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Bioetica. Etica del riparare, Dispense di Bioetica

Riassunto completo di "Etica del riparare" di Paolo Bettineschi.

Tipologia: Dispense

2022/2023

Caricato il 10/05/2023

ma.so-6
ma.so-6 🇮🇹

4.7

(9)

9 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Bioetica. Etica del riparare e più Dispense in PDF di Bioetica solo su Docsity! BIOETICA – ETICA DEL RIPARARE -La filosofia delle relazioni oggettuali La teoria generale del rapporto che l’Io intrattiene col mondo si configura come una filosofia delle relazioni oggettuali: filosofia delle relazioni desiderate o indesiderate che l’Io intrattiene con gli oggetti che si presentano come un positivo oppure come un negativo per lui. -La relazione agli altri-Io e al nostro mondo ambiente Fra gli oggetti che compongono il mondo oggettuale rientrano pure gli altri-Io: che sono altri soggetti di pensiero e desiderio, imprescindibili per la sopravvivenza dell’Io. Ogni Io vive all’interno di un mondo-ambiente dal quale strutturalmente dipende; esso può apparire a noi come buono ed accogliente oppure ostile. -Il problema della distruzione e il principio etico della riparazione Il problema della distruzione nasce nel momento in cui l’Io inizia ad avversare ciò da cui essenzialmente dipende. Ciò diventa fonte di un’intensa angoscia e da qui nasce il principio etico della riparazione: riparare è il nome dell'ultimo dovere che a noi si impone, ed è pure il nome che assume la speranza cui ci affidiamo quando capiamo che qualcosa di male si è prodotto direttamente per opera nostra o anche attraverso il nostro appoggio indiretto. DOPO LA DISTRUZIONE -Il desiderio di riparazione e la perdita dell’oggetto buono Dopo la distruzione di qualcosa di buono, ci domandiamo se e come sia possibile rimediare alla perdita di quel bene che in tutto o in parte è stato danneggiato, se non esattamente distrutto. Perché la riparazione abbia luogo dopo la distruzione è indispensabile aver presente il buono della cosa o il buono dell'oggetto che si intende riparare. -Distruzione e finitezza Rimediare alla distruzione significa rimediare al male. Il male viene inteso come una mancanza o un venir meno del bene. Tutto ciò con cui intratteniamo relazioni si presenta come un qualcosa di finito e limitato che inequivocabilmente finisce. -Distruzione e misconoscimento del bene Quando, però, la distruzione delle cose per noi più buone e più importanti non si pone solo per malasorte o per l'intervento di altro rispetto a noi, accade che l'azione distruttiva si riconduce esattamente a noi che pure di essa ci rammarichiamo. La distruzione del bene può aver avuto luogo solo se il bene che è stato oggetto di distruzione non è stato riconosciuto come bene. Il misconoscimento della bontà oggettuale, in questo senso, è la premessa che si pone al fondo dell'intenzionalità distruttiva rivolta contro qualcosa di buono per la soggettività che agisce o contribuisce alla distruzione stessa. -Complessità oggettuale e ambiguità relazionale Spesso le cose ci sono presenti secondo ambiguità: può accadere che uno stesso oggetto sia desiderato positivamente e sia insieme avversato dalla soggettività. Quando un oggetto buono nella sua complessità, risulta essere più avversato che desiderato, succede che l’Io, in quel momento, vede soprattutto gli aspetti negativi da cui deriva l’avversione e la conseguente predisposizione alla distruzione. -L’angoscia radicale verso ciò che è essenzialmente buono Partendo dalla complessità oggettuale che riguarda soprattutto gli oggetti essenzialmente buoni per noi, succede che il negativo che in essi viene avversato, terrorizza a tal punto la soggettività da produrre un accecamento intenzionale che ci fa perdere di vista il positivo e vedere soprattutto il negativo. -L’angoscia radicale come l’angoscia di essere distrutti da quello stesso che ci tiene in vita L’angoscia