Scarica Riassunto di Competenze psicopedagogiche e metodologie didattiche- TFA sostegno e Concorso e più Schemi e mappe concettuali in PDF di TFA Sostegno solo su Docsity! PARTE GENERALE CAP 1. LE TEORIE DELL’APPRENDIMENTO E LA PSICOLOGIA DELL’EDUCAZIONE Le principali teorie dell’apprendimento in campo educativo sono riconducibili a 3 grandi correnti: comportamentismo, cognitivismo, costruttivismo. 1. Il COMPORTAMENTISMO si è sviluppato nell’ambito della psicologia in America (detto anche behaviourismo) e si fonda sull’idea che l’apprendimento avvenga mediante degli stimoli S – che pervengono dall’ambiente esterno – a cui il soggetto fornisce delle risposte R – ovvero i comportamenti. Ciò che causa nella mente questo passaggio da S a R non è oggetto di studio (scatola nera/black box). L’osservazione dei comportamentisti si concentra invece sulle associazioni delle risposte a determinati stimoli che si creano ripetutamente in modo stabile in ciascun individuo: se l’associazione è stabile, allora si può dire che il soggetto ha imparato a rispondere allo stimolo e dunque si è verificato un apprendimento. Principali esponenti del comportamentismo: - Ivan Pavlov (1849-1936) è famoso per gli studi sullo stimolo e sul riflesso condizionato (esperimento sui cani: salivazione alla presenza di cibo): differenza tra stimolo incondizionato/risposta incondizionata (come nel caso del cibo: il comportamento non è appreso perché connaturato alla specie) e stimolo condizionato/risposta condizionata o riflessa (esempio del camice bianco associato alla somministrazione di cibo: da stimolo neutro a stimolo condizionato quando produce la stessa risposta della salivazione) - John Watson (1878-1958) è considerato il padre del comportamentismo (l’articolo Psychology as the Behaviorist Views it – 1913 – ne rappresenta il manifesto) e ritiene che il soggetto sia passivo e capace di apprendere solo se stimolato da un ambiente esterno attivo. Differenza tra connessioni ereditarie e connessioni generate da processi di condizionamento (es. dell’esperimento di Pavlov) che si configurano come apprendimento. Nell’ambito di queste connessioni vengono individuate due leggi: legge della frequenza (la probabilità di una risposta è direttamente proporzionale al numero di volte in cui essa si verifica in seguito ad uno stimolo) e legge della recenza (risposta più frequente è quella più probabile). - Edward Thorndike (1874-1949) è famoso per i suoi studi sul comportamento animale attuati attraverso lo strumento scientifico della gabbia-problema (puzzle box): esperimento del gatto e ipotesi dell’apprendimento per prove ed errori (al fine di raggiungere un determinato obiettivo si adottano comportamenti diversi, in sequenza e in modo causale fino ad individuare il comportamento soddisfacente). Tesi della necessità di un rinforzo positivo ai fini dell’apprendimento (feedback/ricompensa che segue il comportamento desiderato) stimolo-risposta-rinforzo: dato un determinato stimolo, la risposta che viene appresa è quella che conduce ad una ricompensa (rinforzo che produce soddisfazione) - Burrhus Skinner (1904-1990) è il maggior esponente del comportamentismo (Il comportamento degli organismi – 1938, Il comportamento verbale – 1957, La tecnologia dell’insegnamento – 1968). Differenza tra comportamento rispondente (segue il paradigma stimolo-risposta ed è di natura semplicemente passiva poiché si tratta di una risposta indotta nel soggetto dall’ambiente esterno) e comportamento operante (comportamento attuato al fine di ricevere un rinforzo, senza particolari stimoli precedenti stimolo a posteriori). Esperimento del topo nella Skinner box: lasciato libero di esplorare la gabbia, trova che azionando una leva riceve del cibo e continua a farlo volontariamente (rinforzo positivo) oppure riceve una scossa elettrica e impara a non ripetere l’azione in quanto dannosa (rinforzo negativo). Si tratta di un processo di apprendimento. Procedura di shaping (modellamento) attraverso determinati rinforzi, si possono imprimere negli animali catene di connessioni, ovvero comportamenti complessi per raggiungere uno scopo (anche nei bambini: ad es. lode come rinforzo positivo). 2. Il COGNITIVISMO in parte si sviluppa parallelamente agli studi comportamentisti e in parte ne rappresenta un punto di approdo. Si tratta di un insieme di teorie eterogenee accomunate dallo studio della mente e dei suoi processi in quanto unici elementi in grado di spiegare il funzionamento di attività cognitive superiori (linguaggio, memoria, percezione, ragionamento). Principali correnti ed esponenti del cognitivismo: - Psicologia della Gestalt: si fonda sulla differenza tra sensazione (ciò che viene avvertito da organi si senso, costituiti da strutture in grado di trasformare gli stimoli in impulsi nervosi, che dal SNP raggiungo l’SNC) e percezione (processo cognitivo di base che elabora le sensazioni e permette all’organismo di muoversi adeguatamente nell’ambiente). Deriva dalla corrente dell’empirismo (Inghilterra nel 600 con Locke: basata sul concetto dell’esperienza come tramite della conoscenza) a cui si riconduce anche la corrente dell’associazionismo (secondo cui la conoscenza avviene attraverso l’esperienza mediante associazioni di sensazione che convogliano nella rappresentazione mentale dell’oggetto). La psicologia della Gestalt (forma) nasce in Germania nel XX secolo in polemica con l’empirismo e il comportamentismo: 1. rispetto alla prima corrente – da cui deriva l’importanza data all’esperienza – essa afferma che la rappresentazione mentale generata dalle sensazioni va vista nella sua configurazione totale e in modo unitario (non va ridotta analiticamente alle sue associazioni elementari); 2. Rispetto alla seconda corrente viene criticata la modalità di apprendimento, non per prove ed errori ma come un fenomeno intuitivo e globale, e si ritiene che l’apprendimento possa essere compreso alla luce dei suoi processi cognitivi e al di là del semplice comportamento. Principali esponenti della Gestalt: Wolfgang Kohler (1887 – 1967): esperimenti sugli scimpanzé (The Mentality of Apes – 1925, Le forme fisiche in quiete e in situazioni stazionarie, 1920)) in cui i soggetti analizzati dimostrano in primo luogo di cercare il cibo per prove ed errori, finché uno di essi osservando gli oggetti a disposizione è in grado di combinarli per ottenere lo scopo, ovvero il raggiungimento del cibo. Kohler chiama insight (intuizione) questa illuminazione improvvisa, mediante la quale lo scimpanzé 1. Assegna un nuovo significato agli oggetti (le cassette da porta attrezzi diventano gradini per raggiungere la banana), modificandoli e rivedendoli da una prospettiva diversa e originale; 2. ha una visione globale del problema e mette in rapporto gli elementi a disposizione. Definisce la Gestalt come la corrente che studia le situazioni e i processi psichici che non possono essere definiti se scomposti nelle loro singole parti costituenti ed elementari. Max Wertheimer (1880 – 1943) è considerato il maggiore esponente della Gestalt, in particolare per il suo lavoro sul movimento stroboscopico, per i suoi studi sulla percezione e per l’idea di pensiero produttivo. 1. L’evidenza sperimentale del movimento stroboscopico viene chiamata fenomeno Phi (Experimental Studies on the Perception of Movement – 1912): proiezione di due luci identiche a breve distanza, viene percepita un’unica luce in movimento. Secondo Wertheimer, la rappresentazione dell’immagine in movimento non sarebbe stata percepita senza una naturale propensione umana all’elaborazione del fenomeno nella sua totalità (prevalenza sui singoli elementi costitutivi) tutto precede le parti: il tutto non è solo composto dall’insieme delle parti (per questo non si può partire dal basso e arrivare all’immagine totale) ma è anche il frutto del modo in cui, a livello percettivo, questi elementi vengono messi in relazione tra loro. 2. Attività di ispettore scolastico durante la quale nota che i docenti richiedono agli alunni soprattutto la riproduzione di procedure apprese in precedenza, laddove essi andrebbero invece orientati nella risoluzione di problemi nuovi conoscenza è sempre frutto dell’esperienza personale, rielaborata poi dalla mente della persona. Esperienze del tutto soggettive e assenza di una modalità che stabilisca la comunanza tra diverse esperienze. L’autore si rende poi conto della radicalità delle sue posizioni e muove a sé stesso delle obiezioni: 1. Oggettività (anche se parziale) della realtà dovuta alla stabilità von Glasersfeld riprende le osservazioni di Kelly, secondo cui gli esseri viventi riescono ad astrarre delle forme di regolarità. 2. Rischio di solipsismo risposta fondata sul concetto di praticabilità: la realtà costruita dall’individuo deve risultare ancorata alle condizioni fisiche e concettuali da cui essa emerge (dunque ancorata all’esperienza). CAP 2. PSICOLOGIA DELLO SVILUPPO Jean Piaget (1896-1980): è collocato nell’ambito del cognitivismo ma è anche considerato un precursore delle successive teorie dell’apprendimento, in particolare del costruttivismo. Il suo punto di partenza teorico è rappresentato dal pensiero di Kant (dati provenienti dall’esperienza sono organizzati dalle mente secondo delle categorie mentali). Per Piaget gli schemi mentali non sono fissi ma si evolvono, dato il rapporto di reciproca influenza tra ambiente e organismo. Per questo motivo egli individua una stretta relazione tra biologia e teoria della conoscenza e traccia l’evoluzione della conoscenza attraverso stadi (da semplici a complessi) della vita biologica. L’interazione tra organismo e ambiente viene definita trasformazione, ovvero quel processo che porta il soggetto ad agire sull’ambiente in modo attivo. L’azione può essere di due tipi: reale, cioè dotata di una realtà fisica; interiorizzata, cioè un’azione mentale (non agisce sugli oggetti ma sulle loro rappresentazioni. Le azioni hanno una doppia dimensione, individuale e sociale, perché sono sia cognitive sia affettive/relazionali. Secondo Piaget esistono degli invarianti funzionali che governano tutte le azioni degli individui e non mutano le loro caratteristiche di funzionamento durante lo sviluppo della persona: 1. Principio di organizzazione: l’organismo fisico tendere ad evolversi in modo che le sue strutture siano in armonia coerente tra loro; 2. Principio di adattamento: il soggetto è in continuo adattamento con l’ambiente esterno, da cui si genera un bisogno (fisico o intellettivo), che a sua volta determina un’azione/comportamento che indice sull’ambiente esterno (scambio continuo tra soggetto e ambiente causa una variazione delle strutture di pensiero). L’adattamento avviene mediante due processi: - l’assimilazione, che sia ha quando le nuove conoscenze o esperienze vengono inglobate nelle strutture preesistenti; -l’accomodamento, quando le nuove conoscenze non possono essere inquadrate in modo coerente nelle strutture esistenti e per tale motivo è necessario adeguare le strutture alle nuove conoscenze/esperienze. L’equilibrio tra i due processi dà luogo all’adattamento, che Piaget definisce comportamento intelligente: l’intelligenza costituisce quindi la capacità di adattarsi all’ambiente e entrare in equilibrio con esso. Agli invarianti si contrappongono le strutture variabili. Piaget definisce schemi d’azione le strutture cognitive del neonato (sensazione, percezione e motricità: ad es. i riflessi), che poi si combinano tra loro in strutture più complesse e si trasformano in schemi mentali. Anche questi, a loro volta, si organizzano in modo sempre più complesso fino a determinare la nascita di strutture mentali vere e proprie. Stadi evolutivi dell’uomo sono caratterizzati da condizioni di equilibrio, frutto dell’adattamento, ma la crescita biologica e strutturale dell’individuo comporta il sorgere di nuovi bisogni e dunque la rottura degli equilibri, con nuovi apprendimenti e strutture mentali più evolute. Queste porteranno a nuovi equilibri e così via. Ciascuno stadio è propedeutico al successivo, che ingloba il precedente. La sequenza degli stadi è fissa (ognuno di essi è necessario e non può essere scavalcato). 4 stadi fondamentali dello sviluppo, ciascuno divisibile in più fasi: 1. Stadio senso-motorio (da 0 a 2 anni e si divide in 6 sotto-stadi). Ciascun sotto-stadio è caratterizzato da schemi: 1.1 riflessi, meccanismi innati che si trasmettono per via genetico-ereditaria (ad es. rooting, suzione, prensione della mano); 1.2 reazioni circolari primarie, prime coordinazioni di schemi (ripetizione di movimenti attuati per la prima volta casualmente, al fine di avvertirne nuovamente gli effetti piacevoli o funzionali) che hanno come protagonista il corpo del neonato (ad es. coordinazione mano-bocca, coordinazione vista-udito). Prime due fasi caratterizzate da egocentrismo radicale: il bambino non distingue tra sé stesso e l’ambiente. 1.3 reazioni circolari secondarie, schemi coordinati ripetuti per diletto che determinano un effetto sull’ambiente. 1.4 coordinamento delle reazioni circolari secondarie in schemi/strutture più complessi. Le azioni vengono compiute per raggiungere un fine e inizia a svilupparsi il concetto di permanenza dell’oggetto (esistente anche se scompare dal suo campo di azione). 1.5 reazioni circolari terziarie, modificazione delle azioni imparate per osservare l’effetto generato dalle modifiche. 