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Business Planning. Dall’idea al progetto imprenditoriale, Sintesi del corso di Strategia d'impresa

Parolini, Business Planning. Dall’idea al progetto imprenditoriale. Riassunto capitoli da 1 a 7

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 07/05/2020

Fmik
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Scarica Business Planning. Dall’idea al progetto imprenditoriale e più Sintesi del corso in PDF di Strategia d'impresa solo su Docsity! BUSINESS PLANNING CAPITOLO 1: IL VIAGGIO E LA META 1.1 Che cos’è il business plan e perché lo si redige Il business plan è un documento che descrive un progetto imprenditoriale futuro, delineando il contesto nel quale sarà realizzato, le scelte strategiche e le principali scelte operative, le prospettive economiche e il fabbisogno finanziario connessi al progetto. Presenta alcune specificità: - Si compone di una parte qualitativa (descrizione del contesto competitivo, del mercato, del sistema di offerta, della struttura aziendale) e di una parte quantitativa (revenue model, struttura di costo, investimenti necessari, finanziamenti previsti) - A differenza del budget (che viene redatto a cadenze predefinite), viene redatto quando si intende avviare una nuova iniziativa imprenditoriale o modificare in modo significativo un business preesistente - Presenta un orizzonte temporale più lungo (in genere 3-5 anni) e un minor livello di dettaglio. Obiettivo del business plan non è quello di coordinare le diverse funzioni aziendali, MA di capire se il business proposto potrà essere economicamente conveniente e finanziariamente sostenibile. Un eccessivo grado di dettaglio può rendere più difficile percepire la struttura economica essenziale del business, gli elementi di criticità, la visione d’insieme del progetto. - Il business plan riguarda lo specifico business in fase di cambiamento strategico. Si tratta di uno strumento di pianificazione a livello di business e non a livello corporate. 1.2 Dall’idea al modello di business Qualsiasi progetto imprenditoriale può essere illustrato descrivendo che cosa si pensa di offrire, a chi ci si vuole rivolgere e come si intende fare per fornire ai destinatari prescelti la propria offerta. (adattamento modello formula imprenditoriale di Coda, 1984 e 1988). Nella fase iniziale le idee imprenditoriali sono generalmente confuse e incomplete. Target di mercato Sistema di offerta Struttura Come nascono le idee di business Il cammino verso un modello di business sostenibile può iniziare da una qualsiasi delle tre aree decisionali elencate in precedenza. Spesso si ha un’idea di cosa si vuole offrire, ma in genere non si dispone, inizialmente, delle informazioni necessarie per capire a chi possa interessare l’offerta e quali strutture produttive e commerciali occorra sviluppare per trasformare il progetto in realtà. Innovazione imprenditoriale capace di dare una risposta ai problemi del mercato sono quei progetti che prendono le mosse dalla conoscenza del mercato al quale ci si intende rivolgere (ad es. caso di Celtel, società di telefonia mobile fondata nel 1998 per operare nell’area dell’Africa sub-sahariana, zona nella quale nessuno dei grandi operatori di telecomunicazioni aveva osato entrare fino a quel momento: sistema di offerta basato su vendita di cellulari a basso costo, vendita di carte prepagate di basso valore unitario. Assenza di contratti → contenere i costi amministrativi; vendita di carte prepagate di basso importo → servizio accessibile a un numero consistente di utenti) Altri progetti imprenditoriali nascono dal desiderio di sfruttare meglio le competenze, il marchio, le strutture produttive e commerciali di cui dispongono imprese già avviate: ad es. Zara Home → ripropone lo stesso concept di prodotto, le stesse logiche produttive e distributive in un mercato diverso (concetto di fast fashion, modello di integrazione verticale, distribuzione diretta). L’importante è saper via via mettere a fuoco il sistema di offerta, il mercato target e la struttura necessaria, lavorando sia sulle scelte riconducibili alle singole aree, sia sulla loro congruenza. È inoltre importante che l’imprenditore sia flessibile e riesca a distinguere fra i punti del proprio progetto che sono sostenibili rispetto agli aspetti che devono essere rimessi in discussione. Gli elementi di un modello di business Un qualsiasi progetto imprenditoriale richiede che vengano compiute delle scelte in merito: • Al sistema di offerta che si intende proporre; • Al mercato target al quale si intende rivolgersi; • Alla struttura con la quale si pensa di poter operare. Per completare il modello di business dobbiamo aggiungere a tali aree decisionali le scelte che riguardano come il sistema di offerta viene comunicato e distribuito, determinando il tipo di relazione che si instaura con il mercato target: • Le politiche di comunicazione che si pensa di adottare per far conoscere il proprio sistema di offerta al mercato target; • I canali distributivi che si intendono utilizzare. Il modello di business deve essere sviluppato tenendo conto del contesto competitivo e ambientale nel quale si colloca. La sua formulazione deve quindi considerare: ▪ La concorrenza in senso lato (diretta, indiretta, potenziale). Nel momento in cui si decide di offrire un certo sistema di offerta su un dato target, si deve tener conto dei concorrenti presenti in tale mercato. Sebbene questa non sia una vera e propria area decisionale, le scelte di posizionamento relative al sistema di offerta e al target di mercato determinano i competitor che si dovranno affrontare e le dinamiche competitive influenzano in modo significativo i risultati aziendali. ▪ Il contesto ambientale. Oltre che dalle dinamiche competitive, i risultati aziendali sono influenzati anche dal contesto ambientale nel quale il business si colloca, rappresentato dalle forze di mercato e macroeconomiche, oltre che dai trend socioeconomici, tecnologici e regolatori. mercati geografici target ed e’ sempre opportuno valutare come i trend macroeconomici possano impattare sui risultati attesi. - le forze di mercato che incidono sia sui mercati di approvvigionamento sia sui mercati di sbocco: l’analisi dei mercati di approvvigionamento puo’ fornire indicazioni importanti sulle scelte di struttura. - trend socioeconomici, tecnologici e regolatori: trend (ad esempio urbanizzazione, fenomeni migratori, crescente attenzione alla sostenibilita’ ambientale dei business) rappresentano fenomeni di grande rilievo dei quali tutte le imprese devono tener conto. E’ impossibile dire in quale ordine si svolgano le analisi precedentemente elencate: nella realta’, analisi e scelte passano attraverso un processo di continuo adattamento reciproco, cosi’ come le diverse categorie di scelte devono essere continuamente adattate le une alle altre. Modelli di business multipli: i due sistemi di offerta sono strettamente correlati e in parte coincidenti. In genere, la presenza di sistemi di offerta multipli si accompagna ad una loro forte interrelazione: non e’ possibile avere successo in un mercato se non si ha successo nell’altro. 1.3 DAL MODELLO DI BUSINESS AL MODELLO ECONOMICO Le scelte relative al sistema di offerta, al mercato target, alle politiche di comunicazione, ai canali e alla struttura da un alto, e le caratteristiche del sistema competitivo e dell’ambiente, dall’altro determinano il modello economico del nostro progetto imprenditoriale e i suoi risvolti finanziari. Con “modello economico” si intende il sistema di ricavi, costi operativi, capitale circolante, investimenti in immobilizzazioni che deriva dalle scelte relative al progetto imprenditoriale. Si potrebbe dire che il modello economico rappresenta le conseguenze quantitative delle scelte strategiche compiute a livello di modello di business, tuttavia il modello economico e’ il riflesso quantitativo delle scelte strategiche e operative assunte e puo’ essere descritto da un modello di simulazione nel quale le diverse quantita’ in gioco sono fra di loro correlate. Il modello economico puo’ essere concettualmente articolato in una serie di sotto-modelli che lo compongono: - Il revenue model: chi acquistera’ il prodotto? In quanti lo acquisteranno? Quanto acquistera’ ogni singolo cliente, e quanto spesso? Come sara’ articolato il sistema di prezzi? Quanto saranno appetibili le diverse offerte? In che modo possiamo aggiungere nuove fonti di ricavo al nostro modello? Ecc - Il modello dei costi operativi: quale sara’ la struttura dei costi? A quanto ammonteranno i costi proporzionali al fatturato? E quelli relativi ai volumi di vendita? Quale sara’ il peso dei costi fissi di struttura proporzionali alla capacita’ produttiva? A quanto ammonteranno le spese up-front (come quelle di ricerca e di sviluppo e di pubblicita’) necessarie per sviluppare il business? In che modo il sistema di offerta interagisce con i costi? In che modo le scelte di struttura possono modificare la struttura dei costi? - Il working capital: a quanto ammontano gli impieghi in attivo circolante (ad es crediti verso clienti e scorte)? In che modo le scelte relative al sistema di offerta possono influenzare l’attivo circolante? In che modo le scelte relative alla configurazione della struttura produttiva possono influenzare l’ammontare delle scorte? A quanto ammontano i debiti circolanti (ad es debiti verso fornitori)? - Le immobilizzazioni operative: qual e’ l’investimento che occorre prevedere sul fronte delle immobilizzazioni tecniche (impianti produttivi, mezzi di trasporto, arredi ecc)? in che modo le scelte di struttura incidono sulle immobilizzazioni? Quali sono le relazioni fra costi e immobilizzazioni? Su quali fronti puo’ agire per contenere gli investimenti complessivi? Tutti i ricavi, i costi e gli investimenti sono di natura operativa, ovvero legati alla gestione caratteristica o tipica dell’impresa. Il business model descrive le scelte strategiche effettuate a livello di business, ovvero relative alla gestione caratteristica. In funzione di queste scelte possiamo determinare l’ammontare di ricavi, costi e impieghi operativi di gestione tipica. Oltre ai valori di gestione operativa, le imprese devono tenere in considerazione anche valori derivanti da altre gestioni, come la gestione fiscale (costo delle imposte), la gestione finanziaria passiva (debiti finanziarti e relativi oneri) e la gestione finanziaria attiva o patrimoniale (investimenti in titoli di stato e i relativi ricavi). Tutte queste gestioni sono, di fatto, determinate a monte dal modelli di business e dai ricavi, costi e investimenti operativi che da questi derivano. Possiamo affermare che le scelte relative al modello di business determinano il modello economico e che quest’ultimo determina l’ammontare del fabbisogno finanziario, per il quale andrà definito un modello finanziario. Nel business plan, i valori risultanti dalla gestione tipica, fiscale e finanziaria sono sintetizzati nei bilanci previsionali normalmente contenuti in uno degli ultimi capitoli del documento. Sebbene esista una stretta relazione, il revenue model e i ricavi contenuti nel bilancio previsionale sono molto diversi. 1.4 BUSINESS MODEL CANVAS E LEAN START-UP Negli ultimi anni è andato crescendo un movimento denominato “Lean Start-Up Movement”, secondo il quale la chiave del successo di una nuova iniziativa imprenditoriale non sta nello scrivere un business plan, ma nell’andare direttamente sul mercato con un minimum viable product e fare test per capire cosa funziona e cosa no, innescando così un processo di apprendimento e miglioramento continuo (validated learning process). Steve Blank spiega (nel suo articolo “Why the Lean Start-up Changes Everything”) come la metodologia della lean start-up favorisca la sperimentazione rispetto alla pianificazione, il feedback dei clienti rispetto all’intuito e il design iterativo rispetto al design realizzato up-front, prima di lanciare il prodotto o servizio sul mercato. L’approccio lean si avvale essenzialmente di due strumenti per lo sviluppo del business model: il business model canvas e il processo di validated learning. Il business model canvas è il canovaccio sul quale un team imprenditoriale può sviluppare il proprio modello di business, in sostanza si tratta di uno schema a 9 blocchi che descrive il business model dell’impresa L’unica differenza fra il business model canvas e il modello di business è che le scelte relative alla struttura vengono maggiormente articolate, distinguendo attività, risorse e partner. Lo schema a 9 blocchi può essere infatti riportato su un grande cartellone e, con l’aiuto di Post-it, utilizzato come un canovaccio per il brainstorming del team imprenditoriale e quindi per lo sviluppo del business model. Il business model canvas è certamente un ottimo strumento di brainstorming, superiore al business plan nelle fasi iniziali di sviluppo del business model. Nel momento in cui i diversi elementi devono essere approfonditi e presentati a terzi, tuttavia, si deve inevitabilmente passare alla stesura di un documento scritto che descrive i diversi elementi del business model, e cioè il business plan. Il secondo strumento dell’approccio lean è rappresentato dal processo di validated learning. Si suggerisce alle start-up di spostare la loro attenzione dallo sviluppo del prodotto up-front a uno sviluppo iterativo, nel quale lo sviluppo del prodotto va di pari passo con lo sviluppo della clientela. Il processo inizia con la definizione di un minimum viable product, che può essere una demo o una versione estremamente semplificata del prodotto o del servizio. Il minimum viable product deve essere testato con i primi clienti, rilevando e valutando attentamente i risultati dei test: se questi confermano le ipotesi di partenza si prosegue con l’affinamento del prodotto, altrimenti si cambia impostazione (modificando il prodotto e/o il mercato obiettivo), facendo però caratteristiche delle fonti di approvvigionamento (costanza dell’offerta, affidabilità dei fornitori ecc); - fonti di approvvigionamento chiave; - determinanti del potere contrattuale dei fornitori. Il sistema di offerta: in questo capitolo occorre dimostrare di conoscere molto bene i bisogni dei clienti e mettere in luce gli elementi che compongono il sistema di prodotto che si intende offrire. Il capitolo può essere strutturato come segue: - descrizione del bisogno che si intende soddisfare (latente/consolidato, diffuso/concentrato ecc); - descrizione del prodotto/servizio principale; - descrizione di tutti gli elementi che compongono il sistema di offerta (prezzo, gamma, servizi collaterali, tempi di consegna, immagine del prodotto, garanzie ecc); - confronto fra il sistema di offerta proposto e le offerte dei principali competitor; - eventuale presenza di brevetti o licenze; - stadio di sviluppo del prodotto (progetto/prototipo/consolidato) e indicazione dei tempi, delle modalità e dei costi per la completa messa a punto dello stesso. Il piano di marketing: il piano di marketing deve descrivere tutte le scelte compiute a livello di brand, comunicazione in senso lato e canali. Facendo riferimento alle “4P” del marketing mix, prodotto e prezzo sono stati già descritti nel capitolo precedente, mentre in questo capitolo si descrivono promozione (comunicazione) e place (canali). Il capitolo deve quindi illustrare i seguenti elementi: - la politica di brand; - il piano di comunicazione (pubblicità, promozione, uso dei social media, ecc); - come si pensa di interagire con i clienti (call center, showroom, sito online, ecc); - i canali distributivi prescelti e il loro impatto sull’immagine del prodotto; - eventuali