radicale, che ci spinge alla distruzione di quegli oggetti buoni che ci tengono in vita è l'angoscia di essere a nostra volta distrutti da quegli stessi oggetti. L’ambivalenza di ciò che si presenta come salvatore e insieme come distruttore causa in noi un'angoscia interiore, poiché non siamo più capaci di pensare senza contraddizione il bene ed il male. Per far cessare l'angoscia di distruzione desideriamo eliminare l'oggetto da cui l'angoscia pare derivare, non importandoci del fatto che da quel bene o da quei beni noi dipendiamo per esistere. -L'assolutizzazione indebita della bontà finita di ciò che per noi è essenziale. La risoluzione positiva dell’angoscia relazionale coincide con il riconoscimento della bontà dell'oggetto che prima è stato aggredito e che ora va riparato. Bisogna riconoscere però che il medesimo oggetto finito presenta in sé una serie di aspetti buoni accanto ad alcuni altri aspetti negativi che definiscono i limiti della sua bontà. Perché se un oggetto buono viene indebitamente idealizzato o assolutizzato nella sua bontà dal desiderio soggettivo, quando si scontra con i limiti della sua finitezza, la frustrazione e il risentimento provati, accendono l’avversione nei confronti di quell’oggetto che diventa un assoluto negativo che non presenta più niente di buono e merita solo di essere distrutto. -L'idealizzazione del finito da cui dipendiamo come difesa fallimentare contro l'angoscia di dipendenza. L’assolutizzazione della bontà finita dell’oggetto finito risponde al desiderio di voler dipendere da qualcosa di assolutamente buono che segnerebbe il toglimento di ogni angoscia. Illudersi o sforzarsi di credere che il positivo da cui si dipende essenzialmente sia un positivo senza limiti, in fondo, è un modo per vivere con meno angoscia la propria dipendenza. Quando, però, l'illusione si infrange, e il finito assolutizzato manifesta chiaramente i limiti relativi alla propria bontà, è inevitabile che l'angoscia torni a colpirci con molta più forza e violenza di quanto accadeva all'inizio del processo e allora anche la negatività finita ci sembra essere infinita ed assoluta. -Il riconoscimento dei limiti qualitativi di ciò da cui dipendiamo come condizione della sua riparazione. Riparare dopo la distruzione è possibile se ci rendiamo capaci di distinguere con verità il bene ed il male delle cose con cui abbiamo a che fare. In questo modo diviene davvero possibile comprendere che l'oggetto buono da cui dipendiamo per esistere, nella sua complessità è appunto soprattutto qualcosa di buono per noi, nonostante la sua imperfezione, nonostante i limiti e le mancanze da cui è segnata la sua bontà. ATTRAVERSARE IL MALE -Il senso dell’attraversamento del male. Attraversare il male in cui consiste la distruzione del bene è inevitabile, se il nostro scopo è la riparazione. Il senso dell’attraversare si chiarifica mediante il concetto del passaggio interno e mediante il concetto della fuoriuscita che fa seguito al passaggio all’interno di qualche cosa. Perciò, se viene per davvero attraversato, il male è anche oltrepassato. E ciò che si pone oltre il male oltrepassato è il bene rinnovato. -Farsi carico del male per oltrepassare il male Arrivare a rinnovare il bene dopo avere attraversato il male significa farsi prima carico del male, in qualunque forma esso si manifesti, opponendo ad esso qualcosa di senso contrario. -La fede disperata nell’intrascendibilità del male e la circolarità virtuosa di riparazione e speranza. Il riconoscimento e l'avversione provata nei confronti del male ci predispongono alla restaurazione al rinnovamento del bene. Esercitare e coltivare la speranza nelle nostre capacità riparative significa non smettere di pensare che il mondo con cui siamo fin da sempre in relazione sia qualcosa di positivo nel suo insieme o in maniera prevalente e così anche noi stessi. Se pensassimo infatti che il male sia l'intrascendibile, non