologie). L’idea di una partecipazione allargata alla politica e al sociale in genere trova un’esemplare applicazione nell’installazione della cabina automatica per fototessere realizzata da Vaccari alla Biennale di Venezia del 1972. Il pubblico, seguendo l’indicazione fornita con una scritta dall’artista, era invitato a costruire direttamente l’opera, lasciando sulle pareti della stanza, con la striscia di piccole immagini auto-realizzate, una traccia fotografica del proprio passaggio. Per manifestando, come si notava in precedenza, una vocazione più mondana che autoriflessiva, negli anni ’70 la fotografia ha comunque partecipato a quel clima di ricerca che, indicato come “linea analitica”, aveva per oggetto il linguaggio stesso dell’arte. Oltre ai cortocircuiti semantici, tra immagine, scrittura e oggetto, proposti da Joseph Kosuth, vanno considerate anche talune prove fotografiche sullo sdoppiamento e sulla ripetizione svolte da uno dei più interessanti rappresentanti del concettuale italiano quale Giulio Paolini. Franco Vaccari, Viaggio per un trattamento completo all’albergo diurno Cobianchi, 1971 Franco Vaccari, Esposizione n°4, lascia una traccia fotografica del tuo passaggio, XXXVI Biennale di Venezia, 1972 92 Anni ’80 e ‘90 È nel clima degli anni ’80 che finalmente si manifesta a pieno quella fusione tra fotografi puri e artisti-fotografi, della quale si era già avuto qualche indizio negli anni della Pop con figure come la Arbus e lo stesso Warhol. I motivi di questo fenomeno vanno individuati nella ormai totale liberalizzazione dell’operatività artistica acquisita con la stagione del concettuale. Sul finire degli anni ’70 si diffonde nettissima la sensazione che ormai si possa veramente fare di tutto: usare il corpo, affidarsi all’esercizio concettuale, intervenire sull’ambiente, utilizzare la fotografia e il video, ma pure tornare alla manualità pittorica e al decorativismo. Fotografi e artisti si mescolano allora senza più pregiudizi, consapevoli tutti quanti di poter ormai dialogare alla pari, lontano da quei sospetti che, fino ad allora, li avevano tenuti reciprocamente distanti. Come già accaduto per le avanguardie storiche, il cambiamento di atteggiamento nei confronti della fotografia che si manifesta in apertura degli anni ’80 non nasce dunque da un cambiamento interno alla fotografia stessa, bensì da una evoluzione dell’identità estetica complessiva, che permette di ricomporre quella separazione che fino ad allora aveva in qualche modo contrapposto fotografi e artisti. L’operatore che meglio riassume questa unificazione è sicuramente l’americano Robert Mapplethorpe che, nella sua piuttosto breve carriera (muore di AIDS a 43 anni), come nessun altro riesce a coniugare il perfezionismo formale tipico della tradizione fotografica con quel coinvolgimento concettuale che l’arte ormai richiede. Scabroso e poetico al tempo stesso, sul finire degli anni ’70 Mapplethorpe ha il coraggio di far coincidere l’arte con le proprie scelte di vita e di comportamento sessuale, creando sicuramente scandalo presso tutti coloro che giudicavano comunque inattaccabile il tabù dell’omosessualità. Più che dal soggetto in sé, il verso scandalo probabilmente derivava dal fatto che, utilizzando la fotografia, Mapplethorpe sceglieva di lavorare in una condizione di assoluta autenticità, di testimonianza più che di rappresentazione, sfuggendo all’esercizio di sublimazione simbolica che avrebbe potuto sfruttare scegliendo, per ipotesi, la pittura. Una pittura comunque presente, come suggestione culturale, nel perfezionismo formale dei suoi ritratti e dei suoi soggetti preferiti, i fiori. Negli anni ’80 si fa sempre più significativa la presenza sulla scena artistica internazionale di protagoniste femminili. Nella ricerca fotografica, tra i nomi di maggior interesse vi è quello dell’americana Cindy Sherman. Il suo lavoro, pur se articolato in cicli in qualche modo autonomi, ha costantemente posto al centro del proprio sviluppo il tema dell’identità femminile e quello della messa in scena dell’io. Particolarmente interessante la serie intitolata Film Still concepita già sul finire degli anni ’70, nella quale Sherman compare come protagonista di finti fotogrammi ispirati a un cinema-commedia da anni ’50- Robert Mapplethorpe, Jim, 1977 95 L’ossessione sessuale torna nell’opera dell’americano Andres Serrano, autore giudicato agli esordi scandaloso per la sovrapposizione proposta dai suoi lavori tra sessualità e tematiche religiose. Una caratteristica fondamentale per tutti questi protagonisti degli anni ’90 è certamente la forte dose di personalizzazione che emerge dalle loro ricerche. I temi dell’identità, del corpo e della