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Biologia vegetale e animale, Sintesi del corso di Biologia Animale

Definizioni di biologia animale e vegetale

Tipologia: Sintesi del corso

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anna-di-meco
anna-di-meco 🇮🇹

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Scarica Biologia vegetale e animale e più Sintesi del corso in PDF di Biologia Animale solo su Docsity! BIOLOGIA I tre temi fondamentali Nella biologia esistono tre temi fondamentali interconnessi tra loro: • Evoluzione: si tratta della struttura portante della biologia. Le diverse forme di vita nel nostro pianeta sono correlate tra loro e le popolazioni si sono evolute nel tempo da forme di vita primordiali. • Trasmissione dell’informazione: la sopravvivenza e la funzione di ogni cellula e di ogni organismo dipendono da una trasmissione regolata dell’informazione. • Trasferimento dell’energia: tutti i processi vitali richiedono un continuo ingresso di energia, che viene in gran parte dalla luce solare. Così dai produttori, l’energia passa ai consumatori, mentre i decompositori la traggono da entrambi. Le caratteristiche della vita Nonostante le loro diversità, gli esseri viventi che popolano il nostro pianeta condividono una serie di caratteristiche che li distinguono dalle cose non viventi. Tutti gli organismi viventi sono costituiti da unità di base chiamate cellule. Le nuove cellule sono generate esclusivamente dalla divisione di cellule preesistenti. Questi esseri viventi possono essere costituiti da cellule singole (negli organismi unicellulari, come i protozoi), o unite in miliardi a formare tessuti, organi e apparati (negli organismi pluricellulari). Ogni cellula è circondata da una membrana plasmatica protettiva, che la separa dall’ambiente circostante. La membrana plasmatica, inoltre, regola il passaggio di materiale tra la cellula e l’ambiente. All’interno di una cellula, l’informazione genetica è contenuta nell’acido deossiribonucleico, DNA, mentre vari organelli sono organizzati in modo da svolgere ognuno funzioni precise. Esistono fondamentalmente due diversi tipi di cellule: • Procariotiche • Eucariotiche Le cellule procariotiche sono esclusive dei batteri e di organismi microscopici chiamati archea; non contengono nucleo, né organelli circondati da membrana. Tutti gli altri organismi sono costituiti da cellule eucariotiche. Quest’ultime, più complesse, contengono una varietà di organelli circondati da membrana, incluso il nucleo che contiene DNA. Con l’espressione ‘crescita biologica’ si intende l’aumento della dimensione e/o del numero delle singole cellule, o entrambi. La crescita di un organismo può essere uniforme oppure maggiore in alcune parti, cosicché le proporzioni del corpo cambiano. Alcuni animali continuano a crescere durante tutta la loro vita, altri invece possiedono un periodo di crescita definito. Contemporaneamente alla crescita, gli organismi viventi si sviluppano, di modo che la forma e le strutture del corpo si adattino alle funzioni da svolgere. Per la nutrizione, la crescita, la riparazione cellulare e la trasformazione dell’energia, all’interno dell’organismo avvengono numerose reazioni chimiche, il cui insieme è detto metabolismo: le reazioni metaboliche avvengono di continuo e devono essere regolate in modo accurato per mantenere l’omeostasi, ovvero uno stato di equilibrio interno. Questi meccanismi omeostatici sono sistemi di controllo che si autoregolano, altamente sensibili ed efficienti. Per esempio, negli animali superiori, le cellule richiedono un apporto costante di glucosio, che viene demolito per ottenere energia. Il sistema circolatorio ha la funzione di portare il glucosio ed altri fattori nutritivi a tutte le cellule. Quando la concentrazione di glucosio nel sangue sale sopra i livelli normali, questo è immagazzinato nel fegato e nelle cellule muscolari. Quando il livello inizia a scendere, le riserve sono convertite in glucosio, i cui livelli ematici ritornano a valori normali. Quando il glucosio viene consumato i centri superiori ci avvertono che è ora di mangiare e il cibo ingerito è trasformato in glucosio. Tutte le forme di vita rispondono agli stimoli, cambiamenti fisici o chimici che avvengono nel loro ambiente interno od esterno. La risposta agli stimoli determina il movimento, non sempre di locomozione. Negli esseri semplici, alcuni organismi unicellulari rispondono ad una luce intensa ritraendosi, in altri lo spostamento è dato dall’oscillazione di piccole estroflessioni della cellula simili a peli, chiamate ciglia, oppure di strutture più lunghe chiamate flagelli; altri ancora attraverso un processo detto movimento ameboide, che consiste in un lento scivolamento della cellula. Alcuni animali, definiti sessili, possiedono stadi larvali durante i quali possono muoversi liberamente, ma una volta divenuti adulti perdono la capacità di muoversi da un luogo all’altro, perché rimangono saldamente attaccati ad una superficie e muovono l’acqua circostante attraverso ciglia o flagelli per avvicinare il nutrimento e l’ossigeno. Le piante orientano le foglie verso il sole e crescono in direzione della luce. Alcune, come la Venere acchiappamosche, sono dotate di un’estrema sensibilità al tatto, che consente loro di catturare gli insetti dai quali ricevono l’azoto. Gli organismi viventi più complessi, come i mammiferi, hanno zone adibite ognuna alla recezione di particolari stimoli; ad esempio le pupille si dilatano o si restringono a seconda della quantità di luce. Grazie a Francesco Redi e Louis Pasteur, oggi sappiamo che ogni organismo deriva da organismi preesistenti. In organismi semplici, come l’ameba, abbiamo una riproduzione di tipo asessuato: la cellula madre, una volta raggiunta una certa dimensione, dopo aver raddoppiato il suo patrimonio genetico, si divide in due cellule figlie, le quali sono identiche alla madre, se non per le dimensioni. Il verificarsi di mutazioni genetiche, cambiamenti permanenti nei geni, danno luogo a variazioni fra gli organismi che si riproducono asessualmente. Negli esseri più complessi la riproduzione è di tipo sessuato, avviene quindi con la produzione di cellule specializzate (uova e cellule spermatiche), che si uniscono a formare un uovo fecondato, dal quale si svilupperà un nuovo organismo. La prole è il prodotto dell’interazione di diversi geni forniti sia dalla madre che dal padre. In un mondo continuamente soggetto a cambiamenti, la capacità di adattarsi all’ambiente è necessaria per la sopravvivenza di un organismo. Gli adattamenti sono caratteri ereditari e possono essere di tipo strutturale, fisiologico, comportamentale, o una combinazione fra questi. I livelli di organizzazione biologica Il riduzionismo è una tecnica che può essere utilizzata dai biologi per studiare una struttura a partire dalle parti che la compongono. Gli organismi possiedono diversi livelli di organizzazione e ogni livello possiede delle proprietà specifiche non presenti nei livelli inferiori. Il primo livello è quello chimico, costituito da atomi e molecole, ed è il più semplice di tutti. Un atomo è la più piccola unità di un elemento chimico che ha in sé le proprietà caratteristiche di quell’elemento. Gli atomi si combinano chimicamente per formare molecole e diversi tipi di atomi e molecole possono associarsi tra loro per formare le cellule. Il secondo livello è quello cellulare, infatti gli atomi e le molecole si uniscono fra loro a formare una cellula, ovvero la struttura base, nonché l’unità funzionale della vita. Le cellule si uniscono poi a formare i tessuti (come quello muscolare e nervoso, negli animali, e i tessuti vascolari e 42 A sua volta questi tre domini sono divisi in sei regni: • Bacteria • Archaea • Protista • Plantae • Animalia • Fungi I primi due regni sono assegnati ai domini dei procarioti, mentre gli altri quattro fanno parte degli Eukarya. Il microbiologo Carl Woese, scoprì l’importanza dell’RNA ribosomiale nella determinazione dei due gruppi distinti di procarioti, ovvero i bacteria e gli archaea. I Protisti (per esempio alghe, muffe mucillaginose, amebe e ciliati) sono unicellulari oppure organismi pluricellulari semplici e fanno parte degli Eukarya. La parola Protisti, dal greco “primo in assoluto”, riflette l’idea che i protisti furono i primi eucarioti ad evolversi. Essi sono principalmente organismi acquatici con differenti strutture, tipi di riproduzione, di nutrizione e di vivere. Tuttavia, recentemente, non sono più considerati un regno. I membri del regno Plantae sono organismi pluricellulari complessi in grado di svolgere attività fotosintetica. Il regno delle Plantae comprende sia le piante vascolarizzate (felci, conifere, piante a fiori), che le piante non vascolarizzate (i muschi). Le piante possiedono delle caratteristiche specifiche come: • La cuticola (una copertura cerosa che ricopre le parti esposte all’aria riducendo le perdite d’acqua) • Gli stomi (piccole aperture presenti nel fusto e nelle foglie che permettono lo scambio gassoso) • Gametangi pluricellulari (organi che proteggono le cellule riproduttive in via di sviluppo) Il regno Fungi è composto da lieviti, muffe e funghi. Questi organismi non sono fotosintetici e ottengono nutrienti mediante la secrezione di enzimi digestivi e l’assorbimento del cibo predigerito. Il regno Animalia, invece, è formato da organismi pluricellulari che devono mangiare altri organismi per trarne nutrimento. Essi possiedono un alto grado di specializzazione dei tessuti e di organizzazione del corpo. La maggior parte degli animali, inoltre, si riproduce sessualmente. Charles Darwin fu il primo, nel 1859, a suggerire un meccanismo plausibile che potesse spiegare l’evoluzione, la selezione naturale, la cui teoria si fonda sulle seguenti osservazioni: 1. Ogni membro di una specie è diverso dagli altri 2. Nascono molti più organismi di quelli in grado di sopravvivere fino alla riproduzione 3. Gli organismi, dunque, devono competere per le risorse necessarie ma limitate, come il cibo, la luce del sole e lo spazio 4. Gli organismi che sopravvivono, dal momento che possiedono caratteristiche più vantaggiose per ottenere e utilizzare le risorse, si riproducono e trasmettono queste caratteristiche alla loro prole e alle generazioni future. A differenza di Darwin, possiamo comprendere che le differenze esistenti tra gli organismi sono il risultato di geni differenti che codificano ciascuna caratteristica. Alla base di queste variazioni ci sono mutazioni casuali, cioè cambiamenti di natura chimica o fisica del DNA che sono persistenti e che possono essere ereditati. Le mutazioni modificano l’informazione genetica e forniscono la materia prima per l’evoluzione. Tutti i geni presenti in una popolazione ne costituiscono il pool genico. ATOMI E MOLECOLE: LA BASE CHIMICA DELLA VITA Elementi e atomi Degli oltre cento elementi, sono quattro, da soli, a costituire il 96% della massa della maggior parte degli organismi: l’ossigeno è necessario alla respirazione cellulare, il carbonio costituisce lo scheletro delle molecole organiche, lo ione H+ è coinvolto in alcuni trasferimenti di energia, l’azoto è il componente delle proteine e degli acidi nucleici, nonché della clorofilla nelle piante. Il restante 4% è costituito da altri otto elementi alla base della vita: il calcio è la componente strutturale delle ossa, dei denti e della parete cellulare delle piante, e il suo ione Ca2+ è importante per la contrazione muscolare, la coagulazione del sangue e la conduzione degli impulsi nervosi; il fosforo è la componente degli acidi nucleici e dei fosfolipidi di membrana, inoltre è una componente strutturale delle ossa; il potassio è fondamentale nei liquidi interstiziali degli animali, nella funzione nervosa e nella contrazione muscolare, nonché controlla l’apertura degli stomi nelle piante; lo zolfo è presente nella maggior parte delle proteine; il sodio è fondamentale nell’omeostasi dei liquidi, è una componente dei liquidi interstiziali degli animali, è fondamentale nella conduzione nervosa e importante per la fotosintesi nelle piante; il magnesio è necessario nel sangue, attiva molti importanti sistemi enzimatici ed è una componente della clorofilla nelle piante; il cloro si trova nei liquidi interstiziali animali, è importante per il bilancio idrico ed è essenziale per la fotosintesi; il ferro è la componente dell’emoglobina negli animali e consente l’attivazione di alcuni enzimi. Ogni elemento è definito in base al numero di protoni che lo compongono e che costituiscono il numero atomico, scritto in basso a sinistra sotto il simbolo dell’elemento. La massa delle particelle subatomiche viene espressa in uma (unità di massa atomica), detta anche Dalton, che corrisponde circa al peso di un protone o di un neutrone. La massa atomica indica, infatti, la somma del peso di protoni e neutroni contenuti nel nucleo, mentre gli elettroni, visto il loro peso decisamente piccolo (1/1800 della massa di un protone o di un neutrone), vengono trascurati. Ogni elemento può presentarsi, in natura, con un numero diverso di neutroni e quindi con differente massa atomica: si parla in questo caso di isotopi, che generalmente hanno fra loro le stesse caratteristiche chimico-fisiche. Sono presenti, tuttavia, isotopi instabili che tendono a rompersi o a decadere verso un isotopo più stabile: ad esempio, il decadimento radioattivo del radioisotopo carbonio-14 comporta la decomposizione di un neutrone in un protone e un elettrone veloce, emesso sotto forma di radiazione e noto come particella β; il risultato è la conversione in un atomo stabile, ovvero l’azoto comune (14N). Il decadimento può essere rilevato tramite autoradiografia. Gli orbitali sono regioni di spazio in cui si muovono gli elettroni; ogni orbitale ne può contenere al massimo due. Elettroni posti in orbitali con energie simili si dice che hanno lo stesso livello energetico e costituiscono un guscio elettronico. Gli elettroni con maggiore energia si dicono elettroni di valenze e occupano il guscio di valenza, ovvero il cerchio più esterno del modello di Bohr. Le reazioni chimiche Quando il guscio di valenza non è completo, l’atomo tende a cedere, acquisire o condividere elettroni per completarlo. In questo modo, elementi possono combinarsi a formare composti e molecole, concetti che non coincidono fra loro, perché non tutti i composti –come ad esempio il cloruro di sodio NaCl- sono costituiti da molecole. Le formule chimiche possono essere scritte in vari modi, ciascuno dei quali offre informazioni diverse: 42 ■ Formula semplice (o empirica): i numeri in pedice forniscono il più piccolo rapporto tra gli atomi presenti in un composto (es. NH2, idrazina) ■ Formula molecolare: i numeri in pedice indicano il numero reale