1.6. funzione simbolica emergente, che permette di evocare, attraverso simboli, gli oggetti o le azioni non percepiti al momento, consentendo così di realizzare rappresentazioni mentali. Questo fattore comporta l’interiorizzazione delle azioni (azioni solo mentali, attraverso cui prefigurare il risultato o l’effetto di una possibile azione), il compimento del concetto di permanenza e lo sviluppo del linguaggio (uso referenziale del linguaggio, ovvero riferimento ad azioni passate o immaginate, grazie all’influenza della funzione simbolica). La rappresentazione mentale di azioni osservate in passato permette l’affiorare di due particolari attività: - la ripetizione in differita, di azioni che il bambino ha visto compiere ad altri; - il gioco di finzione, imitazione di azioni viste con oggetti di finzione 2. Stadio preoperatorio (da 2 a 7 anni e si divide in due sotto-stadi). Si caratterizza per compiti o operazioni che il bambino non riesce a compiere con successo. 2.1 fase preconcettuale, si sviluppa definitivamente la funzione simbolica del linguaggio che però presenta ancora dei preconcetti. 2.2 fase del pensiero intuitivo, ragionamento basato sulla percezione dei fatti osservati e su una loro valutazione a livello percettivo, senza un ragionamento fondato (assenza di pensiero logico comporta difficoltà nella classificazione di oggetti e nella seriazione). Le rappresentazioni mentali dello stadio 2 mantengono ancora 2 limiti evidenti: - egocentrismo del pensiero: quando il bambino osserva gli eventi, li associa ad azioni simili a quelli che lui stesso ha compiuto o ha visto compiere agli altri (ad es. il Sole si sforza quando si muove). Questo dà vita a particolari aspetti che caratterizzano il comportamento del bambino in questo periodo, ovvero l’animismo, l’artificialismo e il finalismo. – irreversibilità: incapacità del bambino di prefigurarsi l’azione opposta che riporta la situazione modificata allo stadio iniziale (es. esperimento della non conservazione della quantità, del numero, della sostanza, del peso; concetto del tutto/parte). Conquista di due concetti in questo stadio: concetto di identità (cambiano le proprietà di un oggetto ma non l’oggetto stesso: es. del filo attorcigliato) e concetto di funzione (capacità di mettere in relazione due grandezze). 3. Stadio delle operazioni concrete (da 7 a 12 anni). Il ragionamento logico si afferma su quello intuitivo, permettendo al bambino di compiere delle operazioni logiche: classificazione e inclusione gerarchica o addizione, moltiplicazione di classi, seriazione additiva, seriazione moltiplicativa. Si aggiungono inoltre le operazioni infralogiche, che riguardano le relazioni spazio-temporali tra un oggetto e le parti che lo compongono. Comparsa del pensiero reversibile (risoluzione di problemi presenti nel precedente stadio, con una gradualità che risponde al grado di concretezza del problema: quelli meno concreti vengono risolti più tardi) e scomparsa dell’egocentrismo. 4. Stadio delle operazioni formali (da 12 a 16 anni). Operazioni logiche applicabili anche a idee e conoscenze astratte e nuove operazioni, come la combinazione (oggetti con due caratteristiche, 4 combinazioni) Lev Semenovic Vygotskij (1896-1934): massimo esponente della scuola storico-culturale del cognitivismo, secondo cui lo sviluppo delle facoltà psichiche non è influenzato solo da fattori biologici ma anche da fattori storici, sociali e culturali. In alcune sue opere (Il processo cognitivo, Pensiero e linguaggio) affronta la problematica del linguaggio come strumento di sviluppo cognitivo: - Come forma esterna di linguaggio interiore: partendo dagli esperimenti sull’insight di Kohler, Vygotskij afferma che prima dello sviluppo i bambini usano il linguaggio come le scimmie, facendo cioè tentativi confusi che svaniscono con l’insorgere del linguaggio. I bambini usano il linguaggio mentre svolgono dei compiti, accompagnando i gesti con le parole (fattori strettamente correlati, maggiore è la difficoltà del compito maggiore è la tendenza del bambino a parlare). Questo fenomeno è definito da Piaget linguaggio egocentrico e non ha funzioni cognitive fondamentali, mentre secondo Vygotskji esso è la manifestazione del linguaggio interiore (ragionamento mentale su problemi o azioni) che si palesa in un linguaggio esteriore. - Come auto-stimolazione e auto-regolazione: rispetto alle scimmie antropomorfe, i bambini usano il linguaggio nella risoluzione di un problema. Esso aggiunge alle capacità del bambino la moltiplicazione 4. Industriosità-senso di inferiorità : le figure di riferimento diventano i coetanei, mentre le forze sono l’industriosità, data dall’impegno impiegato dal bambino nelle attività di apprendimento, e il senso di inferiorità rispetto ai compagni, dovuto a possibili insuccessi scolastici. Il superamento positivo dello stadio induce il bambino a sviluppare la virtù della competenza, mentre gli eccessi di inferiorità o industriosità condurranno rispettivamente alle patologie dell’inerzia e della superficialità. 5. Identità-confusione : in questa fase il giovane si distacca definitivamente della famiglia e va alla ricerca della propria personale identità, adottando spesso come punti di riferimento modelli di vita in cui identificarsi. In questa fase Erikson individua alcuni meccanismi tramite cui i giovani cercano di attribuire a se stessi un’identità, attraverso le due forze opposte: - ruolo positivo (definizione di un’identità in modo convinto), - ruolo negativo (ribellione, scelta opposta a quella promossa dagli adulti intorno al giovane), - preclusione (esclusione di possibili identità non raggiungibili comodamente), - moratoria (dilatazione dei tempi di definizione), - diffusione (mancanza di interessi che conduce all’impossibilità di darsi un’identità precisa). Se lo stadio si conclude positivamente, il giovane acquisisce la virtù della fedeltà/autocoscienza (capacità di credere in se stesso e in un nucleo di valori che lo definiscono), viceversa si sviluppano gli stati patologici del ripudio o del fanatismo. 6. Intimità-isolamento : le figure di riferimento sono gli amici, il partner, i colleghi di lavoro, mentre le forze che si contrappongono sono l’intimità, ovvero la capacità di saper instaurare rapporti profondi, e l’isolamento. La virtù che matura in questo stadio è la capacità di aprire, mentre le patologie sono l’esclusività, come incapacità di aprirsi e legarsi, e la promiscuità, come tendenza a stringere rapporti in modo troppo veloce e frivolo. 7. Generatività-stagnazione : questo stadio rappresenta l’età adulta ed è caratterizzato dalle forze della generatività, intesa in senso lato come attività creativa finalizzata alla produzione di una società migliore per le generazioni future, e la stagnazione. La virtù che emerge in questo stadio è l’attitudine a prendersi cura degli altri, mentre le patologie sono la recettività, come incapacità di dare un significato alla propria vita, e la sovraestensione, come desiderio convulso di essere sempre indaffarati tanto da non riuscire più a dedicarsi alle proprie esigenze. 8. Integrità dell’Io-disperazione : La prima forza indica un’accettazione favorevole della propria esistenza come esperienza proficua, la seconda invece indica il ripudio della propria esistenza, che genera sconforto. La virtù che si afferma è quella della saggezza, le patologie invece sono il disprezzo e la presunzione. John Bowlby (1907-1990): a partire dagli studi di Freud, dalle analisi etologiche (in particolare studio sui comportamenti dei primati) e dalla teoria evolutiva di Darwin (comportamento adattivo: l’evoluzione ha favorito gli esemplari con maggiore predisposizione alle risposte istintuali perché inducono gli adulti a prendersi cura dei bambini e proteggerli), ha elaborato la teoria dell’attaccamento. La prima versione di questa teoria è contenuta nell’articolo The nature of the Child’s Tie to His mother (1958), in cui l’autore sostiene che il legame del bambino con la madre si esprime attraverso una serie di risposte istintuali primarie, ovvero innate o ereditata, indipendenti l’una dall’altra. Bowlby individua cinque principali risposte/comportamenti, che il bambino adotta per entrare in contatto con la madre, ovvero il succhiare, l’aggrapparsi, il seguire, il piangere e il sorridere. Le prime tre risposte si raggruppano in una prima categoria di comportamenti, che raggiungono il loro scopo anche se la reazione della madre è relativa o limitata, mentre le ultime due appartengono ad una seconda categoria di comportamenti, che raggiungono lo scopo dell’attaccamento solo se la madre attua una risposta reciproca. Per questo motivo, le ultime due risposte (sorriso e pianto) sono chiamate dallo psicologo social releaser, poiché attivano negli adulti dei comportamenti innati di cura dei bambini. Le risposte istintuali, comuni a tutte le specie animali, possiedono due caratteristiche generali: hanno un andamento variabile nel tempo e si manifestano sotto forme espressive differenti in base al periodo di vita del bambino che le attua. Gli sviluppi del pensiero di Bowlby conducono poi ad una versione definitiva della sua teoria, che delinea quattro fasi distinte dell’attaccamento e individua tre classi di comportamenti che mediano l’attaccamento: -comportamenti di orientamento (attivati per mantenere consapevolezza sulla collocazione della madre, attraverso l’inseguimento con gli occhi o con l’udito); - comportamenti di segnalazione (come il pianto e il riso, che mirano ad attirare l’attenzione della madre); - comportamenti esecutivi (tra cui la motilità, attraverso cui il bambino si avvicina attivamente alla madre). Queste forme di comportamento vengono organizzate dal bambino in modo flessibile e interscambiabile, in modo da riuscire a gestire la varietà di situazioni che l’ambiente esterno può presentare. Oltre al comportamento che mira a mantenere una vicinanza alla madre, il bambino è mosso anche da un comportamento opposto, esplorativo, che viene però controllato in modo da non superare la distanza dalla madre che egli ha stabilito. A seconda delle situazioni, dunque, il bambino cerca di stabilire con la madre tipi diversi di interazione e per questo motivo Bowlby distingue i comportamenti di attaccamento in base a tali modalità: - comportamenti che innescano l’interazione (come salutare, sorridere, chiamare, avvicinarsi, toccare); - comportamenti che rispondono alle iniziative della madre (tra cui il guardare, oltre a quelli precedenti); - comportamenti mirati ad evitare la separazione (come piangere, seguire e aggrapparsi); - comportamenti di tipo esplorativo; - comportamenti di ripiegamento verso la madre (dettati da paura o ansia). Le quattro fasi principali dell’attaccamento sono: 1. Orientamento e segnalazione senza discriminazione (fino a 2-3 mesi): inizialmente i comportamenti sono rivolti a tutti coloro che interagiscono col bambino, il quale non riesca a distinguere la faccia dei propri familiari. 2. Orientamento e segnalazione con discriminazione (fino a 5-6): comportamenti orientati esclusivamente verso la madre, finalizzati a conseguire l’attaccamento. In questa fase la responsabilità del rapporto madre-figlio viene ascritta principalmente alla madre, perché il bambino è ancor incapace di attuare comportamenti esecutivi/attivi. 3. Mantenimento della prossimità mediante segnalazione ed esecuzione (fino ai 2 anni): cresce il numero di comportamenti esecutivi accanto a quelli di orientamento e di segnalazione, che mirano a mantenere la distanza prefissata dalla madre (avvicinamento, arrampicamento, esplorazione) 4. Formazione di una relazione reciproca (dai 2 anni in poi): il bambino diventa capace di calibrare i propri comportamenti in modo da mantenere l’attaccamento con la madre e le distanze prefissate. Egli è inoltre in grado di attuare comportamenti che mirano a modificare quelli della madre. In questa fase la responsabilità del comportamento di attaccamento ricade maggiormente sul bambino e i ruoli tendono ad invertirsi. La versione completa della teoria dell’attaccamento viene esposta da Bowlby nei volumi intitolati Attachment and loss (1969 e 1973), in cui il gruppo primario e indipendenti dei comportanti che era stato inizialmente individuato diventa un sistema comportamentale complesso. Le situazioni in cui si trova il bambino ogni giorno sono molto varie (ad es. valutare la propria incolumità, valutare il tempo necessario per avere la disponibilità della figura di riferimento, valutare quanto questa sia disposta a prestargli attenzione e cura) e in ognuna di esse i suoi comportamenti non partono da zero, ma si riconducono ad esperienze precedenti. In questo modo, interagendo con l’esterno, il bambino costituisce degli Internal Working Model sempre più elaborati. Tramite questi modelli il bambino può valutare le conseguenze dei propri comportamenti e decidere quali attuare. Essi si arricchiscono in seguito alle esperienze vissute e hanno numerose funzionalità (rappresentare il mondo esterno, evidenziare le possibili azioni, selezionare le più efficaci o plausibili, raccogliere risultati, prevedere sviluppi futuri). La nozione di modello operativo di Bowlby è molto simile agli schemi/strutture di pensiero introdotte da Piaget. Nel report Maternal Care and Mental Health (1952) Bowlby elabora inoltre la tesi sulla deprivazione materna, secondo cui la mancanza in età infantile della figura materna possa avere degli effetti a lungo termine sulla salute mentale e sullo sviluppo della personalità di un bambino. Gli studi che supportano tale tesi si