solo non avrebbe senso attivarsi ed impegnarsi per la riparazione del bene, ma neppure avrebbe senso attendere passivamente che il mondo migliori da sé. RIPARARE CURANDO L’ALTRO-IO SOFFERENTE. -Il senso generale del curare nella sua relazione al senso generale del riparare. Il senso generale del curare, dell’aver-cura o del prendersi-cura coincide con il preoccuparsi o con il darsi pensiero più o meno angosciosamente di qualcosa o di qualcuno. La cura, così intesa, può essere finalizzata sia al bene che al male della cosa o della persona di cui ci si cura. Cioè ci troviamo ad affermare di curare quello che vale come un bene per noi, e ad affermare di curare quello che vale per noi come un male, con le stesse modalità o secondo lo stesso senso con cui, rispettivamente, affermiamo di riparare il bene, e affermiamo di riparare al male. -La cura dell’altro-Io sofferente come pratica fondamentale del riparare. La cura dell'altro-Io sofferente è una pratica fondamentale del riparare, poiché la nostra speciale infinità intenzionale vive solo nella relazione e per la relazione all'altro-Io. Allora ogni pratica orientata alla restaurazione del benessere dell'altro-Io è una pratica orientata a difendere la relazione che dà fondamento alla nostra stessa esistenza. -La relazione all’altro-Io come relazione costitutiva per l’Io e la caduta della contrapposizione di egoismo e altruismo. Se la relazione che ognuno di noi intrattiene con l'altro-Io è una relazione costitutiva, allora essa ci determina all'egoismo tanto quanto ci determina all'altruismo. Egoismo ed altruismo, cioè, perdono di significato e smettono di contrapporsi. -L’unità del soffrire nella relazione di cura. L'unità del soffrire richiesta dalla relazione di cura dice la vicinanza e la partecipazione esistenziale che devono stringere curante e curato rispetto le sofferenze e gli sforzi posti in campo da entrambe le soggettività per venire a capo della sofferenza. Dal lato dell'altro-Io sofferente, chiede di essere riconosciuto in primo luogo lo sforzo di resistenza alla sofferenza stessa, e poi lo sforzo di accoglimento della cura, e così lo sforzo di comprensione e avvicinamento all'impegno messo in campo dall’Io curante che culmina nella gratitudine provata nei confronti di quest'ultimo. Dal lato dell’Io curante, chiede di essere riconosciuto anzitutto lo sforzo teorico, pratico, tecnico ed emotivo di comprensione, trattamento e di avvicinamento alla sofferenza dell'altro-Io sofferente; e poi chiede di essere riconosciuto anche lo sforzo di riconoscimento e apprezzamento della gratitudine maturata da questo altro-Io sofferente, che a propria volta culmina in un sentimento di gratitudine provata dall’Io curante nei suoi confronti per il riconoscimento e per l'apprezzamento ricevuti a motivo dell'impegno a dimostrato. -La gratitudine nella relazione di cura. La gratitudine che abbiamo ricevuto da altri incentiva ad alimenta il nostro desiderio di agire per il bene altrui. Sapere di aver fatto del bene a qualcuno che prova anche una gratitudine potente ed intensa per quello che gli è stato fatto, è qualcosa che potenzia ed intensifica sempre la capacità e il desiderio di continuare a fare del bene in relazione a ciò che noi possiamo e sappiamo fare. -Il fine principale della cura e la sua regola. L'intenzione che la cura della sofferenza altrui non può tradire o mettere da parte è l'intenzione di operare nell'interesse o per il bene dell'altro-Io a cui essa si rivolge. Il bene dell'altro-Io che viene curato, quindi, non può smettere di stare al centro dell'intenzionalità che dirige l'azione dell’Io curante, ed è per questo che il curare, quanto più si fa complesso, ha tanto più bisogno di seguire non soltanto un metodo relativo alla sua efficacia ma anche una regola relativa al suo esercizio. La regola che il curare si deve dare prescrive allora un tempo ed uno spazio precisi entro i