sessualità che abbiamo visto non vengono mai affrontati dall’esterno, con atteggiamento di superiorità, bensì assunti in prima persona, esito di una partecipazione diretta. In questa direzione l’esempio più brillante e convincente è quello dell’americana Nan Goldin, autrice, in tutta la sua opera, di un lungo racconto che si dovrebbe dire ambientato nel mondo della “diversità”, ma che in effetti è più giusto riportare alla vita stessa dell’artista, ai suoi amici e ai luoghi da lei frequentati. Lontanissima da un’idea di fotografia come indagine sociale, la Goldin sembra piuttosto interessata alla formula del diario intimo, di una fotografia da album di famiglia non più nascosta. Il tedesco Wolfgang Tillmans rinforza questa sensazione di fotografia come diario personale con particolari allestimenti nei quali le immagini realizzate nelle abitazioni di amici e coetanei o in occasione di concerti, oppure di raduni socio-politici, vengono brutalmente esposte a parete con nastro adesivo, così come ogni ragazzo farebbe sui muri della propria camera. L’abolizione del privato, o la sua messa in comune, è dunque un altro tratto caratteristico per l’arte degli anni ’90. Questo principio può unirsi a quello della messa in scena e della finzione, ad esempio tramite la ricostruzione di situazioni ispirate alla vita quotidiana. In ogni caso, si tende a privilegiare un’identità concettuale del mezzo fotografico: quella che attraverso un’evocazione sempre più coinvolgente del reale, sia esso intenzionato direttamente sia attraverso la strategia della messa in scena, pone ormai chiaramente la fotografia quale erede ufficiale del readymade duchampiano. Partita nell’Ottocento in competizione con la pittura, della quale sembrava destinata a raccogliere il testimone sulla strada della rappresentazione, nel Novecento, e in partire nella seconda metà del secolo, la fotografia ha dunque finito per manifestare in modo sempre più netto altre parentele e altre afferenze, ricollegandosi alle operazioni più antipittoriche proposte dall’arte del ventesimo secolo. Andres Serrano, Budapest. La modella, 1994 Nan Goldin, Edwige behind the bar at Evelyne's, New York City, 1985 Wolfgang Tillmans, Christoph & Alex, European Gay Pride, Londra, 1992 96 VIDEO ART Francesco Bernardelli Introduzione L’attuale presenza del video nelle arti visive è oggi elemento che quasi non è più rilevato quale entità forte, dirompente, così come avveniva in anni passati, ma risulta piuttosto l’appendice di un più vasto sistema visivo caratterizzato dell’immediatezza e dalla forza comunicativa con cui le immagini in movimento – o più complesse sequenze audiovisive – si articolano, secondo un sistema di coordinate spazio-temporali riconoscibili. Due decenni di progressiva assuefazione ai ritmi sempre più concentrati, frammentati, dei videoclip e della pubblicità hanno sempre più diffuso una sensibilità e una capacità di riconoscere e decodificare istintivamente i linguaggi visivi propri delle immagini in movimento. Dal momento che è insista nella natura stessa del video la capacità di creare squarci percettivi, associazioni visive, intuizioni sinestetiche, illuminazioni che amplificano le potenzialità della vista, essa non può essere intesa in termini di vera e propria “visione”, là dove l’atto di vedere comporta una più rapida comprensione, in una simultaneità d’intuizione che avvicina l’occhio alla mente, comprendendo sia su un piano più fisico che uno squisitamente mentale. Storicamente, tali possibilità non si sono manifestate subito, ma grazie a una sperimentazione e allo sviluppo di “macchine di riproduzione del visibile”. Il cammino compiuto dalla videoarte, di quarant’anni appena, rivela l’alto livello di rielaborazione, anche concettuale, di una tecnica che gareggia e oltrepassa la visione “naturale”, umana. Nell’arco di pochi decenni il dominio del video, superando molti dei dogmi e delle convinzioni ereditate dalla storia dell’arte, ha letteralmente fagocitato l’insieme dei media visuali (pittura, fotografia, cine, animazioni con/senza computer), del design (grafica, prodotti industriali e di tendenza) e perfino delle performing art (teatro, danza, musica), suscitando visioni sempre più ampie, ricche e complesse, allargando l’orizzonte del visibile e pervenendo a una raffinata capacità di sondare nel profondo. Il video è stato, e tuttora è, una forma artistica particolarmente complessa che difficilmente si presta a una singola prospettiva interpretativa, a una lettura unificante. Esso è storia d’artisti e di visioni, è architettura della visione, è veicolo alternativo d’accesso a informazioni e punti di vista critici, ed è strumento in mano all’audience/pubblico, ma