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Biologia e Diversità vegetale: modulo di Biologia Cellulare, Sbobinature di Biologia Vegetale

Sbobinature del corso di Biologia e Diversità vegetale tenuto dalla prof. Silvia Perotto. Il documento è relativo al primo modulo, su cui si svolge il primo test in itinere. Argomenti trattati: introduzione al corso, comparti comuni, parete cellulare, vacuolo (metaboliti e osmosi), plastidi, fotosintesi (fase luminosa e fase oscura), targeting ai plastidi.

Tipologia: Sbobinature

2023/2024

In vendita dal 18/04/2024

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alice-colli-3 🇮🇹

4.7

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22 documenti

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Scarica Biologia e Diversità vegetale: modulo di Biologia Cellulare e più Sbobinature in PDF di Biologia Vegetale solo su Docsity! Biologia e diversità vegetale Con l’espressione organismi vegetali non si intendono solo le piante: esse sono organismi che fanno parte del regno Plantae, ma gli organismi vegetali sono anche altri. La tassonomia è la classificazione degli organismi. Secondo Linneo le piante hanno un’organizzazione a cormo, basata su tre organi: radice, fusto e foglia (nella fase vegetativa). Con il termine tallofite si intendono invece le piante a tallo (organizzazione in cui non vengono distinti organi) come le alghe e i funghi. Gli organismi “vegetali” di Linneo appartengono in realtà a diversi regni del vivente. Le piante sono fondamentali per vari aspetti, ad esempio sono il primo gradino della catena trofica, ma hanno anche un ruolo ecologico: fanno la fotosintesi secondo la reazione 6CO2 + 6H2O  C6H12O6 + 6O2. Le piante sono in grado, attraverso questa reazione, di operare una conversione dell’anidride carbonica presente nell’atmosfera in glucosio (zucchero alla base della costruzione di diverse molecole organiche). Si passa da materia inorganica a materia organica e per questo gli organismi vegetali sono detti anche i produttori primari  immettono materia organica. Un organismo modello è una specie estesamente studiata per comprendere particolari fenomeni biologici, in base al presupposto che le acquisizioni fatte sull'organismo modello possano fornire indicazioni sugli altri organismi. Ciò è possibile grazie al fatto che i principi biologici fondamentali, come le vie metaboliche, di regolazione e di sviluppo e i geni che le codificano, si mantengono attraverso l'evoluzione. Il sistema modello vegetale più utilizzato è Arabidopsis thaliana, che ha un ciclo vitale molto rapido e fu il primo genoma vegetale ad essere sequenziato. Molti geni coinvolti in patologie umane trovano un ortologo in A. thaliana (ortologo = gene con funzione simile in organismo molto diverso). Proprio il termine cellula deriva dall’osservazione di un tessuto vegetale e le leggi della trasmissione dei caratteri ereditari sono state formulate in seguito allo studio delle piante e sono servite per capire la trasmissione di molte malattie ereditarie dell’uomo. Una delle tappe importanti nella verifica dell’ereditarietà secondo Mendel prevedeva l’autoimpollinazione, caratteristica delle piante. Un altro esempio di come le piante sono state un modello per importanti scoperte sono i trasposoni: elementi genetici mobili nel genoma scoperti per la prima volta nel mais, osservando la pigmentazione dei semi. Nelle piante e nei funghi, inoltre, è stato scoperto per la prima volta il silenziamento genico mediato da siRNA (small interfering RNA). Questo è importante nella ricerca di base e nelle prospettive della terapia genica. Gli organismi vegetali sono anche fonti rinnovabili di energia e di prodotti: settore agroalimentare, ambiente, industrie e medicina. Piante e animali Le piante, come la maggior parte degli animali, sono eucarioti pluricellulari. Molti comparti sono comuni alle cellule vegetali e animali, ma 3 sono diversi: la parete cellulare, i plastidi (i più noti componenti sono i cloroplasti) e i vacuoli sono presenti solo nella cellula vegetale. Piante e animali sono diversi anche in altri aspetti. Piante Animali Utilizzo delle risorse Fotoautotrofia (fotosintesi nei cloroplasti) Eterotrofia Crescita e sviluppo Accrescimento indefinito, assenza di movimento cellulare Accrescimento definito, presenza di movimento cellulare Riproduzione Riproduzione sessuale e vegetativa Riproduzione solo sessuale Quali sono le risorse che vengono utilizzate dalle piante e dove si trovano? La CO2 e la luce si trovano nell’atmosfera (ambiente epigeo), l’acqua e i nutrienti minerali si trovano nel suolo (parte ipogea). Se la pianta vivesse solo in ambiente epigeo morirebbe di disidratazione, anche se ci sono alcune eccezioni di piante che sopravvivono con una piccola quantità di acqua. Una pianta non potrebbe neanche vivere solo nel suolo perché senza la luce non potrebbe fare la fotosintesi. Gli animali devono muoversi nell’ambiente per accedere alle risorse, quindi devono essere compatti per favorire la mobilità. Le piante, invece, sono sessili, quindi tendono ad estendersi nel suolo e nell’atmosfera, per assorbire rispettivamente maggiore acqua e maggiore luce. Rispetto agli animali, le piante hanno scambi più diretti e intensi con l’ambiente esterno. Organismi animali e vegetali differiscono profondamente per molti aspetti della crescita e dello sviluppo: - Crescita in dimensioni - Sviluppo embrionale - Totipotenza delle cellule e capacità di rigenerazione - Movimento e migrazione cellulare Crescita in dimensioni Gli animali hanno un accrescimento finito, le piante hanno invece un accrescimento indefinito (continuo). L’accrescimento continuo avviene solamente nella regione apicale di fusti e radici. Responsabili della crescita apicale sono due gruppi di cellule staminali posti agli apici dei fusti e delle radici, i meristemi primari: SAM (shoot apical meristem) e RAM (root apical meristem). Sviluppo embrionale I principi base dello sviluppo embrionale di piante e animali sono gli stessi: si parte da uno zigote (cellula fecondata) e si ha lo sviluppo dell’embrione lungo degli assi. Ci sono: - Divisione cellulare - Formazione di un piano di sviluppo - Crescita in dimensioni Se guardiamo lo sviluppo embrionale degli animali, il piano di sviluppo è completo alla fine dell’embriogenesi  l’organismo ha tutti gli organi a posto ed è completamente formato, dopo la nascita ci saranno solo alcuni cambiamenti e l’aumento di dimensioni. La pianta è molto diversa: c’è lo sviluppo embrionale, nel seme c’è la presenza di un embrione, ma questo organismo non ha nulla a che fare con quello completo  è una struttura “abbozzata” che si sviluppa nella fase post-embrionale aggiungendo organi, ampliando la loro architettura. Le piante hanno quindi sviluppo Riproduzione Negli organismi vegetali ci sono due opzioni di riproduzione: - riproduzione sessuale basata sulla formazione di gameti che si fondono a formare lo zigote, genera variabilità genetica, alla base della selezione naturale; - riproduzione asessuale detta anche vegetativa o clonale per cui una pianta può produrre una progenie semplicemente per mitosi a partire dalla pianta madre. La riproduzione vegetativa si basa sulla totipotenza delle cellule vegetali perché ad esempio partendo da un fusto si possono formare anche le radici. Con questo tipo di riproduzione si generano piante geneticamente identiche alla pianta di partenza, perché tutto si forma per mitosi. La crescita clonale serve, ad esempio, per colonizzare velocemente un ambiente; la riproduzione sessuale è invece un modo per le piante per “spostarsi” raggiungendo un nuovo ambiente, tramite la liberazione di semi e frutti che vengono spostati in un nuovo ambiente. Ingegneria genetica delle piante L’ingegneria genetica delle piante è basata su tecniche di manipolazione del materiale genetico che comportano l'introduzione diretta in un organismo di materiale ereditabile preparato al suo esterno mediante l'utilizzo di un vettore di molecole di DNA, RNA o loro derivati (trasformazione genetica). Questo processo è utile a studiare le funzioni dei geni e a modificarne le proprietà e l'espressione (ad esempio produzione di metaboliti, enzimi ecc). Gli strumenti tradizionali per la manipolazione del DNA sono: - un sistema per fare copie del gene d'interesse  PCR, seleziono il gene d'interesse e ne faccio tante copie; - un sistema taglia e cuci  tramite enzimi di restrizione/ligasi si taglia il gene necessario da inserire nel plasmide; - un vettore per trasferire e riprodurre il DNA  viene utilizzato un vettore (plasmide, virus o cromosoma artificiale) con il gene inserito ed amplificato con reazione a catena di PCR. Per le piante l'ingegneria genetica è facilitata da: - la capacità di rigenerazione delle piante, indipendente dalla trasformazione; - un sistema di trasformazione genetica efficiente: il batterio che trasforma le piante detto Agrobacterium tumefaciens è il metodo più efficace per inserire un gene esogeno nel genoma nucleare di una pianta. Prima della scoperta del batterio veniva utilizzato un metodo balistico con pistola a pressione e micro-proiettili rivestiti di vettore ricombinante. Comparti comuni La cellula animale e quella vegetale hanno molti comparti in comune come membrana plasmatica, nucleo, mitocondri e sistema di endomembrane (RE e Golgi), ma ci sono anche alcune differenze: la cellula vegetale non presenta lisosomi (la funzione digestiva qui è assunta dal vacuolo), centrioli (coinvolti nell’organizzazione del fuso mitotico) e flagelli. In compenso, la cellula vegetale ha dei comparti aggiuntivi: plastidi (in particolare i cloroplasti), parete cellulare e vacuolo. Inoltre, nella cellula animale la membrana plasmatica è il confine esterno della cellula, mentre nella cellula vegetale essa non ha questo ruolo: è solo il confine esterno di quella parte che contiene citoplasma e organelli, detto anche protoplasto. All’esterno della membrana c’è la parete cellulare  se eliminiamo la parete la