suddividono in tre tipologie: studi di osservazione diretta, studi di retrospettiva e studi di follow-up. Tali studi evidenziano che si possono generare due diverse situazioni di deprivazione: una parziale (quando il bambino vive in casa con sua madre, che però non è in grado di fornirgli le cure e l’amore di cui ha bisogno oppure quando il bambino viene allontanato dalla madre ma viene preso in cura da qualcun altro, a cui riesce a legarsi parzialmente) e una totale (quando il bambino non ha alcuna persona che si prenda cura di lui). La deprivazione totale può causare effetti sia a lungo sia a breve termine. Nel primo caso si evidenziano i seguenti effetti: ritardo nello sviluppo neuromuscolare, ritardo nello sviluppo del linguaggio, delle abilità intellettive ed evidenti difficoltà relazionali e sociali; nel secondo caso: capacità di instaurare solo relazioni superficiali, incapacità di provare sentimenti e avere cura delle persone, volontà di rendersi inaccessibili, incapacità di farsi coinvolgere emotivamente, incapacità di concentrarsi sugli impegni, propensione a ingannare gli altri e adottare comportamenti violenti. Applicando la teoria di Freud ai suoi studi, Bowlby afferma che l’Io e il Super- Io dei bambini che hanno vissuto esperienze di deprivazione materna si sono sviluppati poco rispetto alla media degli altri bambini e il loro comportamento è in parte ancora controllato dall’Es. Mary D. S. Ainsworth (1913-1999): sviluppa gli studi di Bowlby, concentrandosi in particolare sulla Strange Situation, ovvero la situazione sperimentale a cui la psicologa attribuisce un valore evolutivo notevole. A partire dall’esperimento dei bambini nella stanza, Ainsworth distingue tre diversi tipi di comportamento: di attaccamento (ricerca del contatto, mantenimento del contatto, contatto da evitare, resistenza al contatto); di ricerca (della madre quando non è nella stanza); di esplorazione (muoversi nella stanza o concentrarsi su un giocattolo). Tra i gruppi individuati nell’esperimento vengono valutati tali comportamenti e in base a tali valutazioni i bambini vengono distinti in tre gruppi: - Gruppo A: bambini insicuri ed evitanti che mostrano una scarsa tendenza a ricercare l’interazione con la madre e con altre figure estranee. Non entrano in stato d’ansia quando restano soli. - Gruppo B: bambini sicuri, che mostrano un chiaro desiderio di essere in contatto e interagire con la madre, che quando è assente viene ricercata attivamente. Con gli estranei tali bambini possono relazionarsi o evitarli e quando si separano dalla madre entrano in stato d’ansia. - Gruppo C: bambini insicuri e ambivalenti, che mostrano un comportamento disadattivo, consistente cioè nell’incapacità di percepire la madre come un porto sicuro da cui esplorare il mondo circostante. Subiscono lo stress della separazione ma al ritorno della madre mostrano un comportamento ambivalente. (Le mamme del gruppo B di solito hanno risposto alle richieste di interazione e di prossimità dei bambini durante il primo anno di vita, mentre quelle del gruppo A e C non sempre hanno risposto alle richieste o lo hanno fato in modo inappropriato e superficiale). Nel 1990 le studiose Main e Salomon hanno identificato un quarto gruppo, in base alle osservazioni fatte nella Strange Situation, denominato Gruppo D: bambini disorientati e/o disorganizzati, che non mostrano una strategia coerente per affrontare lo stress dovuto al distacco ed esibiscono comportamenti contraddittori (questi bambini possono aver subito maltrattamenti dai genitori, i quali a loro volta hanno vissuto esperienze di separazione durante l’infanzia). Lawrence Kohlber (1927-1987): partendo dal modello evolutivo biologico-cognitivo di Piaget, lo psicologo ha formulato una teoria dello sviluppo morale dell’individuo attraverso stadi successivi, in particolare nelle opere Moral Development: a Review of the Theory (1977) e Development as the Aim of Education (1972). Secondo lo psicologo lo sviluppo morale di una persona si verifica in base alle trasformazioni delle forme di pensiero, pertanto una persona si evolve moralmente quando cambia la sua struttura di pensiero. Per tale ragione, lo studio dell’interazione sociale va effettuato alla luce dello sviluppo di strutture di giudizio morale universali e non relative alle singole culture. A partire da tali considerazioni, Kohlber sviluppa una teoria evolutiva della moralità, in cui ogni stadio possiede alcune caratteristiche fondamentali: rappresenta un sistema organizzato alla cui base vi sono delle strutture; gli stadi sono qualitativamente diversi e formano una sequenza invariante e universale (si susseguono allo stesso modo in ogni individuo e per ciascuna cultura si consideri); gli stadi sono integrati gerarchicamente (il successivo comprende il precedente). Kohlber intraprende due tipologie di studi: di carattere trasversale (più soggetti della stessa età anagrafica) e longitudinale (stesso soggetto studiato più volte in un arco di tempo lungo). Lo strumento alla base della ricerca è un insieme di dilemmi morali, ad CAP. 3 LE COMPETENZE PSICO-PEDAGOGICHE Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento si diffondono in Europa e negli Stati Uniti le cosiddette new schools, che pongono particolare attenzione all’istruzione di tipo scientifico, allo studio della lingua e all’esperienza diretta sulla realtà (mediante attività stimolanti per gli alunni). Nelle nuove scuole, gli alunni non sono più intesi come ascoltatori passivi e acritici degli insegnamenti dei docenti, ma come coloro che sperimentano e apprendono in prima persona. Per tale motivo, il pedagogista Bovet ha utilizzato l’espressione scuole attive per riferirsi alle scuole nuove. Tale definizione è stata poi diffusa dal pedagogista Adolphe Ferrière, che in occasione del Primo congresso sull’Educazione Nuova (1921) ha delineato i principi fondamentali che regolano l’azione educativa nelle scuole nuove: - Puerocentrismo: il bambino deve essere posto al centro del processo educativo, in un ruolo attivo. - L’azione educativa deve assecondare e tener conto delle varie attitudini/bisogni/interessi che caratterizzano il discente, oltre che della fase di sviluppo in cui si trova. - L’azione educativa deve favorire la cooperazione tra gli alunni (attraverso le attività manuali, l’esperienza diretta e il gioco) e la coeducazione (presenza di entrambi i sessi). - Il docente deve predisporre un ambiente efficace, in quanto esso rappresenta un elemento fondamentale del processo di apprendimento. - Rinuncia dell’autorità da parte del docente e limitazione degli interventi, al fine di lasciare gli alunni liberi di esprimersi appieno. - Attività di tipo intellettuale impostate su un percorso progressivo (contro l’apprendimento mnemonico). - Insegnamento del vivere civile ed educazione alla cittadinanza attraverso la creazione di rapporti sociali tra gli alunni, cui vengono affidati compiti specifici e responsabilità personali. John Dewey (1859-1952): è il maggior esponente dell’attivismo. Nell’opera iniziale Il mio credo pedagogico (1897), Dewey declina in cinque articoli fondamentali la sua idea di pedagogia all’interno delle scuole nuove: 1. L’educazione è un processo che permette all’individuo di entrare gradualmente in contatto con le grandi risorse intellettuali e morali dell’umanità ed è costituito da due aspetti fondamentali: psicologico (permette di determinare bisogni/interessi e potenzialità dei discenti) e sociologico (condizioni sociali influenzano le attitudini degli alunni). 2. La scuola è una comunità in cui tutti i mezzi sono destinati a rendere il discente capace di partecipare attivamente alla vita sociale e di contribuite al suo progresso. 3. I contenuti dell’educazione delle varie discipline sono mediati e fusi attraverso le attività sociali del discente. 4. Il metodo educativo deve tenere conto della natura del discente (attiva e impulsiva). 5. Il progresso sociale è garantito innanzitutto dalla scuola e dalla sua azione educativa. Nell’opera Scuola e società (1899), Dewey delinea inoltre le caratteristiche della scuola attiva nella società democratica, partendo dalla sua esperienza nella scuola-laboratorio annessa all’università di Chicago: la scuola deve contribuire alla crescita sociale, partendo dai bisogni/impulsi/interessi degli alunni, che devono essere canalizzati in attività educative. Il contesto scolastico deve riprodurre quello di una piccola comunità, nella quale sperimentare le dinamiche della vita sociale. Alla base dell’attività vi è dunque l’esperienza, realizzata mediante un’azione pratica, in cui il lavoro riveste infatti un ruolo fondamentale: oltre a trasmette agli alunni conoscenze tecniche e competenze sociali, esso li induce a riflettere sui risvolti storici/geografici e sugli aspetti scientifici di quell’attività. Il saggio Democrazia ed educazione (1916) è considerato uno dei più significativi dell’autore, il quale ritiene che la democrazia non sia solo una forma di governo ma un modo di intendere la vita individuale e sociale, basato sul diritto di ciascuno di esprimersi al meglio e realizzarsi secondo le proprie attitudini. Uno degli elementi costituitivi della società democratica è la comunicazione, che consente agli individui di scambiarsi esperienze e moltiplicare le proprie conoscenze (pertanto è una forma di educazione). La scuola funge dunque da ponte tra la famiglia e la società e l’azione educativa non rappresenta pertanto solo un fenomeno individuale, ma un fenomeno collettivo tramite il quale la società stessa progredisce. In questa stessa opera, in linea con quanto sostenuto precedentemente, Dewey conia l’espressione learning by doing, con cui si intende un apprendimento attivo e concreto, che sviluppa la creatività e la motivazione, non finalizzato al mero superamento dei test scolastici: più in generale esso aiuta lo studente nella vita reale. Infine, nel saggio Esperienza ed educazione (1938), Dewey risponde alle critiche che vengono rivolte alle scuole attive e alla centralità dell’esperienza, una risposta che permette all’autore di riorganizzare ed approfondire il concetto stesso di esperienza. Nella parte iniziale, vengono individuati due tipi di scuole: le scuole tradizionali (programmi statici e immutabili, lontani dall’esperienza, approccio didattico caratterizzato da un’impostazione teorica, verticale, autoritaria e standardizzata per ogni alunno, il quale risulta passivo rispetto all’apprendimento) e le scuole nuove/attive (educazione progressiva che segue lo sviluppo cognitivo di ciascuno studente e prende avvio dall’esperienza, ovvero dallo studio scientifico di una situazione reale, in cui l’alunno apprende in modo attivo e libero). Dewey ammette che non tutte le esperienze sono formative e che l’obiettivo dell’azione educativa non deve essere quello di accumulare esperienze, ma di proporne di realmente significative, che siano cioè in grado di aprire a nuove conoscenze, motivando gli interessi e rispondendo ai bisogni degli alunni. Le esperienze positive si conformano a una serie di principi: - principio di continuità (le esperienze devono attingere da quelle precedenti e fungere da presupposto per le successive); - principio di crescita (l’esperienza ha un valore educativo se accresce le abilità e le conoscenze del dicente, permettendogli di interagire in modo più efficace con il mondo); - principio di interazione (le esperienze sono il frutto di fattori esterni/oggettivi, legati all’ambiente, e fattori interni/soggettivi, legati al discente). Il compito dell’educatore, pertanto, consiste nella conciliazione della motivazione degli allievi con la necessità si svolgere esperienze oggettivamente significative. Skinner: nell’articolo The science of learning and the art of teaching (1954) e nel volume The technology of teaching (1968), lo psicologo traccia gli obbiettivi dell’apprendimento, indicando innanzitutto che esso deve essere rivolto a concetti semplici e basilari. In seguito tali concetti devono essere appresi in procedure più complesse, che permettono di risolvere situazioni problematiche, attraverso una tecnica fondamentale: il rinforzo (che sostituisce la sanzione). Esso serve a promuovere atteggiamenti di motivazione allo studio ed è importante il modo in cui viene fornito (perde la sua efficacia se giunge molto dopo il comportamento). Un altro aspetto fondamentale dell’apprendimento è la strutturazione del programma, che deve condurre gli studenti a raggiungere determinati obiettivi (uguali per tutti benché organizzati in percorsi flessibili che rispettano le esigenze dei singoli studenti) in modo progressivo e secondo una sequenzialità rigorosa e scientifica. Tuttavia Skinner si rende conto che per quanto possa essere efficace, un percorso di formazione programmata è anche difficilmente attuabile e per questo motivo ricorre all’idea di moderne tecnologie informatiche che permettono di risolvere le varie problematiche: si tratta delle cosiddette macchine per insegnare, che possono essere programmate con molteplici obiettivi e sono altresì capaci di organizzare le domande in sequenze di apprendimento. In seguito le macchine per insegnare hanno trovato la loro maggiore espressione nei software CBT (allenamento basato sul computer)e CAI (istruzione assistita dal computer). Benjamin S. Bloom (1913-1999): teorico della procedura di apprendimento Mastery Learning (Apprendimento per padronanza), mirata a condurre il maggior numero possibile di studenti (90%) verso la padronanza della disciplina che viene loro insegnata e, dunque, verso il successo scolastico. Nell’articolo Learning of Mastery (1968), vengono indicati alcuni obiettivi primari dell’insegnamento: innanzitutto esso non deve essere impostato sulla selezione degli studenti migliori ma sullo sviluppo dei talenti della maggioranza. Le riflessioni di Bloom partono dall’osservazione di due problematiche specifiche legate ai processi di apprendimento e valutazione: 1. I docenti tendono a valutare il successo/fallimento degli studenti in base al confronto con il gruppo di apprendimento e non con uno standard generale e oggettivo; 2. Curva graussiana: i docenti si aspettano che solo una piccola parte di studenti riesca a raggiungere risultati di apprendimento eccellenti e in questo modo, partendo cioè da una curva normale di attitudine per arrivare a una curva normale di risultati, essi hanno adottato un processo di istruzione per nulla incisivo, limitatosi a traslare le attitudini già preesistenti verso un risultato finale (si tratta di una scelta politica). A partire da queste osservazioni Bloom individua una serie di variabili dell’apprendimento: - l’attitudine è definita come l’ammontare di tempo richiesto dallo studente per raggiungere la padronanza di un apprendimento. Pertanto, secondo Bloom, tale risultato può essere raggiunto da qualsiasi studente, a condizione che gli venga concesso il tempo necessario all’apprendimento. Di conseguenza, un problema fondamentale che si pone alla base di una strategia di Mastery Learning consiste nel ridurre la quantità di tempo, che deve essere un tempo ragionevole, richiesta dallo studente più lento per apprendere in maniera soddisfacente (attraverso ambiente appropriato ed esperienze di apprendimento efficaci). Da tale condizioni deriva che - la qualità dell’istruzione si esprime in termini di livello con il quale la presentazione, la spiegazione e l’organizzazione degli elementi di apprendimento si avvicinano alla condizione ottimale per uno studente. D’altro canto, - l’abilità nel comprendere l’istruzione può essere definita come l’abilità di un apprendente di comprendere la natura del compito assegnato e le procedure che deve svolgere per assolverlo. La qualità dell’istruzione dipende dunque in gran parte dalle scelte didattiche (alcuni esempi di - metodologie didattiche efficaci sono i gruppi di studio, la figura del tutor, l’affiancamento di altri volumi ai libri di testo, l’utilizzo di quaderni di lavoro, schede esercitative, software di istruzione, programmata, materiale audiovisivo e giochi educativi) compiute dall’insegnante per migliorare l’abilità di comprensione del discente. - La perseveranza è invece intesa come il tempo che il discente è disposto a spendere per apprendere un determinato argomento e costituisce un parametro cruciale (perseveranza inferiore all’attitudine impedirà allo studente di raggiungere la padronanza dell’apprendimento). - Il tempo a disposizione è l’ultima variabile individuata da Bloom e consiste nel tempo che il docente deve considerare quando progetta un percorso di istruzione, necessario a presentare e spiegare alcuni contenuti, includendo anche il tempo necessario agli alunni per la comprensione. Secondo Bloom, una strategia di Mastery Learning mira a due obiettivi fondamentali: 1. Definire le metodologie e gli strumenti per ridurre il tempo che serve ad ogni alunno per apprendere (ambito dell’istruzione/didattica9; 2. Definire le modalità per determinare il tempo necessario ad ogni alunno per apprendere (ambito organizzativo dei curricoli). Tale strategia si compone di tre passaggi fondamentali: - Le precondizioni: docenti e studenti devono avere perfettamente chiari i criteri di valutazione (sommativa), che sono sostanzialmente differenti dai processi di insegnamento/apprendimento. Un criterio valutativo efficace si basa sul raggiungimento di uno standard realistico ed assoluto (dunque non sulla competizione tra compagni di classe), pertanto un problema di tale strategia consiste nel definire tale standard a livello regionale, nazionale o di singola istruzione formativa. - Le procedure operative: frammentazione del corso di studi delle varie discipline in piccole unità di apprendimento, al termine delle quali vi deve essere un processo diagnostico chiamato valutazione formativa (parte integrante del processo di insegnamento-apprendimento). L’esito di tale valutazione non deve essere una votazione, ma deve limitarsi ad indicare se sia stata raggiunta o meno la padronanza e in Nell’opera Toward a Theory of Instruction (1966), Bruner presenta in modo completo la sua teoria dell’istruzione, che si differenzia dalla teoria dell’apprendimento. La prima infatti è di tipo prescrittivo/normativo (stabilisce criteri e condizioni di carattere generale) e ha l’obiettivo di conseguire particolari finalità in modo ottimale; la seconda invece è di tipo descrittivo e si occupa di descrivere cosa avviene quando a luogo l’apprendimento o quando esso è terminato. Le caratteristiche della teoria dell’istruzione di Bruner sono le seguenti: - La predisposizione: in quanto fatto sociale, l’apprendimento è fortemente dipendente da due principali fatto di socialità, quali il rapporto con il docente e quello con i compagni. Il primo è asimmetrico ed è pertanto importante regolare continuamente il livello di autorità e autorevolezza. Il secondo rapporto richiede delle abilità sociali necessarie al processo di istruzione (autocontrollo, rispetto delle regole, interazione), che dipendono a loro volta da innumerevoli fattori, come la classe sociale, il sesso, il gruppo etnico. Tutte queste varabili devono essere considerate nella determinazione del processo di istruzione, che deve seguire tre fasi: l’attivazione (punto di partenza dell’esplorazione con un certo livello di incertezza per stimolare la curiosità), il mantenimento (modalità di procedere nell’esplorazione delle alternative possibili, mostrando che i benefici dell’apprendimento siano superiore ai rischi di una ricerca dispersiva) e la direzione (mantenere fisso l’obiettivo, evitando di procedere in modo sconnesso) - La struttura: bisogna individuare, per ogni campo della conoscenza, un insieme di proposizioni fondamentali da cui poter derivare l’intera conoscenza di quel campo, definendo così la sua struttura. Essa deve possedere una serie di caratteristiche: potere di semplificare la diversità dell’informazione all’interno del campo (economia della struttura); capacità di generare nuove proposizioni, per andare oltre l’informazione data (produttività della struttura); capacità di rendere più manipolabile e accessibile quel campo (potenza della struttura). La struttura di una disciplina non è statica, non solo perché il sapere si aggiorna mediante la ricerca, ma soprattutto perché essa è correlata alle condizioni e alle caratteristiche dell’apprendente, dunque la sua età e il suo sviluppo cognitivo. A questo proposito, Bruner ha identificato tre tipi di rappresentazioni che aiutano a impostare il percorso istruttivo in base al livello cognitivo raggiunto dall’alunno: esecutiva (fatta di gesti e azioni), iconica (immagini, disegni) e simbolica (formule, linguaggio). - La sequenza: in che modo, con che ritmo e con quale successione si devono presentare i concetti. Bisogna innanzitutto determinare da quale punto di partenza muoversi (gli alunni devono entrare in confidenza con le nuove situazioni), fase in cui risulta essenziale presentare delle analogie/differenze tra le cose sperimentate, e solo in un secondo momento occorre aggiungere una simbolizzazione. Questa fase deve essere raggiunta solo quando le condizioni dell’alunno lo consentono e non risulta pertanto utile partire direttamente con una rappresentazione simbolica. - La conseguenza: gestione delle ricompense e punizioni, che si pongono su un piano diverso rispetto a quello del successo o del fallimento. Ad esempio, un successo deve essere certamente premiato, ma anche un approccio intuitivo ed originale, caratterizzato da un errore “intelligente”, può essere premiato. Nell’articolo The act of discovery (1961), Bruner presenta il concetto fondamentale di apprendimento per scoperta, termine con il quale si intende una qualsiasi modalità di ottenere conoscenza per se stessi, mediante l’uso della propria mente, trasformando quanto risulta evidente dall’esperienza visibile. In questo senso, in ambito scolastico, tale modalità di apprendimento può favorire negli alunni lo sviluppo di un modo di pensare autonomo, che potrà permettere loro di continuare ad apprendere nella vita. per realizzare questo tipo di apprendimento, Bruner identifica due tipologie di approccio all’insegnamento: 1. l’insegnamento espositivo, nel quale l’insegnante espone dei concetti e possiede la libertà (maggiore dello studente, che si limita ad ascoltare) di organizzare i contenuti che vuole presentare, di scegliere i termini e le strutture linguistiche che ritiene più opportune; 2. l’insegnamento ipotetico, in cui docente e studente sono posti sullo stesso piano collaborativo, poiché lo studente prende parte alla formazione dei contenuti e valuta criticamente le informazioni che riceve (si chiede “cosa succede se invece…” e in questo modo favorisce l’apprendimento per scoperta). Alla luce di ciò, Bruner individua una serie di elementi essenziali per impostare un tale tipo di apprendimento: innanzitutto, lo studente deve essere messo di fronte a situazioni nelle quali avverte che vi sono delle regolarità o relazioni di causa-effetto, in cui dovrà essere stimolato a trovare una strategia di ricerca efficace, che si muove da un piano più generico ad uno sempre più specifico, raccogliendo informazioni connesse con le precedenti (esperimento delle venti domande: modalità di costruire una conoscenza cumulata). In secondo luogo, l’apprendimento per scoperta deve promuovere la ricompensa intrinseca rispetto a quella estrinseca, che in questo contesto consisterà nell’informazione acquisita mediante la scoperta e più in generale nella padronanza di tale ricerca. Inoltre, il campo di ricerca dell’alunno e la prospettiva di scoperta vanno codificati con attenzione dal docente: a differenza del percorso algoritmico, quello euristico è costituito da tentativi ed ipotesi, ragion per cui in questo contesto svolge un ruolo fondamentale la capacità di problem solving (di risolvere problemi nuovi piuttosto che applicare metodi conosciuti a situazioni già codificate). Infine, un ultimo aspetto pregnante è rappresentato dall’uso della memoria, in quanto l’apprendimento per scoperta favorisce quella che secondo Bruner è l’operazione più difficile da attuare, ovvero recuperare (più che semplicemente conservare) le informazioni già immagazzinate. Il concetto di problem solving viene poi ripreso da Bruner nell’articolo The role of tutoring in problem solving (1976), in cui esso viene collegato al concetto di scaffolding (impalcatura). In questo contesto la figura chiave è rappresentata dal tutor, un adulto che affianca il soggetto apprendente nell’apprendimento e nella scoperta: egli prevede che le abilità inferiori possedute in partenza dallo studente vengano combinate per raggiungere un’abilità superiore, mediante la risoluzione di un problema più o meno complesso. In tal senso il tutor funge da impalcatura per far salire lo studente e offre allo studente l’aiuto necessario a compiere un processo di crescita verso abilità superiori alle sue possibilità, che non sarebbe stato quindi capace di raggiungere da solo (somiglianza con il concetto di zona di sviluppo prossimale). Un aspetto chiave di tale processo consiste nel fatto che la comprensione di un compito o di un problema precede sempre la sua risoluzione, innanzitutto perché, se ciò non avviene, del problema non si possono usare feedback durante i passaggi risolutivi per correggere azioni/deduzioni errate e in secondo luogo perché una comprensione di partenza conduce anche ad una maggiore valorizzazione del risultato ottenuto. In questo passaggio dalla comprensione del problema alla sua risoluzione, si introducono il tutor e lo scaffolding, elementi che vengono analizzati da Bruner in un esperimento con bambini di 3,4 e 5 anni, da cui l’autore trae infine alcuni aspetti fondamentali: - la definizione di un problema stimolante; - la riduzione del grado di difficoltà del problema per renderlo accessibile all’apprendente; - il mantenimento dell’interesse e dell’attenzione durante lo svolgimento; - il prendere nota degli aspetti critici e delle discrepanze tra aspettative e risultati; - gestione della motivazione del bambino (non per compiacere il tutor); - dimostrazione pratica deve avvenire quando lo studente è abbastanza maturo per comprenderla. Von Glasersfeld: nell’articolo Cognition, Construction of Knowledge and Teaching (1988), l’autore analizza le implicazioni del costruttivismo nel campo dell’educazione, mettendo in luce una serie di aspetti essenziali: il primo consiste nella distinzione tra addestramento e apprendimento, che rappresentano rispettivamente uno strumento utilitaristico (cosa è utile saper fare) e uno strumento epistemologico (cosa è importante conoscere). Per questo motivo, i curricoli risultano coerenti ed efficaci se i compiti di addestramento (raggiungere un certo livello di performance nell’uso di un’abilità specifica) vengono separati dai compiti di apprendimento (comprendere concetti adatti a risolvere problemi). Un altro punto