accordi di co-marketing; - i costi della comunicazione. La struttura tecnico-industriale, di R&S, logistica e commerciale: in questo capitolo si deve descrivere la struttura che occorre costituire per svolgere le attività aziendali, siano queste attività di ricerca, attività produttive, commerciali o amministrative. Ovviamente la descrizione dovrà focalizzarsi sulle attività critiche, tralasciando quelle meno rilevanti. Se, per esempio, l’impresa intende svolgere attività produttive, occorre dimostrare di aver raccolto dati molto analitici in merito ai macchinari necessari, ai loro costi e al loro grado di produttività. Le informazioni da fornire sono le seguenti: - eventuali acquisizioni di brevetti, know-how e così via; - accordi a livello produttivo; - scelta di make, buy o connect; - modalità di approvvigionamento; - configurazione della struttura produttiva e indicazione dei tempi, della modalità e dei costi per la predisposizione della stessa; - composizione e natura dei costi di produzione; - struttura di ricerca e sviluppo e indicazione di eventuali partnership in questo campo; - struttura commerciale, logistica, amministrativa; - tecniche/strumenti che si intendono adottare per controllare le qualità del prodotto o del servizio. Aspetti organizzativi: se l’azienda presenta una certa complessità, è opportuno dedicare un capitolo agli aspetti organizzativi. In caso contrario, ci si può limitare a inserire nel piano di marketing e nel capitolo sulla struttura tecnico-organizzativa il numero dei dipendenti necessario nei vari anni per i quali si intendono predisporre dei preventivi economico-finanziari. La struttura del capitolo può essere la seguente: - evoluzione quali-quantitativa del personale dipendente; - struttura organizzativa prescelta e indicazione dei responsabili principali e delle loro mansioni; - principali meccanismi operativi; - modalità di acquisizione e sviluppo delle competenze critiche per il successo del progetto imprenditoriale. Network: nel caso si presenti o si intendano stringere relazioni di partnership o comunque di collaborazione continuativa con altre imprese, si deve riportare quanto segue: - descrizione del sistema complessivo di creazione del valore costituito dall’azienda e dai suoi partner; - sintesi delle alleanze e degli accordi già raggiunti con altre aziende, - identificazione di possibili alleanze future. Aspetti legali: in questo capitolo devono essere descritte eventuali situazioni di criticità sul fronte legale, quali, per esempio, cause in essere, problematiche di protezione brevettuale, autorizzazioni necessarie e così via. Previsioni economico-finanziarie: questo capitolo è quello che, dal punto di vista tecnico, presenta di solito le maggiori difficoltà di elaborazione, in quanto deve contenere bilanci previsionali accurati e fra di loro congruenti, oltre ad alcune analisi aggiuntive. Le previsioni economico-finanziarie possono essere descritte come la quantificazione del modello di business. In genere, le previsioni vengono fatte per un periodo che va dai 3 ai 5 anni. I prospetti da presentare sono i seguenti: - bilanci previsionali (conti economici, stati patrimoniali, preventivi finanziari); - eventuale budget di cassa mensilizzato; - principali indici di bilancio e analisi del punto di pareggio; - analisi di simulazione che illustrino l’impatto sulla profittabilità e/o sulla fattibilità finanziaria del progetto al variare di alcune ipotesi chiave; - eventuale calcolo del Net Present Value e altre analisi di natura finanziaria. Rapporti con il destinatario del business plan: si consigli di evitare posizioni generiche e di presentare la nostra proposta in modo diretto: - che cosa offre; - che cosa si chiede. Allegati: si suggerisce di inserire in allegato tutti i documenti di approfondimento, i dati e le tabelle numeriche che non sono indispensabili per la comprensione dei concetti presentati. I documenti allegati potrebbero essere i seguenti: - curricula dei componenti del team imprenditoriale e dei dipendenti chiave; - descrizioni dettagliate/schede tecniche del prodotto o del processo produttivo; -dettaglio dei costi e degli investimenti previsti; - risultati dettagliati dei test di mercato; - dettaglio dei dati usati per il capitolo delle previsioni economico-finanziarie. Potrebbe essere necessario aggiungere alcuni capitoli e toglierne altri. Se, per esempio, presentate un progetto con un forte contenuto tecnologico, potrebbe essere utile aggiungere nella parte iniziale un capitolo che sintetizzi le dinamiche tecnologiche in atto nel settore. Se, ancora, i mercati di approvvigionamento ai quali vi rivolgete non presentano particolare criticità, potreste decidere di eliminare il capitolo corrispondente e di inserire qualche cenno ai mercati di approvvigionamento nel capitolo sulla struttura aziendale. Anche l’ordine dei capitoli può essere variato. La regola è che si dovrebbe portare “in alto” i capitoli meno scontati per chi legge il business plan. Se, per esempio, il progetto prevede il lancio di è un prodotto dalle funzionalità molto innovative, sarebbe opportuno presentare il sistema di offerta prima di descrivere il mercato potenziale e il sistema competitivo. Se, invece, state elaborando il piano per il lancio di una nuova formula di dentifricio, potrebbe essere meglio partire illustrando le caratteristiche del mercato e i segmenti di mercato più liberi dalla concorrenza, per poi passare a descrivere il prodotto che si potrebbe proporre sul mercato. Suggerimenti sulla forma del business plan: - esprimere chiaramente che cosa si chiede e che cosa si offre al destinatario del documento; - evitare affermazioni ingenue, eccessi di entusiasmo, convinzione non documentate; - cercare di non superare le 40-50 pagine, eventuali ricerche e approfondimenti possono essere inseriti in allegato e forniti solo su richiesta; - preparare una copertina ben fatta che riporti il titolo del progetto, la denominazione dell’impresa, il nome e il recapito del proponente, la data di presentazione; - l’intero documento deve trasmettere un senso di professionalità, chiarezza e completezza. Per questo motivo è importante curare lo stile di scrittura e l’editing, rileggere attentamente il documento per evitare errori di battitura, strutturare bene il contenuto suddividendolo in capitoli e paragrafi, numerare figure e tabelle, riportare sempre le fonti dei dati e informazioni, numerare le pagine, non dimenticare l’indice e l’executive summary; - prestare attenzione alla congruenza fra i dati presentati, aiutando il lettore a capire le relazioni fra i diversi numeri; - predisporre il business plan in modo neutro rispetto alla data di avvio (anno 1, anno 2). CAPITOLO 2 IL MERCATO 2.1 ORIENTARSI AL MERCATO L’eccessivo attenzione ai dati di ascolto è ritenuta da molti una delle cause del progressivo allineamento verso il basso dei programmi televisivi, sempre più ridotti a sterile ripetizione di format ormai consolidati e poveri di spunti innovativi. In casi come questo, con tutta evidenza, l’orientamento al mercato non solo non ha favorito l’innovazione, ma è diventato una sorta di paravento dietro il quale nascondere la progressiva incapacità di assumersi dei rischi, di innovare e di sorprendere gli utenti con prodotti originali. Il risultato, a lungo andare, è il contrario di quello che ci si era prefissi, un inesorabile calo degli utenti e delle vendite. Potremmo dire quindi che un sano orientamento al cliente non consiste nel dare al cliente ciò che egli chiede, ma nel riuscire a immaginare ciò che il cliente potrebbe apprezzare, anche se ancora non lo sa. Questo è particolarmente vero nei settori a forte contenuto artistico (dove ci si aspetta che i professionisti del settore abbiano una maggiore capacità di individuare le nuove tendenze) e nei settori a forte contenuto tecnologico, dove i clienti, a volte, non riescono nemmeno a immaginare quello che le nuove tecnologie possono fare per loro. [ad esempio, Steve Jobs sosteneva che “i clienti non conoscono gli inconvenienti tecnici che l’aggiunta di alcuni elementi può comportare. Il nostro obiettivo è di compiere delle scelte per fare in modo che il cliente abbia il miglior prodotto possibile, e per questo può essere necessario sacrificare qualcosa. Il pubblico ci paga per fare delle scelte e noi le facciamo” ] Soprattutto nei settori a forte contenuto di innovazione tecnologica o artistica, orientarsi al cliente non significa “seguire” il cliente nelle sue richieste, ma “condurlo” verso prodotti e soluzioni che egli a volte non è nemmeno in grado di immaginare. Il cliente va ascoltato e va osservato per capire quali siano i suoi bisogni espressi e inespressi, presenti e futuri, per arrivare a “mettersi nei suoi panni”. In alcuni casi, orientarsi al mercato significa anzitutto capire qual è il mercato e chi sono i clienti a cui pensare nel momento in cui si mette a punto il sistema di offerta. Se il sistema di offerta è rivolto a intermediari che poi servono gli utenti finali, in molti casi gli utenti finali sono troppo lontani, o l’impresa non ha la forza per assumere una prospettiva allungata fino all’utente finale, per cui è inevitabile definire il sistema di offerta pensando solo al cliente diretto. Questo tipo di approccio tuttavia a lungo andare può risultare miope e non consentire di portare alla luce opportunità di miglioramento nel sistema di offerta che, rispondendo alle esigenze degli utenti finali, potrebbero contribuire ad aumentare la competitività dell’intero sistema costituito da impresa e intermediari. 2.2 L’ANALISI DEL PROCESSO DI ACQUISTO E DI CONSUMO Le fasi del processo di acquisto e di consumo Come si articolano i ruoli nel processo di acquisto? Se i diversi ruoli sono articolati su più soggetti, occorre mettere a punto una sorta di “sistema di offerta” specifico e convincente per ciascun soggetto. Con quale frequenza si acquista? Questa dimensione del processo di acquisto influisce in modo significativo sulla scelta dei canali di distribuzione e sul tipo di relazione che si può puntare a instaurare con i clienti. Nel caso dei beni materiali e dei servizi non digitalizzabili, maggiore è la frequenza d’acquisto, più capillare deve essere la presenza sul territorio, se si vuole acquisire una quota di mercato significativa. Nel caso di beni digitalizzati (dove la presenza capillare sul territorio è garantita da Internet), la frequenza di acquisto è molto importante per riuscire a costruire una stretta relazione con gli acquirenti e per sperare di coinvolgerli in una community. La forte tendenza ad ampliare la gamma di beni offerti da parte dei negozi online è in parte il presupposto e in parte il frutto del desiderio di instaurare con i clienti una relazione forte: solo se si riesce a far tornare il cliente sul proprio sito gli si possono offrire altri beni; al tempo stesso, per farlo tornare più spesso gli si offre una gamma sempre più vasta di beni (esempio: Apple e iTunes store) Quando si acquista? Quali sono le occasioni che fanno scattare la decisione di acquisto, oppure nel senso di quanto tempo prima avvenga l’acquisto rispetto al momento del consumo. Si tratta di una domanda molto utile per identificare i canali promozionali e di distribuzione più adatti, oltre che, in alcuni casi, gli influenzatori sui quali far leva per orientare i processi di acquisto. Nel caso di servizi non digitalizzabili, l’attitudine ad acquistare il servizio in anticipo rispetto al momento del suo consumo determina in modo significativo la probabilità di successo delle vendite online (viaggi, biglietti concerti). Nel giudicare la possibilità di utilizzare o meno Internet per vendere servizi occorre tener conto della rapidissima evoluzione tecnologica che può rendere interessanti soluzioni improponibili fino a pochi anni fa. Quali problemi presenta il processo di acquisto e di consumo? Un buon modo per individuare opportunità di innovazione è quello di osservare il processo di acquisto e di consumo e rilevare se esistono inconvenienti rilevanti nei processi attuali. Dove si acquista? Esistono canali consolidati di distribuzione del bene? Quali sono il potere contrattuale e la rilevanza dei diversi canali? Possono esserci problemi di accesso ai canali per i nuovi entranti? L’evoluzione tecnologica ha un impatto sui canali di distribuzione? In presenza di più canali, occorre ricordare che il profilo dei clienti e il loro comportamento possono cambiare a seconda del canale prescelto. È certamente importante conoscere gli attuali canali di distribuzione del bene in questione, ma occorre ricordare che anche i canali ed i luoghi di vendita possono essere oggetto di innovazione. La domanda è di particolare attualità nel settore dei media. Come si acquista? L’acquirente ha bisogno di consigli o di supporto tecnico nelle fasi di raccolta delle informazioni e di valutazione delle alternative? Il passaparola ha un ruolo rilevante? I clienti possono facilmente essere influenzati da offerte e promozioni? L’acquisto avviene d’impulso o in seguito a un attento confronto delle alternative? Gli acquirenti tendono a rimanere fedeli alle proprie abitudini o si rivolgono al primo fornitore disponibile? L’acquisto è un fatto straordinario (immobili), poco frequente (auto), ricorrente di rado (assicurazioni), frequente (beni di largo consumo), giornaliero (quotidiani), continuativo (abbonamenti e utenze), stagionale (vacanze)? Ragionare su queste domande è utile per individuare i soggetti che possono influenzare le decisioni di acquisto e per capire su quali stimoli esterni sia più opportuno fare leva e quali canali e strategie di comunicazione sia meglio utilizzare. Come avviene il consumo del bene? La competenza dell’utente influenza il valore che questi riesce ad ottenere? Dopo l’acquisto, ci sono occasioni più o meno frequenti di interazione con il cliente? Come si può misurare il grado di soddisfazione dei clienti? La specificità dei mercati business rispetto ai mercati consumer i mercati B2B presentano differenze significative rispetto ai mercati B2C e tali differenze si riflettono pesantemente sui processi di acquisto e di consumo. - I clienti business sono in genere meno numerosi e di maggiori dimensioni rispetto ai clienti consumer e di conseguenza il portafoglio clienti business tende a essere più concentrato. Nei mercati B2B le relazioni cliente-fornitore sono quindi più articolate e personalizzate, un po’ per l’importanza dei singoli clienti, un po’ perché nei mercati business la ripetitività dei processi di acquisto è la regola. - I clienti business tendono ad essere più razionali nelle proprie decisioni, considerando in modo più equilibrato i costi lungo il ciclo di acquisto e di utilizzo dei beni, dando un valore monetario al tempo e risultando relativamente meno influenzabili dal marchio, se questo non corrisponde a una maggiore qualità reale dei beni proposti. - Nei mercati business i processi di acquisto sono più formalizzati e le fasi descritte precedentemente (percezione del bisogno, ricerca delle informazioni, valutazione delle alternative ecc) sono molto più articolate e distinguibili. Ogni impresa presenta obiettivi, politiche, procedure, strutture organizzative e sistemi di acquisto specifici, che devono essere conosciuti in modo non superficiale dagli aspiranti fornitori che su tali sistemi devono costruire la propria offerta. - Nei mercati B2B il coinvolgimento di diversi soggetti nel processo di acquisto e di consumo non rappresenta l’eccezione, ma la regola. Di conseguenza, in questi mercati si possono manifestare con maggior frequenza fenomeni di distorsione, per cui non sempre il bene scelto è quello che presenta il miglio rapporto qualità prezzo, nonostante l’apparente maggiore razionalità degli acquisti business. - I mercati business tendono a essere più volatili dei mercati consumer. A fronte di riduzioni anche limitate nella domanda di beni finali, le imprese possono infatti reagire aumentando il livello di prudenza e riducendo le proprie scorte, amplificando la recessione nei mercati a monte della filiera. In modo simmetrico, nelle fasi di ripresa l’aumento delle vendite nei mercati business può essere molto più accentuato rispetto ai mercati consumer. La ciclicità della domanda è ancora più sentita nel caso dei beni durevoli venduti su mercati business, la cui domanda all’inizio di periodi di crisi può crollare in modo verticale. Questo fenomeno ha implicazioni importanti sulla configurazione della struttura aziendale, che deve essere progettata in modo tale da poter resistere a crisi ricorrenti. - I mercati B2B sono in genere caratterizzati da una minore elasticità della domanda complessiva al prezzo, in quanto i loro acquisti sono determinati dall’andamento della domanda dei beni finali. Mentre nel caso di beni di consumo la discesa complessiva dei prezzi può contribuire a rivitalizzare il mercato, nel caso dei beni industriali la riduzione dei prezzi medi porta quasi esclusivamente a una riduzione dei margini dei fornitori. 