cellula vegetale perde la sua forma. Cose c’è di particolare nella membrana plasmatica delle piante rispetto a quella animale? La composizione è molto simile ma nelle piante è assente il colesterolo ed è invece presente un grosso complesso enzimatico chiamato cellulosa sintasi responsabile della sintesi della cellulosa (principale componente della parete cellulare). Inoltre, nella membrana delle cellule vegetali ci sono molti trasportatori perché anche le cellule vegetali devono assorbire molti elementi (nutrimenti, ioni ecc.) dall’ambiente esterno: il principale sistema che crea gradiente elettrochimico nelle cellule animali è la pompa sodio potassio, non presente nelle cellule vegetali  sono presenti invece pompe protoniche H+-ATPasiche. Le pompe fanno parte del trasporto attivo primario, fondamentale per il funzionamento delle cellule perché consente di acquisire nutrienti e di trasportare molecole da una parte all’altra della cellula. La membrana è a stretto contatto con la parete cellulare: non è un semplice contatto, ci sono proprio dei punti di collegamento osservabili quando la cellula è sottoposta a plasmolisi (perdita d’acqua e riduzione del volume immergendo la cellula in soluzione ipertonica). La membrana ha contatto con la parete in dei punti collegati dai cosiddetti filamenti di Hecht. Il nucleo è esattamente come nella cellula animale: nucleolo ben evidente, involucro nucleare, pori ecc. Un aspetto che si può sottolineare riguardo il nucleo delle cellule delle piante è che in esso si trova molta variabilità nel DNA nucleare, si va da piante con genomi molto piccoli (arabidopsis, sistema modello) fino a genomi enormi (liliacee). Non c’è una correlazione tra complessità della pianta e dimensione del genoma, ma quello che cambia può essere la quantità di sequenze ripetute o di regioni non codificanti (materia oscura). In un genoma piccolo si trova abbondante eucromatina (nucleo diffuso), in un genoma grande si trova abbondante eterocromatina (nucleo reticolato). Un altro fenomeno che può dare origine all’aumento delle dimensioni del genoma è la poliploidia: anziché esserci solo 2 cromosomi omologhi, per ogni cromosoma sono moltiplicate le copie. I mitocondri, organelli semiautonomi con un genoma proprio, corrispondono come morfologia a quelli delle cellule animali, ma il loro genoma nelle piante ha dimensioni maggiori. Per cosa codificano questi geni in più? Permettono di svolgere pathways alternativi alla respirazione che sono cianuro-resistenti  il cianuro è un inibitore della respirazione. Il sistema di endomembrane è il sistema di smistamento di componenti all’interno della cellula destinate alla secrezione. Nella cellula vegetale il sistema di endomembrane ha anche funzioni aggiuntive, in quanto le piante hanno dei comparti in più: - il RE crea anche dei piccoli depositi di proteine chiamati corpi proteici, siti di accumulo di proteine di riserva; - il plasmodesma, struttura complessa che attraversa la parete cellulare, permette la comunicazione intercellulare; - il Golgi ha 2 funzioni aggiuntive  sintetizza polisaccaridi di parete (fanno parte della componente chiamata matrice) e proteine destinate al vacuolo. Gli organuli del sistema di endomembrane sono organizzati tra loro: l’apparato di Golgi si associa strettamente con il RE e con i microfilamenti di actina del citoscheletro. La parete cellulare I sistemi caratteristici della cellula vegetale: parete cellulare (comparto), vacuolo e plastidi (organuli). La parete cellulare conferisce caratteristiche particolari nello sviluppo degli organismi vegetali: - Determina le strategie di sviluppo dell’organismo; - Controlla la crescita e la forma cellulare; - Fornisce sostegno meccanico alla cellula; - Determina la funzione in molti tipi cellulari; - Interagisce con il mondo esterno (biotico e abiotico); - Genera segnali chimici nella comunicazione cellulare. La parete cellulare è presente sin dalla nascita, quindi già dalla divisione di cellule staminali, e accompagna, modificandosi, crescita e differenziamento della cellula vegetale. C’è una stretta correlazione tra forma e funzione: la forma è determinata dalla parete cellulare che quindi influenza anche le funzioni cellulari. Nelle tre fasi, divisione, distensione e differenziamento, la parete cellulare cambia di composizione e organizzazione. Nella fase di nascita per divisione cellulare abbiamo una parete che si forma tra i nuclei nella citodieresi e si chiama parete primordiale, che rimarrà nelle fasi successive cambiando nome  lamella mediana. La parete primaria si forma successivamente alla divisione cellulare ed è importante perché è il tipo di parete che accompagna la distensione cellulare. Alcuni tipi cellulari mantengono per tutta la vita la parete primaria, ad esempio in cellule fotosintetiche in cui è importante il metabolismo interno. Altri tipi cellulari, invece, come le cellule di sostegno con funzione scheletrica, hanno una parete secondaria che si forma durante il differenziamento e che determina la funzione cellulare. La cellula animale è molto malleabile e in essa la citodieresi avviene semplicemente per scissione. La cellula vegetale che si divide, invece, ha già una sua parete e non è così malleabile  si forma una separazione nuova, una nuova parete, per separare le cellule figlie. Il fragmoplasto si forma tra telofase e citodieresi e deriva in parte dall’utilizzo dei microtubuli del fuso mitotico (riutilizzo della tubulina) ed è costituito da microtubuli disposti perpendicolarmente al piano su cui viene poi depositata la parete. I microtubuli disposti in questo modo servono per convogliare vescicole derivanti dal Golgi con dentro materiale di parete. Infine, nell’interfase si forma la parete. Le cellule vegetali si dividono ma la divisione non è completa, infatti si vengono a formare canali di comunicazione che rimangono fino alla vita adulta (tranne eccezioni), i plasmodesmi. Essi mettono in comunicazione i citoplasmi di cellule vicine  fusione non completa delle vescicole golgiane (derivanti dal Golgi). La parete primordiale contiene un unico tipo di sostanze derivanti da zuccheri: le pectine. Il monomero principale delle pectine è l’acido galatturonico, un derivato del galattosio (zucchero a 6 atomi di C)  il galattosio viene ossidato  da alcol (-OH) si passa ad aldeide e poi ad acido carbossilico (-COOH). Il polimero acido poligalatturonico può dare origine ad un gel di pectato di calcio che trattiene molta acqua  la pectina ha potere addensante proprio perché può trattenere molta acqua. Grazie alla formazione del pectato di calcio la pectina è in grado anche di tenere insieme le cellule figlie appena formate. Il gel di pectato di calcio si forma grazie a legami salini con Ca2+, che si formano quando il gruppo carbossilico dell’acido galatturonico (acido debole) è dissociato in gruppo carbossile -COO-. Tutti i legami salini tengono insieme le molecole di pectina e si forma il gel compatto. La consistenza del gel di pectato di calcio può essere regolata: - dal pH della parete cellulare  determina il grado di dissociazione del gruppo carbossile dato che deriva da un acido debole; - dal grado di metilazione dei gruppi carbossilici  mediante enzimi; se la pectina è in forma metilata con un CH3 non forma i ponti salini. Una volta depositata la parete primordiale, comincia ad essere sintetizzata la parete primaria, che accompagna la cellula nella distensione cellulare e, in alcuni casi, anche nella fase adulta: la sintesi della parete primaria e della parete secondaria procede verso l’interno della cellula (direzione centripeta). Le componenti per la sintesi delle pareti primaria e secondaria vengono trasferite grazie alla membrana o vengono proprio sintetizzate nella membrana. In particolare, le componenti polimeriche aggiunte nella parete vengono sempre aggiunte dalla parete primordiale verso il centro della cellula. In queste fasi di inspessimento la parete primordiale rimane come confine e collante tra una cellula e l’altra ma cambia nome in lamella mediana. La parete primaria La parete primaria gioca un ruolo fondamentale soprattutto nei primi stadi dello sviluppo perché accompagna la seconda fase, dopo la nascita per divisione, che è la distensione: si ha un enorme aumento di volume. La parete primaria è una complessa struttura tridimensionale di natura glicoproteica. Nelle normali funzioni, la parete cellulare (primaria o secondaria) va incontro ad una deformazione elastica, mentre durante la crescita per distensione di osserva una deformazione plastica. Il modello di organizzazione della parete primaria secondo Carpita e Gibeaut spiega le principali proprietà della parete: resistenza meccanica, deformazione elastica e deformazione plastica. Secondo questo modello, nella parete sono presenti 3 reticolati molecolari indipendenti che interagiscono tra loro: - reticolato di pectine; - reticolato di proteine; - reticolato di cellulosa + emicellulose  il più importante ai fini della distensione. La distensione cellulare è un fenomeno continuo e ci sono diverse componenti che contribuiscono alla deformazione. Avviene in una finestra temporale in cui la cellula è competente e si può dividere in 3 tappe: 1. aumento della pressione interna: il vacuolo crea la pressione interna richiamando acqua e durante lo sviluppo della cellula vegetale si passa da tanti piccoli vacuoli ad un numero limitato, fino ad arrivare ad un unico grande vacuolo capace di creare pressione contro le pareti dopo aver richiamato acqua dall’esterno grazie al principio osmotico. Se si aumenta la pressione in una cellula già adulta non avviene niente perché si è al di fuori della finestra temporale in cui la cellula è competente. 