è anche definibile come genere artistico a sé stante, e ancora, è sintassi con la sua grammatica e le sue potenzialità narrative e discorsive. Assomma in sé un catalogo di possibilità e di sviluppi tecnico-formali, mantenendo allo stesso tempo le caratteristiche di mezzo d’espressione estremamente duttile. Di alcuni usi della tecnologia L’irruzione di una tecnologia progressivamente più maneggevole, e capace d’allargare gli scenari di ricerca, ha comportato, sin dalla fine degli anni ’60, al contempo una costante ridefinizione dei rapporti instaurati con il pubblico e con il sistema dell’arte. La forza del video ha trovato concreta espressione proprio in quegli anni in cui il sistema tutto dell’arte passava da un’economia della produzione più semplice a diverse e più stratificate forme d’affermazione. Non è un caso, insomma, se i maggiori indirizzi e le più significative tendenze di ricerca nell’ambito della videocreazione 97 sembrano scandire, anticipandole di poco, le fasi di trasformazione che hanno marcato i rapporti tra tv e consumo pubblico. Per ragioni legate alle esigenze specifiche dei creatori e dei sostenitori di questo dispositivo tecnico, le strutture materiali che hanno contribuito all’affermazione e alla diffusione del video sono state molte e operanti spesso affiancandosi l’una all’altra piuttosto che in contrapposizione tra loro. A distanza oramai di tre decenni dalla prima grande “febbre del video” manifestatasi agli inizi degli anni ’60, si può dire che molte delle basi materiali, visive e linguistiche poste/progettate in quegli anni sono entrate strutturalmente nel sistema produttivo e organizzativo del sistema-video: - L’approccio a forme d’autoproduzione flessibili; - La diffusione su canali concomitanti e paralleli (gallerie, centri espositivi, festival e rassegne specializzate); - La propensione ad allargare le potenzialità comunicative (attraverso broadcasting pubblico, edizioni non limitate e così via). Certo, già dagli anni ’80 è poi andata scemando la fiducia di cui il video era stato inizialmente investito. Per un intero decennio sembrò che il video potesse davvero portare vicini alla democratizzazione dell’arte. La particolare e complessa posizione guadagnata mostra, oggi più che mai, quanto il video possa incarnare ambivalenze ideative, produttive, secondo il grado d’indipendenza del sistema comunicativo e commerciale di riferimento. Da un punto di vista più squisitamente formale, al di là dei primi legami ancora immediatamente riconoscibili con un certo cinema sperimentale fiorito soprattutto negli anni ’60 negli Stati Uniti e poi in Francia, Germania, Inghilterra e del cosiddetto “film d’artista” comparso anche in Italia, l’utilizzo della tecnologia elettronica riuscì a concedere una maggiore libertà, sia in termini d’indipendenza dai vincoli tecnici quali il cinema comportava – sviluppo, stampa e costi materiali – che in termini di maneggevolezza e praticità delle videocamere. In questo senso, dalla posizione marginale e davvero “sperimentale” degli esordi, il video è prevenuto a un ruolo da protagonista attraverso le più varie incarnazioni e perfezionamenti spesso concomitanti. La sua affermazione si è però avuta tramite una pluralità di voci e di esperienze. Quasi ereditata dalla stagione del Fluxus, si può ritrovare la naturalezza con cui la ripresa/registrazione poteva nascere, insinuandosi fra le pieghe del quotidiano. In questo senso, il video aveva in sé inedite potenzialità da scoprire e sviluppare: tanto per cominciare, permetteva la trasmissione in diretta, e attraverso tale inedita possibilità molta ricerca si svilupperà a partire dagli ambienti costruiti con l’ausilio di dispositivi video a circuito chiuso, in cui la trasmissione (quasi) immediata del partecipante diventa possibilità d’analisi dei meccanismi percettivi e fruitivi (Bruce Nauman è in questo senso il riferimento assoluto). Altra specifica particolarità è data dal fatto che il video, per sua natura, è fonte, emissione luminosa, poiché il monitor, trasmettendo immagini in movimento, emana vibrazioni di luce da ogni singolo pixel che così traducono le informazioni ricevute come onde elettromagnetiche, costituendo l’insieme delle immagini su schermo, che da molti anni possono ormai essere poi riproiettate in più vasta scala e negli allestimenti più svariati. Infine, ma sarà conquista posteriore, dei tardi anni ’80, le possibilità di videoproiezione unite alle inedite potenzialità illusionistiche-sensoriali mutuate e sviluppate dalla nuova musealità scientifica (videoambienti, sistemi e percorsi interattivi ecc.) hanno ampliato le possibilità visive e comunicative dei moderni apparati realizzati.