quali il curare può essere esercitato senza deviazioni rispetto a quello che è il suo fine principale. Così, l’Io curante si trova nella condizione di riuscire a rispettare l'impegno di cura che ha deciso di assumere. -La finitizzazione dell’altro-Io sofferente come pervertimento della relazione di cura e dell’intenzionalità riparativa. Si deve osservare che quando si ripara curando l'altro-Io sofferente è necessario non scordare che il benessere che si tratta di rinnovare è il benessere di un altro soggetto di pensiero o desiderio. L'altro-Io, dunque, quando viene da me pensato o compreso, mostra di ripensarmi o di ricomprendermi in un orizzonte della presenza che è altro da quello mio. Se l'opera di cura non riconosce l'infinità intenzionale che identifica l'altro-Io sofferente, per essa diventa inevitabile anche trattare questo altro-Io come qualcosa di meramente finito, alla stregua di uno strumento. Qualora l'essere umano non avesse in sé niente di infinito, infatti, non si dovrebbe onorare una dignità che a lui solo apparterrebbe, che sarebbe superiore alla dignità che compete al resto delle cose finite di cui il mondo si compone. RIPARARE RIGENERANDO E SALVAGUARDANDO IL MONDO-AMBIENTE IN QUANTO MONDO-AMBIENTE NATURALE -Il concetto del mondo-ambiente e la nostra determinatezza individuale. Nella nostra determinata individualità di essenti-pensanti noi siamo costantemente riferiti a quella parte del mondo oggettuale che è il nostro mondo-ambiente. Esso si determina per noi come mondo-ambiente naturale e come mondo-ambiente culturale. Come la relazione agli altri-Io stabilisce la nostra essenziale e trascendentale apertura intenzionale, così la nostra relazione al mondo-ambiente stabilisce la nostra determinatezza individuale. Perché ognuno di noi possa dire senza equivoco “io” e possa pensare in prima persona è indispensabile che entrambe le relazioni siano concretamente mantenute e salvaguardate. -Il concetto della natura, la sua precedenza e il suo rapporto con la cultura. La riparazione del mondo-ambiente nel suo insieme deve cominciare dalla riparazione che si rivolge al mondo-ambiente naturale, perché la natura stessa, determinandoci, precede la cultura che, in senso assoluto, è invece un costrutto umano. Le due dimensioni certamente sono sempre intrecciate per noi perché siamo degli essenti naturalmente culturali. -L'indipendenza sorgiva della natura rispetto al nostro desiderio e la nostra ambivalenza verso di essa. La natura da principio ci determina senza tenere necessariamente conto del nostro desiderio e quindi agendo indipendentemente da esso. Questa libertà che la natura manifesta di poterci distruggere senza chiedere permesso è ciò che determina il nostro rapporto ambivalente verso di essa. E l'angoscia che proviamo per la distruzione che la natura liberamente può riservarci è ciò che alimenta la nostra volontà di distruggerla nonostante la nostra essenziale dipendenza da essa. -La potenza angosciante della natura nel politeismo antico, nell’ateismo moderno e contemporaneo e nelle religioni abramitiche. Politeismo antico ed ateismo moderno e contemporaneo, rimangono esposti ai desideri distruttivi rivolti al mondo-ambiente naturale e dettati dall'angoscia e dall'ambivalenza, in misura maggiore di quanto a questi desideri distruttivi si trovino esposte invece le regioni abramitiche con la fede che da queste religioni viene espressa. -La paradossale lotta distruttiva contro il nostro mondo-ambiente. Non riuscendo a vedere chiaramente cosa risiede nelle sue infinite possibilità generativo- distruttive, la natura rimane per noi qualche cosa da cui dobbiamo anche saperci difendere. Un problema però, sorge quando il mondo-ambiente naturale viene pensato da noi solamente come una potenza nemica che deve essere distrutta. Ogni esito di questa paradossale lotta distruttiva, però, sarà un esito di distruzione dell'umano. -Potenza