2. acidificazione della parete cellulare: è mediata dall’attivazione delle pompe protoniche ATPasiche, quindi c’è un dispendio energetico che crea un flusso di protoni dal citoplasma verso la parete. Si abbassa il pH e questa acidificazione aumenta nelle pectine la % dei gruppi carbossilici neutri perché in stato dissociato, quindi fluidifica il gel pectinico. Il compito più importante in questa fase di acidificazione è quello di attivare enzimi e altre proteine che allentano i legami che tengono insieme le emicellulose e le microfibrille di cellulosa, creando un legame che può essere stirato e che impedisce lo scivolamento. 3. allentamento delle microfibrille di cellulosa: nella parete sono presenti enzimi in grado di rompere il legame della cellulosa con l’emicellulosa, tra cui XET (xiloglucano-endo-transglicosidasi) che è un enzima “taglia e cuci” (riesce a ricreare un legame) che si attiva in ambiente acido. Altre proteine che allentano i legami delle microfibrille di cellulosa sono le espansine che si attaccano alle microfibrille di cellulosa e tagliano legami a idrogeno. Durante la distensione i ponti di legame tra le due fibrille devono essere tagliati, ma a fine distensione vanno risaldati, se no si perde la proprietà di resistenza meccanica. Nella crescita per distensione è fondamentale il ruolo sinergico di vacuolo e parete cellulare. Quindi, l’allentamento dei legami tra emicellulose e microfibrille di cellulosa permette la distensione cellulare: 1. pressione osmotica e allentamento dei legami tra cellulosa ed emicellulose consentono alla parete di distendersi; 2. la direzione dell’accrescimento cellulare dipende dall’orientamento delle microfibrille di cellulosa; 3. terminata la distensione, si riformano i legami tra cellulosa ed emicellulose; 4. durante il processo della distensione c’è continua sintesi di materiale di parete, in modo che lo spessore della parete cellulare rimanga costante. Parete secondaria La parete secondaria si forma internamente alla parete primaria, con una separazione a metà a causa della lamella mediana che mantiene la funzione collante tra le cellule figlie grazie al contenuto di pectine. Anche durante la formazione della parete secondaria si mantengono i plasmodesmi. La parete secondaria compare solo in alcuni tipi cellulari. Nella parete secondaria si modifica l’abbondanza relativa di componenti già presenti nella parete primaria, infatti c’è un grande aumento di cellulosa e una grande riduzione di pectine, emicellulose, proteine e acqua. Nella parete secondaria possono comparire anche nuove molecole come la lignina, che fa parte dei metaboliti secondari. La cellulosa, comunque, è dominante e aumenta il suo grado di polimerizzazione; inoltre, passa ad un orientamento obliquo a disposizione elicoidale che conferisce grande resistenza meccanica. Alla cellulosa si possono aggiungere altre molecole nuove tramite modificazioni di diversi tipi: - mineralizzazione: aggiunta di sostanze minerali come SiO2 e CaCO3; - cuticolarizzazione: aggiunta di cere e cutine; - lignificazione: aggiunta di lignina; - suberificazione: aggiunta di suberina. Cuticolarizzazione, lignificazione e suberificazione prevedono l’aggiunta di molecole organiche che cambiano la natura idrofilica delle molecole; vengono sintetizzate nel citoplasma e secrete nella parete dove andranno a formarsi le macromolecole che poi polimerizzano. Alcune di queste molecole nuove nella parete sono comparse nel corso dell’evoluzione: una volta colonizzate le terre emerse, c’era il rischio di disidratazione, quindi comparve la cuticola formata da cere e cutine, che permette alle piante di sopravvivere senza seccarsi. Un’altra tappa evolutiva fondamentale è stata la crescita in altezza, che portò anche al bisogno di una struttura di maggiore sostegno e una struttura di conduzione per portare l’acqua dal suolo alle foglie  possibile grazie alla lignina. La suberina, infine, è necessaria per ovviare ai problemi legati alla variazione di temperatura: è un isolante termico che protegge i tessuti interni per evitarne il congelamento. L’evoluzione biologica, quindi, è accompagnata da un’evoluzione molecolare. La cuticola che si forma con la cuticolarizzazione è quindi lo strato che protegge dalla perdita di acqua, riveste tutte le pareti, è impermeabile (ad acqua e gas) ed idrofobico. La cuticola può anche essere molto spessa ed essere rimossa a mano; è un marcatore molecolare della parte epigea nell’embrione in stato precoce di formazione. La cuticola compare precocemente nell’embrione e riveste l’epidermide nella porzione che originerà gli organi epigei della pianta  si osserva solo negli organi epigei; viene depositata solo sulla parete tangenziale esterna delle cellule epidermiche. Le cere sono più idrofobiche delle cutine, perché presentano due tipi di molecole importanti: céridi (esteri tra alcoli alifatici e acidi grassi a lunga catena) e idrocarburi alifatici a lunga catena (alcani, dunque idrofobici). Quando vengono secrete all’esterno della membrana plasmatica, le cere si dispongono sulla superfice della cuticola, dove danno origine a formazioni quasi cristalline a causa della loro solidificazione, formando delle strutture dette cere epicuticolari. Queste danno origine al fenomeno dell’effetto loto, ovvero foglie autopulenti proprio grazie alle cere idrofobiche che, al minimo movimento della foglia, permettono all’acqua di rotolare sulla foglia portando via le particelle di sporco. Le cuticole contengono inoltre cutine, formate da un unico tipo di molecola ovvero esteri di idrossiacidi (acido grasso alifatico con gruppo carbossilico a lato e uno o più gruppi -OH nella molecola). Le cutine sono leggermente più idrofile, a causa dei gruppi -OH liberi, e quindi possono interagire con la componente oligosaccaridica. Nella parete cuticolarizzata, le cere sono più esterne e le cutine più interne, secondo il gradiente di idrofobicità. La lignina, invece, conferisce resistenza chimica e meccanica alla parete (es. le noci hanno tessuto di protezione dei semi, come anche ciliegia, pesca ecc). La lignificazione ha luogo non solo sulla parete tangenziale, ma la lignina si inserisce tra le componenti polisaccaridiche della parete, impostando un modello di organizzazione nuovo, che non segue la regola della direzione centripeta. Nelle fasi inziali di deposizione, la lignina non si disperde uniformemente, ma interessa solo la lamella mediana aumentando la coesione interna dei tessuti. La lignina deriva dalla polimerizzazione di tre monomeri: alcol cumarilico, alcol coniferilico (importante nelle piante a fiore) e alcol sinapilico. I monomeri della lignina derivano dal metabolismo del fenilpropano, una via del metabolismo secondario. Questi monomeri sono sintetizzati nella cellula, poi liberati tramite movimento vescicolare nella membrana plasmatica e finiscono nella parete dove vengono legati tra loro grazie ad enzimi residenti nella parete (laccasi e perossidasi)  enzimi ossidanti che creano legami covalenti tra i monomeri. La lignina non è quindi un vero polimero, i legami sono in posizione casuale e non è possibile predire la struttura finale della lignina. La lignina, tuttavia, rappresenta un problema nelle applicazioni biotecnologiche perché va a incrostare le strutture (es. la carta migliore ha basso contenuto di lignina), dunque è necessario utilizzare meccanismi di trattamento della lignina, che però sono altamente inquinanti. Interrompendo la via biosintetica della lignina mediante mutazione genica si riduce la resistenza meccanica della parete. Il vacuolo I comparti caratteristici della cellula vegetale sono: parete cellulare, vacuolo e plastidi. Il vacuolo è un comparto circondato da una membrana semipermeabile fosfolipidica, il tonoplasto, contiene al suo interno una matrice acquosa, il succo vacuolare, ed è dinamico e polifunzionale. Il tonoplasto si distingue dalla membrana plasmatica per la presenza di proteine specifiche. Il vacuolo ha diverse funzioni, alcune le svolge in tutte le cellule: - crescita per distensione cellulare  all’interno del vacuolo si crea la pressione che spinge la cellula ad espandersi; - mantenimento dell’omeostasi ionica  contribuisce al mantenimento del pH e delle concentrazioni ioniche nel citoplasma, può far uscire/entrare ioni attraverso il protoplasto; - mantenimento dell’omeostasi idrica  le cellule vegetali possono perdere acqua per disidratazione, il vacuolo essendo pieno d’acqua può mantenere lo stato di idratazione della cellula. Altre funzioni, invece, sono specifiche e dipendono dalla sostanza che viene riversata all’interno del vacuolo. Se vengono immesse sostanze tossiche, il vacuolo avrà funzione di difesa; se vengono immesse sostanze di riserva, il vacuolo assumerà funzione di riserva energetica. Il vacuolo ha un suo sistema di targeting per riconoscere le sostanze. La presenza del vacuolo è anche uno dei motivi per cui le cellule vegetali sono mediamente più grandi delle cellule animali, perché le cellule sono dei sistemi aperti e devono effettuare scambi con l’esterno (energia, gas...) attraverso le superfici  più è ampia la superficie, più sono efficaci questi scambi (è più importante la superfice del volume). Nella cellula animale, l’aumento di dimensione cellulare comporta problemi nello scambio di gas e di nutrienti necessari per il metabolismo, mentre nella cellula vegetale il vacuolo consente al citoplasma di mantenere un elevato rapporto superficie/volume: il vacuolo fa sì che la parte metabolicamente attiva (citoplasma e organelli) sia schiacciata nella periferia, quindi il volume sarà quello del sottile strato di citoplasma vicino alla superficie e non di tutta la cellula. Il vacuolo è dinamico già durante la sua formazione, nonostante in una cellula meristematica (=indifferenziata) il vacuolo non sia ancora visibile, ma ci sia solo un insieme di vescicole dette provacuoli. Durante il processo di maturazione della cellula i provacuoli si fondono a formare un unico vacuolo centrale; durante il processo di dedifferenziamento, invece, si ha la frammentazione del vacuolo. Omeostasi ionica L’omeostasi ionica avviene nel citoplasma. Il vacuolo è in grado di muovere ioni ed elementi metallici, infatti sul tonoplasto sono presenti molti trasportatori: - trasportatori attivi primari (utilizzano direttamente l’energia metabolica)  pompa V-H+-ATPasica (V perché vacuolare), in grado di prelevare protoni dal citoplasma e di convogliarli all’interno del tessuto vacuolare con dispendio energetico  questo crea un ambiente protonico in grado di energizzare e guidare gli scambi mediati dai sistemi di co-trasporto (trasporto secondario); pompa H+-Ppasi, con la stessa funzione della pompa ATPasica ma che non usa ATP, bensì pirofosfato, che se idrolizzato rilascia la stessa energia dell’ATP idrolizzato ad ADP. Queste pompe contribuiscono al mantenimento del pH acido all’interno del vacuolo, creando un gradiente elettrochimico. - trasportatori passivi  i canali, fanno uscire le sostanze secondo gradiente di concentrazione. - trasportatori attivi secondari  pompe Ca2+/Cd2+, Mg2+/Zn2+ e Na+/K+. Il vacuolo è un sito di accumulo del calcio: ne regola la concentrazioni, regolando quindi la trasduzione del segnale (regola l’attività delle proteine che intervengono nell’espressione genica). A questi vacuoli di riserva proteica viene dato il nome PSV: protein storage vacuoles. Si trovano spesso nei semi, i quali necessitano di riserve per il nuovo embrione che deve crescere. Nelle leguminose ci sono tanti PSV nelle foglioline embrionali, mentre nei cereali i PSV sono nell’embrione e nello strato periferico dei cicchi chiamato strato di aleurone (tirato via con la raffinazione). Le funzioni di riserva e litica possono essere svolte dal vacuolo nella stessa cellula ma in momenti diversi. Ad esempio questo accade nel seme: durante la maturazione del seme il vacuolo avrà funzione di riserva energetica (in quanto l’energia serve all’embrione per superare le prime fasi di vita), mentre durante la germinazione il vacuolo avrà funzione litica perché devono essere utilizzate le riserve energetiche (funzione litica autofagica, scissione delle proteine). In una cellula in cui sono più vacuoli (perché non si è ancora formato il vacuolo centrale), possono coesistere popolazioni di vacuoli con funzioni diverse. Come fa la cellula a distinguere due popolazioni di vacuoli diversi a livello di targeting? La cellula vegetale già ha vita complicata per quanto riguarda il targeting delle sostanze che passano attraverso RE e Golgi perché ha non solo la via di secrezione, ma anche la via che porta al vacuolo (vescicole dal TGN). Dal momento in cui ci sono 2 diverse popolazioni di vacuoli la situazione è ancora più complicata: la via che va al vacuolo deve prevedere due traiettorie diverse, una che porta al vacuolo litico e una che porta al vacuolo di riserva. Nel vacuolo di riserva andranno le proteine di riserva, nel vacuolo litico andranno enzimi di tipo litico. Se si mandassero enzimi litici nel vacuolo di riserva, verrebbero degradate le proteine di riserva. Come funziona quindi lo smistamento nel TGN? Dato che il vacuolo litico ha la funzione che il lisosoma ha nella cellula animale, si ipotizzò inizialmente che il targeting avvenisse allo stesso modo, ma non è così. Il targeting al vacuolo è nella sequenza proteica e passa attraverso il sistema di endomembrane, ci sarà un peptide segnale all’N-terminale che viene riconosciuto prima della traduzione. Quando la proteina continua la sintesi sul RE, espone eventuali altri segnali: le proteine destinati ai vacuoli litici hanno un altro segnale subito dopo il segnale generale per i vacuoli all’N-terminale. Le proteine destinate al vacuolo di riserva hanno un segnale diverso, al C-terminale. Nel caso di più vacuoli con funzioni diverse, quindi, è presente una sequenza amminoacidica che fa da segnale per i vacuoli: proteine indirizzate ai vacuoli litici e ai vacuoli di riserva hanno sequenze amminoacidiche diverse. Come vengono riconosciuti questi segnali? C’è un sistema SNARE associato alla presenza di clatrina: - le vescicole rivestite di clatrina sono dette CCV (clathrin-coated vesicles) e sono destinate ai vacuoli litici, - le vescicole non rivestite di clatrina sono le DV (dense vesicles) e sono destinate ai vacuoli di accumulo. Il funzionamento del sistema che porta le vescicole ai vacuoli di accumulo è ancora ignoto, si sa che hanno un rivestimento di qualcosa ma che non è clatrina. Il vacuolo può essere un sito di accumulo temporaneo di sostanze che non hanno un significato energetico, ma che servono ad altri processi metabolici della cellula, come la fotosintesi. Un esempio sono le piante con metabolismo CAM: caratteristico di piante in ambienti secchi o di piante come le piante grasse che vivono in ambienti desertici. Il problema di queste piante riguarda gli scambi gassosi perché le piante sono rivestite dalla cuticola, impermeabile a gas e vapore acqueo; lo scambio gassoso è necessario per la fotosintesi, in quanto la CO2 deve entrare nelle foglie per far avvenire la reazione. Per far passare il gas attraverso la cuticola vengono utilizzate delle aperture: gli istoni  sono aperture regolabili che consentono lo scambio gassoso tra l’interno e l’esterno della pianta. Quando è attiva la fotosintesi, gli istoni sono spalancati per favorire lo scambio gassoso (CO2 che entra e O2 che esce). Quando gli istoni si aprono, però, passa anche il vapore acqueo in uscita e questo è un problema negli ambienti in cui c’è poca acqua o comunque in cui la pianta non può prelevare abbastanza acqua attraverso le radici. Il caso limite è quello delle piante grasse: si sono evolute in modo da svolgere una particolare modalità di fotosintesi, la CAM  l’acquisizione della CO2 in queste piante avviene di notte, quando le temperature sono più fresche. Si aprono gli istoni e la CO2 può entrare, ma deve essere legata ad una molecola organica in modo da essere immobilizzata. La CO2 viene quindi catturata da un enzima e bloccata da un acido organico, poi trasferita all’interno del vacuolo. Di giorno la pianta chiude gli istoni, si riduce la perdita di vapore acqueo e la fotosintesi avviene ad istoni chiusi. La CO2 per la fotosintesi di giorno viene presa dalla pianta dallo stock di CO2 accumulata di notte. Questo è un metabolismo di sopravvivenza, perché questo accumulo consente di portare avanti la fotosintesi ma non di avere grande produttività. Metaboliti secondari. Il metabolismo secondario della cellula è principalmente correlato con la vita di relazione con l'esterno e da esso si ricavano i metaboliti secondari, una categoria di molecole biologicamente attive. I metaboliti secondari, in generale, sono molecole che entrano nella vita di relazione delle piante con l’esterno (la lignina è un’eccezione perché ha ruolo strutturale). Le due grandi vie metaboliche secondarie delle piante partono sempre da intermedi del metabolismo primario. Ci sono metaboliti secondari che derivano dalla trasformazione di amminoacidi: - Dalla fenilalanina, attraverso la via metabolica del fenilpropano  molto ramificata, dà origine a molti composti tra cui i precursori della lignina (non accumulati nel vacuolo), flavonoidi, cumarine e tannini (parzialmente accumulati nel vacuolo); - Da altri amminoacidi si formano molti alcaloidi (parzialmente accumulati nel vacuolo). Il metabolismo secondario può partire da amminoacidi ma anche da intermedi del metabolismo dei grassi: metabolismo dell’isoprene (ripetizioni di isoprene)  i composti che derivano sono terpeni. Il metabolismo del fenilpropano inizia dalla fenilalanina, il primo enzima che porta al distacco della fenilalanina dal metabolismo primario per imboccare la via del metabolismo secondario si chiama PAL (phenylalanina ammonio liasi): utilizza la fenilalanina come substrato, è una liasi perché stacca il gruppo amminico producendo una molecola di acido cinnamico. A partire dall’acido cinnamico ci sono varie ramificazioni: - Può essere trasformato in sostanze che hanno significato di difesa per la pianta, come le cumarine (emorragiche); - Può essere trasformato in flavonoidi; - Può essere trasformato in monomeri precursori della lignina  alcol sinapilico, alcol cumarilico. Una delle ramificazioni porta alla sintesi dei flavonoidi. I flavonoidi sono tantissimi, diverse migliaia, alcuni sono secreti, mentre altri sono accumulati nel vacuolo. I flavonoidi che si accumulano nel vacuolo possono avere funzioni diverse: - Interazioni pianta-microrganismi (ruolo antimicrobico), questi sono accumulati nel vacuolo nella parte della pianta che può essere attaccata dai microrganismi; - Protezione da radiazioni ultraviolette, il keampferolo è in grado di assorbire i raggi UVB e si trova negli strati più superficiali; - Interazione con gli impollinatori e i vettori di dispersione dei semi; alcuni flavonoidi hanno colori molto brillanti e danno colorazioni ai fiori e ai frutti  gli antociani  hanno ruolo vessillare, rendono visibile la pianta per attirare impollinatori e vettori di dispersione dei semi. L’enzima calcone sintasi (CHS) è l’enzima che produce il primo composto della classe dei flavonoidi. Ci sono tante possibili variazioni dalla prima molecola, il calcone. Dal calcone (primo flavonoide) sono prodotti tantissimi altri composti. Una delle classi di flavonoidi è quella degli isoflavoni, in cui l’anello è attaccato in posizione 3 anziché 2. Le antocianidine sono dei flavonoidi che assumono una colorazione che dipende da diversi fattori, tra cui la struttura chimica. Si trovano in fiori, frutti e foglie e si sono accumulate nel vacuolo in forma glicosilata (legate ad uno zucchero = antociani). Nell’immagine dei protoplasti: è stata digerita la parete, quindi assumono forma sferica; si osserva bene la localizzazione degli antociani del vacuolo; verde=cloroplasti, viola=flavonoidi. Prevalentemente, le antocianidine hanno ruolo vessillare, ma sono anche antiossidanti e sono quindi utilizzate dalla pianta a fronte di stress ossidativi (es. colpo di freddo a fine estate). Sono un importante segnale per impollinatori e per i vettori, gli animali che andranno a disperdere i semi della pianta. Antociano fenilalanina Il colore del fiore in cui vengono accumulati antociani è definito da: - La struttura