2.3 LA SEGMENTAZIONE DEL MERCATO I criteri di segmentazione Segmentare la domanda significa individuare nel mercato gruppi di clienti che presentano caratteristiche e bisogni differenziati rispetto agli altri e per i quali può essere opportuno mettere a punto un sistema di offerta ad hoc e/o una politica di comunicazione differenziata. In alcuni casi queste differenze sono tali da riflettersi anche sulla struttura aziendale (ad es. editoria libraria: testi scolastici e romanzi). In altri casi le differenze fra segmenti sono così limitate da rendere opportune varianti minime al sistema di offerta o da poter essere trascurate. Le variabili utilizzabili per segmentare i mercati sono in parte diverse a seconda che si tratti di mercati business o consumer. Nel caso di mercati consumer: • Variabili geografiche: la segmentazione per area geografica è significativa quando in contesti geografici diversi cambiano i gusti dei consumatori, le loro esigenze, le caratteristiche dei sistemi distributivi. (Aree – densità - dimensione centri abitati - zone climatiche) • Variabili socio-demografiche: questa modalità di segmentazione viene spesso criticata perché, se mal utilizzata, può portare ad analisi banali, basate su luoghi comuni. I luoghi comuni tuttavia non nascono dal nulla e non si può negare che i gusti e le abitudini di acquisto e di consumo siano almeno in parte legati alle variabili socio-demografiche. Questo criterio di segmentazione porta a gruppi di consumatori facili a misurare, identificare e raggiungere. (età – tipologia nucleo familiare – fase ciclo di vita – fasce di reddito – occupazione – livello scolastico – generazione ..) • Variabili psicografiche: questo approccio parte dagli stili di vita, dalla personalità e dai valori dei clienti e può quindi offrire spunti più originali e sofisticati. Rispetto alla segmentazione socio-demografica, i segmenti individuati sono molto più difficili da misurare e da raggiungere. È un criterio molto rilevante per la formulazione del sistema di offerta, per la definizione dell’immagine del marchio e per la comunicazione. (stili di vita – personalità – valori ) • Variabili comportamentali: i consumatori vengono raggruppati in funzione del modo in cui usano il bene e degli attributi da essi più apprezzati. I clienti vengono quindi raggruppati non tanto in funzione delle loro caratteristiche personali quanto in funzione del rapporto che hanno con il bene in questione. Si tratta di una modalità di segmentazione molto concreta, che può dare indicazioni rilevanti soprattutto per la definizione del sistema di offerta di tutti i tipi di beni. (status utente – benefici ricercati – occasioni di utilizzo – quantità consumata – grado di fedeltà dell’utente – attitudine verso il bene) Nel caso di mercati business: • Variabili geografiche: questa modalità di segmentazione permane anche per i mercati business, ma i criteri utilizzati possono essere diversi. La suddivisione delle aree geografiche per lingue parlate nei mercati business è un criterio più significativo rispetto a - One to many: ci si rivolge con un sistema di offerta indifferenziato a una molteplicità di segmenti (ad es. Apple → diversi segmenti di clientela che presentano un nucleo comune di bisogni abbastanza ampio, bene unico ma flessibile) - Many to many: l’impresa decide di rivolgersi a più segmenti di mercato con un’offerta differenziata, ovvero mettendo a punto modelli e sistemi di offerta diversi, progettati per rispondere alle esigenze di ciascun segmento di mercato (ad es. General Motor). Il rischio delle strategie many-to-many è quello di non riuscire a posizionare le diverse offerte sui relativi segmenti in modo chiaro e ben differenziato rispetto ad altri marchi del gruppo e rispetto alla concorrenza. 2.4 LE DETERMINANTI DEL POTERE CONTRATTUALE DEI CLIENTI L’analisi del mercato è funzionale alla messa a punto di un sistema di offerta apprezzato dal mercato di sbocco, in quanto in grado di rispondere ai bisogni da esso espressi. Come sottolinea Porter, però, soddisfare i bisogni dei clienti è un requisito necessario ma non sufficiente per garantire un buon livello di redditività a un settore e alle imprese che a questo appartengono. In generale, si può affermare che le imprese in un settore riescono a creare valore quando i costi da esse sostenuti per offrire un prodotto o un servizio sono inferiori rispetto al valore attribuito dagli acquirenti al prodotto/servizio ricevuto. Quando il prezzo si avvicina ai costi sostenuti sono i clienti ad appropriarsi della maggior parte del valore, mentre quando il prezzo è prossimo al valore attribuito dal cliente al valore/servizio sono le imprese del settore che riescono a godere del valore creato (in termini di redditività). Le determinanti della sensibilità al prezzo La sensibilità al prezzo può essere misurata rapportando le variazioni percentuali di volume di quantità vendute conseguenti a una variazione percentuale di prezzo. Se a fronte di una certa variazione percentuale del prezzo si verifica una variazione del volume percentualmente superiore, il rapporto di elasticità in valore assoluto è superiore a 1 e si dice che la domanda è elastica; nel caso contrario, il rapporto è inferiore a 1 e si dice che la domanda è poco elastica o anelastica rispetto al prezzo. Se il volume non varia al variare del prezzo (il rapporto è quindi pari a 0), la domanda è completamente rigida (ad es. un farmaco salva-vita che non ha sostituti → il prezzo non influenza la domanda). Un altro caso estremo si ha quando la domanda è infinitamente sensibile al prezzo, ovvero a fronte di un piccolo aumento di prezzo la domanda si azzera, o a fronte di una piccola riduzione la domanda diventa infinita (ad es. nei mercati di materie prime). La sensibilità della domanda rispetto al prezzo può variare a seconda del livello del prezzo stesso. Se il prezzo è molto alto, una riduzione del 10% può portare a forti aumenti dei volumi, mentre se il prezzo è già molto basso, una riduzione ulteriore del 10% può avere un impatto poco significativo. Esistono poi una serie di determinanti strutturali della sensibilità al prezzo: - Grado di differenziazione dell’offerta: è probabilmente la determinante più importante dell’attrattività del settore, dato che influenza in modo significativo non solo il potere contrattuale dei clienti, ma anche il confronto competitivo con i concorrenti diretti oltre che le barriere all’entrata nel settore. Un bene è differenziato quando agli occhi del cliente non è perfettamente sostituibile con i beni offerti da altri competitor. Più differenziato è un bene, più alto è il premium price che i consumatori sono disposti a pagare pur di avere esattamente il bene desiderato. L’opposto di bene differenziato è dato dalle commodities, quali per esempio le materie prime. Il grado di differenziazione è influenzato da molti fattori, quali le caratteristiche tangibili del bene e le sue prestazioni, il suo contenuto emotivo, la soddisfazione soggettiva che l’acquirente può trarre dal bene o l’importanza del marchio e di altri elementi immateriali nel processo di acquisto. Un esempio di bene molto differenziato è dato dai profumi, per i quali le scelte d’acquisto sono influenzate molto più dal marchio, dall’immagine del prodotto e dalla sua fragranza rispetto al prezzo. Un bene che, invece, nel corso dei decenni si è progressivamente banalizzato perdendo molto del suo potenziale di differenziazione è rappresentato dal personal computer desktop. Gli acquirenti basano la propria scelta soprattutto sulla potenza e sul prezzo; questo è uno dei motivi per i quali la redditività del settore si è ridotta in modo drastico dagli anni ottanta a oggi. Quando i beni offerti da un settore presentano un potenziale elevato di differenziazione, più competitor possono presentarsi sul mercato puntando su diversi elementi di differenziazione (qualità intrinseca di un bene, servizi collaterali, velocità di esecuzione, possibilità di personalizzazione, gamma, immagine del bene ecc) e molti di essi possono arrivare a conseguire buoni livelli di redditività. Quando invece i beni offerti in un settore sono facilmente sostituibili l’uno con l’altro, inevitabilmente il confronto competitivo si sposta sui prezzi e a lungo andare solo i competitor più efficienti riescono a mantenere livelli di redditività accettabili. - Il grado di differenziazione è certamente legato al tipo di bene: beni come i profumi, i prodotti cosmetici, le auto sono più facili da differenziare rispetto ai detersivi. - Il livello di differenziazione può variare in modo significativo fra i diversi segmenti su cui un settore è articolato. Il segmento delle auto sportive ad alte prestazioni per esempio presenta un livello di differenziazione superiore rispetto alle utilitarie. - Il comportamento dei competitor può comunque influenzare in modo significativo il grado di differenziazione dei beni offerti (ad es. nel settore della frutta fresca). Esempio opposto in IT sono i dolci da ricorrenza: i competitor a livello industriale non sono riusciti a differenziare in modo significativo l’offerta e si sono confrontati soprattutto sui prezzi. - Un sistema di offerta è differenziato se l’acquirente lo percepisce non perfettamente sostituibile con sistemi di offerta concorrenti ed è disposto a pagare un premium price per averlo. Soprattutto nel caso di prodotti e servizi difficili da valutare oggettivamente, le azioni di sostegno dell’immagine (packaging, pubblicità, pubbliche relazioni, scelta di canali distributivi prestigiosi ecc.) sono quindi determinanti per influenzare il livello percepito di differenziazione. - Poiché è più facile aumentare il livello percepito di differenziazione nel caso di prodotti e servizi difficili da confrontare, a volte le imprese accrescono in modo artificiale la complessità informativa dei propri sistemi di offerta proprio al fine di evitare il confronto diretto sui prezzi (ad es. piani tariffari delle società di telefonia mobile → i forti investimenti pubblicitari e la difficoltà di confrontare le offerte in modo oggettivo aumentano il livello percepito di differenziazione e limitano la competizione sul prezzo in questo settore. Livello di reddito dell’acquirente Il livello di reddito dei clienti privati e il livello di profitti degli acquirenti industriali sono negativamente correlati alla sensibilità di prezzo: più alto è il reddito, minore è la sensibilità al prezzo. È importante sottolineare come questa correlazione scatti soprattutto quando il bene i questione è scarsamente differenziato (ad es. i viaggi: trading down su viaggi aerei, trading up per alloggi di qualità superiore). Emerge sempre di più una categoria di consumatori “smart” che mette in atto politiche selettive di trading down su alcuni ben e di trading up su altri. Incidenza del costo del bene sul budget dell’acquirente Maggiore è il peso del costo di un bene sul budget dell’acquirente, maggiore è la sensibilità dell’acquirente in questione al prezzo del bene stesso. Per chi ha un reddito molto alto quasi nessun bene incide molto sul budget complessivo, mentre per chi ha un reddito sulla soglia della povertà anche i beni di prima necessità incidono in modo significativo. Se la bassa incidenza sul budget dell’acquirente si unisce a un elevato livello di differenziazione, il risultato è un business probabilmente molto remunerativo. (ad es. Kinder Sorpresa). Chi offre alle imprese beni e servizi che incidono molto poco sul totale dei costi probabilmente godrà di minor attenzione degli acquirenti sul prezzo del bene. Quando il prezzo della singola unità di prodotto o servizio venduto è molto basso, è più facile trasformare l’atto di acquisto in un’azione d’impulso. Per far scattare l’acquisto d’impulso non basta un basso importo unitario, occorre anche trovare il modo di attivare l’impulso e rendere la transazione semplice e poco faticosa per l’acquirente. Separazione fra chi decide e chi paga Non sempre chi decide il bene da acquistare è lo stesso soggetto che poi sostiene l’onere del suo costo. Quando si presenta questa situazione, la sensibilità al prezzo si riduce ovviamente in modo significativo e anzi si aprono molte possibilità per far sì che i decisori accettino prezzi anche molto elevati (ad es. carte fedeltà delle miglia aeree). La possibilità di usare la leva contrattuale Se gli acquirenti non sono sensibili al prezzo, il loro potere contrattuale diventa di fatto poco rilevante, in quanto tenderanno a non utilizzarlo. Quando invece il cliente è molto sensibile al prezzo, si deve sperare he abbia poco potere contrattuale, perché in caso contrario utilizzerà al massimo la leva contrattuale nelle sue mani, riducendo il livello di redditività. Il potere contrattuale degli acquirenti è legato alle determinanti che seguono: - Presenza di switching cost: gli switching cost sono i costi che i clienti devono sostenere per cambiare fornitori e i costi che i fornitori devono sostenere per rivolgere la propria offerta ad altri clienti. La presenza di switching cost crea una barriera al cambiamento e riduce il potere contrattuale di chi li deve sostenere. Gli switching cost si presentano essenzialmente in tre tipi di situazioni: -in presenza di beni sistemici i cui componenti devono rispettare determinati standard e sono duraturi: se si tratta di standard di settore, gli switching cost si presentano quando qualcuno cerca di introdurre una tecnologia alternativa. Se si tratta di standard proprietari, gli switching cost limitano anche il passaggio da un fornitore all’altro all’interno del settore. La domanda di mercato (o domanda primaria) è la sommatoria delle quantità vendute in un certo periodo di tempo da tutte le imprese operanti sul mercato. Oltre che delle variabili socio- economiche, tecnologiche, dai prodotti complementari e accessori e dall’efficacia delle politiche di comunicazione delle imprese del settore. Nel tempo la domanda primaria tende ad avvicinarsi asintoticamente al potenziale di mercato. La differenza fra domanda di mercato e domanda potenziale è il gap di potenziale. La domanda specifica (o domanda secondaria) è la quantità venduta da un’impresa specifica in un dato mercato in un certo periodo di tempo. Il rapporto fra la domanda specifica di un’impresa e la domanda primaria esprime la quota di mercato dell’impresa