naturale, potenza tecnica e angoscia umana. La tecnica aiuta l'uomo a ridurre la sua angoscia nei confronti del mondo-ambiente naturale. Grazie alla tecnica noi riusciamo non solo a non farci immediatamente schiacciare dalla natura, ma riusciamo anche a meglio impiegare, a meglio immagazzinare e a meglio riprodurre quelle che sono le sue energie e risorse. L'incremento del nostro potere tecnico di intervento sul mondo ambiente naturale però, è qualcosa che siamo noi a volere e non è detto che si rivolga necessariamente contro il mondo ambiente naturale. Ma è possibile utilizzarlo per ripararlo e per rigenerare e salvaguardare la natura all'interno della quale ci troviamo ad abitare. -Condizioni e modi per una riparazione attiva del mondo-ambiente naturale. La distruzione del nostro mondo-ambiente naturale, a causa della nostra aumentata potenza tecnica, rimane un rischio ed una possibilità che dipende da come il mondo- ambiente viene da noi pensato. Se riteniamo che il mondo-ambiente rappresenti qualcosa di essenzialmente buono per noi, diventa allora importante considerare di intraprendere attivamente un'opera di riparazione. Quest'opera può compiersi riconoscendo ciò che di sbagliato in passato abbiamo potuto fare e potremmo continuare a fare contro la natura; e ciò che di giusto abbiamo fatto e ancora possiamo fare per rigenerare la natura là dove essa è stata distrutta e per salvaguardarla dove essa non può più rischiare di essere ulteriormente danneggiata. -L'ambientalismo depressivo e l'ambientalismo astratto. L'ambientalismo depressivo ritiene che il mondo-ambiente naturale possa essere salvato dalla distruzione a cui è stato sottoposto soltanto attraverso la nostra astensione dal fare pressoché tutto ciò che avrebbe o potrebbe avere un impatto non-naturale sulla natura; mentre secondo la logica dell'ambientalismo astratto, l'uomo potrebbe riparare alla natura realizzando qualcosa di determinato che però nessuno dei suoi sostenitori si incarica mai di far accadere praticamente e concretamente. -L'ambientalismo economicistico e la presunta causa di tutto il male fatto alla natura. Quando si pensa di poter fare ricadere sul capitalismo e sul liberalismo tutto il peso delle pratiche attuate contro il nostro mondo-ambiente naturale, si commette un altro errore. Se esistesse davvero un nesso implicativo doppio fra capitalismo e liberalismo da una parte, e pratiche anti-ecologiche o anti-ambientali dall'altra, non dovrebbero essere presenti nei paesi capitalistici politiche che promuovono la salvaguardia ambientale e non dovrebbero essere presenti pratiche anti-ecologiche e anti-ambientali nei paesi che si proclamano contro il capitalismo e il liberalismo. -Il presupposto della bontà altrui, l'originaria bontà dell'altro-Io e la storia che dall'altro-Io effettivamente viene agita. Per poter fare veramente opera di giustizia ci è invece richiesto di valutare quello che gli altri sono stati, sono e potranno essere, senza presupporre né una loro radicale malvagità né una loro incorruttibile bontà. La malvagità degli altri, così come la loro bontà non va presupposta, ma va indicata o dimostrata quando è stata davvero presente. Con la precisazione ulteriore, però, che la bontà con cui un essere umano si fa presente ad un altro essere umano è qualcosa che si pone prima di ogni malvagità che può poi arrivare a rovinare quella bontà originaria. -L'apertura fiduciosa ed attenta agli altri da noi, la predisposizione alla gratitudine e la relazione di colpa-e-perdono. Si può fare giustizia solo se ci si apre fiduciosamente e positivamente all'altro-Io, facendo allo stesso tempo attenzione a che l'altro-Io non tradisca o non abbia tradito nei fatti quella fiducia o quel credito di positività che noi in principio gli abbiamo accordato. L’apertura fiduciosa ed attenta agli altri da noi segna lo stesso che la nostra predisposizione alla gratitudine nei loro