chimica della molecola, in particolare i gruppi funzionali presenti sull’anello B; - L’ambiente in cui l’antociano si trova, quindi il pH vacuolare. Si parla di viraggio di colore degli antociani, si passa da rosso e rosa (acido) verso viola e azzurro (basico). Il viraggio è reversibile. Il colore cambia da fiori appena sbocciati a fiori più maturi e questo è legato al richiamo degli insetti impollinatori soprattutto quando le strutture evolutive presenti nel fiore sono mature; - Chelazione di metalli: viene aggiunto ad esempio alluminio che va a chelare gli antociani. Negli isoflavonoidi, come già detto, l’anello B è spostato dalla posizione 2 alla posizione 3. Alcuni isoflavonoidi hanno una funzione molto interessante come fitormoni (fitoestrogeni): possono mimare alcuni ormoni sessuali prodotti dall’organismo. Ne sono ricche le leguminose; possono essere utilizzati per la prevenzione di forme tumorali legate ad ormoni, come il tumore al seno. Metaboliti secondari che fanno parte della via del fenilpropano ma con funzione diversa sono le fitoanticipine, tra cui le cumarine. Sono uno dei meccanismi di difesa dai predatori, quindi ci deve essere un meccanismo molto rapido: la fitoanticipina ha una risposta estremamente rapida che entra in campo solo al momento del bisogno (rottura delle cellule, la pianta viene mangiata); viene innescata diventando tossica. Le cumarine sono accumulate nella cellula in forma atossica: per essere rese innocui, queste molecole sono accumulate nel vacuolo in forma glicosilata (legate ad uno zucchero, di solito il glucosio). L’attivatore è una β-glucosidasi che stacca il glucosio dalle cumarine. Gli enzimi attivanti sono in cellule diverse o in comparti cellulari diversi dal vacuolo, si incontrano con le cumarine solo se la pianta ha subito un danno. Altri glucosidi vacuolari coinvolti nei meccanismi di difesa da agenti biologici sono: - Glucosinolati, presenti in alcune Brassicacee (cavoli, broccoli, rucola, mostarda ecc.), danno gusto acre alla pianta e fanno da deterrente; - Glucosidi cianogeni, in grado di generare cianuro, un forte inibitore della respirazione cellulare. Alcaloidi: sono spesso accumulati nel vacuolo; non hanno un effetto sulla pianta, ma solo sugli animali  i target principali sono i vertebrati. Alcuni alcaloidi sono caffeina, morfina, cocaina e nicotina e agiscono sul sistema nervoso dei vertebrati come meccanismo di difesa. Come arrivano nel vacuolo i metaboliti secondari, sintetizzati nel citoplasma? Sul tonoplasto ci sono tantissimi trasportatori: ci sono una serie di sistemi di co-trasporto che sfruttano il gradiente elettrochimico creato dalle pompe protoniche sul tonoplasto (ATPasica e Ppasica). In particolare, sono coinvolti alcuni sistemi di trasporto che hanno affinità per il substrato abbastanza generica, una famiglia importante prende il nome di MATE, trasportano composti di interesse farmacologico o tossici nel tessuto vacuolare sfruttando il gradiente di pH. Ci sono anche sistemi primari che sfruttano ATP e trasportano le antocianidine se complessate con GSH. Funzione detossificante Le piante non hanno un vero e proprio sistema di escrezione, quindi le sostanze tossiche sono detossificate attraverso il loro accumulo nel vacuolo. La compartimentazione vacuolare fa sì che il citoplasma sia libero da sostanze tossiche e il metabolismo possa procedere normalmente. Le sostanze tossiche possono essere bloccate all’interno del vacuolo con diversi meccanismi: precipitazione, cristallizzazione, ionizzazione e glicosilazione. Le sostanze che tipicamente vengono compartimentate nel vacuolo sono i metalli pesanti e gli xenobiotici, sostanze di sintesi che la pianta non è capace di degradare (erbicidi, idrocarburi). I metalli pesanti sono tossici per tutti gli organismi, superata una concentrazione soglia. Come si può difendere un organismo dalla presenza di questi elementi nel suolo, dato che la pianta non si può spostare? Ci sono diversi meccanismi: - Esclusione, per cui la pianta riesce a tenere il metallo al di fuori delle sue cellule, con modifiche alla parete cellulare; - Compartimentalizzazione vacuolare, per cui la pianta convoglia all’interno del vacuolo i metalli e poi li fa precipitare; questo può avvenire a livello delle radici o nelle parti aree. Isoflavonoide ipotonico. Non è l’unica soluzione: alcuni protozoi vivono in acque dolci e non hanno una parete, in questi organismi è comparsa una struttura che è il vacuolo contrattile  ha lo scopo di raccogliere l’acqua in eccesso nel citoplasma e di espellerla con un dispendio energetico. La condizione ottimale per una cellula animale è la soluzione isotonica, per la cellula vegetale invece è la soluzione ipotonica. Quando la cellula vegetale è posta in soluzione ipertonica, si comporta in modo simile alla cellula animale: c’è una perdita di acqua dal protoplasto, ma la cellula non si raggrinzisce perché la parete cellulare è rigida  fenomeno di plasmolisi (contrazione del volume cellulare). Se la cellula vegetale è in soluzione isotonica è tutto normale, ma questa non è la situazione ottimale di vita, che è invece la soluzione ipotonica. In un tessuto vegetale, infatti, la soluzione circolante nei tessuti è proprio ipotonica: in questa situazione il protoplasto ha massimo stato di idratazione e la cellula non scoppia grazie alla parete cellulare (rigida, contrasta la tendenza all’espansione). Questo stato si chiama stato di turgore. Nello stato di turgore, l’acqua nella cellula esercita una pressione contro le pareti cellulari (pressione di turgore o pressione osmotica) che conferisce alla cellula vegetale anche un sostegno meccanico  in questa situazione c’è il massimo di resistenza meccanica a livello cellulare. La parete da sola darebbe un sostegno meccanico solo in parte, la forte resistenza meccanica è data dal complesso parete + vacuolo. Nello stato di turgore la pressione diretta verso l’esterno è controbilanciata dalla contropressione della parete cellulare, diretta verso l’interno  il potenziale idrico della cellula nello stato di turgore è 0  Ψ𝑐𝑒𝑙𝑙 = ΨΠ +Ψ𝑃 = 0. Lo stato di turgore serve non solo a dare sostegno a cellule e tessuti, ma anche ad interi individui: una pianta si affloscia nel passaggio dallo stato di turgore a quello di plasmolisi (reversibile). Quindi, le piante sfruttano i cambiamenti dello stato di turgore anche per i movimenti: cellule particolari possono passare da uno stato di turgore ad uno stato con perdita di turgore (non proprio plasmolisi) e questo porta a dei movimenti delle foglie o a livello cellulare. I plastidi Origine evolutiva I cloroplasti, così come i mitocondri, derivano da un evento di endosimbiosi. Mentre per l’origine del nucleo e del sistema di endomembrane l’ipotesi è di un’invaginazione della membrana con successiva riorganizzazione delle membrane interne, per mitocondri e cloroplasti l’origine è molto diversa. I progenitori dei cloroplasti sono i cianobatteri, i primi batteri fotosintetici comparsi nell’evoluzione della Terra, con una fotosintesi simile a quella dei cloroplasti  fotosintesi ossigenica, che produce ossigeno. I discendenti più vicini ai progenitori sono le alghe, i protisti fotosintetici. Alcune delle prove a supporto dell’origine batterica dei cloroplasti riguardano il mantenimento di molte caratteristiche procariotiche: organizzazione del genoma con DNA circolare, ribosomi della stessa grandezza dei procarioti (70S), sensibilità a determinati antibiotici simile ai batteri, modalità di divisione. Il DNA di un cloroplasto è circolare e organizzato in operoni. L’operone è un’organizzazione del genoma tipica dei procarioti dove abbiamo una serie di geni strutturali  un gene strutturale è una sequenza codificante dei geni che, quando viene trascritta in RNA e tradotta in proteina, corrisponde esattamente alla sequenza di amminoacidi. Nell’operone ci sono più geni strutturali che possono essere trascritti in un unico mRNA. Su questo unico mRNA inizia la traduzione delle proteine, prodotte velocemente dalla traduzione di un unico RNA. Il vantaggio di un’organizzazione in operoni per un microrganismo anziché in singoli geni: la vita dei microrganismi è molto competitiva (per il substrato) e la presenza di operoni fa sì che con un’unica operazione il microrganismo sia in grado di attivare velocemente un’intera via metabolica. I plastidi sono anche detti organelli semiautonomi perché possono sintetizzare da sé una serie di proteine partendo dall’informazione genica; semi perché non hanno tutte le informazioni per poter funzionare autonomamente. Se osserviamo il numero di geni di un cloroplasto vediamo che è molto minore rispetto a quello di un cianobatterio  nel passaggio dallo stato libero a quello di organello vediamo una grande perdita di informazione genica, in quanto le condizioni ambientali sono più stabili  la vita è più “semplice”. La perdita di geni è continuata: da cianobatteri ad alghe, ma anche a briofite e angiosperme. Alcuni geni persi dal genoma plastidiale sono andati persi, ma la maggior parte sono stati trasferiti dal genoma del cianobatterio al nucleo della cellula che li ospitava  questo è stato scoperto dall’analisi del genoma nucleare di Arabidopsis. Durante la transizione da endosimbionte a vero e proprio organulo c’è stata quindi una fase di perdita e di trasferimento dei geni procariotici dall’organello al nucleo della cellula ospitante. Perché può essere vantaggioso a livello di funzionamento del sistema questo massiccio trasferimento di informazione genetica dal genoma dell’organulo al genoma del nucleo? Ci sono alcune proposte: controllo centralizzato delle funzioni e mantenimento della variabilità genetica, la base su cui lavora la selezione naturale  i procarioti mantengono alta questa variabilità proprio perché scambiano materiale genico. Molte proteine che operano la fotosintesi sono proteine chimeriche  alcune derivano da informazione genetica del nucleo, altre dall’informazione genetica del cloroplasto. Organizzazione