in questione. La domanda secondaria è influenzata dal grado di competitività del sistema di offerta e dall’efficacia delle politiche di comunicazione dell’impresa specifica. La differenza fra domanda di mercato e domanda specifica è il gap concorrenziale. In sede di stesura di un business plan il dato che più interessa per l’elaborazione del bilancio previsionale è la domanda specifica. C’è una grande differenza se la crescita nella domanda specifica è ottenuta prevalentemente sottraendo quote di mercato agli altri competitor, oppure pescando dal gap di potenziale, ovvero con un sistema di offerta che contribuisce ad aumentare la domanda primaria o, addirittura, la domanda potenziale. Questo può avvenire per due motivi: - perché il mercato non è saturo e attraversa una fase di rapida crescita nella quale la domanda primaria è in forte aumento e la maggior parte dei competitor presenta alti tassi di crescita; - perché si è saputo mettere a punto un sistema di offerta innovativo, che risponde alle esigenze di coloro che ancora non consumano il bene, o lo consumano in quantità limitate in quanto non sono soddisfatti del sistema di offerta tradizionale. A prescindere dalla causa, aumentare la domanda specifica soprattutto a spese del gap di potenziale consente in genere di ottenere risultati migliori in termini di redditività, in quanto l’aumento dei ricavi è ottenuto senza dover necessariamente competere sul prezzo, migliorare il sistema di offerta aumentando i costi di produzione o sostenere costose campagne di comunicazione volte a sottrarre quote di mercato ai concorrenti. Stima della domanda potenziale. Il potenziale di mercato può essere stimato partendo da dati statistici sulla popolazione o sulle imprese , integrati con dati ottenuti attraverso sondaggi o ricerche specifiche e da ipotesi ragionevolmente sostenibili anche senza evidenza empirica. Beni ad acquisto frequente: popolazione presente nel mercato X % di popolazione potenzialmente interessata X occasioni d’uso oppure consumo potenziale nel periodo X dose piena per ogni occasione d’uso Beni durevoli: potenziale di primo acquisto (unità potenzialmente vendibili – parco installato) + potenziale di sostituzione (parco installato / vita media del bene) Stima della domanda di mercato. La stima della domanda primaria può essere fatta essenzialmente in due modi: - Attraverso sondaggi e ricerche di mercato volte a quantificare l’effettivo consumo del bene (attuale e futuro); - In funzione dei volumi venduti dalle imprese operanti sul mercato in passato, aumentati o diminuiti in funzione delle dinamiche in atto nel mercato. In questo caso si possono utilizzare i sondaggi per capire quali percentuali di aumento o riduzione ci si può aspettare per il futuro. La stima dei volumi e del giro d’affari complessivo sulla base delle vendite passate può essere molto semplice se il mercato è molto concentrato (in questo caso è sufficiente sommare il fatturato dei principali operatori del settore) o se il mercato è ben delimitato ed esistono rilevazioni statistiche sistematiche. In altri casi, la stima della domanda primaria partendo dai dati di vendita consuntivi può essere fatta solo in modo approssimativo perché il mercato non è chiaramente delimitato o è troppo limitato per giustificare rilevazioni statistiche ad hoc. Nell’analisi della domanda primaria, è particolarmente utile approfondire le dimensioni e le cause del gap di potenziale. È interessante, per esempio, capire in che misura tale gap può essere ricondotto alla presenza di acquirenti potenziali che non utilizzano il bene (gap di consumatori), a un numero di occasioni d’uso effettive inferiori rispetto al potenziale (gap di occasioni) o al fatto che per ciascuna occasione d’uso il consumo medio è inferiore rispetto al potenziale (gap di dose). Stima della domanda specifica. La domanda specifica può essere stimata seguendo due possibili approcci contrapposti: il metodo top-down e il metodo bottom-up. Il metodo top-down rappresenta la prosecuzione naturale della stima della domanda potenziale e della domanda di mercato. Dopo aver stimato la domanda primaria, se si riesce a formulare un’ipotesi realistica di quota di mercato si ottiene di conseguenza la domanda specifica per l’impresa: domanda specifica = domanda primaria X quota di mercato prevista Il problema più rilevante di questo tipo di approccio è rappresentato dalla difficoltà di stimare la quota di mercato, soprattutto nei casi in cui l’impresa non abbia una posizione consolidata sul mercato e non disponga di una quota di mercato passata su cui basare la previsione futura. Questo metodo di calcolo è tanto più significativo quanto maggiore è la quota di mercato dell’impresa. Quando un’impresa pesa per una quota significativa sul proprio mercato di riferimento (indicativamente almeno il 10%), l’andamento della sua domanda specifica è molto legato all’andamento della domanda primaria. Quando un’impresa ha una piccolissima quota di mercato, invece, l’affidabilità di tale quota risulta limitata. In questo caso inoltre le sorti dell’impresa possono più facilmente essere “sganciate” dall’andamento della domanda primaria. Una variante dell’approccio top-down consiste nello stimare la domanda specifica ipotizzando non tanto una quota di mercato, quanto un tasso di penetrazione fra i clienti potenziali. Domanda specifica = clienti potenziali X tasso di penetrazione Questo approccio è consigliabile quando l’impresa ha un peso abbastanza significativo sul mercato di riferimento, ma il confronto con la concorrenza diretta non ha molto senso. In questi casi la domanda specifica può quindi essere stimata applicando un tasso di penetrazione ai clienti potenziali, a loro volta strettamente legati alla dimensione del bacino di utenza. Anche in questo caso, il dato più difficile da ottenere (soprattutto in assenza di dati consuntivi su cui basarsi) è il tasso di penetrazione, mentre la valutazione del bacino di utenza e dei clienti potenziali è in genere facilmente desumibile dalle statistiche ufficiali. Se non si dispone di dati consuntivi, l’unico modo per formulare tassi di penetrazione ragionevoli è quelli di cercare di calcolare i tassi di penetrazione di business confrontabili con quello che si vuole avviare. Quando un’impresa ha una quota di mercato marginale o pesa in modo poco significativo sul proprio bacino di utenza, è consigliabile non utilizzare l’approccio top-down e adottare invece l’approccio bottom-up. in questo caso la domanda specifica viene stimata senza passare dalla stima della domanda primaria, partendo dalle risorse messe in campo per generare fatturato. Se il fatturato dipende più dalle forze commerciali messe in campo che dalla capacità produttiva (che in alcuni casi è saturata in piccola parte, o può facilmente essere aumentata), allora l’approccio bottom-up può essere legato agli investimenti commerciali. Nel caso in cui si stimi la domanda seguendo l’approccio bottom-up, è relativamente facile prevedere la capacità produttiva o le risorse commerciali messe in campo, mentre è molto più difficile stimare i tassi di saturazione e i redemption rate delle attività commerciali. CAPITOLO 3 – LA CONCORRENZA 3.1 COME E PERCHE’ ANALIZZARE LA CONCORRENZA 3 diverse finalità Mettere a punto un sistema di offerta competitivo. In questo caso, risulta naturale tenere sotto controllo soprattutto le imprese che si rivolgono ai nostri stessi clienti, sia con sistemi di offerta simili, sia con prodotti o servizi molto diversi ma comunque in competizione. Se l’obiettivo è quello di delineare meglio il sistema di offerta, gli aspetti a cui si dovrà prestare particolare attenzione sono i prezzi praticati, il livello qualitativo dell’offerta, la ricchezza dei servizi accessori, la gamma offerta, i tempi e le modalità di consegna, le relazioni con gli intermediari e i canali di vendita. Dati quali le quote di mercato relative, il tasso di crescita delle vendite, la redditività operativa possono essere molto utili in questo tipo di analisi, in quanto segnalano immediatamente quali sono i competitor che presentano sul mercato l’offerta più convincente. Introdurre innovazioni nel business model. se questo è l’obiettivo, può essere interessante, oltre ad analizzare le imprese che operano sul nostro stesso mercato, prendere in considerazione anche imprese che operano su mercati completamente diversi sia dal punto di vista geografico, sia dal punto di vista del segmento di clientela al quale si rivolgono. In questi casi, oggetto di analisi saranno non solo i sistemi di offerta, ma anche le scelte in termini di mercato e di struttura. Per quanto possibile si deve puntare a ricostruire il modello economico delle imprese analizzate in termini di revenue model, struttura dei costi e modelli degli investimenti. costi proporzionali ai volumi effettivamente realizzati, mentre i business di tipo industriale sono caratterizzati da significative attività di predisposizione della struttura e dalla presenza di alti costi fissi di struttura, oltre che da minori costi diretti di realizzazione della singola unità del bene. Attività di sviluppo delle risorse immateriali Le attività di realizzazione possono essere rese più efficaci ed efficienti sia predisponendo adeguate strutture fisico-tecniche, sia attraverso attività volte a sviluppare importanti risorse immateriali quali il know-how tecnico-scientifico (attività di ricerca di base e applicata), la conoscenza del mercato (ricerche di mercato), l’immagine del bene (azioni di marketing), le competenze del personale (attività di formazione o altre risorse immateriali quali contenuti digitalizzati, banche dati ecc. Anche le risorse immateriali possono rendere più efficaci ed efficienti i processi volti a realizzare beni destinati al consumo. Le risorse immateriali, tuttavia, presentano alcune importanti differenze rispetto alle risorse materiali: i costi per il loro sviluppo vanno sostenuti upfront, non si consumano con l’uso, non hanno limite di capacità produttiva e sono in genere molto flessibili. Queste caratteristiche presentano implicazioni rilevantissime sulla struttura economica e sulle dinamiche competitive dei business interessati. Le attività volte allo sviluppo di risorse immateriali comportano costi upfront, ovvero il loro costo deve essere sostenuto prima che tali attività diano i loro frutti e, una volta sostenuto, diventa un sunk cost, ovvero un costo irrecuperabile che non si può più ridurre. Essendo upfront, i costi di sviluppo sono indipendenti dai volumi. Le risorse immateriali non si consumano con l’uso. Il loro valore, anzi, può accrescersi se vengono utilizzate correttamente. Il valore di un marchio può essere sostenuto non solo con costose campagne pubblicitarie, ma anche attraverso la presenza continua sul mercato con prodotti in grado di soddisfare le esigenze dei clienti. Questo non significa che le risorse immateriali siano indistruttibili: così come il loro buon utilizzo le rafforza, una cattiva gestione le può deteriorare molto rapidamente. Le competenze e il know-how individuale e organizzativo incorporato nel personale di un’impresa possono rapidamente disperdersi quando in posizioni di vertice subentra un management inadeguato. Così come le risorse materiali, anche le risorse immateriali possono diventare obsolete se non vengono continuamente aggiornate. Le risorse immateriali non solo non si consumano con l’uso, ma sono anche utilizzabili in modo illimitato, ovvero non hanno limite di capacità produttiva. A fronte di forti aumenti dei volumi prodotti, le strutture fisico-tecniche devono tenere il passo con continui aumenti di capacità produttiva , e questo implica un crescente aumento di complessità della struttura e pone le basi per il sorgere di diseconomie di scala. Infine, molte risorse immateriali sono estremamente flessibili, nel senso che possono essere utilizzate in molti modi diversi. Anche in questo caso, l’uso intensivo su molti fronti diversi non solo non “consuma” il marchio, ma anzi se ben gestito lo rafforza. Il tema delle attività di sviluppo delle risorse immateriali è interessante non solo perché molti dei nuovi business emersi negli ultimi anni (motori di ricerca, social network, banche dati online..) presentano una fortissima incidenza di questo tipo di attività, ma soprattutto perché questo tipo di attività sta aumentando la sua rilevanza anche nei business tradizionali, che si tratti di information business (film / musica / editoria), di servizi di alto contenuto di informazioni (servizi bancari, servizi sanitari) o business high tech (computer, elettronica di consumo, farmaci e così via), piuttosto che di business decisamente low tech. Un esempio di attività di sviluppo lo possiamo vedere nei supermercati: automazione processi di vendita, introduzione di fidelity card, studio per il layout del punto vendita ecc. La struttura delle attività e la conseguente struttura dei costi presentate precedentemente sono alla base di altre determinanti delle dinamiche competitive quali le economie di scala, le economie di raggio d’azione e il grado di concentrazione dell’offerta. A questo riguardo, è importante sottolineare come nell’analisi di settore sia fondamentale distinguere chiaramente fra cause ed effetti. Il grado di concentrazione dell’offerta viene spesso citato come una delle principali determinanti delle dinamiche competitive, ma in realtà non è particolarmente significativo, in quanto non è che il risultato di altre cause ben più rilevanti. Un’incidenza molto forte dei costi di sviluppo, se unita al desiderio dei clienti di utilizzare un prodotto perfettamente compatibile con quello usato da altri può portare a una fortissima concentrazione del settore, e questa, a sua volta, può implicare maggiori rischi di abuso di posizione dominante da parte del leader di settore. La vera causa di questa situazione non è tuttavia riconducibile tanto al livello di concentrazione del settore, quanto alle cause che l’hanno determinata. Le economie di scala Le economie di scala possono essere definite come il vantaggio di costo conseguente all’installazione di una maggiore capacità produttiva, in ipotesi di saturazione della stessa. Il fenomeno delle economie di scala è presente praticamente in tutti i tipi di business. Quello che cambia da un settore all’altro è il livello minimo di capacità produttiva necessario per conseguire i costi medi più bassi possibile, oltre all’importanza del vantaggio di costo che si può ottenere raggiungendo la dimensione ottima minima. In alcuni settori (come la ristorazione) la dimensione ottima minima si raggiunge molto presto, anzi, una capacità produttiva eccessiva risulta troppo complessa da gestire e poco attraente per la clientela, portando delle diseconomie di scala. In altri settori, al contrario, la dimensione ottima minima è molto elevata e comporta vantaggi di costo tali da mettere in discussione la sopravvivenza stessa delle imprese che non riescono a raggiungerla. I motivi per cui si presenta il fenomeno delle economie di scala sono molto numerosi e possono essere ricondotti alla presenza di fattori della produzione indivisibili (il costo pro-capite di un docente diminuisce all’aumentare del numero degli studenti), alla maggior specializzazione delle risorse umane e materiali possibile in impianti di grande dimensione, alla più elevata efficienza degli impianti di grande dimensione, alle proprietà geometriche dei contenitori, al maggior potere contrattuale delle imprese di grandi dimensioni. Ai fini dell’analisi di un settore e della previsione delle sue dinamiche evolutive, tuttavia, può essere più utile interpretare il fenomeno delle economie di