confronti. Sia quando riconosciamo, accogliamo e ricambiamo il bene che gli altri da noi ci danno, sia quando riusciamo a perdonare il male che ci hanno inflitto. Affinché il perdono possa avvenire è quindi richiesto che tutte le persone coinvolte nella relazione di colpa-e-perdono facciano quel che il perdono richiede, perché esso possa subentrare completamente oltre la colpa. -Riparare concretamente all'ingiustizia in maniera diretta o in maniera simbolica. Riparare facendo opera di giustizia non riguarda solo chi si trova a dover amministrare la giustizia per altri, ma riguarda fin da subito anche quei soggetti che prima l’ingiustizia l'hanno commessa e che ora si trovano a portare il peso della colpa che sull’ingiustizia inevitabilmente cresce. La giustizia che deve essere rinnovata trova espressione nel reale, e dove non è più possibile la riparazione dovrà essere di tipo simbolico. Ma riparare simbolicamente non significa in maniera astratta bensì intensificare, ingrandire, concentrare ed attuare con impegno sincero lo sforzo che l'opera di riparazione ci richiede sempre. -La passiva ricezione della pena e l'impegno attivo per l’oltrepassamento del male. Chi intende per davvero riparare all'ingiustizia deve darsi molto da fare e non può giacere nell'attesa di qualcosa che altri faranno al posto suo. La passiva ricezione della colpa o del castigo non porta nessuno al di là del mare accaduto. Il male viene oltrepassato solo mediante un impegno attivo che comporta fatica e che deve essere assunto necessariamente in prima persona. -L'esempio della restorative justice. Questa dinamica è stata messa a tema dalla riflessione teorica nell'ambito della filosofia del diritto penale sotto il nome di Restorative Justice. Uno dei principi che orienta la dottrina e la prassi penale di tipo riparativo è il principio della centralità della vittima del reato. L'obiettivo principale che ci si propone è individuare e promuovere la riparazione del danno o del male che la vittima ha subito, con la partecipazione volontaria sia della vittima che del colpevole. La riconciliazione di vittima e colpevole, a cui in fondo la giustizia riparativa desidera arrivare, non è altro che il rinnovamento della buona relazione fra le soggettività al di là del conflitto e dell'offesa passata. -Il rischio a cui è esposta la giustizia riparativa. Il rischio a cui la giustizia riparativa soprattutto si espone, nella sua applicazione pratica, è quello di porre la vittima sullo stesso piano del colpevole con il quale si vorrebbe vedere riconciliata. È bene dunque riconoscere che tra vittima e colpevole dell’ingiustizia esiste un’asimmetria relazionale o una disparità qualitativa. La riconciliazione, infatti, segue e corona la riparazione in cui consiste il fare giustizia dopo l’ingiustizia generata dal conflitto intersoggettivo. (Prima bisogna riparare all’ingiustizia e poi far riconciliare le due parti). -Il tempo della giusta riparazione, la memoria dell'ingiustizia e la coscienza del bene. La giusta riparazione per svilupparsi compiutamente prende e richiede del tempo. Tempo per agire e per realizzare la riparazione e tempo per riuscire ad aprirsi fiduciosamente al tentativo di riparazione. Quando infatti, con le nostre sole forze non riusciamo a respingere il male in maniera istantanea, il tempo ha la capacità di venirci progressivamente in soccorso, è capace di lenire un po’ per volta le nostre ferite, di aumentare giorno dopo giorno le nostre risorse reattive e anche di diminuire sempre di più il potere offensivo di quel male che all'inizio sembrava enorme ed invincibile. Il tempo che passa consente anche lo sviluppo della nostra memoria dell’ingiustizia, in quanto ingiustizia che si deve oltrepassare. La memoria condivisa dell’ingiustizia da oltrepassare, mostra di essere anche desiderio condiviso di rinnovare la giustizia in forza del bene di cui ancora ci riconosciamo capaci.