di criticità è legato al linguaggio scritto e parlato: non sempre la conoscenza viene trasmessa in modo efficace attraverso la spiegazione verbale (perché gli apprendenti non riescono a mettere in relazione i concetti nuovi con quelli precedentemente appresi), ragione per cui è importante organizzare la conoscenza in una rete di relazione e significati. In terzo luogo, l’insegnante deve mettere gli studenti di fronte ad elementi che possano perturbare le loro strutture cognitive, attraverso soprattutto la creazione di gruppi di apprendimento o di studio, seguendo le loro attività con un monitoraggio costante ma discreto. Infine, von Glasersfeld afferma che occorre lavorare in due direzioni per garantire la motivazione degli studenti: nell’ambito dell’addestramento essa non è difficile da creare in quanto lo studente riconosce subito l’utilità di ciò che sta imparando, mentre per quanto riguarda l’ambito epistemologico, lo studente deve percepire il vantaggio di padroneggiare modelli concettuali con un vasto ambito di applicazione. Von Foerster: nel saggio Perception of the future and the of perception (1971), l’autore analizza alcune criticità del pensiero moderno fino a raggiungere il loro riflesso sul sistema di istruzione. Secondo von Foerster tali criticità si generano principalmente dalla confusione dei significati delle parole e dal progressivo processo di assopimento dell’intelligenza e della creatività dello studente. Innanzitutto, infatti, moli tendono a confondere un processo, ovvero una serie di azioni coordinate, con un prodotto, ossia un bene. Ad esempio, le parole informazione e conoscenza definiscono ormai dei prodotti e non vengono più considerate come dei processi, mentre a suo avviso l’informazione è il processo mediante il quale si acquisisce la conoscenza e questa a sua volta è il processo che integra le esperienze passati e presenti con l’obiettivo di formulare nuove attività (interne, come il pensiero e i desideri, o esterne, come il linguaggio e il movimento). La conoscenza in quanto processo conoscitivo coinvolge pertanto gli alunni in prima persona e tutto ciò che si ritiene racchiuda la conoscenza (libri, film, lezioni) in realtà costituisce solamente un mezzo attraverso il quale metterla in atto. Allo stesso modo, il linguaggio ha smesso di essere il mezzo per esprimere le nostre percezioni ed esperienze per diventare il mezzo tramite il quale acquisire strutture e idee confezionate da altri. Il sistema di istruzione stesso sembra inibire le potenzialità comunicative del linguaggio e le attività cognitive ad esse legate, a causa principalmente dei due pilastri fondamentali che sono stati posti alla base dell’insegnamento: da un lato l’asserto secondo cui le regole osservate in passato si devono applicare anche in futuro, dall’altro il principio di causa efficiente, secondo cui esiste un rapporto diretto tra causa ed effetto che esclude ulteriori implicazioni (come la causa finale). Secondo von Foester tali circostanze hanno condotto al problema della banalizzazione del processo di insegnamento-apprendimento, a proposito del quale lo psicologo distingue tra macchina banale e macchina non banale, laddove per macchina si può intendere un’entità astratta che a partire da un input (informazioni, stimoli), dopo una fase di elaborazione, produce un output (risposte, effetti). Il primo tipo di macchina è caratterizzata da una relazione uno-a-uno tra l’input e l’output, ragion per cui essa può essere definita un sistema deterministico, per il quale esistono delle regole di comportamento stabili che, dato un certo stimolo, permettono di stabilire una sola risposta. Per questo motivo tale macchina rappresenta un sistema prevedibile. Il secondo tipo di macchina è caratterizzato da una relazione diversa, per cui allo stimolo A essa non risponde sempre B, ma la sua risposta è il frutto delle risposte precedenti. Anche queste macchine sono sistemi deterministici ma gli stati interni che ne regolano il comportamento sono analizzabili solo quando osservati esternamente, ragion per cui esse non sono prevedibili e quindi difficilmente utilizzabili nella pratica. A questo punto, von Foester afferma che la natura sia caratterizzata perlopiù da comportamenti non banali, da cui l’uomo tenta però di estrapolare andamenti regolari che gli permettono di trarre dei vantaggi: tali processi di banalizzazione, tuttavia, non sempre si rivelano utile, al contrario risultano particolarmente nocivi quando si applicano ad esempio al sistema di istruzione. Esso ostacola l’imprevedibilità degli studenti, inducendoli a fornire risposte attese e prevedibili alle domande (esempi dei test di valutazione). Proprio questo fattore, a cui l’autore attribuisce il nome di domande illegittime (di cui si conosce già la risposta), rappresenta il problema principale del sistema di istruzione. Le domande illeggittime infatti non aggiungono al sapere complessivo dell’umanità e si limitano a tramandare un sapere passato. Il focus dell’istruzione dovrebbe invece spostarsi sulle domande leggittime (di cui non si conosce la risposta o non si è in grado di sapere se ne esista una), che pongono lo studente in un atteggiamento, stimolando la sua creatività. Alla luce di tali premesse, von Foester conclude, in linea con la visione educativa costruttivista, che il sistema di istruzione dovrebbe basarsi su una serie di asserti fondamentali: 1. L’educazione non è né un diritto né un privilegio, ma una necessità; 2. L’educazione consiste nell’imparare a formulare domande legittime; 3. A sta meglio quando B sta meglio (dunque l’apprendimento deve avvenire in una comunità di pasi, secondo una prospettiva collaborativa e non competitiva). Edgar Morin (1921) : le convinzioni pedagogiche del sociologo Morin sono legate alla sua visione globale della realtà attuale, alla complessità dei problemi e delle relazioni che si stabiliscono tra ambiente, uomo, cultura ed l’eventuale convergenza verso l’alternativa corretta alla luce del confronto; 3. Thinking-aloud pair problem solving TAPPS (risoluzione di problemi a coppie pensando ad alta voce): si propone un’attività divisa in due parti e si chiede agli studenti di cominciare a risolvere la prima organizzando a coppie, in cui uno studente svolgerà il ruolo di explainer e un altro quello di questioner (il primo cerca di trovare una soluzione al problema partendo dalle domande poste dal secondo); si chiede poi di esporre la soluzione prevista e in seguito si invertono i ruoli della coppia sulla seconda parte dell’attività. Sono stati poi individuati dei limiti a tali metodologie didattiche, che sembrano non essere in grado di sviluppare a pieno l’interazione tra studenti (si limita a coppie, spesso formate da compagni di banco), la lezione frontale (resta dominante e l’apprendimento attivo si limita a brevi interruzioni) e il ruolo del docente (si limita a raccogliere i risultati delle attività senza riuscire a seguirle da vicino). Tali osservazioni hanno condotto ulteriormente allo sviluppo di questo gruppo di metodologie, dando vita, tra le varie didattiche, al cosiddetto Apprendimento tra pari (più precisamente, apprendimento con l’assistenza di individui di pari stato). In termini generali, esso si riferisce all’acquisizione di conoscenze e abilità attraverso l’aiuto attivo e il supporto instaurato tra individui di pari stato o tra compagni. Più specificamente, Topping ha suddiviso questa tipologia di apprendimento in due ampie categorie: 1 . l’apprendimento cooperativo (Cooperative learning), basato sull’interdipendenza positiva che si instaura in un gruppo di studenti che lavorano in sinergia verso un obiettivo comune, e 2. il tutoraggio tra pari (Peer tutoring), fondato su una specifica divisione di ruoli tra gli studenti, di cui uno svolge il ruolo del tutor e l’altro quello del tutee. 2. La figura del tutor, strettamente connessa al sistema didattico/educativo, è diversa da quella del mentore (figura esperta che fornisce un supporto in termini psico-sociali e si risvolge soprattutto a gruppi svantaggiati di individui, suggerendo loro percorsi di carriera professionale) e da quella del coach (figura che motiva la persona che assiste facendo emergere tutte le abilità e le competenze che possiede ma che risultano assopite). Nonostante la recente diffusione nel sistema scolastico, il tutoraggio tra pari rappresenta in realtà una pratica educativa molto antica: in passato, tuttavia, si riteneva che all’interno della coppia tra pari, il ruolo di tutor dovesse essere affidato agli studenti migliori, mentre quello di tutee agli studenti con maggiori ed evidenti difficoltà di apprendimento. In questo senso, il tutor diventa un surrogato del docente e si sostituisce a quest’ultimo nella pratica trasmissiva del sapere, per questo motivo, anche se rappresenta un metodo efficace, il tutoraggio tra pari presenta alcune importanti criticità (ad es. il forte dislivello di abilità tra studenti rischia di creare disinteresse a mancanza di motivazione nel tutor, che potrebbe coinvolgere a catena anche lo studente apprendente e comportare, di conseguenza, l’assenza di una crescita cognitiva). Secondo Topping, per ovviare a tali problematicità, è necessario che le capacità del tutor siano di poco superiori a quelle dello studente da aiutare, in modo che entrambi possano trovare la motivazione adatta ad affrontare la sfida proposta (il senso di sfida stimola il turor e di conseguenza anche il tutee). La pratica del tutoraggio rappresenta inoltre un’esperienza fondamentale a livello comunicativo: entrando in una relazione di fiducia, i due studenti imparano ad aprirsi l’un l’altro mostrando i punti di debolezza con maggiore facilità e promuovendo così un più rapido percorso di correzione e apprendimento. Negli ultimi anni, infine, l’idea stessa di una differenza di abilità tra i due studenti è stata messa in discussione, ritenendo che nella relazione di peer-tutoring siano l’interazione e la cooperazione che si instaurano tra i due allievi a favorire l’apprendimento (e non dunque il dislivello di abilità). A partire da questa osservazione, si sono poi sviluppate anche metodi di tutoraggio in cui, dopo un certo periodo di attività, gli studenti si scambiano i ruoli. Esistono diverse tipologie di tutoraggio tra pari: - Apprendimento tra pari di età diverse: la differenza marcata di età (almeno 3 anni) fa in modo che questa relazione riproduca in un certo senso quella tra docente/esperto e studente/principiante e non a caso è la più diffusa nelle istituzioni scolastiche. Questa modalità di tutoraggio può essere efficace anche per gli studenti disabili, facendo guadagnare loro autostima e fiducia nello svolgimento del ruolo di tutor. - Apprendimento tra pari della stessa età: gli studenti appartengono alla stessa classe ed hanno dunque una lieve differenza di età (massimo 2 anni). Tra loro si possono praticare diverse modalità di tutoraggio, ad esempio quello tra studenti con livello diverso e ruoli fissi o quello con scambio di ruoli e studenti di pari o diverso livello. Queste ultime due configurazioni aprono la strada ad un nuovo modello di tutoraggio, chiamato reciproco. - Apprendimento tra pari reciproco: ha le potenzialità di estendere i vantaggi ad entrambi gli studenti, evitando che il turo assuma un ruolo autoritario o che lo studente aiutano inizi ad essere dipendente dal tutor. Questa modalità prevede una forte strutturazione dei materiali e delle attività. - Apprendimento tra pari diffuso nell’intera classe: il docente divide la class in coppie di studenti, ciascuna costituita da un tutor e da un tutee. Tra le diverse varianti di questa metodologia, una delle più interessanti prevede l’istituzione di un torneo tra le varie coppie, svolto un paio di volte a settimana per tempi brevi. Le coppie nell’arco del tempo possono cambiare e invertire i ruoli. Un caso specifico di apprendimento tra pari diffuso nell’intera classe, inoltre, è denominato strategie di apprendimento con l’assistenza di pari, in cui vengono create coppie di studenti, che si alternano nei ruoli di tutor e tutee, con abilità di livello simile e a ciascuna coppia vengono assegnati materiali o obiettivi personalizzati. 