scala alla luce della tripartizione delle attività economiche. Tutti i settori presentano una combinazione di attività di realizzazione, attività di predisposizione delle strutture e attività di sviluppo. Quello che cambia da un settore all’altro è l’importanza relativa dei tre diversi tipi di attività, e, quindi, l’incidenza relativa dei tre tipi di costi che da queste scaturiscono (costi diretti, costi di struttura e costi di sviluppo). Quando dominano le attività di realizzazione (come avviene nelle attività di produzione artigianale e in molte attività di servizio alle persone quali bar, ristoranti, parrucchieri ecc), le economie di scala sono in genere molto limitate. Anche in questo tipo di settori possono affermarsi attori di più grandi dimensioni o catene. Il vantaggio di costo di questi attori non è tale da mettere fuori mercato le imprese minori e il settore è destinato a restare molto frammentato. Quando alle attività di realizzazione si affiancano importanti attività di predisposizione della struttura (settori che producono beni materiali a livello industriale come automobili, detersivi, mobili, elettrodomestici, prodotti alimentari industriali) il livello di economie di scala si alza in modo significativo. In questo tipo di settori il livello di concentrazione dell’offerta risulta quindi più elevato rispetto ai settori citati in precedenza, anche se può variare molto in funzione di fattori quali le caratteristiche del processo produttivo e il livello di differenziazione del bene. Per quanto importanti possano essere le economie di scala, i settori appartenenti a questo gruppo presentano comunque un limite oltre il quale una crescita dimensionale ulteriore comporta più svantaggi che vantaggi, determinando la classica forma a “U” della curva delle economie di scala. Questo avviene perché l’aumento delle attività di realizzazione e l’aumento della capacità produttiva portano con sé un inevitabile aumento della complessità gestionale e, oltre certi limiti che sono diversi da settore a settore, questo causa un aumento dei costi medi e quindi delle diseconomie di scala. Quando infine in un settore dominano le attività di sviluppo, le economie di scala aumentano ulteriormente e, soprattutto, vengono meno i limiti alla crescita rappresentati dalle diseconomie di scala, tanto che in alcuni casi si arriva a parlare di business “infinitamente scalabili”. Questo fenomeno si può presentare in diversi gradi, arrivando a incidere in modo significativo nei settori a forte contenuto tecnologico, fino a trovare manifestazioni estreme nei settori che producono i cosiddetti information good, ovvero i beni il cui valore di mercato deriva dall’informazione che contengono (musica, film, videogiochi, programmi software ecc). In passato questi beni dovevano comunque essere memorizzati su un supporto fisico o erogati sotto forma di servizio reso da esseri umani. L’evoluzione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) ha posto le basi per la dematerializzazione degli information good, fenomeno che è ormai in uno stadio molto avanzato in alcuni business (settore discografico e software), in fase di affermazione in altri (editoria periodica e libraria) e in fase quasi embrionale in altri ancora (servizi di formazione). Quando un information good viene dematerializzato, si creano i presupposti per modelli di business nei quali le attività volte alla realizzazione fisica di singoli beni destinati al consumo scompaiono, le attività strutturali sono ridotte al minimo (amministrazione, affari legali, gestione del personale) e la quasi totalità delle attività svolte sono attività di supporto che generano costi di sviluppo (ricerca e sviluppo, marketing, formazione). La relazione fra costi e volumi cambia quindi in modo radicale e, con essa, le dinamiche competitive dei settori interessati. Nei casi più estremi, il prevalere dei costi di sviluppo crea i presupposti per un alto livello di concentrazione del settore e, al limite, per situazioni di monopolio naturale. Quando, al contrario, lo stesso tipo di struttura dei costi si accompagna a un desiderio di diversità da parte dei clienti, il business rimane infinitamente scalabile, ma è probabile che sul mercato si affermino molti competitor alternativi. Struttura dei costi, economie di scala e dinamiche competitive uno standard proprietario. Sebbene questa strategia in genere consenta di ottenere buoni risultati, chi la mette in atto non deve mai dimenticare che gli switching cost che dipendono dall’hardware tendono a indebolirsi col tempo, visto che prima o poi il bene principale dovrà essere sostituito. Il cliente può essere mantenuto solo con un buon rapporto qualità-prezzo complessivo. Inoltre, chi sceglie questo tipo di strategie deve sempre stare all’erta per evitare il nascere di fornitori di beni complementari compatibili. Le economie di raggio d’azione Si hanno economie di raggio d’azione quando la presenza su più business, utilizzando risorse materiali o immateriali comuni, consente di ottenere un vantaggio economico. Questo vantaggio economico può consistere: - Nella possibilità di ottenere minori costi unitari di produzione, in quanto il costo delle risorse comuni viene diviso su più beni; - Nel fatto che il cliente percepisce dei benefici in un’offerta molto articolata e ritiene di aver ricevuto un maggior valore; - Nell’aumento degli switching cost e, di conseguenza, del potere contrattuale che in alcune situazioni l’ampliamento del raggio d’azione consente di ottenere. Esempio di economia di raggio d’azione: Disney → la condivisione del marchio e dei personaggi fra i diversi business della Disney consente all’azienda sia di contenere i costi unitari (in quanto i costi di pubblicità per la promozione del marchio e il costo per lo sviluppo dei personaggi vengono divisi su molti beni diversi), sia di aumentare il valore percepito dai clienti (in quanto i personaggi risultano più vivi e interessati se presentati in diverse forme). Rilevanza delle attività di sviluppo I settori dominati dalle attività di sviluppo sono anche dominati dalla risorse immateriali, ovvero da risorse che non si consumano, non hanno limite di capacità produttiva e spesso sono considerevolmente flessibili e utilizzabili in settori diversi. Il settore del lusso, per esempio, è dominato dalle attività volte a sostenere l’immagine del brand e, di conseguenza, molte imprese decidono di fare leva sul proprio marchio per entrare in altri settori compatibili, seppure merceologicamente molto diversi. Cross subsidization Un’altra causa che può spingere un’impresa a gestire un servizio in perdita è la presenza di forti esternalità di rete, che possono indurre a sacrificare la redditività alla crescita rapida. Qualsiasi sia la causa, quando si offrono beni gratuitamente o comunque a un prezzo che non copre i costi complessivi sostenuti, occorre necessariamente trovare fonti di ricavo che consentano di sostenere il business in perdita. Un esempio è l’affiancamento al business principale del business pubblicitario. In questi casi la vendita di spazi pubblicitari è talmente intrecciata all’offerta gratuita o sotto costo del servizio principale da poter essere considerata non tanto un ampliamento del raggio d’azione, quanto parte integrante del business principale. Presenza di beni sistemici Questa caratteristica del settore presenta due conseguenze di grande rilievo per le economie di raggio d’azione. Anzitutto i beni sistemici devono presentare una buona integrazione fra i diversi elementi, che ne garantisca il buon funzionamento. Quando i settori sono maturi e il sistema ben collaudato, è possibile che tale integrazione si realizzi anche quando i diversi componenti sono realizzati da imprese diverse. Quando, invece, i sistemi si trovano ancora nella prima fase del loro sviluppo, è probabile che un allargamento del raggio d’azione delle imprese abbia un riflesso positivo sull’integrazione del sistema e sulla qualità dei servizi complessivamente offerti. La presenza di beni sistemici, oltre a implicare problemi di integrazione, può consentire alle imprese di alzare gli switching cost dei propri clienti, creando problemi di compatibilità con i produttori di componenti alternativi. Anche questo porta a un ampliamento di raggio d’azione. In altri casi, ancora, l’ampliamento del sistema di offerta è condotto in modo sistematico al fine di aumentare gli switching cost per gli utenti (ad es Google → Gmail, Google Docs Costi di accesso al bene Un ultimo motivo che può favorire l’ampliamento del raggio d’azione può essere ricondotto alla presenza di costi d’accesso al bene che possono fra l’altro rendere conveniente per i clienti servirsi presso uno one stop shop, dove trovare una gamma molto vasta di beni. Questo fenomeno non è una novità, infatti è da decenni alla base dello sviluppo della grande distribuzione, ma in tempi più recenti ha assunto caratteristiche nuove. Nell’economia degli anni settanta e ottanta, infatti, questo fenomeno ha interessato essenzialmente il settore della distribuzione: i negozi hanno ampliato la loro gamma, ma la maggior parte dei produttori di beni è rimasta specializzata. Per molti business su Internet, invece, la distinzione fra la distribuzione del servizio e la sua produzione non è così netta, e quando Google, per esempio, decide di aggiungere un nuovo servizio, non si limita a intermediarlo, ma tende a offrirlo direttamente, sviluppandolo al proprio interno o acquisendo società specializzate. Sebbene nessuna delle determinanti delle economie di raggio d’azione descritte precedentemente rappresenti una novità, nel tempo la loro importanza è aumentata in molti settori e, con esse, è aumentato anche il numero di imprese che hanno intrapreso strategie di ampliamento del raggio d’azione. Questo fenomeno, fra l’altro, è all’origine di un altro fattore rilevante per le dinamiche competitive: la diversità fra i competitor. Quando un settore presenta competitor provenienti da settori diversi, può attraversare periodi di grande turbolenza, in quanto gli attori competono fra loro con logiche diverse, oltre che con strutture di costo e obiettivi differenti. Crowdsourcing e open sourcing Sebbene influenzate dall’evoluzione tecnologica e sociale e in continuo mutamento, le determinanti della concorrenza rappresentano fenomeni presenti da molti decenni nell’ambiente economico. Specifici dell’era Internet sono, invece, il crowdsourcing e l’open sourcing. Con questi due termini si intende lo svolgimento da parte di un numero molto elevato di individui di compiti un tempo svolti da personale interno o appaltati a società specializzate o professionisti remunerati. La differenza fra crowdsourcing e open sourcing sta nel fatto che in genere nel primo è possibile individuare un attore centrale che promuove il coinvolgimento della “folla” (Amazon: commenti e valutazioni dei clienti per sostituire una parte del lavoro dei librai), mentre l’open sourcing è un’attività cooperativa avviata e volontariamente portata avanti dai membri del network (Mozilla Firefox). Sebbene a livello teorico la distinzione fra i due concetti sia chiara, nella realtà vi sono molti esempi di attività di difficile collocazione. Wikipedia per esempio da un lato è promossa dalla Wikipedia Foundation, ma dall’altra parte è certamente un’attività cooperativa su base volontaria e non remunerata. Dal punto di vista dell’impatto sulle dinamiche competitive, comunque, quello che conta non è tanto l’esistenza o meno di un soggetto promotore, quanto i vantaggi competitivi che questi sistemi di offerta sono in grado di garantire. Nei casi di Wikipedia, Mozilla, Linux e OpenOffice, per esempio, il prodotto finale non solo presenta costi irrisori, ma è anche qualitativamente all’altezza, se non per certi aspetti superiore, ai prodotti tradizionali. I fenomeni di crowdsourcing e open sourcing possono avere un impatto molto significativo anche in business tradizionalmente molto frammentati come quelli della produzione di immagini fotografiche per l’industria editoriale e dell’industria editoriale stessa. 3.3 LA COMPETIZIONE INDIRETTA In alcuni settori le dinamiche competitive possono essere influenzate più dalla competizione indiretta che dal confronto con concorrenti diretti. In un dato momento, per esempio, una certa impresa può anche non avere concorrenti, ma se entrare nel settore è molto facile, le sue scelte strategiche dovrebbero tenerne conto. Allo stesso modo, essere monopolista su un certo mercato non comporta grandi vantaggi se i clienti possono soddisfare i propri bisogni facendo ricorso a prodotti o servizi sostitutivi. Sebbene i fornitori di beni complementari non siano concorrenti in senso stretto, infine, nel caso di prodotti sistemici le dinamiche competitive sono significativamente influenzate anche da questa categoria di attorii. I potenziali entranti. I potenziali entranti determinano l’attrattività dei settori, in quanto l’ingresso nell’arena competitiva di nuovi concorrenti aumenta la pressione competitiva. La facilità di entrare in un settore dipende essenzialmente da due fattori: le barriere all’ingresso e le reazioni attese da parte gli incumbent. Le barriere all’ingresso in un settore sono in buona parte legate a molti dei fattori di cui abbiamo già parlato trattando di clienti e concorrenti diretti, quali in particolare: • La presenza di forti economie di scala, che impedisce i nuovi entranti di partire “in piccolo”; • Forti livelli di differenziazione dell’offerta e, soprattutto, presenza di marchi affermati, che costringono i nuovi entranti e investire sin dall’inizio sulla propria immagine; • La presenza di switching cost a livello di singolo produttore, che fa sì che i clienti siano disposti a cambiare fornitore solo a fronte di sistemi di offerta molto competitivi; • Forti esternalità di rete a livello di singolo fornitore, che rendono difficile la competizione ai nuovi e, di conseguenza, piccoli network; • La presenza di forti economie di raggio d'azione che però possono avere un effetto molto diverso a seconda del background del nuovo entrante, in quanto possono rappresentare un punto di forza per nuovi competitor provenienti da settori correlati, mentre costituiscono certamente uno svantaggio per le start up che inizialmente devono concentrarsi su un unico business. Il comportamento e la reazione attesa degli incumbent dipendono soprattutto dalla qualità del loro management e dall’importanza che questo dà alla protezione del proprio territorio. Si tratta quindi di un fattore molto legato a scelte soggettive e difficile da giudicare a priori, sulla base delle caratteristiche del settore. A parità di barriere all’ingresso e di qualità del management, tuttavia, ci si può aspettare una reazione più dura quando si cerca di entrare in un settore concentrato e quando il tasso di crescita del settore è ridotto. La reazione, inoltre, tende naturalmente a essere più forte quanto più diretto è l’attacco dei nuovi competitor verso gli incumbent. Un modo per valutare la durezza della reazione attesa è rappresentato dal comportamento passato degli incumbent: una buona fonte sono i procedimenti avviati presso le autorità antitrust. Leader di settore come Coca Cola, Intel e Microsoft sono spesso stati denunciati presso organismi antitrust per aver abusato della loro posizione dominante, cercando di danneggiare competitor emergenti. Una pratica anticompetitiva spesso condannata dagli organismi antitrust è quella di offrire ai propri clienti uno sconto o, addirittura, di minacciare la sospensione delle forniture se questi iniziano ad acquistare anche un prodotto concorrente. Le principali tecniche utilizzate da Microsoft