generale I plastidi sono una famiglia, non tutti fanno fotosintesi, ma hanno tutti la stessa organizzazione ultrastrutturale. I plastidi hanno 3 comparti separati tra loro da membrane: - Involucro plastidiale, il comparto più esterno (azzurro) delimitato da due membrane periplastidiali; - Stroma, matrice acquosa (grigia) dove sono presenti ribosomi, enzimi, genoma, amido; - Sistema tilacoidale, composto dal lume tilacoidale circondato da un sistema di membrane interne  i tilacoidi, sacchi appiattiti. Il terzo comparto è l’unico diverso dai mitocondri. In base alle funzioni svolte dai plastidi, è possibile che ci sia un comparto più sviluppato di un altro. Ad esempio, gli aminoplasti hanno tanto stroma perché sintetizzano lì l’amido, mentre hanno un piccolo sistema tilacoidale. Specializzazioni I plastidi con funzioni specializzate prendono nomi specifici: - Proplastidi, organuli ancora indifferenziati che troviamo nelle parti indifferenziate della pianta (semi, meristemi, dove c’è ancora l’embrione), l’unica funzione che hanno in questa fase è quella di trasformarsi nei plastidi differenziati; - Cloroplasti, con funzione fotosintetica, si trovano nelle foglie e in tutte le parti verdi, anche se ci sono eccezioni di cloroplasti nelle radici  le epifite (come le orchidee) crescono su altre piante e hanno quindi le radici esposte alla luce; - Amiloplasti, con funzione di riserva di amido, si trovano negli organi e nei tessuti di riserva  nelle radici, nei frutti, nei semi; - Cromoplasti, organuli vivacemente colorati con funzione vessillare, quindi adibiti a richiamare altri organismi legati all’impollinazione o alla dispersione dei semi  si trovano in organi che devono richiamare insetti o animali impollinatori, come fiori e frutti; - Ezioplasti, gruppo di plastidi considerati un incidente di differenziamento, derivano dai proplastidi e avrebbero dovuto differenziarsi in cloroplasti ma sono stati al buio durante la fase di crescita; non hanno funzione specifica e si trovano dove dovrebbero esserci dei cloroplasti. Grazie al fatto che hanno un genoma e sono parzialmente autonomi, i plastidi possono dare origine ad un fenomeno chiamato interconversione plastidiale  un tipo di plastidio può trasformarsi in un altro plastidio. I proplastidi, i precursori, hanno i 3 comparti abbozzati, di piccole dimensioni, e una membrana che delimita lo spazio periplastidiale. Le zone chiare sono le zone dove si trova il genoma plastidiale  ci sono più zone dette nucleoidi, non sono nucleo ma zone con DNA! I plastidi vengono trasmessi da una generazione all’altra nella maggior parte delle specie per via uniparentale materna, perché il gamete maschile fornisce allo zigote solo l’informazione nucleare  mitocondri e cloroplasti sono ereditati per via materna. Il numero di plastidi nella cellula, prima di arrivare ancora ai plastidi differenziati, aumenta (7-20 nei tessuti meristematici, >50 nei tessuti fotosintetici)  questo perché i plastidi possono anche dividersi, indipendentemente dalla divisione nucleare della cellula in cui sono contenuti  se la cellula si divide per mitosi due volte, i plastidi possono dividersi anche molte più volte. Questa divisione dei plastidi avviene per fissione binaria e questi organuli utilizzano delle proteine di tipo procariotico, come FtsZ. La forma del cloroplasto è molto caratteristica e conservata nel regno plantae (diverso nelle alghe). Visti di fronte hanno classica forma circolare, visti lateralmente sono appiattiti. Il fatto di poterli orientare, essendo dischi appiattiti e non sfere, ha importanti ripercussioni dal punto di vista funzionale: la pianta può riorganizzare i cloroplasti a seconda della direzione e dell’intensità della luce  se la luce è troppo forte la pianta li dispone di profilo in modo che catturino meno luce, se la pianta necessita di tanta luce li dispone frontalmente, così che catturino più luce possibile. Visto che la cattura della luce avviene sulle membrane tilacoidali, questa parte dei plastidi è molto sviluppata nei cloroplasti e si organizza in modo caratteristico. Nello stroma sono immersi: il materiale genetico a formare i nucleoidi; dei granuli molto scuri chiamati plastoglobuli, ricchi di sostanze idrofobiche, accumulo temporaneo di materiali che servono per la costruzione di membrane tilacoidali; granuli di amido (significato funzionale particolare). Il sistema tilacoidale nel cloroplasto prevede i tilacoidi, sacchi appiattiti, che sono in alcune parti singoli (tilacoidi intergranali o stromatici, direttamente a contatto con lo stroma), mentre la maggior parte dei tilacoidi sono organizzati a formare degli strati (granum). C’è una colla molecolare che si trova nella zona di partizione (tra un tilacoide e l’altro) che tiene insieme i tilacoidi a formare i granum. I tilacoidi non sono separati tra loro: il lume tilacoidale è un comparto unico, all’interno di un granum i tilacoidi sono parte di un unico grande tilacoide organizzato con un andamento a spirale. Questo è importante perché nella fotosintesi ci sono proteine che trasportano elettroni che possono muoversi nel lume tilacoidale passando da un sito ad un altro, trasportando elettroni anche a grandi distanze  il lume tilacoidale è fondamentale nel processo fotosintetico in quanto consente di accumulare intermedi e ioni in un comparto separato dallo stroma. Pigmenti: clorofille e carotenoidi La colorazione dei cloroplasti dipende dalla presenza delle clorofille A e B  la molecola di clorofilla ha un anello porfirinico (con 4 anelli pirrolici e al centro un atomo di magnesio che può facilmente trasferire elettroni) e una coda idrofobica di fitolo (molecola ramificata derivante dal metabolismo dell’isoprene). I pigmenti presenti nel cloroplasto sono tutti di natura idrofobica e questo consente loro di immergersi nelle membrane tilacoidali. La differenza tra i due tipi di clorofilla è una sostituzione sull’anello porfirinico: la clorofilla A ha gruppo metile -CH3, la clorofilla B ha un gruppo aldeidico -CHO. La clorofilla assorbe tutte le radiazioni luminose (zone verde e rosso del visibile) tranne la verde che quindi viene riflessa. Proplastidio Cosa succede quando la luce colpisce la materia? L’effetto della luce sulle molecole si vede solo per certe categorie di molecole, qui esemplificate come se fossero un unico atomo  non è così altrimenti ci sarebbe forte instabilità dal punto di vista atomico. L’energia radiante può essere trasferita alla materia: c’è una trasformazione da una forma di energia ad un’altra e l’energia assorbita dagli atomi viene utilizzata per lo spostamento di un elettrone periferico da un livello energetico inferiore (stato fondamentale) ad un livello energetico più alto (stato eccitato, la molecola assorbe luce per far compiere ad un suo elettrone un salto di orbitale). Questo è il modello di un atomo quantistico di Bohr. Per la teoria quantistica, la molecola deve assorbire un «pacchetto energetico» pari alla differenza di livello energetico tra i due stati; lo stato eccitato è reversibile (l’energia può essere rilasciata). Per far sì che l’energia radiale possa essere assorbita, la molecola deve essere di un tipo particolare: queste molecole sono chiamate pigmenti. La caratteristica di un pigmento è quella di avere un numero elevato di doppi legami coniugati  sono tali per cui l’elettrone condiviso rimane più delocalizzato, il legame che tiene l’atomo fermo è più debole e basta un piccolo pacchetto di energia per permettere il salto di orbitale  gli elettroni sono quindi più liberi di muoversi. I pigmenti coinvolti nel processo di fotosintesi sono clorofille e carotenoidi. Per capire lo spettro di assorbimento di un pigmento: colpisco un determinato pigmento in soluzione con lunghezze d’onda monocromatiche (scompongo la luce bianca) e provo a colpire il pigmento con le radiazioni a singole lunghezze d’onda, vedo a quali lunghezze d’onda la luce viene assorbita dal pigmento  nel caso della clorofilla lo spettro ha due picchi di assorbimento, la clorofilla va in stato eccitato diverso in base a se assume luce nel blu (< livello energetico) o nel rosso (> livello energetico). La clorofilla A ha una minima differenza con la clorofilla B (metile in A e gruppo aldeidico in B): questo cambia gli spettri di assorbimento delle due. La clorofilla A riesce ad assorbire pacchetti a maggiore livello energetico  grazie a questa capacità ha un ruolo particolare nella fotosintesi, riesce ad andare in stato eccitato con una quantità di energia minore rispetto alla clorofilla B. Ci sono anche i carotenoidi: il loro spettro ha picco nella zona del blu e sforano nell’UV. Sia carotenoidi che clorofille sono responsabili del colore verde delle piante: il verde è il colore che non viene assorbito ma invece viene riflesso. Lo stato eccitato è reversibile: se il pigmento è isolato, va in uno stato eccitato ma questa energia viene persa perché la tendenza è quella di andare in uno stato stabile, tornando ad un livello energetico più stabile, liberando l’energia che è stata acquisita. Come si torna indietro? O con una dissipazione di calore oppure tramite riemissione di luce a lunghezza d’onda maggiore. Cosa succede in questa serie di conversioni? In ogni conversione di energia parte dell’energia viene persa in entropia, quindi il pigmento perde energia. Questo fenomeno è molto sfruttato in biologia nelle tecniche di immunofluorescenza o di microscopia a fluorescenza, non con pigmenti fotosintetici ma con pigmenti che assorbono a lunghezza d’onda minore per poi riemetterla a lunghezza d’onda maggiore. Com’è che la pianta è in grado di gestire questa conversione energetica (assorbimento del pigmento)? Lo fa a condizione che il pigmento non sia isolato, quindi sia in un contesto in cui sono presenti altri pigmenti, il tutto tenuto insieme da proteine. Se non c’è questa prossimità fisica tra i pigmenti, c’è la riemissione per fluorescenza con perdita di energia. Quando i pigmenti sono vicini ci sono due modalità con cui l’energia