di ogni tipo di atomo nella molecola (es. N2H4, idrazina) ■ Formula di struttura: mostra anche l’organizzazione reciproca fra gli atomi della molecola La massa molecolare di un composto è la somma delle masse atomiche degli atomi che compongono ogni molecola. La mole è la quantità di composto la cui massa in grammi è equivalente alla sua massa atomica o molecolare: una mole di ciascuna sostanza contiene sempre esattamente lo stesso numero di unità, espresse con il numero di Avogadro, pari a 6,02*1023. Le equazioni chimiche sono il modo per descrivere le reazioni chimiche, che possono procedere in una sola direzione, oppure possono essere reversibili e quindi procedere simultaneamente verso destra e verso sinistra con eguale velocità (equilibrio dinamico). I legami chimici Gli atomi di una molecola sono tenuti insieme da forze attrattive, dette legami chimici, e possono essere rotti da un’energia di legame. ♦ I legami covalenti consistono nella condivisione di elettroni fra gli atomi. Si può avere un legame covalente semplice, doppio o triplo, a seconda del numero di doppietti che vengono messi in condivisione. Ogni molecola ha una sua forma e dimensione specifiche: quando un atomo si lega covalentemente con altri atomi, si può avere un’ibridazione degli orbitali, che consiste in un riarrangiamento degli orbitali del guscio di valenza. Inoltre, un legame covalente può essere apolare o polare: nel primo caso gli atomi che si legano fra loro hanno la stessa elettronegatività e quindi la stessa propensione ad attrarre elettroni; nel secondo caso, invece, si hanno atomi con una differenza di elettronegatività, che può essere più o meno elevata e che determina la creazione di due poli, uno con parziale carica positiva e l’altro con parziale carica negativa. ♦ I legami ionici si formano fra anioni (5,6,7 elettroni di valenza) e cationi (1,2,3 elettroni di valenza). Un esempio è quello del cloruro di sodio: il sodio ha un elettrone nel guscio di valenza, mentre il cloro ne ha sette; è quindi chiaro che, nel formare il legame, il sodio tenderà a cedere il suo elettrone al cloro, creando così un composto ionico formato da Cl- e Na+. I legami ionici sono in genere molto forti, ma in acqua tendono a dissociarsi nei loro ioni costituenti, ciascuno dei quali viene circondato dalle estremità delle molecole di acqua con carica opposta, in un processo detto idratazione. ♦ I legami a idrogeno sono attrazioni deboli che si formano fra un atomo con una parziale carica negativa e un atomo di idrogeno legato covalentemente all’ossigeno o all’azoto. Le interazioni di Van der Walls si hanno quando le molecole apolari, elettricamente neutre, sviluppano in modo transiente deboli cariche positive o negative, dovute al costante movimento degli elettroni. Queste cariche possono attrarre altre molecole apolari con carica momentanea opposta e creare interazioni molto deboli. Le reazioni redox Molte delle trasformazioni energetiche che avvengono nella cellula coinvolgono reazioni in cui un elettrone viene trasferito da una sostanza all’altra: il trasferimento di un elettrone implica, infatti anche il trasferimento dell’energia ad esso associata. Questo trasferimento elettronico è detto ossido-riduzione o reazione redox. L’agente ossidante si riduce acquistando elettroni, mentre l’agente riducente si ossida perdendo elettroni: è chiaro che i due processi avvengono simultaneamente. ♦ Il gruppo carbossilico può trovarsi in forma non ionizzata (R-COOH), con un doppio legame fra il carbonio e un ossigeno, un legame singolo fra carbonio e l’altro ossigeno, che si lega a un idrogeno. La vicinanza dei due ossigeni fa si che la molecola sia estremamente polare e che quindi l’idrogeno possa perdere il suo elettrone ed essere rilasciato come ione H+, formando un gruppo carbossilico ionizzato con una carica negativa (R-COO-). ♦ Il gruppo amminico (R-NH2) in forma non ionizzata è formato da un atomo di azoto che si lega covalentemente a un idrogeno. È debolmente basico, in quanto può accettare uno ione idrogeno. ♦ Il gruppo fosfato (R-PO4H2) è debolmente acido e può quindi rilasciare uno o due ioni idrogeno. È un costituente di acidi nucleici e alcuni lipidi. ♦ Il gruppo sulfidrilico (R-SH)è formato da un atomo di zolfo legato covalentemente a un atomo di idrogeno e si trova in molecole, dette tioli. Le molecole biologiche sono definite macromolecole per le dimensioni notevoli; molte di queste sono polimeri formati dall’unione di monomeri, 40 composti organici più piccoli, che unendosi fra loro possono dare origine a una gamma infinita di molecole più grandi. I polimeri possono essere degradati in monomeri tramite una reazione di idrolisi dove in una reazione regolata da uno specifico enzima (catalizzatore biologico), un idrogeno dell’acqua si attacca ad un monomero ed il gruppo ossidrilico dell’acqua si attacca al monomero adiacente.; i monomeri possono formare legami covalenti fra loro tramite un processo di condensazione, o sintesi per disidratazione, in cui viene eliminata una molecola di acqua. I carboidrati I carboidrati sono gli zuccheri, gli amidi e la cellulosa e hanno formula generica (CH2O)n. Gli zuccheri e gli amidi fungono da riserva di energia per le cellule; la cellulosa è il componente principale delle pareti delle cellule vegetali. Queste macromolecole possono contenere una (monosaccaridi), due (disaccaridi) o molte (polisaccaridi) unità di zucchero. I monosaccaridi sono zuccheri semplici e contengono generalmente da tre a sette atomi di carbonio. A ciascun carbonio è legato un gruppo ossidrilico, tranne ad uno, il quale a sua volta è legato con un doppio legame ad un atomo di ossigeno per formare un gruppo carbonilico (C=O). Se il gruppo carbonilico è in posizione terminale, il monosaccaride è una aldeide; se invece è in un’altra posizione nella catena, il monosaccaride è un chetone. (per convenzione la numerazione di uno scheletro carbonioso inizia dal carbonio più vicino all’estremità carbonilica della catena aperta). Il gran numero di gruppi ossidrilici polari, insieme con il gruppo carbonilico, conferisce al monosaccaride proprietà idrofiliche. Il ribosio e il deossiribosio sono pentosi, mentre il glucosio, il fruttosio e il galattosio sono esosi. Il glucosio è il monosaccaride più abbondante in quanto è necessario per la respirazione cellulare come fonte di energia. Glucosio (aldeide, ovvero gruppo carbonilico al centro) e fruttosio (chetone, ovvero gruppo carbonilico in posizione terminale) sono due isomeri strutturali e hanno proprietà differenti. Glucosio e galattosio sono entrambi esosi e aldeidi, ma gli atomi legati al carbonio asimmetrico sono posti in maniera speculare, quindi sono enantiomeri. In soluzione, le molecole di glucosio e altri pentosi non sono catene lineari, ma anelli. 42 Il glucosio, ad esempio, si presenta come un anello fatto da 5 atomi di carbonio e uno di ossigeno: quando si forma un anello, esistono due possibili isomeri che differiscono solo per il gruppo ossidrilico –OH legato al carbonio 1. Si può avere β e α glucosio. I disaccaridi (due zuccheri) sono costituiti da due monosaccaridi ad anello legati l’uno all’altro mediante un legame glicosidico, che consiste di un ossigeno centrale legato covalentemente a due atomi di carbonio. Il legame glicosidico di un disaccaride generalmente si forma tra il carbonio 1 di una molecola e il carbonio 4 della molecola adiacente. Tuttavia un disaccaride può essere idrolizzato, cioè rotto in due unità monosaccaridiche, per aggiunta di una molecola di acqua. Per esempio, durante la digestione, il maltosio viene idrolizzato con formazione di due molecole di glucosio: maltosio + acqua glucosio + glucosio o saccarosio + acqua glucosio + fruttosio. I carboidrati più abbondanti in natura sono i polisaccaridi, ai quali appartengono gli amidi, il glicogeno e la cellulosa. Un polisaccaride è una macromolecola costituita da unità ripetute di uno zucchero semplice, generalmente il glucosio. Sebbene il numero di unità saccaridiche possa variare, di solito una singola molecola è costituita da migliaia di unità. Il polisaccaride può essere costituito da una lunga catena lineare o ramificata. I polisaccaridi hanno proprietà molto diverse tra loro, sia perché sono costituiti da differenti isomeri sia perché le unità sono organizzate in maniera diversa. Quelli che possono essere facilmente scissi nelle loro subunità sono i più adatti ad immagazzinare energia, mentre l’architettura tridimensionale macromolecolare degli altri li rende particolarmente adatti a formare strutture simili. L’amido è il carboidrato di riserva dei vegetali, dove viene immagazzinato sotto forma di granuli dentro gli amiloplasti, ed è costituito da subunità di α-glucosio, unite da legami α 1-4. L’amido si può presentare sotto due forme: l’amilosio e l’amilopectina. La sua forma più semplice, non ramificata, è l’amilosio, mentre la forma più complessa e ramificata è l’amilopectina. Le cellule vegetali accumulano l’amido sotto forma di granuli dentro organuli specializzati chiamati amiloplasti. Il glicogeno, o amido animale, è il carboidrato di riserva degli animali, i quali lo accumulano nel fegato e nelle cellule muscolari, ed è costituito da legami α 1-4. Esso è strutturalmente simile all’amido vegetale, ma è più ramificato e più idrosolubile. La cellulosa è il carboidrato più abbondante in natura: si tratta di un polisaccaride insolubile costituito da molecole di glucosio legate tra loro da legami β 1-4 glicosidici , insolubili perché non scindibili dagli enzimi in grado di idrolizzare i legami α dell’amido. Questi legami consente alla cellulosa di rivestire un ruolo strutturale, perché consentono la formazione di molti legami a idrogeno fra le diverse molecole, che si dispongono in lunghi fasci di fibre. L’uomo, tuttavia, non possiede gli enzimi in grado di digerire la cellulosa, la quale non può quindi essere utilizzata come nutrimento. Tuttavia, la cellulosa è un importante componente delle fibre presenti nella dieta e aiuta l’intestino a funzionare adeguatamente. Alcuni microrganismi possono digerire la cellulosa trasformandola in glucosio. Nell’apparato digerente di ovini e bovini, vivono batteri in grado di digerire la cellulosa, permettendo a questi erbivori di trarne nutrimento. Alcuni derivati dei monosaccaridi hanno un ruolo importante dal punto di vista biologico. Gli amminozuccheri, come glucosammina e galattosammina, sono composti nei quali un gruppo ossidrilico (-OH) è stato sostituito da un gruppo amminico (-NH2). La galattosammina è presente nella cartilagine, che è un costituente del sistema scheletrico dei vertebrati. Subunità di N-acetilglucosammina (NAG), unite mediante legami glicosidici, compongono la chitina, il principale elemento dell’esoscheletro degli insetti, dei crostacei e di altri artropodi e della parete dei funghi. La chitina forma strutture molto compatte in quanto, così come nella cellulosa, le sue molecole interagiscono attraverso legami a idrogeno multipli. I carboidrati possono combinarsi con le proteine per formare le glicoproteine, presenti sulla superficie esterna di molte cellule non batteriche. Alcune di queste catene carboidratiche permettono alle cellule di aderire tra loro, mentre altre forniscono protezione (per esempio il muco, materiale protettivo complesso secreto dalle membrane mucose che tappezzano i sistemi respiratorio e digerente). I carboidrati possono combinarsi anche con i lipidi per formare glicolipidi, che sono presenti sulla superficie delle cellule animali e rivestono un ruolo importante nel riconoscimento e nell’interazione tra cellule. I lipidi I lipidi costituiscono un gruppo eterogeneo di composti definiti non dalla loro struttura, come nel caso dei carboidrati, ma dal fatto che sono solubili nei solventi apolari e relativamente insolubili in acqua. Le molecole lipidiche possiedono queste caratteristiche perché sono costituite essenzialmente da carbonio e idrogeno, con pochi gruppi funzionali contenenti ossigeno e quindi per questo motivo tendono ad essere idrofobici. Tra i lipidi più importanti dal punto di vista biologico ci sono i grassi, i fosfolipidi, gli steroidi, i carotenoidi (pigmenti vegetali arancioni e gialli) e le cere. Alcuni lipidi sono importanti carburanti biologici, altri fungono da componenti strutturali delle membrane cellulari ed altri ancora sono ormoni. I trigliceridi, o triagliceroli (anche noti come trigliceridi), sono i lipidi più abbondanti negli organismi viventi. Questi composti, comunemente chiamati grassi, costituiscono una riserva di energia alquanto economica poiché, quando vengono metabolizzati, forniscono più del doppio dell’energia per grammo rispetto ai carboidrati. I carboidrati e le proteine possono essere trasformati enzimaticamente in grassi ed immagazzinati nelle cellule del tessuto adiposo e in alcuni semi e frutti delle piante. Un trigliceride è costituito da tre acidi grassi (catena idrocarburica non ramificata con un gruppo carbossilico –COOH) uniti mediante una serie di tre reazioni di condensazione al glicerolo (alcol a tre atomi di carbonio con gruppo ossidrilico). In ogni reazione si forma una molecola d’acqua quando un gruppo ossidrilico del glicerolo reagisce con il gruppo carbossilico di un acido grasso, portando alla formazione di un legame covalente noto come legame esterico. Gli acidi grassi saturi contengono il maggior numero possibile di atomi di idrogeno. I grassi ricchi di acidi grassi saturi, come i grassi animali e i grassi vegetali solidi, a temperatura ambiente tendono ad essere solidi, perché grazie alle interazioni di van der Waals, si ha origine a delle attrazioni tra molecole adiacenti. Gli acidi grassi insaturi, invece, possiedono una o più coppie di atomi di carbonio adiacenti legati tra loro da un doppio legame e non sono quindi completamente saturati con l’idrogeno. Gli acidi grassi con un solo doppio legame sono detti monoinsaturi, mentre quelli con più di un doppio legame sono detti polinsaturi. Quelli insaturi tendono ad essere liquidi a temperatura ambiente; ciò è dovuto al fatto che ciascun doppio legame produce una “piega” nella catena idrocarburica che impedisce l’allineamento con la carta adiacente, limitando così le interazioni di van der Waals. 42 tempo. Tutte le catene sono completamente distese ma, poiché ciascuna di queste ha una struttura a zig zag, il “foglietto” che ne deriva ha una conformazione generale pieghettata. Un foglietto ripiegato è flessibile piuttosto che elastico. Ciò deriva dal fatto che la distanza fra le ripiegature è fissa, essendo determinata dai forti legami covalenti degli scheletri polipeptidici. STRUTTURA TERZIARIA La struttura terziaria dipende dalle interazioni tra le catene laterali. Essa, infatti, è la forma complessiva assunta da ciascuna catena polipeptidica. Questa struttura tridimensionale è determinata da quattro fattori principali che implicano interazioni tra gruppi R (catene laterali) lungo la stessa catena polipeptidica. Questi includono interazioni deboli (legami a idrogeno, legami ionici e interazioni idrofobiche) e legami covalenti, noti come ponti disolfuro (-S-S-), che legano gli atomi di zolfo di due unità di cisteina, attraverso l’eliminazione dei due atomi di idrogeno di ciascun gruppo sulfidrilico. 