in violazione delle norme antitrust possono essere ricondotte ai punti che seguono: - Garantire inizialmente la piena compatibilità, crescere, ridurre la compatibilità; - Per processor licence fees; - Discriminazione di attori che propongono soluzioni alternative; - Concessione di sconti ai clienti che non pre-installano prodotti concorrenti; - Bundling di un nuovo prodotto con un prodotto standard. I fornitori di beni sostitutivi. Il confronto per il favore del mercato non avviene solo con i concorrenti diretti, ma anche con i fornitori di prodotti e servizi sostitutivi. La minaccia da parte di beni sostitutivi dipende essenzialmente da due determinanti: - gli switching cost che i clienti devono sostenere per utilizzare il bene sostitutivo; - Il rapporto benefici/costi del bene rispetto al rapporto benefici/costi del bene sostitutivo. Durante le prime fasi dello sviluppo di una nuova tecnologia, il rapporto benefici/costi tende a crescere molto rapidamente, perché c’è ancora tutto da imparare e le opportunità di miglioramento sono numerose. A mano a mano che la tecnologia entra nella fase di maturità, il potenziale di miglioramento si riduce, fino ad assestarsi su valori molto bassi. È comunque opportuno ricordare che, a volte, le tecnologie più tradizionali possono avere improvvisi “colpi di coda”. Una seconda precisazione riguarda i tempi necessari per migliorare il rapporto benefici/costi. Occorre sottolineare che non è tanto il trascorrere del tempo a garantire tale miglioramento, quanto l’impegno e gli investimenti attuati dai produttori di beni sostitutivi. Ciò implica che la tecnologia sostitutiva è particolarmente pericolosa quando è sostenuta da attori di grandi dimensioni che hanno molti interessi in gioco e che hanno la possibilità e l’interesse a investire molto. I fornitori di beni complementari. I fornitori di beni complementari non sono in senso stretto dei concorrenti con i quali confrontarsi, ma dei partner con i quali allearsi per creare valore per i clienti finali. Breve illustrazione delle dinamiche competitive che si possono innescare con i fornitori di beni complementari, i quali - dal punto di vista della concorrenza – possono essere considerati come una categoria particolarmente insidiosa di potenziali entranti, quando: - Giocano un ruolo di rilievo nel sistema di creazione del valore; - Producono un bene molto visibile per l’utente finale; - Esiste una minaccia concreta di ingresso nel settore da parte dei fornitori di beni complementari. 3.4 FORZE COMPETITIVE E ATTRATTIVITA’ DEL BUSINESS Le determinanti del potere contrattuale di clienti e fornitori, unite alle determinanti della concorrenza in senso lato (diretta e indiretta) sono alla base delle caratteristiche strutturali dei settori e della loro attrattività. Nei settori che presentano caratteristiche strutturali favorevoli, nel medio-lungo termine la maggior parte dei competitor riesce a conseguire risultati reddituali interessanti, mentre nei settori con caratteristiche strutturali sfavorevoli, anche i competitor meglio posizionati possono avere difficoltà a mantenere buoni livelli di redditività. Un esempio classico di settore attrattivo è rappresentato dai soft drink, dove buoni livelli di differenziazione, uniti alla forte rilevanza del marchio, a importanti barriere all’ingresso (marchio e accesso ai canali di distribuzione), a un potere contrattuale limitato di clienti e fornitori (che sono molto frammentati a fronte di un settore molto concentrato) e a una bassa sensibilità dei clienti al prezzo (legato al basso costo unitario), per decenni hanno garantito un buon livello di redditività alla maggior parte degli operatori del settore. Gli errori tipici commessi nello svolgere analisi di settore attraverso il modello del sistema competitivo allargato sono i seguenti: • Si fanno liste, invece di concentrarsi sulle determinanti delle dinamiche competitive. • Si presta attenzione a tutte le forze competitive, invece di concentrarsi sulle determinanti che davvero contano nel caso specifico. • Si confondono gli effetti con le cause (ad es livello di concentrazione di un settore: non è una determinante, ma la conseguenza di cause strutturali quali economie di scala o rilevanza del marchio) • Si confondono le dinamiche congiunturali con le dinamiche strutturali • Si fanno analisi troppo descrittive, statiche e focalizzate sul presente, mentre quello che conta sono le dinamiche competitive e le evoluzioni che ci si possono attendere per il futuro • Si utilizza l’analisi del settore solo per dichiarare se un settore è attrattivo o non attrattivo • Si definisce il settore in modo troppo ristretto o troppo ampio, dal punto di vista geografico e/o dei beni offerti. 3.5 L’ANALISI DEL SETTORE IN CONTESTI COMPETITIVI NON CHIARAMENTE DEFINITI Per affrontare la difficoltà a tracciare i confini di settore, e per capire come adattare l’analisi di settore a contesti competitivi sempre più “sfocati”, è opportuno riflettere su uno degli assunti che stanno alla base dell’analisi di settore tradizionale: il fatto che i concorrenti diretti presentano una struttura economica sostanzialmente omogenea. In effetti, in passato le imprese in un dato settore tendevano a svolgere un bundle predefinito di attività, simile per tutte. Col tempo, l’evoluzione nelle pratiche manageriali e, soprattutto, l’evoluzione tecnologica hanno aumentato i gradi di libertà strategica delle imprese in tutti i settori, consentendo loro scelte sempre più originali in termini di attività internalizzate/esternalizzate e di modelli di business. La rivoluzione nei sistemi di comunicazione connessa a Internet e alle reti informatiche, in particolare, è stata determinante per rendere possibili scelte di outsourcing prima impensabili. Quando ancora non esisteva il modo per trasmettere in tempo reale informazioni complesse era impensabile esternalizzare la gestione del magazzino o del call center. L’evoluzione tecnologica ha aumentato in modo significativo i gradi di libertà strategica delle imprese e questa libertà è stata interpretata in modo diverso da diversi soggetti, portando a strutture aziendali molto variegate. I settori risultano sempre più composti da imprese molto diverse fra loro, soprattutto in contesti tecnologicamente avanzati, ma anche in ambienti competitivi relativamente tradizionali. In una situazione del genere diventa difficile definire i confini stessi del settore e determinare il potere contrattuale di clienti e fornitori, anche perché scelte diverse di internalizzazione/esternalizzazione fanno sì che le imprese abbiano da un lato fornitori diversi e, dall’altro, canali più o meno lunghi e quindi clienti diretti diversi. Inoltre diventa difficile analizzare la struttura di costo del settore e le economie di scala, in quanto la struttura di costo dipende dalle attività svolte e, se i diversi competitor hanno compiuto scelte diverse di internalizzazione/esternalizzazione, sarà di conseguenza diversa la loro struttura di costo, nonostante competano sugli stessi mercati. Con la mappa dei raggruppamenti strategici, i competitor in un settore vengono collocati in una mappa sui cui due lati vengono collocate due variabili particolarmente significative per distinguere concorrenti con profili strategici diversi. Esempi di variabili utilizzabili a questo fine possono essere la fascia di mercato alla quale ci si rivolge, l’ampiezza della gamma offerta, il grado di integrazione verticale ecc. se le due variabili vengono scelte in modo opportuno, i concorrenti tendono a formare dei cluster, ovvero gruppi di concorrenti strutturalmente simili, sui quali è possibile effettuare l’analisi del sistema competitivo allargato. Sebbene in alcuni casi la mappa sia utile per identificare gruppi di concorrenti con struttura economica simile, in altri le varietà di scelte è tale da far sì che due variabili non siano sufficienti per cogliere tutte le differenze rilevanti fra competitor e che, a volte, si arrivi a determinare raggruppamenti composti da una sola impresa con una configurazione strategica unica. In alcuni casi questa analisi non può più essere riferita ai settori (intesi come insiemi di imprese che competono sugli stessi mercati e definite in modo simile), ma alle singole attività di creazione del valore che possono essere identificate all’interno dei settori. beni di uso personale visibili all’esterno quali abbigliamento e i relativi accessori, auto, profumi, e alcuni servizi di fascia alta quali alberghi, ristoranti, fitness center ecc. In questi casi infatti spesso il marchio viene utilizzato non solo per comunicare la qualità e la specificità del prodotto, ma anche per dare agli utenti che utilizzano il bene una determinata immagine e garantire loro un certo status. In questi casi non conta solo l’importanza del marchio, ma anche il tipo di immagine e di status connessi al bene. Mentre per altri elementi del sistema di offerta è meglio “di più” o “di meno” a seconda dei casi, a volte per marchio e status non è solo questione di rilevanza, ma anche di tipo di messaggio che il possesso di un determinato prodotto consente di inviare all’esterno. Nel caso dei beni visibili di consumo personale, i marchi forti comunicano uno stile di vita e valori che si riflettono sulla personalità percepita dell’utente e clienti con diverse personalità e valori vogliono inviare all’esterno messaggi diversi. Sebbene l’uso del marchio per comunicare la personalità dell’utente sia tipico dei beni visibili di uso personale, questa tecnica può essere utilizzata anche per altri tipi di beni, al fine di uscire da situazioni in cui il confronto sui meri elementi tangibili ha nel tempo eroso i margini di profitto dei competitor. Elementi economici: rientrano in questa categoria tutti gli elementi dell’offerta economica in senso lato, inclusi i costi monetari lungo tutto il ciclo di vita del bene: costi di acquisto, installazione, esercizio, manutenzione, aggiornamento e costo dei beni complementari e accessori. Fanno parte di questa categoria anche la garanzia (che influenza i costi di manutenzione) e le clausole che accompagnano il prezzo per il cliente (tempi e luogo di consegna del bene, condizioni di trasporto, modalità di pagamento). In una prospettiva allargata, che assume il punto di vista dell’utente, è opportuno includere nell’analisi sia gli elementi economici che dipendono direttamente dall’impresa, sia quelli che dipendono da altri attori (costo materiali di consumo e dei beni complementari offerti da altre imprese). Chiaramente in fase di definizione del sistema di offerta è inevitabile prestare maggiore attenzione agli elementi controllati direttamente, ma spesso l’analisi dell’offerta complessiva offre spunti di grande interesse. Nel definire gli elementi economici del sistema di offerta è opportuno ricordare che: - Il prezzo di vendita è solo uno degli elementi economici e può a sua volta essere variamente articolato; - La valutazione dell’offerta da parte del cliente non è del tutto razionale; - Gli utenti finali danno poco valore al tempo. L’articolazione del prezzo: quando si vende un bene composto da più elementi si può proporre un prezzo all inclusive oppure prezzare i singoli elementi in modo distinto. Nel compiere questa scelta è importante tenere conto della sensibilità al prezzo dei clienti target. Anche quando il bene venduto non comporta servizi aggiuntivi, è possibile articolare il prezzo offrendo vari formati. L’irrazionalità dei clienti: non sempre gli utenti sono razionali nelle proprie scelte. Generalizzando possiamo affermare che un’opportuna articolazione del prezzo può essere utile per ridurre il costo percepito dai clienti e, quindi, per aumentare il valore percepito rispetto al valore reale. Soprattutto nei mercati consumer è quindi possibile far leva sulla relativa irrazionalità degli utenti, riducendo la loro percezione del prezzo e non tanto il prezzo reale. Per far questo è utile ricordare che, di regola, gli utenti: - prestano più attenzione al costo immediato di acquisto rispetto ai costi successivi (consumi, manutenzione, aggiornamento ecc); - valutano più attentamente il costo del bene principale rispetto agli elementi aggiuntivi accessori; - prestano più attenzione al costo della confezione rispetto al costo per unità del bene. La mancata valorizzazione del tempo: sempre con riferimento soprattutto al mercato consumer, è bene ricordare che i clienti spesso non danno un valore monetario al tempo. Di conseguenza, i sistemi di offerta che spostano attività a carico dell’utente riducendo il prezzo vengono in genere percepiti come economici, mentre i sistemi di offerta che fanno il contrario vengono percepiti come onerosi. Con riferimento alla valutazione del tempo da parte degli utenti, generalizzando possiamo quindi affermare che: - lo spostamento di attività dalle imprese fornitrici ai clienti o viceversa è un interessante forma di innovazione dei sistemi di offerta; - spostare attività a carico degli utenti è in genere più remunerativo che fare il contrario, visto che di solito i clienti non danno valore monetario al proprio tempo e quindi non sono molto propensi a pagare per il tempo risparmiato; - quello che infastidisce i clienti non è tanto la quantità del tempo dedicato, quanto il fatto che l’attività venga percepita come spiacevole. Se si riesce a rendere piacevole o almeno non frustrante il tempo dedicato dai clienti allo svolgimento delle attività a loro carico, si ottiene certamente un forte aumento del valore percepito. La definizione del prezzo di vendita e degli elementi economici in generale deve essere fatta naturalmente pensando soprattutto alla percezione dei clienti, senza però dimenticare costi e concorrenza. A questo riguardo possiamo affermare che esistono essenzialmente tre modalità di determinazione del prezzo: - Prezzi orientati ai costi: in questo caso i prezzi vengono determinati calcolando i costi unitari di produzione e vendita e aggiungendo poi un margine di guadagno. Si tratta di un metodo che presenta limiti evidenti, in quanto se per qualche motivo (produzione inefficiente, basse economie di scala ecc) i costi sono troppo elevati, il prezzo risulterà fuori mercato. Un prezzo troppo elevato potrebbe portare a una riduzione dei volumi venduti, e, conseguentemente, all’aumento dei costi unitari e dei prezzi di vendita, peggiorando ulteriormente la situazione di mercato. Nonostante i suoi limiti, si tratta di un metodo piuttosto utilizzato, soprattutto nel caso di beni unici, difficili da confrontare e per i qual non esiste un chiaro prezzo di mercato. - Prezzi orientati alla concorrenza: il prezzo viene determinato prendendo come riferimento uno o più concorrenti particolarmente significativi e tenendo conto dei prezzi da questi praticati. Una variante: in fase di introduzione di beni complessi possono avere senso politiche di prezzo estremamente aggressive (al limite sotto costo, nella fase iniziale) per sostenere le vendite e acquisire rapidamente economie di esperienza, estromettendo dal mercato i competitor che praticano prezzi più elevati. - Prezzi orientati al mercato: questa metodologia parte dal presupposto che il prezzo di vendita debba essere fissato in funzione del valore che i consumatori attribuiscono al bene e non in base ai costi sostenuti per produrlo e venderlo. Si tratta di una pratica molto diffusa soprattutto nel caso di beni difficili da valutare, unici e con importanti elementi immateriali (ad es. Ferrari). Nella pratica, sebbene siano chiaramente distinti, i tre metodi descritti precedentemente spesso si sovrappongono e i prezzi vengono fissati puntando contemporaneamente sia a conseguire un margine