1. L’apprendimento cooperativo, secondo Smith e Mac Gregor, si fonda su una serie di assunti di base: - l’apprendimento è un processo attivo e costruttivo (nuove informazioni si integrano con le conoscenze pregresse); - l’apprendimento è favorito da un contesto stimolante (ad esempio, è più interessante iniziare un’attività di apprendimento con un problema da sottoporre agli studenti); - ciascun alunno è diverso dagli altri (per background socio-culturale, per esperienze, per aspirazioni e attitudini, per stile di apprendimento: nel confronto con gli altri studenti, sia l’insegnante sia lo stesso studente riescono a rendersi conto maggiormente delle proprie caratteristiche); - l’apprendimento è un fatto sociale, emotivo e soggettivo. L’apprendimento collaborativo si può declinare in diverse tipologie, a seconda della variazione di alcuni parametri di base, come il numero degli studenti per ogni gruppo, i tempi di lavoro, il carattere omogeneo o eterogeneo del gruppo, il modo in cui si svolgono le attività (modo strutturato o spontaneo) e infine il compito da svolgere (ad esempio realizzare un prodotto o analizzare un processo). I principali metodi di apprendimento che derivano da tali parametri sono l’apprendimento cooperativo e l’insegnamento induttivo. Apprendimento cooperativo. Per tracciare la definizione di tale metodo, Slavin analizza tre diverse strutture incentivanti, che si possono utilizzare in ambito scolastico per favorire l’apprendimento: la struttura cooperativa (gli individui vengono premiate per il lavoro svolto in gruppo), la struttura competitiva (gli individui vengono paragonati tra loro e solo quelli che ottengono le prestazioni migliori vengono premiati) e la struttura individualistica (gli individui vengono premiati in base alla loro presentazione, senza un confronto diretto con quelle altrui). Nell’apprendimento cooperativo, l’acquisizione di competenze interpersonali è importante almeno quanto l’apprendimento stesso di concetti e idee, senza riuscire a maturare abilità sociali e relazionali infatti gli studenti non sarebbero in grado di lavorare in gruppo. I fratelli David e Robert Johnson hanno studiato sistematicamente i risultati di apprendimento sviluppati con la cooperazione di individui ed hanno messo in evidenza cinque caratteristiche essenziali che rendono un apprendimento cooperativo migliore di quello individuale: 1. Interdipendenza positiva: tale aspetto si ottiene quando ciascun membro di un gruppo percepisce di essere legato agli altri e che, di conseguenza, il suo successo può avvenire solo se anche gli altri lo ottengono e viceversa. Per questo motivo, ogni membro del gruppo è indotto a lavorare perché tutti gli altri apprendano, si supportino vicendevolmente e condividano le risorse. Per realizzare quest’aspetto, è necessario strutturare le attività di apprendimento in modo tale che vi siano degli obiettivi di muto apprendimento, che vi sia una ricompensa comune (la valutazione deve tenere conto in minima parte della prestazione dei singoli e in massima parte del lavoro di gruppo), che vi sia una suddivisione delle risorse (a ciascun membro deve essere fornita solo una parte dell’informazione complessiva) e infine che vi siano dei ruoli complementari (ognuno deve svolgere il proprio ruolo, di cui è responsabile, al meglio). Sulla base delle osservazioni effettuate in quest’ambito, i fratelli Johnson hanno dedotto che l’interdipendenza positiva e il lavoro di gruppo aiutano gli studenti a sviluppare la propria identità in tutta la sua complessità: identità individuale (individuo con caratteristiche uniche e irripetibili), sociale (ogni individuo è parte di una società, che determina il suo background culturale, storico ed etnico) e sovraordinata (ogni individuo è connesso a tutti gli altri membri della società). 2. Responsabilità individuali: la valutazione doppia (del lavoro del singolo e del lavoro complessivo del gruppo) permette agli studenti di assumere consapevolezza della propria responsabilità all’interno del gruppo, evitando di cullarsi sul lavo degli altri. 3. Interazioni faccia a faccia: a questo punto diventa necessario il confronto tra i membri del gruppo, che può avvenire in vari modi (spiegazione, discussione, trasmissione dei contenuti appresi). 4. Abilità sociali: necessità di maturare abilità utili alla buona riuscita del lavoro, come la leadership, il processo decisionale, la fiducia, la comunicazione e la gestione dei conflitti. Abilità ancora più specifiche dell’apprendimento cooperativo sono definiti abilità cooperative, quali: abilità del formare (organizzazione del gruppo in vista del lavoro da svolgere), abilità del funzionare (funzionamento del gruppo durante lo svolgimento del compito), abilità del formulare (andare oltre la semplice esecuzione del compito, permettendo una comprensione più profonda e un pieno controllo sull’apprendimento 5. Elaborazioni di gruppo: in questa fase finale i componenti del gruppo analizzano gli aspetti che stanno funzionando o hanno funzionato e quelli che invece sono stati deficitari, così da aiutare il gruppo a migliorare la propria azione e permettere a ciascun membro di avere un feedback sul proprio lavoro. Esistono molteplici tipologie di apprendimento cooperativo, che gli studiosi hanno individuato e distinto sulla base di uno o più criteri. Slavin, ad esempio, ha realizzato una prima suddivisione sulla base di due variabili: - la struttura dell’incentivo, che può essere un premio di gruppo per apprendimento individuale (il risultato del gruppo viene fissato dai risultati dei singoli componenti) o per un prodotto di gruppo (il risultato è determinato dal lavoro complessivo), oppure un premio individuale (il gruppo non ottiene nessuna ricompensa); - la struttura del compito, suddivisa in specializzazione del compito (ciascun membro è responsabile di un compito specifico) e studio di gruppo (tutti partecipano a tutte le attività). Dalla combinazione di tali parametri, Slavin ha derivato sei metodologie di apprendimento cooperativo: 1. Student Teams-Achievement Divisions (STAD): gli studenti sono riuniti in gruppi di quattro, i team sono eterogenei sia per livello degli studenti sia per background socio-culturale. Dopo la spiegazione dell’insegnante, gli studenti lavorano in squadra per assicurarsi che tutti abbiano appreso gli argomenti spiegati e alla fine ciascun studente sostiene un test individuale. I voti di ognuno vengono sommati a formare il punteggio totale del team. 2. Teams-Games-Tournament (TGT): è una metodologia molto simile alla precedente, l’unica differenza consiste nel fatto che al termine del percorso di apprendimento gli studenti partecipano a un gioco o a un torneo. 3. Team Assisted Individualization: inizialmente viene somministrato un placement test ad ogni studente, in modo da stabilire il suo livello di conoscenze e abilità. In seguito vengono formati dei team eterogenei composti da quattro studenti, a ciascuno dei quali vengono assegnati contenuti e compiti conformi al livello inizialmente individuato. Al termine del lavoro di gruppo, in cui gli studenti si sono aiutati reciprocamente, viene sottoposto a ciascuno un test individuali e i voti dei singoli vengono sommati a formare il punteggio totale del team. 4. Jigsaw e Jigsaw II: gli studenti vengono suddivisi in gruppi di 6 e il docente prepara del materiale didattico suddiviso in 6 parti interdipendenti, per cui ciascuno studente apprende la sezione di contenuti che gli è stata assegnata. In seguito si formano i gruppi di esperti, composti da studenti provenienti dai diversi gruppi che hanno ricevuto la stessa sezione di contenuti, la quale viene discussa nel gruppo, permettendo lo scambio e l’accrescimento delle informazioni. Successivamente si ricostituiscono i gruppi originali e ciascuno studenti dovrà presentare i propri contenuti in modo Secondo Brown e Palincsar, nell’insegnamento reciproco vengono attivati dei processi meta-cognitivi attraverso lo svolgimento di quattro fondamentali attività: 1. Riassumente: lo studente è in grado di cogliere i punti salienti di quello che ha letto e di elaborare il filo logico che lega le informazioni presenti nel testo. 2. Fare domande: lo studente si pone delle domande durante la lettura di un testo e in questo modo chiarisce ulteriormente le proprie idee, riuscendo a mettere in connessione informazioni apparentemente contrastanti e a collegare le informazioni acquisite agli apprendimenti precedenti. 3. Chiarire: nel momento in cui durante un’attività sorgono difficoltà di comprensione generale, l’intervento di altri componenti del gruppo o del docente può facilitare il chiarimento e innescare forme di interazione che favoriscono i processi di comprensione. 4. Predire: questa attività conclusiva è volta a indicare una possibile evoluzione di quanto è stato letto, mettendo in relazione la comprensione del testo con conoscenze pregresse o con intuizioni logiche. Nel reciprocal teaching le quattro attività previste non vengono svolte sempre secondo un ordine preciso, quello che invece viene codificato da Brown e Palincsar è il modo in cui interagiranno i partecipanti. La procedura base prevede l’interazione tra un docente e un alunno con scarsa abilità di lettura: uno dei due svolgerà il ruolo dell’insegnate e, dopo che ognuno avrà letto autonomamente il brano, l’insegnante scelto avrà il compito di mettere in atto le quattro attività sopra elencate. Nella lettura del passo seguente, i ruoli vengono poi invertiti. Successivamente, sono state proposte diverse varianti di questa metodologia, che l’hanno resa più simile a un apprendimento cooperativo (tra queste, va ricordata la versione di Donna Dyer, nella quale gli studenti vengono suddivisi in gruppi di quattro e a ciascuno viene consegnato un cartellino che indica il compito da svolgere). Secondo Brown e Palincsar, con la presenza di tutti questi requisiti la classe di studenti può diventare una vera e propria comunità di apprendenti (Community of Learnes), in cui ciascuno studente diventa responsabile in prima persona del proprio percorso di apprendimento e, al contempo, diventa una risorsa per tutti gli altri. CAPITOLO 5. LA PROGETTAZIONE DEL CURRICOLO La riforma costituzionale del 2001 ha introdotto nell’ordinamento scolastico italiano il principio di sussidiarietà, che ha mutato il sistema delle autonomie territoriali, dando maggiore rilievo all’autonomia scolastica. Con questa riforma si è inoltre prodotto il passaggio dai Programmi (prescrizioni ministeriali sui contenuti e sulle metodologie dell’insegnamento) alle Indicazioni. Prima di affrontare il discorso sui curricoli, è necessario distinguere tre concetti fondamentali: 1. Conoscenza: corpo di informazioni, dunque possesso di dati di fatto, nozioni e idee acquisiti co lo studio, l’osservazione e l’esperienza; 2. Abilità : uso appropriato, consapevole ed efficace delle proprie conoscenze, dunque capacità di mettere in pratica quanto si conosce per risolvere un compito semplice e standardizzato; 3. Competenza: per svolgere un compito/richiesta articolata e complessa è necessario ricorrere, oltre alle conoscenze e alle abilità, anche alle attitudini, alle motivazioni, alle emozioni e alle relazioni sociali. Quando questi fattori si combinano con le conoscenze e le abilità si generano le competenze (l’acquisizione delle competenze è un processo lento che percorre l’interro arco della vita e implica dunque che esse non corrispondono a qualità innante o ereditate geneticamente ma possono essere acquisite da tutti) FORME DI INTELLIGENZA H. Gardner (1943): ha sostituito la vecchia concezione di intelligenza come fattore unitario, misurabile mediante il QI con una visione più dinamica e complessa, cosiddetta delle intelligenze multiple. Inizialmente lo psicologo ha distinto sette diverse tipologie di intelligenza, ognuna deputata a differenti campi dell’attività umana: 1. Intelligenza logico-matematica, 2. Intelligenza linguistico-verbale, 3. Intelligenza spaziale, 4. Intelligenza musicale, 5. Intelligenza cinestetica, 6. Intelligenza interpersonale, 7. Intelligenza intrapersonale; a cui ha aggiunto successivamente due ulteriori tipologie: 8. Intelligenza naturalistica, 9. Intelligenza esistenziale. Nel testo Cinque chiavi per il futuro, Gardner sostiene inoltre che i giovani dispongano di cinque canali strategici per affrontare la vita: intelligenza disciplinare (legata ai saperi teoretici), sintetica (abilità di raccordare informazioni provenienti da diverse fonti mediatiche), creativa (soluzioni originali per problemi inediti), rispettosa (rapporto con l’alterità) ed etica (stare al mondo in modo consapevole). Secondo lo psicologo dunque, le complesse difficoltà che il nostro tempo ci presenta richiedono lo sviluppo di abilità specifiche per il futuro, caratterizzate da attività mentali differenziate in cui le intelligenze operano sinergicamente. Per questo motivo, l’insegnamento dovrebbe essere articolare in campi di esperienza, così da stimolare adeguatamente le diverse funzioni della mente. D. Goleman (1946): è celebre per aver rielaborato il concetto di intelligenza emotiva (definita per la prima volta nel 1990 dagli studiosi Salovey e Mayer) definendola come la capacità di motivare sé stessi, di persistere nel perseguire un obiettivo nonostante le frustrazioni, di controllare gli impulsi, di modulare i propri stati d’animo evitando che la sofferenza ci impedisca di pensare e di essere empatici. Alla luce degli studi di Gardner, Goleman evidenzia i limiti della definizione di intelligenza sulla base del QI e descrive l’intelligenza emotiva distinguendo tra competenze personali (comprendere i differenti aspetti della vita emozionale) e competenze sociali (comprensione degli altri e relazione con essi). Egli ha inoltre individuato cinque caratteristiche basilari dell’intelligenza emotiva, quali: 1. Consapevolezza di sé, 2. Dominio di sé, 3. Motivazione, 4. Empatia, 5. Abilità sociale. TEORIE DELLO SVILUPPO EMOTIVO L. A. Sroufe: principale esponente della teoria della differenziazione emotiva, secondo la quale l’individuo possiede fin dalla nascita un corredo emotivo indifferenziato e le emozioni si differenziano con lo sviluppo. Nel testo Lo sviluppo delle emozioni, Sroufe delinea in otto stadi le fasi di sviluppo delle emozioni, passando da una eccitazione indifferenziata ad una differenziazione delle emozioni: 1. Primo stadio : il bambino, grazie ad un meccanismo di difesa, è invulnerabile agli stimoli esterni (compaiono solo degli elementi precursori delle emozioni, come il sorriso nel sonno e il pianto) 2. Secondo stadio (fino a 3 mesi): il bambino diventa sensibile alle stimolazioni, a cui risponde con un repertorio di meccanismi pre-programmati 3. Terzo stadio (da 3 a 6 mesi): inizia