1. Legami a idrogeno che si formano tra i gruppi R di alcune subunità aminoacidiche. 2. Legami ionici tra i gruppi R carichi positivamente e quelli carichi negativamente. 3. Interazioni idrofobiche dovute alla tendenza dei gruppi R apolari a disporsi all’interno della struttura globulare, lontano dall’acqua circostante. 4. Legami covalenti, noti come ponti disolfuro (-S-S-), che legano gli atomi di zolfo di due unità di cisteina STRUTTURA QUATERNARIA La struttura quaternaria deriva dalla disposizione tridimensionale delle catene polipeptidiche (ciascuna delle quali ha una sua struttura primaria, secondaria e terziaria). Gli stessi tipi di interazione che danno origine alle strutture secondaria e terziaria contribuiscono anche alla struttura quaternaria; esse includono legami a idrogeno, legami ionici, interazioni idrofobiche e ponti disolfuro. La struttura di una proteina contribuisce a determinare la sua attività biologica. Ogni proteina può avere varie regioni strutturali, ognuna con una sua propria funzione. Molte proteine sono modulari, costituite cioè da due o più regioni globulari, dette domini, collegate da regioni meno compatte dalla catena polipeptidica. Ciascun dominio può avere una funzione diversa: per esempio, una proteina può avere un dominio che la fa attaccare ad una membrana ed un altro che la fa funzionare da enzima. L’attività biologia di una proteina può essere modificata da cambiamenti nella sequenza aminoacidica che portano a cambiamenti nella sua conformazione. Un esempio: la malattia genetica nota come anemia falciforme è dovuta ad una mutazione che porta alla sostituzione dell’aminoacido acido glutammico con la valina in posizione 6 della catena beta dell’emoglobina. La sostituzione della valina all’acido glutammico rende l’emoglobina meno solubile e più propensa a formare questa malattia. Quando una proteina viene sottoposta a condizioni differenti (scaldata, variazione di pH o trattata con prodotti chimici), la sua struttura terziaria diventa disordinata e le catene peptidiche si aprono producendo una conformazione meno ordinata. Questa variazione della forma e della struttura è associato alla perdita dell’attività biologica della proteina. Tutto ciò viene definito denaturazione della proteina. Normalmente la denaturazione non è reversibile, anche se in certe occasioni, alcune proteine denaturate possono ritornare alla loro forma ed attività biologica originaria quando vengono ripristinate le condizioni ambientali normali. Nel 1937, Christian B. Anfinsen vinse il Premio Nobel per la chimica per aver notato che, in vitro, un polipeptide va spontaneamente incontro a ripiegamento per assumere la propria conformazione normale e funzionale. In vivo le condizioni sono però differenti, tanto che si è evidenziato che proteine dette chaperoni molecolari mediano il ripiegamento di certe proteine. Gli acidi nucleici Gli acidi nucleici trasmettono l’informazione ereditaria e determinano quali proteine debbano essere sintetizzate dalla cellula. Nella cellula ci sono due tipi di acidi nucleici: l’acido ribonucleico (RNA) e l’acido desossiribonucleico (DNA). Il DNA costituisce i geni, ovvero il materiale ereditario della cellula, e contiene le istruzioni per sintetizzare tutte le proteine e tutto l’RNA necessari. L’RNA interviene nel complesso processo in cui gli aminoacidi vengono legati tra loro per formare i polipeptidi. Alcuni tipi di RNA, noti come ribosomi, possono addirittura funzionare come catalizzatori specifici. Come le proteine anche gli acidi nucleici sono molecole grandi e complesse. Gli acidi nucleici sono polimeri di nucleotidi, unità molecolari costituite da: • Uno zucchero a cinque atomi di carbonio, ribosio (nell’RNA) o desossiribosio (nel DNA) • Due o più gruppi fosfato che rendono la molecola acida • Una base azotata (composto eterociclico contenente azoto) che può essere a doppio anelo, come nelle purine, o ad anello singolo, come nelle pirimidine. Il DNA contiene le purine adenina (A) e guanina (G) e le pirimidine citosina (C) e timina (T), oltre allo zucchero ribosio e al fosfato. Le molecole degli acidi nucleici sono costituite da catene lineari di nucleotidi uniti tra loro da un legame fosfodiesterico costituito da un gruppo fosfato attaccato allo zucchero che si lega covalentemente allo zucchero del nucleotide adiacente. Ogni nucleotide è identificato dalla sua specifica base e i nucleotidi possono essere legati fra loro in qualsiasi sequenza. L’informazione specifica dell’acido nucleico è racchiusa nella sequenza peculiare dei nucleotidi presenti nella catena. L’RNA, invece, è generalmente composto da una catena nucleotidica, il DNA è composto da due catene nucleotidiche unite da legami a idrogeno ed avvolte l’una sull’altra a formare una doppia elica. Oltre ad essere importanti come subunità del DNA e dell’RNA, i nucleotidi sono fondamentali per altre funzioni cellulari vitali. L’adenosina trifosfato (ATP), costituta da adenina, ribosio e tre fosfati è la più importante molecola energetica della cellula. L’ATP può trasferire un gruppo fosfato ad un’altra molecola, rendendola più reattiva. In questo modo, l’ATP può cedere parte della sua energia chimica. Analogamente, il guanosina trifosfato (GTP), può trasferire energia cedendo un gruppo fosfato ed ha anche ruolo importante nella segnalazione cellulare. Un nucleotide può essere trasformato in una forma alternativa con specifiche funzioni cellulari. L’ATP viene convertito in adenosina monofosfato ciclico (cAMP) grazie all’enzima adenilato ciclasi. Il cAMP media l’effetto di alcuni ormoni e regola alcuni aspetti della fisiologia cellulare. ORGANIZZAZIONE DELLA CELLULA La cellula è la più piccola unità in grado di svolgere tutte le attività vitali. Le cellule costituiscono le unità di base degli organismi multicellulari complessi. Le cellule immagazzinano l’informazione genetica nelle molecole di DNA, le quali vengono fedelmente duplicate. Questa informazione viene trasmessa alla progenie durante la divisione cellulare. 42 L’informazione contenuta nel DNA codifica proteine specifiche che, a loro volta, determinano la struttura e le funzioni della cellula. Le cellule scambiano materiale ed energia con l’ambiente. Tutte le cellule viventi necessitano di una o più fonti energetiche, ma è raro che una cellula possa riuscire ad avere energia in una forma utilizzabile immediatamente. Le cellule, infatti, trasformano l’energia da una forma ad un’altra e tale energia è utilizzata per svolgere diverse attività. Le cellule trasformano l’energia in una forma utilizzabile, che è l’energia chimica immagazzinata nell’ATP. L’organizzazione delle cellule e le loro piccole dimensioni consentono il mantenimento dell’omeostasi, ovvero di un ambiente interno appropriato. Le cellule sono soggette a continui cambiamenti nel loro ambiente, quali variazioni di concentrazione salina, di pH e di temperatura. Affinché i loro meccanismi biochimici continuino a funzionare, le cellule devono lavorare ininterrottamente per ripristinare le condizioni opportune. Per mantenere l’omeostasi, è necessario che la cellula sia separata dall’ambiente esterno. La membrana plasmatica è una membrana di superficie strutturalmente distinta che circonda tutte le cellule, rappresentando così una barriera estremamente selettiva tra il contenuto della cellula e l’ambiente. Tuttavia le cellule scambiano materiale con l’ambiente e sono in grado di immagazzinare sostanze essenziale ed energia. Le cellule possiedono delle strutture interne, gli organuli, specializzate nello svolgere attività metaboliche, come per esempio la trasformazione dell’energia in forme utilizzabili. Tutte le cellule possiedono, infatti, le istruzioni genetiche codificate nel DNA, che è confinato in una regione limitata all’interno della cellula. Il micrometro è l’unità di misura più conveniente per misurare le cellule. Le cellule procariotiche dei batteri vanno tipicamente da 1 a 10 m di lunghezza. Le cellule eucariotiche hanno tipicamente un diametro che va dai 10 ai 30 m di lunghezza. La membrana plasmatica deve essere abbastanza grande, rispetto al volume cellulare, in modo tale da poter rispondere alle necessità di regolazione del passaggio di materiale. Man mano che la cellula si ingrandisce, il suo volume aumenta in misura maggiore rispetto all’area della superficie (cioè della sua membrana plasmatica) e ciò pone un limite alle dimensioni della cellula. Molte cellule vegetali di grandi dimensioni, per aumentare il loro rapporto superficie/volume, sono lunghe e sottili. Un altro motivo per il quale le cellule sono piccole è che le molecole, una volta all’interno, devono essere trasportate in quei siti della cellula dove vengono trasformate. Poiché le cellule sono di piccole dimensioni, le distanze percorse dalle molecole al loro interno sono relativamente brevi. Le dimensioni e la forma delle cellule sono adatte alle loro funzioni. Principi di microscopia ottica La visualizzazione dei microrganismi richiede l’uso del microscopio ottico o del microscopio elettronico. In generale, il microscopio ottico è usato per esaminare le cellule a ingrandimento relativamente basso, mentre il microscopio elettronico è usato per osservare le cellule e le strutture cellulari a ingrandimento molto elevato. Tuttavia tutti i microscopi fanno uso di lenti che ingrandiscono l’immagine, ma il fattore limitante è la risoluzione, ovvero la capacità di mostrare due oggetti molto piccoli adiacenti distinti e separati. Nel microscopio ottico la risoluzione è migliore rispetto a quello elettronico. Molti procarioti possiedono flagelli, lunghe fibre che si protendono dalla superficie cellulare, utilizzati come propulsori e sono fondamentali per la locomozione. La loro struttura, però, è diversa da quella dei flagelli delle cellule eucariotiche. Alcuni procarioti hanno anche delle proiezioni simili a peli, denominate fimbrie, usate per aderire tra di loro o per ancorarsi alla superficie cellulare di altri organismi. Il denso materiale interno delle cellule batteriche contiene i ribosomi, piccoli complessi di RNA e proteine in grado di sintetizzare polipeptidi. I ribosomi delle cellule procariotiche sono più piccoli rispetto a quelli delle cellule eucariotiche. Le cellule procariotiche presentano anche granuli di deposito che contengono glicogeno, lipidi o composti fosforilati. Le cellule eucariotiche sono caratterizzate dalla presenta di organelli e nucleo delimitati da membrana, altamente organizzati, incluso un nucleo prominente, che contiene il DNA. Il termine eucariote significa “vero nucleo”. I primi biologi credevano che le cellule fossero costituite da un gel omogeneo, detto protoplasma. La porzione di protoplasma al di fuori del nucleo viene chiamata citoplasma, mentre quella all’interno del nucleo viene chiamata nucleoplasma. Molti organuli sono sospesi nella componente fluida del citoplasma, normalmente chiamata citosol. Pertanto il termine citoplasma include sia il citosol che tutti gli organuli, eccetto il nucleo. I numerosi organuli specializzati delle cellule eucariotiche permettono di superare alcuni degli inconvenienti dovuti alle grandi dimensioni. Le cellule eucariotiche, a differenza delle procariotiche, hanno un’impalcatura di sostegno, il citoscheletro, importante per il mantenimento della forma della cellula e per il trasporto di materiale al suo interno. Tuttavia, alcuni organuli si trovano solo in determinati tipi cellulari, come per esempio i cloroplasti, strutture che catturano la luce solare per convertirla in altre forme di energia. Nelle cellule eucariotiche, esistono numerose membrane considerate come parte del sistema di membrane interne detto sistema di endomembrane, che dividono la cellula in diversi compartimenti: il nucleo, il reticolo endoplasmatico, il complesso del Golgi, i lisosomi, le vescicole e i vacuoli. Tra questi, può essere inclusa anche la membrana plasmatica, la quale, anche se non interna, partecipa alle attività del sistema di endomembrane. Il sistema di endomemembrane fa sì che più attività cellulari possano essere svolte contemporaneamente, ognuna all’interno di regioni cellulari specifiche; consente di tenere alcuni composti particolarmente reattivi separati dalle altre parti della cellula e, dato il gradiente elettrochimico (differenza di carica elettrica e di concentrazione) fra i due lati di membrana, permette che l’energia potenziale di una particella che la attraversa possa essere trasformata in energia chimica delle molecole di ATP. Anche i mitocondri ed i cloroplasti costituiscono dei compartimenti separati, pur non essendo considerati parte del sistema di endomembrane. Alcuni organuli hanno connessioni dirette tra le loro membrane, mentre altri trasportano il loro materiale per mezzo di vescicole ottenute tramite gemmazione. Il nucleo cellulare Il nucleo, con forma sferica od ovoidale e un diametro medio di 5 µm, è l’organulo più rilevante della cellula ed è circondato da un involucro nucleare, fatto di due membrane concentriche, che si fondono ad intervalli formando i pori nucleari, costituiti ciascuno da un complesso proteico e regolatori del passaggio di materiali fra nucleoplasma e citoplasma. Le cellule conservano l’informazione nella molecola del DNA e la maggior parte del DNA cellulare è localizzato all’interno del nucleo. 