soddisfacente, sia a essere competitivi nei confronti della concorrenza e in linea con quanto i clienti sono disposti a pagare. Costi non monetari. Rientrano in questa tipologia i costi che non fanno parte dell’offerta economica in senso stretto, ma sono riconducibili al tempo speso dal cliente per acquistare, entrare in possesso e imparare a utilizzare il bene, quali i costi informativi, di accesso, di installazione, di apprendimento, di conversione (qualora non si tratti di servizi a pagamento). Rientra in questa categoria anche l’eventuale inutilizzabilità di beni complementari già in possesso dell’utente. Una particolare categoria di elementi non monetari è rappresentata dai costi non monetari che si devono sostenere per entrare in possesso del bene, ovvero i costi di accesso (ad es. iTunes → è un buon esempio per illustrare come i costi di accesso possano influenzare il comportamento dei clienti, in alcuni casi spingendo questi ultimi a preferire la logica dello one stop shop. Non si tratta di una novità, visto che tale logica è alla base del successo di supermercati e centri commerciali da decenni.) Classificazione per grado di controllo dell’elemento Con riferimento al grado di controllo, si possono distinguere: - Elementi completamente sotto il controllo dell’impresa; - Elementi influenzati dall’impresa; - Elementi al di fuori del controllo dell’impresa. In genere le imprese prestano attenzione solo al proprio sistema di offerta in senso stretto, sottovalutando il fatto che il giudizio del cliente è globale e a volte questi riesce a percepire solo una fruizione del valore potenzialmente offerto proprio a causa di carenze sugli elementi che l’impresa non controlla direttamente. La diffusione di un bene è un esempio di elemento che non può essere completamente controllato, ma certo deve essere tenuto sotto controllo e influenzato nel caso in cui sia rilevante per gli utenti. Allo stesso modo le imprese, nell’impostare le proprie strategie, devono preoccuparsi dello sviluppo adeguato dell’offerta dei beni accessori e complementari. Su questo fronte è possibile sia l’intervento diretto (offrendo il bene complementare), sia l’intervento indiretto, attraverso accordi, licenze, azioni di sostegno e/o strategie volte a sostenere la diffusione del bene principale rendendo più interessante lo sviluppo di beni complementari. Quando le dimensioni dell’impresa non sono tali da consentirle di influenzare elementi importanti del sistema di offerta, è almeno opportuno posizionarsi in modo da fare sistema con i fornitori di beni complementari più interessanti. La distinzione fra elementi core ed elementi periferici Una classificazione che può essere particolarmente utile nel caso di sistemi di offerta articolati è la distinzione fra elementi core ed elementi periferici. Gli elementi core costituiscono la ragion d’essere del sistema di offerta e non possono essere eliminati. Gli elementi periferici, invece, sono elementi aggiuntivi che possono aggiungere valore, ma possono anche essere tecnicamente eliminati (come gli optional in un auto). Il fatto che gli elementi periferici possano tecnicamente essere eliminati non significa che siano poco importanti. Spesso, anzi, gli elementi core vengono dati per scontati, mentre il confronto competitivo avviene soprattutto facendo leva sugli elementi periferici , i quali possono essere molto valorizzati dalle imprese che perseguono politiche di differenziazione o, al contrario, ridotti al minimo e prezzati a parte dalle imprese che perseguono una politica low cost. E’ proprio sugli elementi periferici, quindi, che spesso si gioca la messa a punto di un sistema di offerta originale rispetto alla concorrenza e la messa a punto di una Unique Selling Proposition (USP). La distinzione fra fattori igienici e fattori motivanti Gli obiettivi della politica di comunicazione Gli obiettivi della politica di comunicazione nei confronti del mercato sono ovviamente molto legati alle caratteristiche del target: - Se il target non conosce o ha una conoscenza molto superficiale dell’offerta aziendale, gli obiettivi saranno soprattutto quelli di far sapere che il prodotto o servizio esiste e di portare il target dalla semplice awareness a una conoscenza più accurata dell’offerta. - Se il target si trova in fase di confronto con possibili alternative, la politica di comunicazione dovrà essere volta a far passare i potenziali clienti dalla fase di atteggiamento positivo nei confronti dell’offerta allo sviluppo di un atteggiamento di vera e propria preferenza, fino alla convinzione che il sistema proposto sia il più interessante fra quelli disponibili. - Se i clienti potenziali si trovano in una fase prossima all’acquisto, l’obiettivo deve essere quello di spingere il cliente a diventare attivo, provando il bene (nel caso di prodotti complessi e costosi) e passando alla fase di acquisto. - Se, infine, ci si rivolge a un target che ha già acquistato il bene, l’obiettivo della politica di comunicazione può essere quello di rafforzare la relazione con i clienti, facendo in modo che diventino clienti abituali e/o che acquistino maggiori quantità del bene o che acquistino altri beni complementari o accessori offerti dall’impresa. I messaggi adatti per perseguire i vari tipi di obiettivi elencati sono ovviamente diversi fra loro. Speso la comunicazione con la clientela risulta confusa proprio perché si cerca di raggiungere più obiettivi contemporaneamente, o si cerca di concludere la vendita senza aver adeguatamente raggiunto gli obiettivi precedenti. Naturalmente l’attenzione alla gerarchia di obiettivi presentati è tanto più rilevante quanto più il processo di acquisto riguarda un bene complesso e costoso, mentre per i beni di impulso possono aver senso politiche di comunicazione che puntino direttamente all’acquisto da parte dei clienti potenziali. Il messaggio che si intende comunicare Nel formulare il messaggio occorre anzitutto ricordare che l’audience che si vuole raggiungere spesso percepisce e ricorda solo una piccola frazione dei messaggi inviati e, per di più, li può percepire in modo distorto. I motivi di queste alterazioni si possono ricondurre a tre tipi di selezione che i destinatari del messaggio possono mettere in atto: - Attenzione selettiva: si calcola che ogni giorno mediamente un individuo venga raggiunto da 1600 messaggi commerciali, che ne noti consciamente meno di 100 e che, di questi, solo una decina provochino qualche reazione (anche negativa); - Distorsione selettiva: i destinatari possono distorcere il messaggio in funzione del proprio sistema di valori e convinzione, anche aggiungendo elementi che chi ha concepito il messaggio non intendeva comunicare, o non notando elementi che invece volevano essere comunicati. Chi comunica deve quindi essere molto chiaro, coerente nelle diverse occasioni di comunicazione e ripetitivo, per riuscire a far percepire il messaggio in modo sufficientemente corretto. È inoltre opportuno ricordare che è molto più facile ottenere un cambiamento di atteggiamento quando si toccano temi non familiari, periferici e lontani dai core value dei riceventi; - Ricordo selettivo: solo una piccola parte dei messaggi percepiti dal ricevente vengono memorizzati nella sua memoria a lungo termine. Tendenzialmente vengono memorizzati (nel bene e nel male) i messaggi che confermano una precedente attitudine positiva o negativa nei confronti del bene offerto. Con riferimento al sistema di offerta che si vuole promuovere, il messaggio deve sottolineare gli attributi distintivi rispetto alla concorrenza e più rilevanti per i clienti, evitando di mettere l’accento su troppi elementi. Spesso i messaggi risultano confusi proprio perché si cerca di comunicare tutti gli aspetti dell’offerta aziendale senza selezionarne le caratteristiche distintive e, così facendo, non si riesce a posizionare la propria offerta in modo chiaro e originale. In funzione del tipo di bene da promuovere, inoltre, possono essere più efficaci messaggi che fanno leva sulla razionalità, sull’emotività (profumi, abbigliamento, cioccolata) o sulla morale (prodotti a risparmio energetico, associazioni di beneficenza). Il messaggio può essere più o meno ricco, ovvero denso di informazioni, interattivo e personalizzato rispetto al ricevente. In passato esisteva un trade-off ineliminabile tra numerosità del pubblico obiettivo da raggiungere e ricchezza del messaggio: era infatti possibile trasmettere messaggi ricchi solo attraverso canali di comunicazione personali (visite, vendite porta a porta, contatti telefonici), raggiungendo un numero limitato di destinatari. La diffusione di Internet ha consentito di superare il trade-off fra ricchezza dell’informazione e numero di destinatari raggiungibili. La comunicazione online consente di tenere traccia dei movimenti fatti dall’utente e di personalizzare i messaggi sulla base di questi. I canali e gli strumenti della politica di comunicazione Pubblicità: è il canale di comunicazione di massa per eccellenza e, sebbene con grandi diversità a seconda degli strumenti utilizzati, consente di raggiungere abbastanza facilmente un ampio numero di destinatari. Oltre alle classiche comunicazioni pubblicitarie sui media, sulla stampa, su Internet e in luoghi pubblici, rientrano in questa categoria anche azioni pubblicitarie dirette o connesse al bene venduto, quali volantini, brochure, insegne, packaging ecc. Si tratta di un canale sotto il diretto controllo dell’impresa, che è ampiamente utilizzato, pur presentando alcuni limiti: - proprio perché la pubblicità è molto utilizzata, i consumatori hanno sviluppato una crescente capacità di ascolto selettivo ed è sempre più difficile ottenere la loro attenzione; - nel caso di spot e inserzioni, perché il messaggio venga recepito occorrono in genere molti passaggi, il che rende questo genere di comunicazioni relativamente costoso; - con l’esclusione dei messaggi via Internet, i messaggi pubblicitari non possono essere personalizzati e questo riduce la loro efficacia. Attività promozionali: ricadono in questa categoria le azioni di marketing finalizzate al conseguimento di precisi obiettivi di mercato attraverso l’offerta di vantaggi supplementari temporanei (sconti, omaggi ecc). Le azioni di promozione si possono distinguere in due categorie a seconda che siano indirizzate al consumatore finale (consumer promotion) o ai canali di distribuzione (trade promotion). Le azioni di consumer promotion possono puntare a stimolare l’acquisto di un nuovo prodotto, a incentivare il riacquisto, a rafforzare la conoscenza del prodotto o della marca, a modificare i comportamenti di acquisto, ad aumentare le quantità acquistate, a raccogliere informazioni sui consumatori. Le azioni di trade promotion sono invece indirizzate ai canali distributivi e puntano ad aumentare il livello delle scorte presso i distributori, a indurre i distributori a tenere tutta la gamma di articoli offerti dall’azienda e a favorire gli stessi nell’esposizione e nelle azioni di vendita (ad es. sconti crescenti all’aumentare dei volumi assorbiti, premi monetari al conseguimento di certi obiettivi di fatturato…) Direct marketing: può essere definito come un insieme di tecniche volte alla definizione di un marketing mix personalizzato. In genere si parla di direct marketing in senso stretto quando tale personalizzazione riguarda beni di largo consumo prodotti a livello industriale, mentre se si vende un prodotto artigianale o un bene intermedio si parla di produzione e vendita su commessa. Nell’ambito degli interventi di direct marketing, spesso la personalizzazione si limita alle attività di comunicazione. Con azioni di direct mailing o di telemarketing, è possibile comunicare direttamente al cliente la propria offerta, cercando al contempo di raccogliere informazioni sul suo comportamento di acquisto. L’efficacia della comunicazione diretta dipende in gran parte dalla bontà dell’indirizzario utilizzato, il quale deve essere mirato, costantemente aggiornato e deve consentire di inviare messaggi personalizzati. La personalizzazione del marketing mix, tuttavia, a volte può andare oltre la comunicazione, coinvolgendo la distribuzione, il prezzo e le modalità di pagamento o, addirittura, la stessa configurazione fisico tecnica del prodotto. Personalizzazioni di questo tipo possono essere effettuate solo se prima si è instaurato un canale di comunicazione diretto e interattivo. Sulla base della storia del cliente (volumi acquistati, tipi di prodotti acquistati, comportamento d’acquisto) e delle preferenze da questi espresse, è quindi possibile personalizzare elementi del sistema di offerta quali le modalità di consegna e pagamento, il prezzo o la stessa configurazione del prodotto. Internet ha aumentato in misura considerevole la possibilità delle aziende di fare direct marketing, personalizzando non solo la comunicazione ma l’intero sistema di offerta. I canali personali: possono articolarsi in canali sociali (amici e conoscenti), aziendali (agenti e venditori) e tecnici (esperti e consulenti che possono influenzare le scelte di acquisto). Sono particolarmente importanti nella vendita di prodotti costosi o complessi e di alcuni tipi di servizi (polizze di assicurazione) o di servizi e beni di uso personali per i quali la pubblicità è poco efficace (ristoranti, libri). Si tratta di canali molto efficaci nel fornire informazioni dettagliate e personalizzate a ogni singolo destinatario, ma presentano il limite di essere solo in parte controllabili dall’azienda. Fra i canali personali, infatti, solo i canali aziendali possono essere controllati direttamente, mentre i canali sociali e tecnici possono essere solo parzialmente influenzati. I canali sociali, ad esempio, sono quasi completamente al di fuori del controllo delle imprese, anche se è possibile cercare di favorire il passaparola rendendo facile per chi lo desidera raccomandare il bene. Nel caso di canali tecnici, infine, è possibile intervenire attraverso attività di presentazione e formazione o anche con veri e propri incentivi. Pubbliche relazioni: le pubbliche relazioni possono essere definite come un insieme di azioni sistematiche volte a creare e a mantenere la reputazione dell’impresa presso i suoi diversi interlocutori (clienti, dipendenti ecc.). Possono assumere forme molto diverse che vanno dall’intrattenere buone relazioni con opinion leader rilevanti, al sostegno dato a opere caritatevoli o a eventi artistici o sportivi. L’atmosfera: per molte attività di servizio (alberghi, ristoranti, negozi, spa ecc), buona parte della comunicazione passa attraverso l’aspetto estetico e l’atmosfera dei locali aperti al pubblico. Nel caso di piccole attività di servizio che non hanno un marchio forte (pizzerie, bar, parrucchieri) l’atmosfera può essere l’elemento che, insieme al passaparola, influenza maggiormente la scelta del cliente. approvvigionamento e di trasporto (in funzione della distanza dai mercati di acquisto e di vendita). La localizzazione all’interno di un distretto industriale, inoltre, può presentare vantaggi sia materiali sia immateriali, quali, ad esempio, le maggiori possibilità di sviluppo del know-how derivanti dal fatto di operare in un ambiente favorevole. Per le imprese di servizi che devono localizzarsi necessariamente presso il mercato di sbocco, le scelte di localizzazione sono ancora più rilevanti in quanto da un lato le loro potenzialità di vendita dipendono dal bacino di utenza che le circonda e, dall’altro, la loro immagine è fortemente influenzata dalla localizzazione. La struttura di approvvigionamento. È rilevante quando può influenzare in modo significativo la qualità e i costi dei beni