il sorriso sociale e compare la prima distinzione tra mondo interno ed esterno, a partire dalla quale si può affermare che cominci una vita emotiva a tutti gli effetti (piacere, disappunto, rabbia sono emozioni con contenuto cognitivo) 4. Quarto stadio (da 7 a 9 mesi): prima differenziazione delle emozioni (rabbia, gioia, paura) 5. Quinto stadio (da 9 a 12 mesi): periodo dell’attaccamento, il bambino stabilisce rapporti profondi con le persone che si prendono cura di lui e l’espressione delle emozioni diventa raffinata 6. Sesto stadio (da 12 a 18 mesi): stadio della sperimentazione, in cui il bambino comincia ad esplorare l’ambiente e sperimentare la separazione (coesiste con il bisogno di attaccamento) 7. Settimo stadio (da 18 a 36 mesi): dalla tensione tra attaccamento e separazione ha origine lo sviluppo della coscienza del Sé e delle corrispondenti emozioni, come l’affetto per se stessi o la vergogna 8. Ottavo stadio (da 3 a 5 anni): cominciano le espressioni di emozioni complesse e il bambino diventa capace di comprendere le conseguenze delle proprie azioni e inizia così a modularle e nasconderle. C.E. Izard: ha elaborato una teoria differenziale con presupposti simili a quelli di Sroufe, ovvero la tesi secondo cui il bambino possiede dalla nascita un corredo emotivo costituito da emozioni fondamentali quali la rabbia, la tristezza, la gioia e il disprezzo. Per Izard dunque l’emozione è un’organizzazione innata che concorre a motivare un comportamento e solo secondariamente essa viene influenzata dall’esperienza e dall’apprendimento. I principi fondamentali della teoria di Izard sono i seguenti: l’esperienza soggettiva e l’espressione facciale di ciascuna emozione manifestano proprietà permanenti fin dalla loro comparsa; il processo emotivo è funzione del sistema nervoso centrale, mentre il sistema autonomo ha un ruolo ausiliario; le emozioni compaiono secondo un programma maturativo innato, in quanto funzionali all’adattamento; le emozioni si combinano in configurazioni complesse. Izard pone dunque lo sviluppo emotivo in una forte studenti; 2. Dimensione Prossimità: caratterizzata dall’asse Opposizione-Cooperazione, che indica il livello di vicinanza e di cooperazione che il docente e gli studenti mostrano durante le attività didattiche/educative. Dal punto di vista grafico, il modello viene rappresentato mediante due assi che si intersecano perpendicolarmente e una circonferenza, centrata nell’intersezione dei due assi, suddivisa in 8 settori circolari (rientra nei modelli circonflessi). Gli otto settori individuano otto settori interpersonali, ognuno dei quali indica un aspetto comportamentale specifico del docente e sono indicati con un nome che sintetizza il comportamento del docente e una sigla composta di due lettere (indicano i semiassi del settore: la prima lettera indica l’elemento prevalente e la seconda l’elemento secondario). Ne risultano dunque 8 stili comportamentali (leadership DC, aiutante CD, comprensivo, CS, permissivo SC, incerto SO, insoddisfatto OS, ammonitore OD, rigoroso DO), che si compongono in modo differente e vanno così a determinare il profilo interpersonale del singolo docente. Nel modello MITB lo strumento utilizzato per determinare il profilo interpersonale del docente è detto Questionnaire on Teacher Interaction (QTI) e viene solitamente sottoposto agli studenti ma può essere proposto anche al docente per determinare il modo in cui si autogiudica. Il questionario è composto da 77 osservazioni, suddivise tra gli 8 settori interpersonali del modello, a cui il soggetto deve fornire un livello di adesione su una scala che va da 1 a 5. Alla fine, il profilo interpersonale del docente, come percepito dalla sua classe, è descritto da un insieme di 8 valori medi. Tra i vari studi realizzati mediante il Questionario sull’interazione del docente, uno dei più rilevanti è rappresentato dalla ricerca fondata sulla tecnica denominata Cluster Analysis, che ha permesso di mettere a confronto i profili interpersonali di docenti ricavati dai questionari somministrati a un numero elevato di classi per riconoscere i profili simili e raggrupparli. Tale analisi ha infatti evidenziato che esistono otto diversi profili interpersonali ricorrenti tra i docenti, definibili anche come modelli comportamentali: Direttivo, Autorevole e Tollerante/Autorevole (sono quelli che ottengono i risultati migliori sotto il profilo cognitivo e affettivo), Tollerante, Incerto/Tollerante, Incerto/aggressivo (presenta maggiori criticità), Repressivo, Stressato. IL CONCETTO DI FLUSSO E LA MOTIVAZIONE DEGLI STUDENTI La motivazione si distingue in motivazione intrinseca e motivazione estrinseca: la prima si presenta quando l’attività viene percepita come stimolante e gratificante di per sé, a prescindere da quanto possa essere desiderabile l’obiettivo finale da raggiungere (ricompensa intrinseca lo svolgimento dell’attività consiste esso stesso in una ricompensa/gratificazione per l’individuo); la seconda si presenta quando le motivazioni dello svolgimento del compito nascono principalmente dall’obiettivo e dal risultato che si raggiungerà al termine (ricompensa estrinseca dipende dagli altri, da un premio o remunerazione che gli altri possono offrirci per il compito svolto). In ambito scolastico, si parla di motivazione estrinseca quando lo studente si impegna nell’apprendimento di una materia per avere una lode dal docente, per essere premiato o ottenere la promozione e dunque non è detto che in questo caso lo studente percepisca la materia come interessante e stimolante di per sé. Nel 1960 lo psicologo ungherese Csikszentmihalyi si è dedicato allo studio dell’attività svolta dagli artisti, arrivando a definire il concetto di attività autotelica, ossia di attività intrinsecamente motivante (gli artisti perdono rapidamente interesse per quello che stavano facendo quando l’opera è conclusa). Negli anni successivi lo psicologo estende i suoi studi ad altri contesti, che comprendono soggetti che svolgo attività intrinsecamente motivanti (hobby o giochi) e soggetti che svolgo attività con una ricompensa estrinseca (alta remunerazione o prestigio sociale). A partire da tali studi viene elaborato il concetto di Stato di Flusso o Esperienza di Flusso, che viene determinato da due condizioni principali: 1. Il soggetto percepisce il compito o l’attività come una sfida (che sia realmente affrontabile, dunque non troppo al di sotto né troppo al di sopra delle sue abilità) e 2. Il compito deve essere caratterizzato da obiettivi tangibili (chiaramente avvertibili e concretamente raggiungibili, seguiti da un apposito feedback che mantenga alto il senso della sfida e il suo interesse). L’esperienza di flusso permette la maturazione di abilità e competenze, dunque favorisce l’apprendimento e lo sviluppo dell’individuo (dopo aver vissuto un’esperienza di flusso, l’individuo che vuole riprovarla dovrà impegnarsi in un’attività più complessa della precedente e così via). I primi studi sperimentali sul flusso vengono svolti da Csikszentmihalyi con l’uso dell’intervista qualitativa, con lo scopo di identificare le caratteristiche del flusso e darne così una definizione generale. Successiva, nel 1988, lo psicologo ha messo a punto uno strumento efficace, che ha riscosso notevole successo tra gli studiosi, per la misura delle esperienze di flusso, ovvero il Questionario di flusso, articolato in 5 parti/sezioni. Altri strumenti per la misura del flusso sono: la Scala di flusso e il Metodo del campionamento dell’esperienza (metodo più esaustivo). I vari strumenti adoperati per descrivere l’esperienza di flusso hanno portato all’elaborazione di modelli vai via più completi: il primo modello grafico è stato realizzato da Csikszentmihalyi ed è costituito da un piano cartesiano in cui gli assi riportano il livello di abilità del soggetto e il livello di sfida dell’attività che svolge. Il grafico mostra due aree triangolari, contraddistinte dalle diciture Noia (che si verifica quando il livello di abilità è alto mentre quello di sfida è basso) e Ansia (si verifica quando il livello di abilità è basso e quello di sfida è alto). Tra le due aree si crea una fascia diagonale contrassegnata dalla dicitura Flusso (il livello di abilità è prossimo a quello di sfida). Questo modello presenta tuttavia dei limiti evidenti (l’esperienza di flusso ad esempio è data dal semplice bilanciamento dei due livelli), che vengono superati da studi successivi effettuati da Csikszentmihalyi e LeFevre: viene rivelato che affinché si verifichi una esperienza di flusso, oltre alla prima condizione del bilanciamento, è necessario che si verifichi una seconda condizione, ovvero l’opportunità di agire e le abilità da mettere in campo devono essere sopra media sperimentata dall’individuo nella sua vita quotidiana. Da tali studi sono stati quindi realizzati nuovi modelli sempre più precisi ed esaurienti: il Modello a quadranti, che presenta oltre alle zone di Ansia e di Noia anche la zona di Apatia, e infine il Modello d Fluttuazione dell’Esperienza, a 8 ottanti (apatia, noia, rilassamento, controllo, flusso, attivazione, ansia, preoccupazione) che riduce la superfice occupata dallo Stato di Flusso (maggiore corrispondenza con la frequenza dello stato nella vita reale). Dalle osservazioni fin qui esposte si deduce quindi che il concetto di flusso e di motivazione intrinseca sono collegate tra loro e poiché la seconda è a sua volta connessa allo sviluppo della capacità di apprendere in modo autodiretto, si può affermare che, in ambito scolastico, uno studente che vive esperienze di flusso ed è motivato intrinsecamente può sviluppare una propensione ad indirizzare il proprio apprendimento. L’apprendimento di attività risulta infatti autodiretto dalla volontà di provare esperienze di flusso, dopo averne già sperimentate una o più. In generale, dunque, vi sono diversi elementi che dimostrano il legame tra la frequenza con cui gli studenti provano esperienze di flusso e la loro capacità di auto-dirigere l’apprendimento, di trovare motivazioni intrinseche e di guadagnare maggiore autostima. Inoltre, l’aumento delle esperienze di flusso, sia in termini di frequenza che di intensità, è collegato allo svolgimento di particolari attività di apprendimento, come l’apprendimento cooperativo e il tutoraggio tra pari, mentre risultano meno favorevoli le attività di studio passive. CO-TEACHING Un aspetto fondamentale della professione del docente è il lavoro da svolgere insieme ad altri membri della comunità scolastica. Oltre agli impegni formali previsti dal contratto di lavoro, quali la partecipazione alle attività collegiali, esistono inoltre diverse modalità di interazione tra i docenti, che contribuiscono alla crescita professionale dei singoli coinvolti. In particolare, si tratta di attività di insegnamento collaborativo, denominato co-teaching, e la costituzione di una comunità pratica finalizzata al miglioramento dell’azione didattica. Le studiose Cook e Friend hanno individuato quattro componenti chiave che definiscono il co-teaching, quali la presenza di due educatori, l’insegnamento di concetti significativi, la presenza di gruppi di studenti con BES distinti e un insieme di impostazioni comuni nella pratica didattica. In questa definizione specifica, il co- teaching viene inteso come pratica educativa mirata all’inclusione, ossia alla gestione di studenti con difficoltà di apprendimento all’interno del gruppo classe. In seguito, il co-teaching ha assunto un significato più generale ed è stato utilizzato per finalità diverse, tra cui: fornire istruzione congiuntamente a un gruppo eterogeneo di studenti, a un gruppo di studenti stranieri o a un gruppo di studenti di talento e infine come un approccio alternativo e sperimentale di insegnamento, al fine di promuovere la personalizzazione dell’apprendimento. Le studiose Cook e Friend hanno infine realizzato una classificazione esaustiva e dettagliata delle tipologie di co- teaching: 1. Un docente insegna, l’altro osserva (l’osservazione è finalizzata a raccogliere dati comportamentali o sociali tramite appositi moduli, al fine di mettere in evidenza i comportamenti desiderabili e quelli da evitare, nonché quelli riconducibili a delle criticità della didattica); 2. Insegnamento a stazione (gli insegnanti seguono a rotazione i gruppi di studenti organizzati in isole di banchi, guidando il lavoro degli alunni e se necessario intervenendo per chiarire degli aspetti); 3. Insegnamento in parallelo (gli insegnanti svolgono la stessa lezione in parallelo dividendo la classe in due gruppi, se eterogenei lo scopo è di aumentare il coinvolgimento degli alunni, se omogenei l’obiettivo è promuovere la personalizzazione dell’apprendimento); 4. Insegnamento alternativo (un insegnante lavora con il gruppo più numeroso presentando i contenuti della lezione, l’altro compie interventi specifici con il gruppo meno numero, come attività di recupero, potenziamento, verifiche); 5. Team-teaching (i due insegnanti lavorano in sinergia durante lo svolgimento della lezione, alternandosi nella presentazione di aspetti specifici e proponendo due approcci diversi o due distinte procedure risolutive o infine una lezione-dibattito); 6. Uno insegna, l’altro assiste (un docente fa lezione alla classe, mentre l’altro circola tra gli studenti e offre assistenza individuale in caso di difficoltà). Per introdurre il co-teaching nella pratica scolastica è necessario percorrere alcune tappe: 1. Preparazione