che è stata assorbita non viene persa ma viene trasmessa. Dopo l’eccitazione del pigmento può esserci: - un trasferimento di sola energia  il pigmento è nello stato eccitato, se è vicino ad un altro pigmento il primo torna allo stato fondamentale e l’energia che aveva viene passata ad un altro pigmento che si eccita  il pacchetto energetico viene quindi trasferito al pigmento vicino. Questo meccanismo è chiamato risonanza. - Un trasferimento di energia ed elettroni, un meccanismo più complesso che necessita di ambiente e pigmenti particolari  il primo pigmento che va nello stato eccitato ha un suo elettrone che passa sullo stato più esterno, ma in questo contesto particolare l’elettrone non torna sul suo orbitale di partenza ma viene sbalzato e finisce su un accettore di elettroni (normalmente un altro pigmento)  abbiamo una separazione di cariche, il pigmento che riceve l’elettrone assume una carica netta negativa e il pigmento che ha dato l’elettrone assume carica positiva. L’accettore viene ridotto, il donatore viene ossidato. Entrambi questi fenomeni avvengono nella fase luminosa. I pigmenti quindi non sono isolati, ma sono associati a formare delle strutture macromolecolari in cui ci sono tanti pigmenti tenuti insieme da proteine  questo si chiama fotosistema, l’unità che assorbe la luce (immerso nelle membrane tilacoidali) e consiste di due regioni con diverso significato funzionale: - Complesso antenna  è la zona dove la radiazione luminosa viene catturata, quindi dove c’è il primo assorbimento della radiazione luminosa. Qui troviamo tutti i pigmenti di varia natura, per poter assorbire maggior luce possibile a diverse lunghezze d’onda. In questa regione il trasferimento della radiazione assorbita da un pigmento ai pigmenti vicini avviene solo per risonanza. - Centro di reazione  contiene un dimero di clorofilla A, qui avviene il fenomeno di separazione delle cariche. L’energia dal complesso antenna arriva al centro di reazione e poi c’è la separazione delle cariche. Le piante hanno la possibilità di potenziare l’assorbimento dell’energia radiante. Nell’immagine vediamo in beige la membrana tilacoidale e in verde scuro il complesso antenna: il complesso antenna può essere potenziato da delle isolette (verde chiaro) che si muovono nel doppio strato fosfolipidico della membrana  sono sistemi antenna accessori (LHC) che possono aggregarsi alla zona antenna di un fotosistema e potenziarne la superficie di assorbimento. Questi LHC possono essere modulati in base alla luce che arriva alla pianta (attaccati o staccati). La vera conversione della luce radiante nella forma chimica avviene poi nel centro di reazione, con la liberazione di un elettrone che porta con sé tutta l’energia raccolta dal fotosistema  l’elettrone può essere utilizzato ad esempio per generare ATP. Complesso antenna I fotosistemi sono costruiti in modo da minimizzare il rischio di perdita di energia: i pigmenti devono essere disposti in modo tale da acquisire il pacchetto di energia dal pigmento precedente. Il secondo pigmento non può essere identico al primo, deve potersi eccitare con energia minore perché parte dell’energia è persa in entropia. La direzione, quindi, è precisa e dipende dai pigmenti presenti: i pigmenti sono disposti in modo da convogliare l’energia radiante (che man mano cala) fino al centro di reazione. Nelle zone più esterne del complesso antenna, quindi, sono collocati i carotenoidi, che assorbono a più bassa lunghezza d’onda quindi maggiore energia. Al centro di reazione si trova invece la clorofilla A, pigmento che riesce ad andare in uno stato eccitato anche con un pacchetto energetico molto basso. Il concetto è che il complesso antenna è costruito in modo da limitare le perdite di energia che si avrebbero se i pigmenti fossero disposti in modo casuale. Nel cloroplasto c’è anche un sistema per ridurre ulteriormente il rischio di perdita per fluorescenza. Centro di reazione Qui il dimero di clorofilla A riceve per risonanza l’energia del complesso antenna. Il centro di reazione ha, abbinato alla clorofilla A, l’accettore di elettroni  molecola pronta a strappare l’elettrone alla clorofilla A quando essa va in uno stato eccitato. È necessario anche un donatore di elettroni. Nell’immagine le linee nere indicano i livelli energetici. Quando la radiazione arriva dal complesso antenna, la clorofilla A (verde) “sale” e va in uno stato eccitato, aumentando il livello energetico. C’è poi la separazione delle cariche. A questo punto la clorofilla si è scaricata, non può rifare il ciclo perché ha perso il suo elettrone  si ricarica grazie al donatore di elettroni (grigio), che cede un elettrone alla clorofilla ossidata  si ricostituisce la clorofilla A pronta ad eccitarsi di nuovo. Quello che viene perso dalla clorofilla A è un elettrone ad alta energia, mentre quello che riceve dal donatore è a bassa energia  la luce serve quindi per caricare questo elettrone e riniziare il ciclo. Fotosistema I e fotosistema II Durante l’evoluzione, nei cianobatteri compare per la prima volta la clorofilla A, che dà una nuova possibilità al fotosistema: quella di strappare elettroni all’acqua. Compare quindi il fotosistema II, con questa capacità di rimpiazzare gli elettroni di reazione con gli elettroni che arrivano dall’ossidazione dell’acqua. Il nuovo non rimpiazza il vecchio: i due fotosistemi lavorano accoppiati (in serie) nella fase luminosa. La fase luminosa a 2 fotosistemi si ha quindi negli organismi vegetali che derivano dai cianobatteri. Lo schema a Z rappresenta il percorso degli elettroni, i quali seguono una via a zig-zag in cui c’è il passaggio degli elettroni dall’acqua, da cui vengono strappati, attraverso poi i due fotosistemi. Il primo fotosistema che incontrano gli elettroni nella fase luminosa è il fotosistema II (l’unico in grado di strappare elettroni all’acqua). Sull’asse y c’è il potenziale redox delle molecole, sostituibile con il livello energetico. Salendo verso l’alto ci sono valori sempre più negativi, questo indica la capacità delle molecole di cedere elettroni (potere riducente), mentre i valori positivi indicano la tendenza delle molecole di acquisire elettroni (potere ossidante). Normalmente le molecole hanno 1 valore di potenziale redox, mentre i rettangoli indicano i fotosistemi, che sembrano avere due potenziali redox molto diversi: la differenza è lo stato della clorofilla nel centro di reazione  la clorofilla A è un forte riducente quando l’elettrone è pronto a saltare fuori nella separazione delle cariche, mentre quando la clorofilla A ha ceduto elettroni è ossidata e cambia il suo potenziale redox in quando diventa un forte ossidante. Se l’energia radiante arriva al fotosistema si ha la separazione delle cariche: un elettrone ad alta energia viene rilasciato dal fotosistema, passa attraverso una serie di accettori e donatori di elettroni ed entra in una catena di trasporto. L’energia viene man mano dissipata nei passaggi tra i trasportatori fino ad arrivare a ridurre la clorofilla A nel centro di reazione del fotosistema I, che nel frattempo ha perso l’elettrone. Gli elettroni arrivano al centro di reazione del fotosistema I, in presenza di radiazione luminosa possiamo avere di nuovo l’eccitazione e di nuovo la separazione delle cariche. Alla fine, l’elettrone viene utilizzato nella riduzione del NADP+ a NADPH. In questo schema della catena di trasportatori di elettroni nella fase luminosa vediamo i due fotosistemi e alcuni elementi della catena di trasporto da fotosistema I a fotosistema II: - un grosso complesso proteico della famiglia dei citocromi, chiamato citocromo b6f; - una molecola organica chiamata plastochinone che deriva dal metabolismo dell’isoprene, con la capacità di ridursi sui due atomi di O. Per mantenere neutra la molecola prende anche due protoni dallo stroma; - una piccola proteina chiamata plastocianina, l’unica componente non integrale di membrana in questa fase, può attaccarsi sul citocromo b6f o sul fotosistema I ma può anche viaggiare nel lume, ha il compito di trasportare elettroni dal citocromo b6f al fotosistema I. Schema a Z Nei tilacoidi l’ATP sintasi e il fotosistema I si trovano nelle zone di margine in quanto hanno una componente del sistema molto voluminosa verso il lato stromatico della membrana tilacoidale, quindi non potrebbero stare dove le membrane stanno molto vicine, per il loro ingombro sterico. Nelle zone di partizione troviamo solo il fotosistema II associato ai sistemi antenna accessori LHC (fanno da colla biologica che tiene uniti i tilacoidi); l’unica componente delle membrane tilacoidali presente un po’ ovunque è il citocromo b6f. Il fotosistema II (PSII) è presente solo nelle zone di partizione perché rappresenta la causa stessa della formazione della partizione: la partizione è lì perché c’è il fotosistema II con i sistemi antenna accessori (LHCII). Queste strutture hanno un significato funzionale, l’associazione è stretta tra fotosistema II e sistemi antenna per perdere meno energia luminosa possibile nel trasferimento di energia per risonanza. Avendo affacciati i complessi antenna del fotosistema II e quelli accessori, l’energia eventualmente persa per fluorescenza può essere catturata dal complesso antenna vicino: il sistema così è più efficiente e non ci sono perdite di energia  il sistema è potenziato. Se la luce è scarsa, il sistema di associazione PSII e LHCII aumenta l’efficienza del sistema. L’efficienza del PSII dipende dal numero di tilacoidi impilati nei grana: questo numero viene regolato attraverso il complesso PSII – LHCII a seconda dell’intensità luminosa ed è in grado di cambiare l’efficienza fotosintetica. La Selaginella è una felce amante delle zone ombrose (pianta sciafila): per questa pianta le condizioni ottimali sono condizioni a luce scarsa, quindi cosa succede quando mettiamo a confronto l’aspetto di un cloroplasto quando la luce è scarsa (ottimale per queste felci) e quando la luce è normale (troppo intensa)? In una pianta sciafila, la forte