42 L’involucro nucleare è costituito da due membrane concentriche che separano il contenuto del nucleo dal citoplasma circostante. Queste membrane sono separate da circa 20-40 nm e ad intervalli si fondono formando i pori nucleari. Ciascun poro nucleare è costituito da un complesso proteico che comprende oltre copie di circa 30 differenti tipi di proteine. Essi regolano il passaggio di materiali tra nucleoplasma e citoplasma. Una rete fibrosa di filamenti proteici, detta lamina nucleare, forma il rivestimento interno dell’involucro nucleare. Essa sostiene la membrana nucleare interna e favorisce l’organizzazione del contenuto nucleare. Inoltre, svolge un ruolo importante nella duplicazione del DNA e nella regolazione del ciclo cellulare. Quando una cellula si divide, l’informazione contenuta nel DNA deve essere riprodotta e trasmessa integra alle due cellule figlie. Il DNA ha la peculiare capacità di produrre una copia esatta di sé stesso attraverso un processo noto come replicazione. Le molecole di DNA sono costituite da sequenze di nucleotidi chiamate geni che contengono, in forma chimica, le informazioni per la produzione di tutte le proteine necessarie per la cellula. Il nucleo controlla la sintesi proteica trascrivendo l’informazione del DNA in molecole di RNA messaggero (mRNA), che passano nel citoplasma dove sono sintetizzate le proteine. Il DNA si associa con l’RNA ed alcune proteine per formare una struttura chiamata cromatina. La cromatina non è disorganizzata come appare, infatti, le molecole di DNA, essendo estremamente lunghe e sottili, devono essere impacchettate nel nucleo in maniera molto regolare in strutture dette cromosomi. Durante la divisione, questi cromosomi diventano visibili sotto forma di strutture filiformi distinte. Gli organuli citoplasmatici La maggior parte dei nuclei possiede una o più strutture compatte chiamate nucleoli. Il nucleolo non è circondato da membrana e generalmente si colora in maniera diversa rispetto alla cromatina che lo circonda. Ciascun nucleolo contiene un organizzatore nucleolare, costituito dalle regioni cromosomiche contenenti le istruzioni per sintetizzare i diversi tipi di RNA che costituiscono i ribosomi. I ribosomi, sono minuscole particelle che si trovano libere nel citosol o attaccate a certe membrane, sono costituiti da RNA e proteine e vengono sintetizzati nel nucleolo. Le proteine necessarie per costruire i ribosomi sono sintetizzate nel citoplasma e importate nel nucleolo attraverso i pori nucleari. Contengono, inoltre, l’enzima responsabile della formazione di legami peptidici, che avviene nel momento in cui la subunità minore e maggiore si uniscono. Il reticolo endoplasmatico circonda il nucleo ed è costituito da diverse strutture a forma di sacche appiattite e impilate in maniera compatta, che danno origine a compartimenti connessi fra loro. Lo spazio interno che si viene a formare è chiamato lume e, nella maggior parte delle cellule, da origine ad un unico compartimento interno, che è in comunicazione con lo spazio presente tra le membrane nucleari interna ed esterna. Le membrane del RE e il suo lume contengono una grande varietà di enzimi che catalizzano le reazioni chimiche. Si individuano due tipi di RE: • Il reticolo endoplasmatico liscio, ha un aspetto tubulare e la superficie della sua membrana esterna appare liscia. Non ha ribosomi legati nella faccia esterna e presenta enzimi in grado di sintetizzare lipidi e carboidrati. In particolare, il colesterolo e i fosfolipidi vengono sintetizzati per la formazione di membrane cellulari. Nelle cellule epatiche, in cui è presente in grande quantità, il RE liscio ha un ruolo importante nella degradazione enzimatica del glicogeno, nell’immagazzinamento di ioni calcio, nella sintesi di colesterolo e altri lipidi e nella detossificazione dell’organismo. • Il reticolo endoplasmatico rugoso appare tale in quanto sulla sua superficie esterna si trovano i ribosomi e svolge un ruolo fondamentale nella sintesi e nell’assemblaggio delle proteine. Esso presenta due facce della membrana: una luminale che risulta nuda, mentre l’altra, quella citosolica è punteggiata di ribosomi, che appaiono come particelle scure. I ribosomi attaccati al RE rugoso sono detti ribosomi legati; i ribosomi liberi si trovano in sospensione nel citosol. I ribosomi legati, infatti, presentano un tunnel che li collega a un poro del RE, che sfocia nel lume, nel quale poi le proteine possono essere modificate con l'aggiunta di lipidi e carboidrati complessi e successivamente dotate di struttura terziaria per mezzo degli chaperoni molecolari. Le proteine mal processate vengono degradate dai proteasomi del citosol, mentre le altre vengono confluite in vescicole di trasporto formatesi per gemmazione, che si spostano nei microtubuli del citoscheletro per arrivare alla superficie cis del complesso del Golgi. Il complesso del Golgi processa, smista e modifica le proteine, ed è costituito da pile di sacche membranose appiattite, chiamate cisterne, fra le quali si ha uno spazio interno, detto lume. In alcune regioni, le cisterne possono apparire rigonfie in quanto sono piene di prodotti cellulari. Il complesso del Golgi contiene alcuni compartimenti separati ed altri connessi tra loro. Ciascuna pila di vescicole possiede tre aree, denominate superficie cis, superficie trans e una regione mediale che sta in mezzo. La superficie cis è collocata vicino al nucleo ed ha la funzione di ricevere i materiali contenuti nelle vescicole di trasporto provenienti dal RE. La superficie trans, più vicina alla membrana plasmatica, impacchetta le molecole in vescicole che sono trasportate al di fuori del Golgi. La regione mediale modifica le proteine. In alcune cellule animali, il complesso del Golgi è spesso localizzato in posizione laterale rispetto al nucleo; in altre, e in quelle vegetali, sono presenti più complessi del Golgi costituiti da pile membranose isolate sparse all’interno della cellula. Nelle cellule animali, il complesso del Golgi sintetizza i lisosomi. I lisosomi sono piccole vescicole contenenti enzimi digestivi, disperse nel citoplasma della maggior parte delle cellule animali, infatti non sono presenti nelle piante. Poiché la maggior parte degli enzimi lisosomiali è attiva in ambiente acido, i lisosomi mantengono al loro interno un valore di pH intorno a 5 e vengono isolati in diversi compartimenti. I lisosomi primari si formano per gemmazione dal complesso del Golgi; i loro enzimi idrolitici vengono sintetizzati nel RER e ne attraversano il lume legando i carboidrati destinati ai lisosomi e consentendo al Golgi di smistare questi enzimi verso, appunto, i lisosomi. I lisosomi secondari si formano dall’unione dei primari con la vescicola contenente materiale estraneo, formatasi per fagocitosi. Quando le cellule “spazzino” ingeriscono batteri o frammenti, questi vengono racchiusi da una vescicola formata dalla membrana plasmatica. Uno o più lisosomi primari si fondono con queste vescicole contenenti il materiale estraneo, formando una vescicola più grande, detta lisosoma secondario. Infine, i potenti enzimi digestivi del lisosoma vengono a contatto con le molecole estranee, degradandole nei loro componenti base. I lisosomi sono stati individuati nella maggior parte delle cellule animali, mentre la loro presenza nelle cellule di piante e funghi non è mai stata dimostrata. Molte delle funzioni proprie dei lisosomi nelle cellule animali vengono svolte nelle cellule vegetali da un unico grande sacco membranoso, detto vacuolo. 42 I microtubuli sono formati da due proteine, la α e β tubulina, che si uniscono fra loro a formare dimeri (associazione di due unità semplici simili tra loro, dette monomeri), i quali vanno ad allungare il microtubulo (per addizione di dimeri di tubulina), che possiede una polarità, per cui le due estremità sono chiamate più e meno. Le proteine associate ai microtubuli (MAP) si dividono in MAP strutturali, che regolano l’assemblaggio dei microtubuli, e le MAP motrici, che utilizzano l’energia dell’ATP per produrre movimento. La chinesina, una proteina motrice, muove gli organuli verso l’estremità positiva dei microtubuli, mentre la dineina, un’altra proteina motrice, verso il meno. Questo viene chiamato trasporto retrogrado e richiede anche un complesso proteico detto dinactina. La dinactina è una proteina adattatrice che lega la dineina al microtubulo e all’organulo. I microtubuli, per espletare la loro funzione strutturale o partecipare al movimento delle cellule, si devono ancorare ad altre parti della cellula. Nelle cellule che non si stanno dividendo, l’estremità meno è ancorata al centro di organizzazione dei microtubuli (MTOC), che, nelle cellule animali, è il centrosoma, al cui interno si trovano i centrioli, detti anche strutture 9x3 (sono costituiti da 9 triplette di microtubuli disposte a formare un cilindro cavo). Molte cellule vegetali e fungine, invece, hanno un centro di organizzazione dei microtubuli, ma sono prive di centrioli. Successivamente molte delle subunità di tubulina vengono riassemblate per formare il fuso mitotico, che serve da struttura portante per la distribuzione ordinata dei cromosomi durante la divisione cellulare. Dalla superficie di molte cellule si proiettano strutture sottili e mobili importanti per il movimento cellulare. Se una cellula possiede solo una o poche di queste appendici, e se queste sono relativamente lunghe rispetto alle dimensioni della cellula, si parla di flagelli. Se la cellula ha molte appendici corte, queste vengono dette ciglia. Queste strutture aiutano gli organismi unicellulari e gli organismi pluricellulari di piccole dimensioni a muoversi in ambiente acquoso. Ciascun ciglio o flagello è ancorato alla cellula mediante il corpo basale costituito da centrioli. Quasi tutte le cellule dei vertebrati presentano un ciglio primario che ha la funzione di antenna, regola le vie di segnalazione per la crescita e il differenziamento cellulare e contribuisce a mantenere sani i tessuti. I microtubuli si muovono scivolando appaiati gli uni sugli altri. la forza di scivolamento è data dalle subunità di dineina, alimentate da ATP, che formano e rompono dei ponti con la coppia adiacente di microtubuli. Come risultato dell’azione motoria, i microtubuli si piegano dando origine ad un battito. I microfilamenti, o filamenti di actina, sono costituiti ciascuno da due stringhe intrecciate, fatte appunto da molecole di actina, simili a perle. I filamenti si legano l’uno all’altro e ad altre proteine per formare fasci di fibre che conferiscono supporto meccanico a diverse strutture cellulari. In molte cellule, appena dentro alla membrana plasmatica, si ha una regione gelatinosa definita cortex cellulare e distinta dal citosol più fluido. Alcune cellule cambiano forma rapidamente in risposta a modifiche nell’ambiente esterno: i filamenti di actina spingono la membrana plasmatica e formano gli pseudopodi, che aderiscono alla superficie. I filamenti intermedi contribuiscono a stabilizzare la forma della cellula, fornendo sostegno meccanico. Infatti sono più numerose in quelle parti dove la cellula viene sottoposta a stress meccanico, ed evitano che la cellula si deformi eccessivamente in risposta a forza esterne. Mentre tutte le cellule eucariotiche possiedono microtubuli e microfilamenti, solo alcuni gruppi di animali, come i vertebrati, sono dotati di filamenti intermedi, come ad esempio le cheratine che vanno a costituire le cellule epiteliali della pelle. Alcune mutazioni dei geni che codificano per le proteine dei filamenti intermedi possono causare malattie molto gravi, come la sclerosi amiotrofica laterale. I rivestimenti cellulari Molte cellule sono circondate da un glicocalice formato dalle catene laterali polisaccaridiche delle proteine e dei lipidi che costituiscono la membrana plasmatica. Il glicocalice protegge la cellula e può contribuire a tenere ad una certa distanza le altre cellule, permettere il riconoscimento fra cellule e contribuire alla resistenza meccanica dei tessuti multicellulari. Le cellule animali sono spesso rivestite da una matrice extracellulare (ECM), costituita da un gel di carboidrati e proteine fibrose, fra le quali la principale proteina strutturale della EMC è il collagene, che forma fibre molto fitte. Alcune glicoproteine della EMC, dette fibronectine, contribuiscono all’organizzazione della matrice e fanno si che la cellula si attacchi ad essa. Le integrine sono recettori per la ECM localizzati sulla membrana plasmatica: essi permettono l’adesione tra la ECM e i filamenti intermedi e i microfilamenti all’interno della cellula. Queste proteine attivano molte vie di segnalazione cellulare che trasmettono informazioni provenienti dalla ECM e controllano i segnali che dall’interno della cellula regolano il differenziamento e la sopravvivenza cellulare. Le integrine sono inoltre importanti nell’organizzazione del citoscheletro, facendo assumere alle cellule la loro forma definitiva. La maggior parte delle cellule batteriche, fungine e vegetali è rivestita da una parete cellulare e da proteine. Le cellule vegetali sono circondate da una spessa parete cellulare che contiene strati multipli del polisaccaride cellulosa. Le pareti cellulari forniscono supporto strutturale, proteggono le cellule vegetali dagli organisi patogeni e contribuiscono a tenere l’acqua in eccesso al di fuori delle cellule in modo che queste non scoppino. La cellula vegetale in fase di crescita secerne una parete cellulare primaria sottile e flessibile, che può stirarsi ed espandersi via via che la cellula aumenta di dimensioni. Una volta che la cellula ha cessato di crescere, viene secreto un nuovo materiale di parete che ispessisce e solidifica la parete primaria, oppure si formano strati multipli di una parete cellulare secondaria, che si dispone tra la parete primaria e la membrana plasmatica. Il legno, per esempio, è costituito principalmente da pareti cellulari secondarie. Tra le pareti cellulari primarie di cellule adiacenti si trova la lamella mediana, ovvero uno strato di polisaccaridi adesivi detti pectine. La lamella mediana permette alle cellule di aderire strettamente le une alle altre. LE MEMBRANE BIOLOGICHE La struttura delle membrane biologiche Le membrane cellulari, strutture complesse e dinamiche fatte di lipidi e proteine, regolano il passaggio dei materiali, suddividono la cellula in compartimenti, fungono da superfici per le reazioni chimiche, aderiscono e comunicano con altre cellule, trasmettono segnali fra l’interno e l’ambiente esterno e, infine, sono parte essenziale dei sistemi di trasferimento e immagazzinamento dell’energia. Tutte queste proprietà rendono la possibile la vita della cellula. I fosfolipidi sono i principali responsabili delle proprietà fisiche delle membrane biologiche. Un fosfolipide è una molecola anfipatica che contiene due catene di acidi grassi, apolari e idrofobici, uniti a due dei tre atomi di carbonio di una molecola di glicerolo. L’altro atomo di carbonio è legato a un gruppo fosfato carico negativamente e idrofilico. Per questo motivo, l’orientamento più favorevole assunto da queste molecole in acqua, risulta essere una struttura a doppio strato, che permette alle teste idrofiliche dei fosfolipidi di associarsi liberamente con l’ambiente acquoso, mentre le catene idrofobiche degli acidi grassi sono relegate all’interno della struttura, lontano dalle molecole d’acqua. 