preliminare: si tratta di sensibilizzare tutte le componenti scolastiche e successivamente includere la metodologia didattica nel PTOF, che deve essere approvato dal Consiglio di Istituto; 2 Pianificazione: occorre stabilire quali classi verranno coinvolte nel progetto, quali sono i contenuti, le abilità e le competenze che si vogliono far maturare e quale metodologia specifica di co-teaching verrà presa in considerazione, bisogna inoltre occuparsi dell’aspetto logistico e organizzativo; 3. Preparazione e attività didattica: è necessario stabilire riunioni periodiche in cui preparare le attività da svolgere in classe, che si alterneranno alla fase della preparazione, durante le attività occorre fare attenzione ad alcuni aspetti, tra cui la comunicazione; 5. Monitoraggio; 6. Valutazione: valutazione degli studenti, che devono essere consapevoli dei parametri utilizzati, e valutazione del progetto mediante questionari da somministrare agli alunni. LA COMUNTÀ PRATICA Il concetto di comunità pratica è stato introdotto dallo studioso Wenger verso la fine degli anni ’90, per indicare un gruppo di persone che condividono un impegno o una persona per qualcosa di cui si occupano attivamente. Si tratta principalmente di un luogo di apprendimento, caratterizzato da tre aspetti: 1. Il mutuo impegno (possibilità di interazioni tra i componenti: è necessario creare le occasioni, gli strumenti e le modalità); 2. L’impresa comune (l’obiettivo finale che la comunità si prefigge di raggiungere e il compito che viole svolgere); 3. Il repertorio condiviso (insieme di aspetti e conoscenze che fungono da collante). CAP. 8 STILI DI APPRENDIMENTO E STILI DI INSEGNAMENTO Dall’inizio degli anni ’70, numerosi studiosi hanno postulato l’esistenza di molteplici stili di apprendimento degli studenti, la cui conoscenza è estremamente utile al fine di modulare al meglio le strategie e le metodologie didattiche da adottare. Sono stati così elaborati diversi modelli teorici, che hanno poi trovato riscontro in analisi sperimentali e vengono utilizzati oggi per diverse finalità: accrescere la consapevolezza dello studente circa le modalità di apprendimento che risultano più efficaci per lui; determinare da parte del docente quale sia l’approccio pedagogico più efficace, le metodologie didattiche più conformi al suo stile e le competenze sociali possedute dagli alunni nel contesto classe (strumento diagnostico); investigare le inclinazioni e le predisposizioni degli studenti per una scelta futura più consapevole (strumenti orientativi). Definire gli stili di apprendimento degli alunni è un compito molto difficile, difatti ciascun modello teorico nasce da paradigmi concettuali diversi. In generale, tuttavia, è possibile individuare una serie di fattori chiave che tutte le ricerche sugli stili di apprendimento hanno preso in considerazione nella definizione di un profilo dell’osservazione riflessiva, ma scasa abilità di sperimentazione attiva e dunque incapacità di progettare delle azioni che possano verificare le riflessioni e le idee astratte); stile meridionale (spiccato senso della concettualizzazione astratta ma carenza nell’esperienza concreta, che genera l’incapacità di fruire dell’esperienza, di interagire quindi con gli altri e di gestire i sentimenti); stile occidentale (spiccato senso della sperimentazione attiva ma scarsa abilitò riflessiva, che può causare una incapacità di riflettere in modo lucido e dunque di tornare sulle proprie azioni per correggere gli errori). Nel 2002, infine, Kolb e i suoi collaboratori hanno identificato un ultimo stile di apprendimento, definito stile bilanciato, in cui tutte le abilità sono bilanciate, per cui i soggetti che apprendono con questo stile sono in grado di far funzionare al meglio il ciclo dell’apprendimento. Una seconda fondamentale teoria in questo ambito è stata elaborata dai coniugi Dunn, secondo cui lo stile di apprendimento costituisce il risultato di una serie fattori che incidono sulle modalità e sull’efficacia dell’apprendimento di uno studente. Quando tali fattori assumono una certa configurazione, ovvero un insieme di valori specifici, allora l’apprendimento viene favorito, ragion per cui è questo specifico insieme di valori ad identificare lo stile di apprendimento. Nella versione definitiva della teoria, risalente al 2005, i fattori individuati dai due studiosi sono stati raggruppati in 5 ambiti: 1. Ambientale (suono, luce, temperatura, design), 2. Emotivo (motivazione, persistenza, responsabilità, struttura), 3. Sociologico (da solo/con i pari, autorità, varietà), 4. Fisiologico (percezioni dei cinque sensi, assunzione, periodo del giorno, mobilità), 5. Psicologico (elaborazione globale/analitica, modalità di azione riflessivo/impulsivo). I fattori che influenzano lo stile di apprendimento dello studente hanno due diverse origini: biologica (corredo genetico) e evolutiva (sviluppo del soggetto mediante esperienze). Per identificare lo stile di apprendimento di uno studente, i Dunn utilizzano un questionario, al termine del quale è possibile assegnare un valore a ciascun fattore: oscilla tra due valori (ad esempio silenzioso/rumoroso) e presenta 5 livelli tra i due poli opposti. La somministrazione del questionario direttamente allo studente suscita tuttavia una serie di perplessità: in particolare, ci si chiede se lo studente sia in grado di valutare il proprio stile di apprendimento. Tuttavia, dall’analisi dei questionari realizzati durante una ricerca su una vasta gamma di studenti, i coniugi Dunn hanno dedotto che gli studenti sono capaci di individuare i fattori che influenzano in modo critico il loro apprendimento (formulando risposte in modo preciso) e che esistono sempre i presupposti perché un qualsiasi studente possa apprendere, ma bisogna determinare al meglio i fattori che ne influenzano l’apprendimento e organizzare la lezione e lo spazio didattico in modo da favorire lo stile di apprendimento. Un terzo modello è stato elaborato da Neil Fleming, sulla scorta dei fattori percettivi individuati dal modello dei coniugi Dunn e denominato VARK (acronimo di Visual, Aural, Read/write e Kinesthetic). Tale modello ha un’impostazione prevalentemente fisiologica, poiché si basa su caratteristiche biologiche (i sensi), ma la sensazione si lega in modo immediato alla percezione, intesa come processo di elaborazione cognitiva dei segnali provenienti dall’ambiente esterno e recepiti dai sensi. Second Fleming, infatti, la modalità con la quale gli studente recepiscono o trasmettono in modo efficace le informazioni rappresenta il vero parametro critico del loro stile di apprendimento. Dal punto di vista didattico, il modello VARK ha profonde implicazioni, in quanto induce il docente a personalizzare il percorso di apprendimento degli studenti favorendo i canali comunicativi che essi preferiscono. È necessario, dunque, che nella programmazione e azione didattica, il docente ponga particolare attenzione ad alcuni aspetti significativi: impostare la lezione in modo da coinvolgere attivamente tutti gli studenti, realizzare materiali di apprendimento e verifiche personalizzate che possano adattarsi alle diverse caratteristiche degli studenti. Alla luce del modello VARK, emerge che esistono infatti diverse tipologie di apprendenti: Apprendente visivo: impara in modo diretto quando le informazioni vengono presentate in modo visivo, non mediante puri testi, ma attraverso rappresentazioni grafiche, immagine, mappe concettuali, per cui è molto utile organizzare la lezione utilizzando presentazioni con slide, in cui sia possibile magari evidenziare i concetti chiave, organizzare le informazioni in elenchi o diagrammi, oppure fornire dispense riassuntive con schemi. Questi apprendenti vengono facilmente distratti da movimenti o azioni che avvengono in aula ed hanno bisogno di un contatto visivo con il docente che spiega (importanza dei gesti ed espressioni facciali), per cui è utile che occupino i primi banchi dell’aula. Apprendente uditivo: impara in modo efficace mediante l’ascolto, per cui predilige la lezione verbale, caratterizzata da discussioni e confronti e dalla lettura in classe di parti di libri. Si distraggono facilmente in ambienti rumorosi e consolidano invece il proprio apprendimento quando spiegano oralmente dei docenti ad altre persone, motivo per cui sono avvantaggiati nelle prove orali. Hanno una predisposizione all’apprendimento delle lingue straniere e ottime abilità narrative. Apprendente testuale: usano la vista come strumento privilegiato di apprendimento e sono soliti prendere appunti dettagliati durante le lezioni, ma a differenza degli apprendenti visivi preferiscono il testo scritto rispetto a immagini e schemi, motivo per cui la lettura costituisce il processo prediletto di input, mentre la scrittura di output. Apprendente cinestetico: impara soprattutto dall’esperienza concreta e della pratica sul campo, attraverso l’uso dei sensi in modo olistico e integrato. Imparano velocemente abilità di tipo fisico, ma possono apprendere anche materiale di tipo astratto e teorico purché sia presentato loro mediante analogie ed esempi legati alla vita comune. È necessario dunque che il docente limiti le spiegazioni all’idea principale, usando riassunti, parole chiave ed esempi, coinvolga gli studenti in attività pratiche relative ai contenuti da apprendere e intervalli le lezioni con pause frequenti per permettere agli studenti di svolgere brevi attività o confrontarsi con i compagni. Per individuare lo stile di apprendimento degli studenti, Fleming ha poi utilizzato un questionario composto da 13 domande con quattro opzioni di risposta, ciascuna delle quali è legata a uno dei quattro stili di apprendimento. Dalla somministrazione dei questionari lo studioso ha poi messo in evidenza una serie di casi particolari: - preferenza singola: netta prevalenza di uno stile di apprendimento (da 3 risposte in su: preferenza lieve, media o forte), mentre gli altri sono minoritari (può risultare anche inibito, se raccoglie nessuna o solo una preferenza); - preferenza doppia: netta prevalenza di due stili di apprendimento (differiscono di poco tra loro mentre si differenziano dagli altri per un numero di preferenze significativo (studenti multimodali); - preferenza tripla: netta prevalenza di tre stili di apprendimento; - profilo VARK: nessuna netta preferenza (soggetto multimodale per eccellenza), si distingue in due profili VARK-Tipo 1 (riesce ad esaminare la situazione e scegliere il canale che meglio si addice, ad esempio allo stile del docente o alle caratteristiche della materia) e VARK-Tipo 2 (ha bisogno di utilizzare tute le modalità per raggiungere un apprendimento completo, per cui può aver bisogno di maggiore tempo per la comprensione ma una volta acquisita essa risulta completa e approfondita). Per quanto riguarda più specificamente l’ambito delle discipline scientifiche, gli studiosi Felder e Silverman hanno elaborato un ulteriore modello di apprendimento, che prende avvio dalla definizione del processo di apprendimento in due fasi: 1. Ricezione dell’informazione e 2. Elaborazione dell0informazione. A seconda di come uno studente gestisce questi due passi, è possibile poi classificare il suo stile di apprendimento. In particolare, Felder individua 5 dimensioni (poi ridotte a 4: viene eliminata l’organizzazione), ciascuna prevede 2 stili complementari che hanno caratteristiche distinte e alternative, pertanto lo stile si definisce percorrendo le cinque dimensioni e scegliendo in ciascuna di esse lo stile tra i due complementari che più si addice allo studente. Da ciò derivano, in linea teorica, 32 stili di apprendimento. Le dimensioni e i relativi stili di apprendimento individuati da Felder, associabili anche rispettivi stili di insegnamento dei docenti, sono: 1. Dimensione della percezione stile sensoriale o intuitivo: gli studenti con il primo stile memorizzano facilmente informazioni e dati, sono metodici e preferiscono risolvere problemi ben-strutturati, sono precisi e attenti al dettaglio, caratteristiche che li rendono lenti nelle procedure e poco abili nelle rappresentazioni simboliche (lettura o scrittura); gli studenti con il secondo stile preferiscono affrontare problemi incerti e mal-strutturali, trovano stimolante l’apprendimento di concetti nuovi e insoliti, non amano catalogare le informazioni nel dettaglio ma sono spesso approssimativi, caratteristiche che li rendono spesso precipitosi e quindi imprecisi nel formulare le risposte. La dimensione della percezione nell’apprendimento corrisponde a quella dei contenuti in fase di insegnamento: una didattica efficace, rivolta a entrambe le categorie di apprendenti, deve pertanto presentare sia materiale concreto, come esperienze e dati di fatto, sia concetti più astratti, come modelli torici e principi generali. 2. Dimensione dell’input stile visivo o verbale: le caratteristiche di questi stili sono ricavate dal modello VAK (predecessore del modello VARK) elaborato da Fleming e altri. 3. Dimensione dell’organizzazione stile deduttivo o induttivo 4. Dimensione dell’elaborazione stile attivo o riflessivo 5. Dimensione della comprensione stile sequenziale o globale Per valutare gli stili di apprendimento, Felder ha ideato l’ Index of Learning Styles (ILS), un questionario composto da 44 domande (11 per ciascuna delle quattro dimensioni del modello, con due opzioni di risposta che si escludono a vicenda e rappresentano i due stili di ciascuna dimensione)