intensità luminosa porta alla riduzione del numero di tilacoidi impilati nei grana, quindi i grana sono meno spessi e ci sono meno partizioni. Se la luce è ottimale ci sono più tilacoidi impilati, più partizioni e i grana sono più spessi. La pianta può ridurre l’assorbimento della luce in condizioni di luce intensa e lo fa sfruttando l’associazione tra PSII e LHCII  viene rotta l’associazione tramite fosforilazione di LHCII, che perde l’affinità con il fotosistema II, si stacca e viene meno la colla biologica che teneva insieme la membrana tilacoidale. I grana sono meno spessi e quindi meno efficienti nell’assorbimento di luce. Questo già basterebbe, ma è stato scoperto che l’LHCII, una volta fosforilato, acquista affinità per il fotosistema I (che si trova nelle zone di margine)  viene quindi depotenziato il fotosistema II e viene potenziato il fotosistema I e in questo modo si riduce il rischio di formazione di ROS. La fosforilazione di LHCII avviene grazie ad una LHCII-chinasi, che si attiva a luce troppo intensa. Quando le condizioni cambiano, ad esempio la luce torna ad essere ottimale, entra in gioco una LHCII- fosfatasi che fa l’opposto della chinasi  stacca il gruppo fosfato dalla LHCII fosforilata e l’LHCII ha di nuovo affinità per il fotosistema II. Questi sistemi non sentono direttamente la luce, ma percepiscono il rapporto plastochinone ridotto/ossidato  se è ridotto la luce è molto intensa e agisce la LHCII-chinasi, se è ossidato la luce è ottimale e agisce la LHCII-fosfatasi. La fase oscura della fotosintesi La fase oscura è una fase luce-indipendente in cui avvengono reazioni di tipo biochimico. È rappresentata da un ciclo metabolico chiamato ciclo di Calvin-Benson ed è strettamente collegata con la fase luminosa perché ne utilizza i prodotti: ATP e NADPH. Tutti gli enzimi di questa via metabolica sono nello stroma e qui avviene tutto il ciclo. Il ciclo di Calvin Benson ha 3 fasi: 1. Fissazione della CO2 (o carbossilazione): la CO2 entra nel ciclo metabolico legandosi ad un accettore, uno zucchero a 5 atomi di carbonio, il ribulosio-1,5-bifosfato; 2. Riduzione: c’è una trasformazione degli intermedi metabolici  la CO2 è trasformata in una molecola organica tramite una riduzione che necessita di energia (sempre processo endoergonico)  si usa il NADPH come riducente e l’ATP per l’energia; 3. Rigenerazione dell’accettore di CO2. Nella fase 1 di carbossilazione è necessario attaccare la CO2 al ribulosio-1,5-bisfosfato tramite un enzima: la ribulosio-1,5-bisfosfato carbossilasi/ossigenasi  rubisco, formata da 16 subunità proteiche  8 piccole di origine nucleare, 8 grandi di origine plastidiale. La CO2 viene attaccata alla rubisco, quindi viene aggiunto un atomo di C della CO2 e si crea un intermedio a 6 atomi di C  questo intermedio è molto instabile, si scinde spontaneamente in due molecole identiche a 3 atomi di C, due 3-fosfoglicerato. Nella fase 2 c’è la riduzione del 3-fosfoglicerato tramite energia (ATP) e riducente (NADPH): c’è una riduzione a gruppo aldeidico e si ottengono due molecole identiche di gliceraldeide-3-fosfato. La fase 2 produce 6 molecole a 3 atomi di carbonio, una di queste viene usata per produrre molecole di zucchero, il prodotto finale del ciclo. Della fase 2 rimangono quindi 5 molecole a 3 atomi di carbonio, riarrangiate nella fase di rigenerazione in 3 molecole a 5 atomi di carbonio. Si aggiunge poi un secondo gruppo fosfato ad esse con consumo di 3 molecole di ATP. La rubisco è una carbossilasi ma anche una ossigenasi: nel suo sito catalico può riconoscere non solo la CO2 ma anche l’ossigeno  può sbagliarsi e attaccare l’ossigeno all’accettore anziché la CO2. Se alla rubisco si attacca l’ossigeno esso viene attaccato all’accettore: non c’è aggiunta di atomi di C, non aumenta la biomassa e continuano ad esserci 5 atomi di carbonio. Le prime tappe di questo processo coinvolgente l’ossigeno sono simili a quelle della fotosintesi; il problema è che si forma un composto a 2 atomi di carbonio che, per essere recuperato, viene immesso in una via complessa che è la fotorespirazione: 2 molecole a 2 atomi di carbonio vengono combinate tra loro per generare una molecola a 3 atomi di carbonio e una molecola di CO2. Quindi con questo processo si libera CO2  non solo non c’è guadagno ma c’è proprio una perdita  per questo motivo questo processo parassita della fotosintesi viene chiamato fotorespirazione  consuma ossigeno e accettore e libera anidride carbonica. Nelle piante, quindi, la resa fotosintetica diminuisce con l’aumento in percentuale dell’ossigeno all’interno dei tessuti fotosintetici. Il funzionamento della rubisco come carbossilasi o come ossigenasi dipende fondamentalmente dalla concentrazione di CO2 e O2. In condizioni sfavorevoli, la fotorespirazione può abbassare la resa della fotosintesi fino al 50%. Perché nelle piante esiste la fotorespirazione, un processo parassita della fotosintesi? Ci sono 2 teorie: - Potrebbe trattarsi di un relitto evolutivo  quando sono comparse le piante terrestri (ca. 460 milioni di anni fa) la CO2 nell’atmosfera era molto elevata e l’attività ossigenasica della rubisco non aveva verosimilmente influenza. - Potrebbe invece avere un ruolo funzionale, in quanto il consumo di ossigeno può essere un vantaggio per ridurre il danno da fotoinibizione dovuto ai ROS. Per le piante, l’aumento continuo della CO2 nell’atmosfera dovuto ai cambiamenti climatici favorisce la resa fotosintetica. Il problema è, invece, l’effetto serra correlato. Nella foglia, i gas interni possono essere o meno in equilibrio con i gas dell’atmosfera esterna per quanto riguarda la concentrazioni di CO2 e di O2: se si riesce a mantenere identico l’equilibrio di gas all’interno e all’esterno della foglia, si ha meno rischio di fotorespirazione. Per ottimizzazione la fase oscura della fotosintesi ci sono meccanismi di tipo biochimico e anatomico. Meccanismi biochimici. Per funzionare in modo efficace, e quindi per avere a disposizione i prodotti della fase luminosa, la fase oscura deve essere coordinata con la fase luminosa. Alcuni meccanismi di coordinamento utilizzano enzimi del ciclo di Calvin-Benson attivati dalla luce (tra cui anche la rubisco) o attivati a pH alcalino (quando la fase luminosa sta funzionando appieno). Meccanismi anatomici/metabolici. 1. Regolazione della composizione dei gas nei tessuti interni mediante apertura e chiusura degli stomi 2. Fotosintesi CAM (Metabolismo Acido delle Crassulacee)  un adattamento della fotosintesi ad ambienti estremamente aridi, dove la pianta non può tenere aperti gli stomi di giorno per non perdere vapore acqueo. Tenendo gli stomi chiusi, ci sarebbe un aumento interno dell’ossigeno rispetto alla CO2, quindi gli stomi vengono aperti di notte in modo da catturare e accumulare CO2 (in una forma organica) 3. Fotosintesi C4  un adattamento ad ambienti caldi e secchi (come CAM), ma è una fotosintesi ad alta efficienza. Gli stomi sono aperture regolabili sulla superficie delle foglie, necessari perché i tessuti delle parti epigee sono impermeabilizzati e senza di essi la pianta potrebbe perdere acqua (grazie alla cuticola, processo di cuticolarizzazione). La pianta non può scambiare gas se non attraverso gli stomi: passano principalmente CO2, O2 e H2O gassosa. Questi gas si muovono a seconda del gradiente di concentrazione: durante il giorno, quando prevale il processo fotosintetico, all’interno dei tessuti si forma ossigeno e la CO2 viene consumata, quindi l’ossigeno aumenta la concentrazione rispetto al valore all’esterno e la CO2 diminuisce  la CO2 esce e l’O2 entra. Alla notte questo movimento si inverte. Il vapore acqueo, invece, è sempre in uscita perché il movimento dell’acqua dipende esclusivamente dal valore di potenziale idrico, che in un tessuto pieno di acqua come la foglia sarà sempre sicuramente molto maggiore del potenziale idrico all’esterno. Organizzazione degli stomi. Gli stromi hanno forme diverse a seconda del gruppo tassonomico; l’apertura si chiama rima stomatica e si forma per lo scostamento della lamella mediana che teneva insieme due cellule derivanti dalla stessa cellula madre. Le due cellule sono dette cellule guardia e rimangono unite alle estremità. Al processo di apertura e chiusura partecipano anche le cellule vicine chiamate cellule sussidiarie, coinvolte perché tramite loro arriva l’acqua. Nelle cellule guardia degli stomi ci sono tanti cloroplasti che non hanno tanto funzione fotosintetica ma sono importanti nella recezione della luce. Il meccanismo di apertura è influenzato da: - Osmosi  si modificano i potenziali idrici per influenzare entrata e uscita di acqua attraverso la membrana semipermeabile che è la membrana plasmatica; - Organizzazione della parete cellulare delle cellule guardia  orientamento radiale delle microfibrille di cellulosa. La rima stomatica si apre quando le cellule guardia sono in stato di turgore, il quale si ottiene facendo entrare acqua. È necessario quindi aumentare la concentrazione dei soluti, facendo entrare ioni potassio K+ per influenzare in modo rapido i potenziali idrici. L’apertura dello stoma si ha con l’ingresso di K+ nelle cellule guardia  in questo modo il potenziale idrico delle cellule guarda è minore di quello delle cellule sussidiarie  entra acqua e si ha lo stato di turgore delle cellule guardia. La chiusura dello stroma si ha con la fuoriuscita di K+ dalle cellule guardia  il potenziale idrico delle cellule guardia è maggiore di quello delle cellule sussidiarie  si ha fuoriuscita di acqua e si perde lo stato di turgore delle cellule guardia. Bisogna tenere conto anche di come sono disposte la microfibrille di cellulosa nella parete cellulare delle cellule guardia: si ha una micellazione radiale, una disposizione radiale di queste microfibrille; questo impedisce una dilatazione e quando entra acqua si crea pressione all’interno che si scarica sui due punti a contatto con le cellule (zone di adesione)  si crea l’apertura.
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