42 Le membrane essendo costituite da un doppio strato fluido di molecole fosfolipidiche nel quale le proteine sono immerse, o comunque associate, come le tessere di un mosaico, si dice che formino un “modello a mosaico fluido”. Un’importante proprietà fisica dei doppi strati fosfolipidici è che si comportano come cristalli liquidi. I doppi strati sono simili a cristalli in quanto le molecole lipidiche si organizzano ordinatamente, con le teste rivolte verso l’esterno e le catene di acidi grassi rivolte verso l’interno. Inoltre sono simili ai liquidi, in quanto, pur essendo ordinatamente disposte, le loro catene idrocarburiche sono in continuo movimento. Le molecole sono quindi libere di ruotare e di muoversi lateralmente all’interno di un singolo strato e tale movimento conferisce al doppio strato le proprietà di un fluido bidimensionale. Le qualità fluido-simili del doppio strato fosfolipidico permettono alle molecole in esso immerse di muoversi lungo il piano della membrana. La fluidità dei lipidi di membrana permette a molte proteine di muoversi, dando luogo ad una conformazione molto mutevole. Occasionalmente, con l’aiuto di enzimi presenti nella membrana cellulare, le molecole fosfolipidiche si spostano da uno strato all’altro (movimento flip-flop). Affinché una membrana possa funzionare adeguatamente, è necessario che i suoi lipidi siano in uno stato di fluidità ottimale. Infatti, se i lipidi sono troppo fluidi, la struttura della membrana ne risulta indebolita. D’altra parte, se il doppio strato lipidico è troppo rigido, risultano inibite diverse funzioni di membrana, come ad esempio il trasporto di alcune sostanze. A temperature normali le membrane cellulari sono fluide, mentre a basse temperature i movimenti delle catene di acidi grassi sono rallentati. Lo stato fluido della membrana dipende dalla sua componente lipidica. Molti organismi hanno dei meccanismi di regolazione che permettono di mantenere la loro membrana in uno stato fluido ottimale. Ad esempio, alcuni organismi possono compensare i cambiamenti di temperatura variando il contenuto in acidi grassi dei loro lipidi di membrana. Alcuni lipidi di membrana hanno la capacità di stabilizzare la fluidità della membrana stessa. Il colesterolo, è uno di questi “tamponi di fluidità”. La molecola di colesterolo è infatti idrofobica, ma grazie alla presenza di un unico gruppo ossidrilico è leggermente anfipatica. Il gruppo ossidrilico si associa con le teste idrofiliche dei fosfolipidi; la rimanente parte della molecola di colesterolo, idrofobica, si incastra tra le catene idrocarburiche degli acidi grassi. A basse temperature, le molecole di colesterolo fungono da “spaziatori” tra le catene idrocarburiche, diminuendo così le interazioni di van der Waals, che favorirebbero la solidificazione. Il colesterolo,inoltre, fa si che la membrana non si indebolisca o si destabilizzi ad alte temperature; infatti, le molecole di colesterolo interagiscono fortemente con quelle porzioni delle catene idrocarburiche più vicine alle teste fosfolipidiche, riducendo così il loro movimento. Nelle cellule vegetali, tali funzioni vengono svolte da steroidi diversi dal colesterolo. I doppi strati lipidici hanno difficoltà ad avere estremità libere, tendendo così a saldarsi tra loro formando vescicole chiuse. I doppi strati lipidici sono anche flessibili e ciò permette alle membrane cellulari di cambiare forma senza rompersi. Infine, in condizioni opportune, i doppi strati lipidici possono fondersi tra loro. Quando una vescicola si fonde con un’altra membrana, sia i doppi strati delle membrane che i compartimenti da essi racchiusi diventano continui, formando un’unica ininterrotta struttura. Dalle membrane del reticolo endoplasmatico si formano diverse vescicole di trasporto che si fondono poi con le membrane del complesso del Golgi, permettendo il trasferimento da un compartimento all’altro di materiale. Le due principali classi di proteine di membrana, quelle integrali e quelle periferiche, si distinguono in base al modo in cui sono associate al doppio strato lipidico. L’esempio più calzante è quello della pompa sodio-potassio, una proteina transmembrana del tipo trasportatore ABC, che utilizza l’energia derivante dall’idrolisi di ATP per trasportare ioni sodio (tre alla volta) fuori dalla cellula e ioni potassio (due alla volta) all’interno della cellula. Poiché questo gradiente di concentrazione è costituito da ioni, si dice che la membrana è polarizzata: l’interno della cellula è carico negativamente rispetto all’esterno e questo stabilisce un gradiente elettrochimico. La pompa sodio-potassio garantisce il mantenimento di questa separazione di cariche, detta potenziale di membrana . Le cellule di batteri, funghi e piante utilizzano pompe protoniche, anch’esse ATP-dipendenti per trasportare ioni idrogeno dal citoplasma verso l’esterno, che assume carica relativamente positiva rispetto all’interno. Le proteine carrier possono trasportare una sola sostanza (uniporto), due sostanze nella stessa direzione (simporto) e due sostanze in direzione opposta (antiporto), come nel caso della pompa sodio-potassio. I sistemi di cotrasporto muovono due soluti attraverso una membrana, mediante quello che viene chiamato trasporto attivo indiretto. Ogni volta che un soluto si muove secondo il suo gradiente di concentrazione si ha la sintesi di ATP, energia che rende possibile il trasporto dell’altro soluto contro il proprio gradiente di concentrazione. Esocitosi ed endocitosi L’esocitosi è l’espulsione di prodotti di scarto o particolari sostanze, come gli ormoni, per mezzo di vescicole che vanno a fondersi con la membrana plasmatica. L’endocitosi consente l’introduzione di materiale all’interno della cellula. Nei sistemi biologici agiscono vari tipi di endocitosi: ✓ Durante la fagocitosi, la cellula ingerisce particelle solide, che vanno a depositarsi in un’apposita invaginazione della membrana, che si fonde nel punto di contatto per formare un vacuolo, il quale va a fondersi con i lisosomi per essere degradato. ✓ La pinocitosi consente alla cellula di ingerire minuscole gocce di liquido, che vengono prima intrappolate e poi circondate dalla membrana plasmatica, per essere immesse nel citosol. ✓ Nell’endocitosi mediata da recettori, molecole specifiche si combinano con le proteine recettoriali della membrana plasmatica della cellula. Un esempio è l’assorbimento del ‘colesterolo cattivo’ dal sangue, dove si trova sotto forma di lipoproteine a bassa densità, LDL, alle cellule, che lo utilizzano come componente di membrana. Quando una cellula ha bisogno di colesterolo, produce recettori per LDL, concentrati in fossette 42 rivestite da uno strato di una proteina, la clatrina. Questa fossetta dà origine ad una vescicola rivestita, che riversa il suo contenuto negli endosomi, dove la LDL viene separata dal suo recettore e spedita a un lisosoma, per essere convertita in colesterolo da rilasciare nel citoplasma per essere utilizzato. I recettori vengono poi riportati alla membrana plasmatica per essere riciclati. Le giunzioni cellulari Cellule poste vicine fra loro sviluppano giunzioni intercellulari specializzate che consentono una rapida trasmissione delle informazioni, formano connessioni molto forti e impediscono il passaggio di materiali. Le giunzioni di ancoraggio connettono le cellule dello strato epiteliale e le caderine ne costituiscono il componente più importante. Questo tipo di giunzione si divide in desmosomi e giunzioni aderenti: i primi sono punti di attacco fra cellule, che però lasciano spazi fra le membrane e consentono il passaggio di sostanze, pur essendo ancorati al sistema intracellulare dei filamenti intermedi e permettendo, quindi, che uno stress meccanico possa essere distribuito su tutto il tessuto; le seconde cementano le cellule fra loro, connettendosi con i microfilamenti del citoscheletro. Le giunzioni serrate sigillano gli spazi intercellulari tra alcune cellule animali. Sono giunzioni distribuite in maniera discontinua, così che le membrane plasmatiche delle cellule non siano fuse lungo l’intera superficie. Le giunzioni serrate si trovano, ad esempio, nell’intestino, dove agiscono da barriere selettive, impedendo alle sostanze tossiche di raggiungere il sangue; ne è un altro esempio la barriera emato-encefalica, che impedisce a diverse sostanze di passare dal sangue al cervello. Le giunzioni comunicanti permettono il trasferimento di piccole molecole e ioni attraverso cilindri, fatti di sei molecole di connessina ciascuno, che uniscono il citoplasma di cellule adiacenti, consentendo un passaggio di materiali molto rapido. Le cellule delle piante, poiché hanno già la parete cellulare, non necessitano di desmosomi per irrobustirsi, ma utilizzano connessioni equivalenti alle giunzioni comunicanti animali, dette plasmodesmi: queste strutture connettono i reticoli endoplasmatici di due cellule adiacenti e, a differenza delle giunzioni, possono dilatare i loro canali, i desmotubuli, per consentire il passaggio di proteine e RNA, ma anche di virus, che possono così infettare le altre cellule. LA COMUNICAZIONE CELLULARE Comunicazione cellulare: una visione d’insieme Il termine segnalazione cellulare si riferisce al modo in cui le cellule comunicano fra loro e richiede una sequenza di quattro processi principali: ♦ Una cellula invia il segnale, sintetizzando e rilasciando molecole segnale. ♦ Durante la ricezione il segnale viene ricevuto dai recettori, generalmente proteine o glicoproteine, presenti sulla cellula bersaglio. ♦ La trasduzione del segnale è il processo con cui una cellula converte un segnale extracellulare in un segnale intracellulare e lo trasmette, innescando una risposta; si tratta di solito di catene di molecole che trasmettono l’informazione. ♦ L’ultima molecola della via di segnalazione converte il segnale in una risposta che modifica qualche processo della cellula. L’invio di segnali L’invio di segnali può avvenire tramite contatto diretto, segnali elettrici e segnali chimici. Ad esempio, la maggior parte dei neuroni trasmette segnali rilasciando composti chimici, detti neurotrasmettitori. Gli ormoni sono molecole segnale prodotte da piante e animali, dotati di ghiandole endocrine ed esocrine. Alcuni tipi di cellule producono regolatori locali, molecole segnale che diffondono attraverso il fluido interstiziale, in un processo denominato reagolazione paracrina. Alcuni di questi regolatori possono essere considerati ormoni, come i fattori di crescita, l’istamina, l’ossido nitrico e le prostaglandine. La ricezione La ricezione è un processo altamente specifico, che si verifica nel momento in cui un ligando si lega ad una specifica proteina recettoriale presente sulla superficie o all’interno della cellula bersaglio. La proteina recettoriale è fatta di tre domini: uno esterno, che rappresenta il sito di ancoraggio; uno che si estende lungo la membrana plasmatica; un altro che è, invece, una coda che si proietta nel citoplasma e trasmette il segnale all’interno della cellula. Le cellule regolano la recezione di un ormone secondo processi di down-regolazione, riducendo i recettori (quando un ormone è presente in troppa quantità), e up-regolazione aumentando i recettori (quando si hanno basse concentrazioni dell’ormone). Sulla superficie delle cellule abbiamo tre tipi di recettori: ✓ I recettori accoppiati a canali ionici, o canali a controllo di ligando, si trovano sulla membrana plasmatica e si aprono o si chiudono secondo necessità. ✓ I recettori accoppiati a proteine G sono presenti in tutte le cellule eucariotiche, sono formati da sette alfa eliche transmembrana connesse da anse e sono in grado di legarsi a centinaia di molecole segnale differenti. ✓ I recettori accoppiati ad enzimi possono essere essi stessi enzimi o sono legati ad enzimi. Si tratta di proteine transmembrana dotate di un sito di legame e di una componente enzimatica. Alcuni agiscono direttamente come enzimi, mentre altri sono accoppiati ad enzimi e prendono il nome di tirosina chinasi. ✓ Altri recettori sono intracellulari. Trasduzione del segnale In generale, un ligando si lega ad un recettore e lo attiva grazie a un cambiamento conformazionale della coda del recettore, che si estende nel citoplasma. Il segnale viene trasmesso da una sequenza di proteine, generalmente chinasi, che fungono da molecola di segnalazione cellulare. Le molecole segnale possono agire come interruttori molecolari, che sono regolati dall’aggiunta o dalla rimozione di un gruppo fosfato durante la fosfolirazione operata dalla proteina chinasi. Nel passaggio lungo la cascata di segnalazione, alcune molecole si attivano, mentre altre si spengono per poter essere nuovamente disponibili in caso di ulteriori segnali: quando il segnale passa, ad esempio, dalla chinasi 1 alla chinasi 2, la chinasi 1 può disattivarsi. L’ultima proteina chinasi attiva la proteina bersaglio, fosfolirandola. I recettori accoppiati a canali ionici determinano l’apertura o la chiusura di canali. Nel caso dell’acido gamma-amminobutirrico (GABA), ad esempio, quando si lega a un recettore, i canali ionici si aprono favorendo la fuoriuscita di ioni cloruro e inibendo la trasmissione dei segnali nervosi. Barbiturici e benzodiazepine, come il Valium, si legano a recettori GABA, creando un effetto rilassante. I recettori accoppiati a proteine G danno inizio alla trasduzione del segnale. Le proteine G, presenti in lieviti, protisti, piante e animali, possono regolare i canali ionici, sono coinvolte nella percezione visiva e olfattiva e costituiscono proteine importanti in molte vie di trasduzione del segnale. Quando un ligando si lega a un recettore accoppiato a proteine G, la subunità di guanosina difosfato (GDP) viene rilasciata e sostituita da guanisina trifosfato (GDP), adibita al trasferimento di energia. A questo punto, la subunità della proteina G associata al GTP si separa e prende il nome di GTPasi, che va a catalizzare l’idrolisi di GDP e GTP, disattivando la proteina G per poi riassociarsi alle altre due subunità. Una volta arrivata, la proteina G dà inizio alla trasduzione del segnale legandosi a una specifica proteina all’interno della cellula. Tali modifiche producono alterazione nelle funzioni cellulari. 42 temperatura ottimale, alla quale produce la massima velocità di reazione (negli esseri umani questa temperatura è di circa 35-40°C). Una temperatura troppo bassa rende le reazioni enzimatiche molto lente, mentre una temperatura troppo alta denatura la maggior parte degli enzimi, per via della rottura dei legami a idrogeno responsabili della stabilizzazione secondaria, ternaria e quaternaria. Alcune specie di archaea possono sopravvivere a temperature di 100°C o superiori. La maggior parte degli enzimi funziona solo in un piccolo intervallo di pH (negli esseri umani da 6 a 8); tuttavia, si hanno delle eccezioni, come la pepsina che lavora in ambiente acido a pH 2 e la tripsina, che lavora in condizioni debolmente basiche dell’intestino tenue. Gli enzimi lavorano generalmente in sequenza, costituendo una via metabolica, così che il prodotto della reazione di un enzima, possa fare da substrato per un altro enzima e così via. In teoria, ciascuna di queste reazioni è reversibile. Uno dei meccanismi di controllo dell’attività enzimatica è basato esclusivamente sulla quantità di enzima prodotto. La sintesi di ciascun enzima è diretta da un gene specifico, il quale può essere attivato da segnali come un ormone o un prodotto cellulare di altro tipo. Se la concentrazione dell’enzima è mantenuta costante, la velocità iniziale della reazione è direttamente proporzionale alla concentrazione del substrato, che, tuttavia, deve rimanere entro certi limiti, di modo che i siti attivi enzimatici non risultino saturi, condizione che rallenterebbe la reazione. Quando si arriva al prodotto di una catena di reazioni, se questo è sufficiente, si blocca l’intera reazione a monte, secondo un meccanismo di inibizione da feedback , o retroazione. Alcuni enzimi hanno un sito allosterico, al quale si possono legare sostanze, dette regolatori allosterici, che cambiano la conformazione del sito attivo enzimatico e ne modificano l’attività, ad esempio inattivandolo. Un esempio lo è la protein chinasi AMP ciclico-dipendente, che inattiva l’enzima. Gli enzimi possono essere inibiti da alcuni agenti chimici. Si può avere un’inibizione reversibile competitiva, quando l’inibitore competitivo ha struttura simile a quella del substrato, al quale si alterna nel sito attivo dell’enzima, che non viene danneggiato dall’operazione. Nell’inibizione reversibile non competitiva l’inibitore si lega all’enzima in un sito diverso da quello attivo; un inibitore non competitivo inattiva l’enzima perché ne altera la forma, impedendo al sito attivo di legarsi col substrato. Un’inibizione irreversibile inattiva permanentemente o distrugge un enzima. LA SINTESI DI ATP NELLE CELLULE: LE VIE METABOLICHE CHE RILASCIANO ENERGIA Reazioni redox La maggior parte degli organismi utilizza una forma di respirazione aerobica, che richiede ossigeno. Le sostanze nutritive (il glucosio, per la maggioranza delle cellule) attraverso questo processo, vengono catabolizzate in anidride carbonica e acqua, secondo la seguente reazione: C6H12O6+ 6O2 = 6CO2+ 6H2O+ energia Chiaro è che l’anidride carbonica sia prodotta per rimozione di atomi di idrogeno dal glucosio, mentre l’acqua sia prodotta tramite l’aggiunta di quegli stessi atomi di idrogeno: l’intero processo rappresenta dunque una reazione redox, dove il glucosio si ossida per formare anidride carbonica, mentre l’ossigeno si riduce per formare acqua. Gli elettroni associati agli atomi di idrogeno del glucosio sono trasferiti mediante numerosi passaggi all’ossigeno costituisce la respirazione aerobica: durante questo intero processo, l’energia libera degli elettroni è utilizzata per sintetizzare ATP. I quattro stati della respirazione aerobica Le reazioni chimiche che fanno parte della respirazione aerobica sono riassumibili in quattro stati: ♦ Durante la glicolisi, che avviene nel citosol, una molecola di glucosio (a sei atomi di carbonio) viene scomposta in due molecole di acido piruvico (a tre atomi di carbonio) e, parte dell’energia del glucosio, è utilizzata per la formazione di due molecole di ATP (trasferimento di energia tramite cessione di un gruppo fosfato) e due di NADH (trasferimento di energia tramite gli elettroni associati ad atomi di idrogeno). La glicolisi si divide in una fase di “investimento energetico”, in cui l’ATP trasferisce un gruppo fosfato allo zucchero, per rendere possibili due reazioni di fosfolirazione, in cui si forma fruttosio-1,6-difosfato, a sua volta scisso in due molecole a tre atomi di carbonio, ovvero la gliceraldeide-3-fosfato (G3P) e il diidrossiacetone fosfato, a sua volta convertito in G3P. Questa prima fase può essere riassunta come: glucosio+2ATP=2G3P+2ADP. Durante la seconda fase, detta di “cattura dell’energia”, in un primo momento la G3P viene ossidata per rimozione di due elettroni, subito accettati dall’NAD+. L’energia degli elettroni trasportati dall’NADH può essere utilizzata per produrre ATP. In due delle reazioni che portano alla formazione di piruvato si ha formazione di ATP quando un gruppo fosfato viene trasferito all’ADP da un intermedio fosfolirato, in un processo chiamato fosfolirazione a livello del substrato. La seconda fase della glicolisi può essere così riassunta: 2G3P+2NAD++4ADP = 2piruvato+2NADH+4ATP ♦ A questo punto, ciascuna molecola di piruvato entra nei mitocondri ed è sottoposta a decarbossilazione ossidativa, tramite l’enzima piruvato deidrogenasi. In questo processo un gruppo carbossilico viene rimosso dalla cellula sotto forma di anidride carbonica, mentre si forma una molecola a due atomi di carbonio (acetile), che si ossida, riducendo il NAD+. Il gruppo acetile, a questo punto, reagisce con il coenzima A, rendendo possibile la formazione di acetil coenzima A. Questo processo può essere così riassunto: 2piruvato+ 2NAD++ 2CoA= 2Acetil CoA+ 2NADH+ CO2 ♦ Il ciclo dell’acido citrico, noto anche come ciclo degli acidi carbossilici, o ciclo di Krebs, ha luogo nella matrice dei mitocondri. Il gruppo acetato dell’acetil coenzima A va a legarsi con una molecola a quattro atomi di carbonio (ossalacetato), formando una molecola a sei atomi di carbonio, il citrato, o acido citrico. Per ogni gruppo acetilico, si forma una molecola di ATP per fosfolirazione a livello del substrato. La maggior parte dell’energia resa disponibile durante le fasi ossidative del ciclo è trasferita per formare NADH, tre molecole per ogni gruppo acetilico, e, in parte per la formazione di FADH2.da ciascuna molecola di glucosio, sono prodotte due molecole di acetil CoA e ciò rende necessari due ‘giri’ del ciclo, durante ognuno dei quali viene prodotta una molecola di ATP. A questo punto, si hanno 4 molecole nette di ATP (ne sono state prodotte 6, ma se ne sono consumate 2 per la glicolisi, quindi il guadagno effettivo è di 4 molecole). ♦ Infine, si ha la catena di trasporto degli elettroni e la chemiosmosi, e l’intero processo viene chiamato fosfolirazione ossidativa. Il sistema di trasporto degli elettroni è costituito da una catena di accettori (nella membrana mitocondriale interna negli eucarioti, nella membrana plasmatica, nei procarioti). Ciascun accettore e, alternativamente, ridotto quando accetta elettroni, e ossidato, quando li cede. I componenti della catena sono la flavin mononucleoide, l’ubichinone, o coenzima Q, proteine ferro-zolfo e citocromi. Il complesso I accetta elettroni dalle molecole di NADH, prodotte durante la glicolisi, la formazione di acetil CoA e il ciclo di Krebs. Il complesso II accetta elettroni dal FADH2 prodotto durante il ciclo di Krebs. I complessi I e II formano l’ubichinone ridotto. Il complesso III accetta elettroni dall’ubichinone ridotto e li dona al citocromo c. il complesso IV accetta gli elettroni provenienti dal citocromo c per produrre ossigeno molecolare. Parte dell’energia rilasciata quando gli elettroni attraversano la catena di trasporto è infatti utilizzata per pompare i protoni attraverso la membrana, processo che crea un gradiente protonico, una forma di energia potenziale che può essere sfruttata per la produzione di ATP: i protoni si accumulano nello spazio intermembrana, abbassandone il pH. 42 La diffusione dei protoni dallo spazio intermmebrana alla matrice mitocondriale, attraverso i canali formati dall’enzima ATPsintasi nella membrana mitocondriale interna, fornisce l’energia per la sintesi di ATP. La chemiosmosi è un meccanismo fondamentale nell’accoppiamento energetico all’interno delle cellule, consentendo ai processi esoergonici di ossido-riduzione di trascinare la reazione endoergonica di fosfolirazione dell’ADP. Durante la respirazione abbiamo deidrogenazioni, in cui due atomi di idrogeno vengono rimossi da una molecola di substrato per essere trasferiti al NAD+ o al FAD, decarbossilazioni, in cui il gruppo carbossilico viene rimosso dal substrato per formare anidride carbonica e, infine, reazioni “di preparazione” in cui le molecole sono riarrangiate per essere poi deidrogenate o decarbossilate. La respirazione aerobica di una molecola di glucosio produce un massimo di 36 o 38 molecole di ATP: nel corso della glicolisi abbiamo 2 NADH e 2 ATP; la conversione di due molecole di piruvato in acetil CoA forma 2 NADH; nel ciclo di Krebs abbiamo 6 NADH, 2 FADH2 e 2ATP, per un totale di 4 ATP, 10 NADH e 2 FADH2. Quando queste ultime molecole passano attraverso la catena di trasporto, per chemiosmosi vengono prodotte da 32 a 34 molecole di ATP, quindi, ciascuna molecola di glucosio produce da 36 a 38 molecole di ATP. La resa energetica di sostanze nutritive diverse dal glucosio Gli esseri umani e molti altri animali traggono energia anche da acidi grassi e aminoacidi. Gli aminoacidi vengono metabolizzati mediante una reazione di deaminazione, in cui viene rimosso il gruppo amminico, per poi essere convertito in urea ed essere escreto. La restante catena carboniosa può essere utilizzata come reagente in uno dei passaggi della respirazione aerobica. I lipidi possono produrre fino a 44 molecole di ATP, tramite la β-ossidazione, durante la quale gli acidi grassi vengono ossidati e scissi per produrre gruppi acetile. La respirazione anaerobica e la fermentazione Nella respirazione anaerobica gli elettroni sono trasferiti dall’NADH alla catena di trasporto degli elettroni, accoppiata alla sintesi di ATP per chemiosmosi. L’accettore finale, tuttavia, non è l’ossigeno, ma è una sostanza inorganica, come il nitrato o il solfato. La fermentazione è un processo anaerobico che non comprende una catena di trasporto elettronico e permette di produrre ATP solo mediante la fosfolirazione a livello del substrato durante la glicolisi. Le molecole inorganiche ridotte prodotte, generalmente alcol o lattato, sono prodotti di rifiuto tossici per la cellula stessa. P700 del fotosistema I. L’elettrone perso dal P680, ora carico positivamente, viene reintegrato mediante la fotolisi dell’acqua: questo processo da un lato fornisce elettroni e dall’altro rappresenta la quasi totalità dell’ossigeno presente nell’atmosfera. La molecola di P680, caricata positivamente, diventa un agente ossidante così forte da poter estrarre elettroni da un atomo di ossigeno di una molecola d’acqua, che si divide in due elettroni, due protoni e un atomo di ossigeno. I due elettroni vengono dati a due molecole P680 e i protoni vengono rilasciati dallo stroma nel lume tilacoidale, sfruttando l’energia persa durante il trasporto di elettroni dal fotosistema II al fotosistema I. In questo modo si forma un gradiente protonico, la cui energia può essere sfruttata per produrre ATP mediante chemiosmosi. Solamente il fotosistema I è coinvolto nel trasporto ciclico degli elettroni, in cui gli elettroni che provengono dal P700 nel centro di reazione, alla fine tornano allo stesso P700. In presenza di luce vi è un continuo flusso di elettroni attraverso la catena di trasporto posta nella membrana tilacoidale. Nel trasferimento di elettroni da un accettore all’altro, si ha una perdita di energia che è utilizzata per pompare protoni attraverso la membrana tilacoidale, dove si trova l’ATP sintasi che sfrutta l’energia del gradiente protonico per sintetizzare ATP. In questo processo non abbiamo produzione di NADPH, né di ossigeno, né fotolisi dell’acqua. Poiché la sintesi di ATP è accoppiata al trasporto di elettroni eccitati da fotoni di luce, questo processo è chiamato fotofosfolirazione. Il meccanismo mediante il quale la fosfolirazione dell’ADP in ATP è accoppiata alla diffusione di protoni secondo gradiente di concentrazione è detto chemiosmosi: la concentrazione di protoni nel lume tilacoidale aumenta sia perché vengono rilasciati durante il trasporto non ciclico degli elettroni, sia perché l’energia liberata dal trasporto crea un gradiente protonico, trasportando i protoni dello stroma verso il lume. Il pH all’interno della membrana tilacoidale si abbassa circa a 5, mentre nello stroma è di 8, e ciò provoca il passaggio di protoni per diffusione facilitata attraverso enzimi ATP sintasi. Ciascuno di questi è in grado di accoppiare il processo esoergonico della diffusione al processo endoergonico della fosfolirazione di ADP per formare ATP, rilasciato poi nello stroma del cloroplasto. Le reazioni di fissazione del carbonio 12 NADPH + 18 ATP + 6 CO2 = C6H12O6 + 12 NADP+ + 18 ADP + 18 Pi + 6 H2O La maggior parte delle piante per fissare il carbonio utilizza il ciclo di Calvin, una serie di 13 reazioni divise in tre fasi: ■ Durante l’assunzione di CO2, una molecola di anidride carbonica reagisce con il ribulosio bifosfato (RuBP) per mezzo dell’enzima rubisco. Da questa reazione si forma una molecola molto instabile a sei atomi di carbonio, scissa immediatamente in molecole di fosfoglicerato (PGA) a tre atomi di carbonio, motivo per cui le piante che fissano in carbonio in questo modo sono chiamate piante C3. ■ La riduzione del carbonio rappresenta quel processo in cui l’energia dell’ATP e il potere riducente del NADPH sono utilizzati per trasformare le molecole di PGA in gliceraldeide-3- fosfato (G3P). Due molecole di G3P reagiscono per formare glucosio e fruttosio, usati a loro volta per produrre, a seconda dei casi, saccarosio, amido o cellulosa. ■ Per la rigenerazione del RuBP, le 10 molecole di G3P rimanenti, che contengono 30 atomi di carbonio, vengono riarrangiate per formare ribulosio fosfato, fosfolirato poi in RuBP. 42 Quando l’ambiente è caldo e secco, le piante chiudono gli stomi per impedire la fuoriuscita di acqua, ma allo stesso tempo riducono l’immissione di anidride carbonica, che quindi risulta, paradossalmente, meno disponibile quando si ha il massimo di illuminazione per promuovere le reazioni alla luce. La fotosintesi, in questo modo, consuma rapidamente la CO2, intrappolata nella foglia e produce O2, che va a competere con i siti attivi dell’enzima ribulosio biosfato carbossilasi/ ossigenasi. Alcuni composti intermedi coinvolti nel ciclo di Calvin sono degradati ad anidride carbonica ed acqua in un processo detto fotorespirazione, che non produce ATP, riducendo l’efficienza della fotosintesi. Molte specie che vivono in ambienti aridi, hanno sviluppato adattamenti per fissare il carbonio: le piante C4 fissano inizialmente la CO2 in ossalacetato; le piante CAM fissano il carbonio durante la notte formando, sempre, ossalacetato. Le foglie delle piante C4 hanno una conformazione tipica: le cellule fotosintetiche del mesofillo sono strettamente associate alle cellule della guaina del fascio, che contengono cloroplasti e circondano strettamente i vasi della foglia. Il componente chiave è l’enzima PEP carbossilasi, che forma ossalacetato, catalizzando la reazione fra anidride carbonica e fosfoenolpiruvato (PEP), composto a tre atomi di carbonio. L’ossalacetato viene poi trasformato, tramite una tappa che richiede NADPH, in malato, che a sua volta passa nella guaina del fascio e forma piruvato, anidride carbonica e NADPH, tramite decarbossilazione. La CO2 si combina con il ribulosio bifosfato ed entra nel ciclo di Calvin, mentre il piruvato torna alle cellule del mesofillo, dove reagisce con ATP rigenerando il fosfoenolpiruvato. Le piante CAM fissano la CO2 durante la notte. Queste piante sono dotate della via CAM, o metabolismo acido delle crassulacee. Questi vegetali aprono gli stomi durante la notte, in modo da incamerare anidride carbonica, minimizzando la perdita d’acqua. Utilizzano l’enzima PEP carbossilasi per fissare la CO2 formando ossalacetato, convertito in malato che viene poi immagazzinato nel vacuolo delle cellule. Durante il giorno la CO2 necessaria è ottenuta dal malato con una reazione di decarbossilazione. Questo processo, a differenza di quello che avviene nelle C4, ha luogo tutto all’interno della stessa cellula. CROMOSOMI, MITOSI E MEIOSI I cromosomi eucariotici I cromosomi sono i principali portatori dell’informazione genetica. Attorno al 1880 i microscopi ottici erano divenuti tanto potenti da permettere, prima a scienziati come Fleming, poi, nel 1903, a Sutton e Boveri di osservare i cromosomi durante la divisione cellulare. I cromosomi sono costituiti da cromatina, un materiale complesso formato da DNA e proteine ad esso associate. Il DNA è organizzato in unità informazionali, dette geni, le quali influenzano alcune caratteristiche dell’organismo, fornendo l’informazione necessaria per svolgere una o più funzioni cellulari. Cellule eucariotiche e procariotiche differiscono nel contenuto e nell’organizzazione delle molecole di DNA. Nell’Escherichia coli, abbiamo un DNA lungo 4x106 coppie di basi organizzate in una singola molecola circolare. In una tipica cellula eucariotica il DNA è organizzato all’interno del nucleo in diversi cromosomi, variabili per dimensioni e quantità fra specie diverse. Il nucleo ha le dimensioni di una cellula batterica, ma contiene una quantità 1000 volte superiore di DNA (lo spermatozoo ha 3x109 coppie di basi). Il processo di compattazione è in questo caso favorito da proteine chiamate istoni, che, essendo carichi positivamente (contengono numerosi aminoacidi con catena laterale basica), possono associarsi al DNA, carico negativamente per l’abbondanza di gruppi fosfato, e formare i nucleosomi, ovvero il primo livello di struttura dei cromosomi. L’unità fondamentale di ciascun nucleosoma è una struttura simile ad una perla con un tratto di DNA di 146 coppie di base avvolto intorno a un nucleo discoidale fatto di otto molecole di istoni. La loro disposizione influisce anche sull’attività del DNA a cui sono associati. Il secondo livello di struttura, detto “a cromosomi impacchettati” si raggiunge quanto un quinto tipo di istone, detto istone H1, si associa con il DNA linker, compattando fra loro nucleosomi adiacenti. Nella cromatina estesa (terzo livello di struttura), queste fibre formano grandi anse a spirale tenute insieme da proteine di impalcatura non istoniche. Le anse interagiscono poi per formare cromatina condensata (quarto livello di struttura), che costituisce i cromosomi metafasici. Per la compattazione cromosomica (quinto livello di struttura) è necessaria la condensina, una proteina che si lega al DNA e lo avvolge in anse raggomitolate che sono compattate in un cromosoma mitotico o meiotico. Il ciclo cellulare e la mitosi Gli stadi attraverso i quali una cellula passa da una divisione cellulare alla successiva costituiscono il ciclo cellulare, che dura, nelle cellule animali e vegetali, dalle 8 alle 20 ore. La cellula trascorre la maggior parte della propria vita in interfase, periodo durante il quale è metabolicamente attiva. La fase G1 intercorre fra la fine della mitosi e l’inizio della fase S. si tratta del periodo in cui non si ha sintesi di DNA e si ha crescita e normale metabolismo cellulare. Le cellule che non sono destinate a dividersi, si arrestano in fase G1, che prende il nome di fase G0. Le altre cellule, verso la fine della fase G1, sono caratterizzate da un incremento (e la successiva sintesi) degli enzimi richiesti per la sintesi di DNA, fatto che rende possibile l’ingresso della cellula nella fase S, o fase di sintesi, in cui viene replicato il DNA e vengono sintetizzati gli istoni, perché la cellula deve replicare i cromosomi. Durante questa fase, ogni cromosoma viene duplicato e consiste in una coppia di unità identiche, dette cromatidi fratelli, ognuno dei quali contiene una regione particolare detta centromero. A questo punto abbiamo una seconda fase di intervallo, la fase G2, più breve delle precedenti, durante la quale si ha un aumento della sintesi proteica in preparazione alla divisione cellulare. La fase M coinvolge due principali processi, la mitosi e la citocinesi. La mitosi inizia alla fine della fase G2 e, a fine descrittivo, è divisa in 5 fasi: ♦ La profase inizia con la compattazione dei cromosomi, con un processo di spiralizzazione della cromatica che li rende più corti e più spessi. I cromatidi fratelli, formati durante la fase S, sono legati fisicamente dalla coesina, una proteina che tiene i cromosomi replicati uniti fra loro dal momento della loro sintesi in poi. Il citoscheletro si disassembla e si forma il fuso mitotico (fatto di microtubuli riuniti in aster) fra i centrioli, migrati ai poli cellulari. Ciascun polo ha un centro di organizzazione dei microtubuli: nelle cellule vegetali appare formato da materiale denso fibrillare quasi privo di struttura; nelle cellule animali, immersa nel centro, si ha una coppia di centrioli, circondata da fibrille che costituiscono la sostanza pericentrirale e ne assicurano la duplicazione quando essi stessi si duplicano durante la fase S. ♦ Durante la prometafase l’involucro nucleare si frammenta, così che i microtubuli del fuso vengono in contatto con i cromosomi. Questi frammenti nucleari vengono raccolti in vescicole per poi formare nuovamente una membrana nelle cellule figlie. I cromatidi fratelli 42 La formazione di gameti è detta gametogenesi e si distingue in spermogenesi e oogenesi. Quest’ultima porta alla formazione di una sola cellula uovo, invece che quattro, perché ad ogni divisione meiotica il citoplasma viene trasferito ad una sola delle due cellule. Alla fine della meiosi I, un nucleo viene mantenuto, mentre l’altro, detto primo globulo polare, degenera. Lo stesso accade nella meiosi II. Le piante, alcune alghe e alcuni funghi hanno cicli vitali caratterizzati da un’alternanza di generazioni, che consistono in uno stato diploide pluricellulare, detto generazione sporofitica (producono gameti per meiosi), e in uno stato aploide pluricellulare, detto generazione gametofitica (producono gameti per mitosi). I PRINCIPI FONDAMENTALI DELL’EREDITÀ I principi dell’ereditarietà di Mendel Il comune pisello da giardini cresce facilmente, è disponibile in molte varietà e consente l’impollinazione controllata in quanto presenta sia organi femminili che maschili: le antere possono essere rimosse per prevenire l’autoimpollinazione e pollini di diversa origine possono essere depositate sullo stigma. Queste caratteristiche lo hanno reso un elemento adatto agli studi di Mendel. Oggi utilizziamo il termine fenotipo, per indicare l’aspetto fisico di un organismo, e genotipo, per indicarne invece la costituzione genetica. Una linea pura per un dato carattere produce solo individui che presentano lo stesso identico carattere. Mendel scelse delle varietà rappresentative per sette caratteri, ovvero gli attributi per i quali le differenze ereditabili, chiamate tratti, erano conosciute. Dopo numerosi studi lo scienziato arrivò a quella che è nota come legge della dominanza dei caratteri o dell’uniformità degli ibridi: dalla generazione parentale P, fatta di piante di differenti linee pure con fenotipi diversi, si aveva una prima generazione filiale F1 con individui tutti uguali che assomigliavano a uno dei due genitori. La seconda generazione filiale F2, invece, comprendeva entrambi i fenotipi venivano espressi. Mendel comprese che negli ibridi della F1 i fattori ereditari, ovvero quelli che oggi definiamo come geni, di un genitore mascheravano quelli dell’altro: si definivano così i due termini di dominante (A) e recessivo (a). A livello molecolare sappiamo che un gene è una sequenza di DNA che contiene l’informazione per produrre un RNA o n prodotto proteico con una specifica funzione. La seconda legge di Mendel è nota come principio di segregazione e afferma che, prima della riproduzione sessuata, i due alleli portati da un genitore devono essere separati. Il termine alleli si riferisce alle forme alternative di un gene, possono essere dominanti o recessivi per uno specifico carattere, e occupano loci corrispondenti su cromosomi omologhi: durante la meiosi, infatti, i cromosomi omologhi e gli alleli presenti su di essi si separano. Gli alleli recessivi non vengono perduti o eliminati, ma possono ricomparire in una seconda generazione F2, in cui avremo ¼ con due alleli TT (omozigoti per il carattere dominante), ¼ con due alleli tt (omozigoti per il carattere recessivo) e ½ con alleli Tt (eterozigoti). È importante capire che i cromosomi omologhi sono simili per dimensione, forma, ma anche e soprattutto perché portano gli stessi geni. Per prevedere i rapporti fra vari discendenti di un incrocio si usa il quadrato di Punnet, in cui i diversi tipi di gameti di un genitore vengono rappresentati lungo il lato superiore del quadrato, e quelli dell’altro sul lato sinistro. È chiaro come non sia possibile determinare il genotipo di un individuo basandosi soltanto sul suo fenotipo, che è identico sia per gli individui omozigoti per il carattere dominante, sia per quelli eterozigoti. Per individuare il genotipo genitoriale, e quindi capire se si tratta di individui eterozigoti o omozigoti, si utilizza il reincrocio, o test cross: supponiamo di avere due cavie che presentano entrambe il pelo di colore nero. Questa caratteristica fenotipica è presente sia che si tratti di un individuo eterozigote Bb sia che si tratti di un individuo omozigote per il carattere dominante BB. Il genotipo può essere individuato tramite reincrocio di entrambe le cavie con un individuo omozigote per il carattere recessivo bb, che presenta pelo marrone: un genitore bb incrociato con un genitore BB offrirebbe una generazione filiale di individui a pelo nero, tutti eterozigoti; un genitore bb con un genitore Bb darebbe invece una generazione filiale che presenta individui a pelo marrone e pelo nero in egual numero. Inoltre, la dominanza non è una caratteristica intrinseca dell’allele, ma costituisce una proprietà relativa di un allele rispetto ad un altro. In un incrocio diibrido, fatto di individui che differiscono per alleli di due loci, non localizzati su cromosomi omologhi, nella generazione F2 avremo un rapporto fenotipico di 9:3:3:1. Arriviamo così alla terza legge di Mendel, nota come principio dell’assortimento indipendente, il quale afferma che i membri di una coppia di geni segregano indipendentemente dai membri di un’altra coppia. Ciò assicura che ogni gamete contenga un singolo allele per ogni locus, ma gli alleli di loci differenti vengono assortiti nei gameti in modo casuale l’uno rispetto all’altro: durante la meiosi, due differenti coppie di cromosomi omologhi possono allinearsi in metafase I secondo due disposizioni alternative. Ereditarietà e cromosomi Thomas Morgan, nel 1910, utilizzò il moscerino della frutta per i suoi studi e capì che i geni sono disposti in maniera lineare su ciascun cromosoma, oltre al fatto che l’assortimento indipendente non è applicabile se due loci sono situati non distanti sulla stessa coppia di cromosomi omologhi, motivo per cui i loro alleli tendono ad essere ereditati insieme e si parla di geni associati. Il linkage (associazione) è, appunto, la tendenza di un gruppo di geni localizzati sullo stesso cromosoma ad essere ereditati insieme nelle generazioni successive. I gameti ricombinanti (Bv e Vb) hanno sempre origine da un crossing-over tra questi loci nella cellula in meiosi di una femmina eterozigote ed avviene maggiormente se i due loci sono molto distanti nel cromosoma, distanza che viene misurata in unità di mappa. Il sesso è determinato dai cromosomi sessuali (nell’uomo abbiamo 22 paia di autosomi e un paio di cromosomi sessuali, XX o XY) e i geni ad essi associati vengono trasmessi in modo particolare. Ogni allele presente sul cromosoma X, dominante o recessivo che sia, viene espresso nel maschio, che si trova in uno stato definito di emizigosi, perché non è né omozigote, né eterozigote per il carattere espresso dal cromosoma X. Ciò che rende possibile l’appaiamento di questi due cromosomi così diversi durante la meiosi I è la presenza di brevi regioni a livello delle quali portano gli stessi geni. Il cromosoma X possiede numerosi geni necessari ad entrambi i sessi, ma la femmina ne ha due ‘dosi’ mentre il maschio ne possiede solo una. Attraverso un meccanismo, detto compensazione del dosaggio, si rendono equivalenti queste due dosi, che si realizza tramite la disattivazione di uno dei due cromosomi X nella femmina. Infatti, durante l’interfase, sotto la superficie di ogni cellula di mammifero femmina è visibile una macchia scura di cromatina, nota come corpo di Barr, che rappresenta uno dei due cromosomi X condensato e metabolicamente inattivo. Una femmina di mammifero eterozigote per un locus legato al cromosoma X esprime uno solo degli alleli in circa la metà delle cellule e l’altro allele nell’altra metà. Questo evento può risultare evidente nel fenotipo: gatti e topi hanno molti geni associati sul cromosoma X che codificano per il colore del mantello e si ha un fenomeno chiamato variegazione, che si mantiene durante la mitosi cellulare ed è particolarmente evidenti nei gatti calico. Estensioni della genetica mendeliana Una singola coppia di alleli può partecipare all’espression e di più caratteri, come alleli presenti su più loci possono concorrere 42 alla regolazione della comparsa di un singolo carattere. Un altro aspetto interessante è che non sempre si ha una dominanza completa: nel caso della bella di notte, un incrocio fra una pianta a fiore rosso e una a fiore bianco, non dà una prima generazione filiale che presenta uno dei due colori, ma li esprime entrambi con un fenotipo rosa. La pleiotropia è la capacità di un gene di avere più di un effetto fenotipico; l’epistasi è invece una forma di interazione genica in cui la presenza di determinati alleli in un locus può impedire o mascherare l’espressione di alleli in un altro locus, senza produrre un nuovo fenotipo. Un esempio di epistasi è il colore del pelo dei Labrador: si ha un gene per il colore del pelo, uno dominante B per il pelo nero e uno recessivo b per il pelo marrone; il gene per la deposizione del colore nel pelo ha due alleli, E per l’espressione del nero e del marrone ed e che è epistatico e che blocca l’espressione dei geni B e b, creando individui a pelo bianco. Un altro tipo di eredità è l’eredità poligenica, in cui più coppie di geni indipendenti hanno effetti simili e additivi sullo stesso carattere, come il colore della pelle. I geni possono inoltre interagire con l’ambiente per produrre il fenotipo, come nel caso delle ortensie e dei conigli himalaiani: le prime sono influenzate dai livelli di alluminio del terreno, in base ai quali possono assumere colore dal blu al rosa; i secondi sono influenzati dalla temperatura dell’ambiente in cui vivono, e presentano chiazze scure su naso, zampe, orecchie e coda, se crescono in un clima freddo, chiazze del tutto assenti se crescono nei climi caldi. DNA: IL DEPOSITARIO DELL’INFORMAZIONE GENETICA La prova che il DNA è il materiale ereditario Inizialmente, intorno agli anni ’30 e ’40 del Novecento, si credeva che il materiale genetico fosse rappresentato dalle proteine e che i geni stessi fossero proteine proprio per la loro capacità di sintetizzarle. Successivamente, in seguito a vari studi, si comprese l’importanza del DNA. Un primo passo fu compiuto da Frederick Griffith nel 1928, quando compì degli studi usando delle cavie di laboratorio, cui iniettò due ceppi batterici di pneumococco: un ceppo virulento liscio (S) e un ceppo avirulento rugoso (R). Con l’iniezione di cellule R vive il topo non subiva effetti patologici; con l’iniezione di cellule S vive il topo moriva per polmonite; con l’iniezione di cellule S uccise dal calore il topo non subiva conseguenze; con l’iniezione, contemporaneamente, di cellule S uccise dal calore e cellule R vive un’alta percentuale di topi morì. Era quindi necessario che ci fosse qualcosa, nelle cellule S uccise dal calore, che potesse convertire le cellule avirulente R in cellule virulente. Questo tipo di cambiamento genetico permanente, dovuto alle proprietà di cellule morte di un ceppo trasferite alle cellule vive di un altro ceppo, è detto trasformazione. Nel 1944 Avery, MacLeod e McCarty identificarono questo fattore trasformante nel DNA, conducendo esperimenti di lisi di cellule del ceppo S ed effettuando una separazione del contenuto cellulare nelle sue componenti (lipidi, proteine, polisaccaridi e acidi nucleici). Provarono dunque separatamente ciascuno dei componenti per capire se fossero capaci di trasformare cellule vive del ceppo R in cellule del ceppo S e conclusero che proprio gli acidi nucleici erano i responsabili di questa trasformazione. Nel 1952 Alfred Hershey e Marta Chase compresero che il DNA era il materiale genetico di alcuni virus. Condussero degli esperimenti sui batteriofagi, virus che infettano le cellule batteriche e si riproducono al loro interno, provocando la lisi cellulare. Utilizzarono un isotopo radioattivo dello zolfo per marcare le proteine di un campione di fagi e un isotopo radioattivo di fosforo per marcare il DNA di un secondo campione d virus. Il pellet della centrifugazione, composto dalle cellule batteriche, risultava radioattivo nel caso del fosforo, quindi era chiaro che proprio il DNA del virus era entrato nelle cellule. molte volte. Il DNA telomerico può essere allungato tramite la telomerasi, presente nelle cellule che possono dividersi un numero illimitato di volte. ESPRESSIONE GENICA La scoperta della relazione gene-proteina Archibald Garrod, nel 1908, intuì che la mutazione di un gene poteva essere associata all’assenza di uno specifico enzima, in seguito agli studi condotti su individui affetti da alcaptonuria. Successivamente, James Sumner, purificò l’ureasi e comprese che gli enzimi sono proteine. George Beadle ed Edward Tatum, negli anni ’40, decisero di cercare mutazioni che interferivano con reazioni metaboliche note per la sintesi di componenti essenziali, utilizzano la muffa del pane Neurospora. Esposero i ceppi selvatici (wild-type, capaci di vivere in un terreno di coltura minimo) di Neurospora ai raggi X e alle radiazioni per creare ceppi mutanti. Circa l’1-2% dei ceppi cresciuti sul terreno completo non riusciva a sopravvivere se trasferito sul terreno minimo. Effettuando altri studi, modificando la composizione del terreno, il lavoro sulla Neurospora rivelò che ciascun ceppo mutante presentava una mutazione in un solo locus genico e che ciascun gene influenzava un solo enzima (ipotesi un gene-un enzima). Alla fine degli anni ’40, era divenuto evidente che i geni controllavano non solo gli enzimi, ma anche le proteine e che molte proteine erano fatte da 2 o più catene polipeptidiche, ognuna delle quali può essere controllata da un locus diverso. L’informazione fluisce dal DNA alle proteine La sequenza di basi del DNA determina la sequenza degli aminoacidi nelle proteine, ma l’informazione contenuta nel DNA non è usata direttamente dalla cellula; infatti, l’RNA fa da intermediario fra DNA e proteine. L’acido ribonucleico è un polimero di nucleotidi a singolo filamento, in cui lo zucchero è il ribosio e la base uracile sostituisce la timina. Per sintetizzare RNA il DNA viene trascritto a partire da uno dei due filamenti della doppia elica, definito come filamento stampo. Sono trascritti tre tipi di RNA: l’mRNA porta l’informazione per la sintesi di una proteina, il tRNA si ripiega su se stesso per assumere una forma specifica, per legarsi ad un aminoacido e trasportarlo al ribosoma, e l’rRNA rappresenta una porzione importante della struttura dei ribosomi e presenta funzioni catalitiche. L’RNA è tradotto per sintetizzare un polipeptide. L’informazione trascritta nell’mRNA è utilizzata per specificare la sequenza degli aminoacidi di un polipeptide: questo processo è detto traduzione perché consiste nella trasformazione del linguaggio a nucleotidi dell’mRNA a linguaggio ad aminoacidi della proteina. Una sequenza a tre basi consecutive di mRNA, chiamata codone, specifica per un aminoacido (fenilalanina: 5’-UUC-3’) e, dato che ciascun codone richiede tre nucleotidi, il codice è detto codice a triplette. I tRNA sono degli ‘adattatori’ molecolari che connettono gli aminoacidi e gli acidi nucleici, in quanto possono legarsi con un aminoacido specifico e possono riconoscere sull’mRNA il codone corrispondente a quel determinato aminoacido, grazie agli anticodoni (nel caso della fenilalanina, l’anticodone è 3’-AAG-5’. Il meccanismo di traduzione richiede che gli anticodoni siano legati mediante legami a idrogeno al codone complementare dell’mRNA e che gli aminoacidi portati dal tRNA siano uniti insieme nell’ordine specificato dall’mRNA. A ciò provvedono i ribosomi, che si attaccano all’estremità 5’ dell’mRNA e, scorrendo lungo il messaggero, permettono ai tRNA di legarsi in sequenza ai codoni dell’mRNA. Negli anni ’60 i ricercatori ipotizzarono che le quattro basi azotate funzionassero come un alfabeto a quattro lettere (43) , con cui si potessero creare 64 ‘parole’, sufficienti per specificare tutti gli aminoacidi. Crick e Brenner capirono che il codice era basato su triplette di basi non sovrapposte e che dovesse essere letto una tripletta alla volta, a partire da un preciso punto di inizio che imposta la reading frame (sequenza di lettura). Niremberg e Matthaei verificarono sperimentalmente che triplette specifiche codificano determinati aminoacidi. Altri scienziati individuarono tre codoni –UAA, UGA e UAG- che non 42 codificavano alcun aminoacidi e venivano quindi definiti codoni di stop o terminazione. Visti i 64 possibili codoni e i soli 20 aminoacidi comuni, è chiaro che alcuni aminoacidi (tutti tranne la metionina e il triptofano) siano specificati da più di un codone. La trascrizione Il primo passaggio di informazioni fra DNA e polipeptide è la trascrizione di una sequenza nucleotidica di DNA in una sequenza nucleotidica di RNA. Nella trascrizione eucariotica, la maggior parte degli RNA è sintetizzata dalla RNA polimerasi (I per la sintesi di rRNA, II per la sintesi di mRNA, III per la sintesi di tRNA), che effettua la sintesi in direzione 5’---3’ e lo stampo di DNA è letto in direzione inversa. Ci riferiamo ad una sequenza di basi in un gene o trascritta dull’mRNA utilizzando i termini di upstream (a monte, ovvero verso l’estremità 5’ della sequenza di mRNA, o verso l’estremità 3’ della sequenza di DNA) e downstream (a valle, ovvero verso l’estremità 3’ della sequenza di mRNA, o verso l’estremità 5’ della sequenza di DNA). Sia nei procarioti che negli eucarioti, quella sequenza di DNA alla quale l’RNA polimerasi inizialmente si lega è il promotore, che non viene trascritto, motivo per cui la RNA polimerasi si deve spostare oltre il promotore, srotolando a questo punto la doppia elica e iniziando la trascrizione, che non richiede un primer. Il primo nucleotide all’estremità 5’ della molecola di mRNA in corso di sintesi trattiene il gruppo trifosfato, mentre nella fase di allungamento due fosfati vengono rimossi con una reazione esoergonica da ogni nucleotide successivamente incorporato all’estremità 3’. L’allungamento dell’RNA continua fino a che l’RNA polimerasi riconosce un segnale di terminazione, che determina il distacco sia dal DNA stampo che dall’RNA neosintetizzato. Solo uno dei due filamenti di una regione codificante viene trascritto. L’RNA messaggero completo contiene più sequenze nucleotidiche di quelle che codificano la proteina in questione. L’RNA polimerasi inizia la trascrizione di un gene a monte della sequenza codificante e, come risultato, l’RNA messaggero possiede, all’estremità 5’ una sequenza leader non codificante, che contiene segnali di riconoscimento per il legame con il ribosoma. La sequenza leader è seguita da un codone di inizio , che indica l’inizio della sequenza codificante che contiene gli effettivi messaggi per il polipeptide. Alla fine della sequenza codificante vi è un codone di stop (UAA, UGA, UAG), seguito da sequenze non codificanti, dette sequenze trailing. Negli eucarioti, il trascritto originale, detto mRNA precursore o pre-mRNA, deve essere modificato mentre è ancora nel nucleo. Quest’attività prende il nome di maturazione e modificazione post-trascrizionale, che ha inizio durante la trascrizione ad opera di enzimi specifici che aggiungono un cappuccio all’estremità 5’ dell’mRNA, in quanto i ribosomi eucariotici non sono in grado di legarsi a un RNA messaggero privo del cappuccio. Dai geni eucariotici vengono trascritte sequenze codificanti e non codificanti, chiamate introni. Quando un gene contenente introni è trascritto, l’intero gene viene copiato in una lunga molecola di RNA chiamata mRNA precursore, che contiene sia esoni, sia introni, che vengono rimossi in un processo di splicing (spesso con la formazione di spliceosomi, fatti da complessi di ribonucleoproteine nucleari, per catalizzare reazioni che portano alla rimozione degli introni) durante la modificazione post-trascrizionale. Una seconda modifica, detta poliadenilazione, aggiunge all’estremità 3’ di ciascun mRNA una coda di adenine, detta coda di poli-A (poliadenilata), in corrispondenza di una sequenza di basi che serve da segnale di aggiunta. La traduzione La traduzione rappresenta la conversione del codice a quattro basi azotate dell’acido nucleico nell’alfabeto a 20 aminoacidi dei polipeptidi. Le proteine sono costituite da aminoacidi legati insieme da legami peptidici, situati tra il gruppo amminico e il gruppo carbossilico di due aminoacidi adiacenti. Francis Crick comprese che il tRNA funzionasse da adattatore per permettere di allineare gli aminoacidi nella corretta sequenza. Infatti, ogni RNA transfer si lega, con un legame di tipo covalente, a uno specifico aminoacido, grazie a particolari enzimi (aminoacil-tRNA sintetasi): i complessi che ne risultano sono chiamati aminoacil-tRNA e sono in grado di legarsi alle sequenze codificanti dell’mRNA così da allineare gli aminoacidi nel giusto ordine a formare la catena polipeptidica. Qualsiasi tRNA deve possedere un anticodone, deve essere riconosciuta da una specifica aminoacil-tRNA sintetasi, deve possedere una regione che faccia da sito di attacco per l’aminoacido specificato dall’anticodone, deve essere riconosciuto dai ribosomi. I ribosomi mettono in contatto tra loro tutti i componenti dell’apparato di traduzione. Ogni ribosoma è costituito da una subunità minore e una subunità maggiore, fra le quali si inserisce l’mRNA. Il tRNA si lega a tre depressioni presenti sul ribosoma: il sito P è occupato dal tRNA che porta la catena polipeptidica crescente, il sito A si lega all’aminoacil-tRNA che porta l’aminoacido da inserire nella sequenza, il sito E è il punto in cui i tRNA lasciano il ribosoma. L’inizio della traduzione richiede l’intervento di proteine, chiamate fattori di inizio, che si attaccano alla subunità ribosomiale minore. Il tRNA che porta il primo aminoacido del polipeptide è il tRNA iniziatore, che lega sempre l’aminoacido metionina, che quindi costituisce il primo aminoacido per ogni catena polipeptidica. Nei procarioti la metionina di inizio è modificata per aggiunta di un gruppo ad un atomo di carbonio e diviene N-formilmetionina. Quando l’fMet-tRNA iniziatore si lega al codone di inizio AUG, rilascia uno dei fattori di inizio. Il complesso di inizio è completo quando la subunità ribosomiale maggiore si lega alla subunità ribosomiale minore e vengono rilasciati gli altri due fattori di inizio. Negli eucarioti, la metionina di inizio non viene modificata. Il codone di inizio sull’mRNA non viene identificato grazie a una sequenza leader, ma grazie alla tripletta AUG che indica il sito di inizio della traduzione. L’allungamento è la fase in cui gli aminoacidi vengono aggiunti uno ad uno al polipeptide in crescita. L’aminoacil-tRNA specifico riconosce il codone nel sito A e vi si lega tramite un appaiamento di basi fra il suo anticodone e il codone complementare dell’mRNA. La fase di legame richiede fattori di allungamento ed energia fornita dalla guanosina trifosfato (GTP). Il gruppo amminico dell’aminoacido posto sul sito A è allineato con il gruppo carbossilico dell’aminoacido precedente che si trova sul sito P e fra i due si forma un legame peptidico. A questo punto l’aminoacido presente sul sito P viene rilasciato dal suo tRNA e viene legato all’aminoacil-tRNA posto sul sito A, reazione che richiede il ribozima peptidil transferasi. La sintesi proteica procede sempre dall’estremità amminica all’estremità carbossilica della catena polipeptidica in crescita. Nella fase di allungamento, o traslocazione, il ribosoma scorre sull’mRNA, avanzando di un singolo codone. 42