prodotti. Se l’attività di approvvigionamento risulta importante, il business plan dovrebbe includere una descrizione della struttura (personale, eventuali sistemi informativi particolari utilizzati) e delle politiche di approvvigionamento (accordi, alleanze, esclusive, modalità di selezione dei fornitori). La struttura produttiva. In molte aziende la struttura produttiva rappresenta la parte più importante della struttura aziendale. La struttura produttiva è costituita dall’insieme degli impianti, dei macchinari, degli addetti alla produzione, delle procedure e dei sistemi di produzione, del know-how e delle competenze di produzione. Nel caso di imprese di servizi, con struttura produttiva si intende la struttura predisposta per l’erogazione del servizio. Le scelte inerenti la struttura produttiva riguardano quindi i macchinari e gli impianti da utilizzare, i sistemi di produzione da adottare, il layout della fabbrica, il grado di meccanizzazione e di automazione, le modalità di gestione dei materiali e delle scorte, i metodi di programmazione della produzione, la scelta se rivolgersi o meno a subfornitori esterni, la struttura e i metodi per il controllo di qualità. Ai fini della stesura del business plan è molto importante, una volta definita una certa struttura produttiva o di erogazione del servizio, compilare un elenco degli impianti, dei macchinari e delle attrezzature da acquisire, stimando un costo per ciascun elemento ed evidenziando quali possano essere eventualmente acquisiti in leasing o finanziati con forme particolari. La struttura commerciale. Si compone di un insieme di elementi strettamente integrati fra di loro: - I canali distributivi; - La struttura di marketing e vendita; - La struttura di distribuzione. I canali distributivi. Dei tre elementi della struttura commerciale, questo è probabilmente il più importante in quanto influenza e limita le opzioni disponibili in relazione a molte altre scelte aziendali. La scelta del canale ha profonde ripercussioni sull’immagine del prodotto, sulla possibilità di perseguire politiche di marketing push (nelle quali i prodotti vengono “spinti” dagli intermediari) o pull (nelle quali i prodotti vengono soprattutto richiesti dai clienti finali). I passaggi necessari per arrivare agli acquirenti finali possono essere più o meno numerosi a seconda che si utilizzino canali diretti o canali indiretti più o meno lunghi. In alcuni casi la scelta dei canali è differenziata a seconda delle aree geografiche e dei gruppi di clienti e le aziende scelgono di seguire canali relativamente brevi o diretti nelle zone geografiche più vicine e per i clienti più importanti, mentre adottano canali più lunghi per l’estero o per gruppi di clienti più frammentati. Nella scelta fra canali diretti e canali indiretti occorre tenere presente che, se da un lato è vero che i canali indiretti, riducendo il numero dei clienti con i quali l’azienda deve interagire, consentono una forte riduzione della complessità aziendale, dall’altro il canale diretto presenta numerosi vantaggi che è opportuno valutare attentamente: • Consente un contatto con la clientela senza intermediari e, quindi, di raccogliere utili informazioni sulle esigenze e sul comportamento di acquisto dei consumatori; • Pur comportando maggiori costi di gestione, elimina i margini aggiunti dai vari intermediari e, in genere, consente un prezzo per il consumatore finale inferiore; • Il canale diretto è quasi una scelta obbligata se si vogliono offrire prodotti o servizi personalizzati. La diffusione di Internet ha aperto nuove possibilità di utilizzo del canale diretto anche per le aziende che lavorano direttamente con i consumatori finali. Internet può rappresentare un canale molto interessante per le aziende che producono beni di alto valore unitario (computer, hi-fi, biciclette) o difficili da reperire. Nonostante i vantaggi che abbiamo illustrato, in molti casi l’uso di canali diretti è improponibile. Questo avviene, per esempio, quando il cliente desidera una gamma di offerta presso il singolo punto vendita che un solo produttore non può garantire (ad es prodotti alimentari o prodotti per il bricolage). In questi casi diventa inevitabile passare per canali indiretti più o meno lunghi. Scegliendo canali molto lunghi si riduce la complessità delle vendite (in quanto si ha a che fare con pochi grossisti invece che con molti dettaglianti), ma ci si allontana dagli utenti finali e si perdono preziose opportunità di raccogliere informazioni sul mercato. Oltre che la lunghezza del canale, le aziende devono decidere il tipo di canale da utilizzare. Così a livello di grossisti ci si può rivolgere ai cash & carry (grandi punti vendita aperti solo ai dettaglianti) o a grossisti più o meno specializzati. A livello di dettaglio si può scegliere fra diverse alternative quali la distribuzione organizzata (supermercati, ipermercati, grandi magazzini, catene specializzate), il piccolo dettaglio, i bar, le farmacie ecc. In alcuni casi le aziende decidono di esternalizzare le vendite ai clienti finali (rinunciando al canale diretto), ma optano per la strategia connect e cercano di controllare indirettamente il comportamento degli intermediari legandoli con contratti a lungo termine. Un contratto molto diffuso e importante è il franchising. La struttura di marketing e vendita. Una volta scelti i canali distributivi occorre predisporre una struttura di marketing e vendita coerente. La struttura di marketing è rappresentata dalle risorse impiegate nelle operazioni di marketing, ovvero essenzialmente dal personale che si occupa delle ricerche di mercato, dell’impostazione delle politiche di marketing, della definizione dei prezzi di vendita e delle campagne pubblicitarie. Spesso gli addetti al marketing si avvalgono del supporto di società specializzate (ad esempio per le ricerche di mercato). La struttura di vendita è invece rappresentata dalle risorse impiegate per contattare i clienti, acquisire gli ordini e, in generale, gestire il rapporto con la clientela. Può essere organizzata sia con dipendenti dell’azienda (rete diretta), sia con personale esterno legato all’azienda da rapporti di collaborazione (rete indiretta). In molti casi le aziende scelgono di operare con una rete mista che prevede la presenza sia di personale interno, sia di collaboratori esterni. Per le aziende in fase di avvio, ricorrere alla collaborazione di venditori esterni (agenti, rappresentanti..) può rappresentare una scelta opportuna in quanto comporta un costo variabile proporzionato alle vendite effettivamente realizzate. Il coinvolgimento di un buon agente o di un buon rappresentante consente inoltre di sfruttare sin dall’inizio la rete di conoscenze e contatti che queste persone si sono costruite nel corso del tempo. Rispetto ai venditori interni, tuttavia, i collaboratori esterni sono meno controllabili, potrebbero non comunicare esattamente ai clienti quello che l’azienda vuol far sapere di sé e dei propri prodotti e possono comportare il rischio che fra l’azienda e i suoi clienti si crei una barriera informativa. Dal punto di vista organizzativo, le reti di vendita (siano esse dirette, indirette o miste) possono articolarsi su base territoriale (ogni venditore è responsabile di un’area geografica), per prodotti (ogni venditore è responsabile di un prodotto o di una linea di prodotti) o per clienti (ogni venditore è responsabile di una particolare categoria di clienti). La struttura distributiva. La scelta del canale influenza pesantemente anche le scelte che si possono compiere in relazione alla struttura distributiva. Questa include tutte le risorse (personale, automezzi, depositi, magazzini) impiegate per far giungere i beni ai clienti nei tempi e nelle modalità desiderate. La definizione della struttura distributiva implica molte decisioni che si possono ricondurre alle seguenti classi: - Depositi e magazzini centrali e periferici (quanti, dove e quanto grandi devono essere); - Modalità di gestione delle scorte (manuale, automatizzata); - Modalità di gestione dei flussi informativi (raccolta ordini, bollettazione, fatturazione); - Scelta dei mezzi di trasporto. La configurazione degli elementi della struttura distributiva dipende dal livello di servizio che si intende offrire alla clientela. Il sistema andrà strutturato diversamente a seconda dei tempi di consegna che si vogliono garantire, a seconda che si accetti di spedire anche piccola quantità o si accettino solo ordini di grandi dimensioni ecc. È interessante sottolineare come negli ultimi anni sia andato crescendo il numero di aziende che si affidano a società specializzate non solo per il trasporto delle merci, ma per la gestione integrata di tutta la struttura distributiva. Altri elementi della struttura aziendale. Esistono molti altri elementi nella struttura aziendale che rivestono una criticità diversa a seconda delle aziende: in alcune sono molto rilevanti, in altre del tutto assenti: o La struttura di ricerca e sviluppo (importante per le aziende ad alta tecnologia); o La struttura di progettazione (per le aziende che offrono prodotti personalizzati); o La struttura di emissione dei preventivi (per aziende che offrono beni personalizzati e complessi); o La struttura amministrativa (presente in tutte le aziende ma di solito poco rilevante); o La struttura di assistenza (per le aziende che vendono beni durevoli); o Eventuali servizi di supporto gestiti all’interno dell’azienda (formazione, affari legali..) La struttura organizzativa e i meccanismi operativi. Le scelte rientranti in questa categoria descrivono come si è deciso di dividere e assegnare i compiti e le responsabilità all’interno dell’azienda (struttura organizzativa) e quali sono i meccanismi e le procedure che si intendono utilizzare per selezionare, formare, motivare, controllare e coordinare il personale dell’azienda e tutti coloro che collaborano con la stessa. Nel descrivere una struttura organizzativa, è opportuno distinguere fra organi di staff e organi di line. I primi si collocano in una linea gerarchica discendente (ovvero dipendono gerarchicamente da qualcuno e controllano gerarchicamente altri organi), mentre i secondi sono organi di supporto non inseriti in una catena gerarchica (per esempio l’ufficio affari legali o la direzione del personale). I principali tipi di struttura organizzativa sono i seguenti: - Struttura elementare (dai vertici aziendali dipendono direttamente gli organi operativi); - Struttura funzionale (dai vertici dipendono organi specializzati per funzioni); Le scelte relative alla formula imprenditoriale determinano i risultati economico-finanziari che verranno generati dal progetto. In sede di stesura del business plan è opportuno cercare id simulare le conseguenze economico-finanziarie delle diverse opzioni che si stanno valutando e delle decisioni che si stanno prendendo, in modo da testare la loro bontà e la loro sostenibilità sia sotto il profilo economico, sia sotto il profilo finanziario. 6.1 I BILANCI PREVISIONALI COME MODELLI DI SIMULAZIONE Nel linguaggio corrente in genere le simulazione economico-finanziarie vengono denominate bilanci previsionali. Non è possibile prevedere il futuro, ma costruire un modello di simulazione dei risultati economico-finanziari ci può aiutare a comprendere meglio il nostro business. Per elaborare i bilanci previsionali saremo costretti a fare delle ipotesi sui volumi venduti, sui prezzi che potremo praticare, sui costi unitari, sui costi e gli investimenti per la predisposizione della struttura produttiva, sui tempi di pagamento ecc. Dovremo raccogliere sul mercato e organizzare molti dati quantitativi, cercando in modo sistematico informazioni su altri business già esistenti che, per qualche verso, assomigliano a quello che vorremmo avviare. Le diverse ipotesi porteranno a valori relativi a ricavi, costi, impieghi e fonti previsionali che dovremo legare in un modello unitario. Per esempio, i prezzi e i volumi determineranno i ricavi. Questi ultimi, unitamente ai tempi di pagamento dei clienti e all’aliquota IVA, determineranno i crediti verso i clienti e questi, a loro volta, contribuiranno con altri valori a determinare l’ammontare del fabbisogno finanziario. Il fabbisogno finanziario influenzerà l’ammontare dei prestiti che ipotizzeremo di contrarre e questi influenzeranno l’ammontare degli oneri finanziari che, a loro volta, contribuiranno a formare la base imponibile su cui calcolare le imposte. In un bilancio consuntivo la congruenza fra i diversi valori (ricavi, costi, crediti, debiti ecc) è garantita a monte: i valori di un bilancio consuntivo sono infatti ottenuti applicando metodi contabili rigorosi che portano a una rappresentazione della gestione passata e alla quantificazione dei risultati economico-finanziari raggiunti. I dati dei bilanci previsionali, invece, devono essere stimati sulla base delle scelte che si vogliono simulare e della situazione di mercato. Il modello di simulazione deve rispettare alcune regole: - deve essere elaborato partendo da una chiara distinzione fra i valori di gestione caratteristica e i valori di gestione finanziaria e fiscale; - pur portando all’elaborazione di un conto economico e di uno stato patrimoniale previsionali, deve partire dalla quantificazione di valori extra contabili quali il numero ipotizzato di clienti, le quantità vendute, i prezzi, le ore unitarie di manodopera dirette necessarie per la produzione ecc. Errori concettuali: esempi di errori concettuali sono un bilancio previsionale in cui il totale delle fonti non quadra con il totale degli impieghi, o che presenta un reddito d’esercizio nel conto economico diverso dal reddito d’esercizio nello stato patrimoniale, o che, ancora, presenta incongruenze fra voci correlate (gli oneri finanziari non sono proporzionati all’indebitamento, i crediti non sono proporzionati alle vendite, gli ammortamenti non sono in funzione delle immobilizzazioni ecc). Errori di grado di dettaglio: il bilancio previsionale deve essere completo (includendo sia conto economico che stato patrimoniale) e abbastanza dettagliato da evidenziare tutti i valori rilevanti, anche perché non è vero che riducendo il grado di dettaglio le previsioni siano più facili da effettuare (è più facile stimare le singole voci che non stimare direttamente la voce nel suo complesso). È un errore anche eccedere con il grado di dettaglio. Il modello finale deve essere agile e consentire di svolgere rapidamente analisi what-if, offrendo una visione d’insieme del progetto. Un modello troppo dettagliato risulterebbe troppo complesso da sviluppare, conterrebbe più facilmente errori e sarebbe macchinoso da utilizzare in fase di simulazione. Errori di stima: quelli di stima sono gli errori più difficili da evitare. In quasi tutti i casi risulta particolarmente complesso stimare i volumi di vendita e, quindi, i ricavi previsionali. In altre situazioni (nel caso di prodotti tecnologicamente molto innovativi) può essere difficile stimare anche i costi unitari, i costi connessi alla capacità produttiva e le immobilizzazioni necessarie. Se i problemi si limitano alla stima dei ricavi o di altri dati circoscritti, il modello di simulazione può comunque essere sviluppato senza problemi: anche non sapendo quanto venderemo, se abbiamo un’idea abbastanza precisa sul livello dei costi unitari, dei costi fissi e delle immobilizzazioni, possiamo comunque calcolare il livello di vendite necessarie per coprire tutti i costi. Anche a fronte della difficoltà a stimare alcuni dati fondamentali, quindi, il bilancio previsionale può comunque consentirci di individuare i punti di rottura (il livello minimo di fatturato, i tempi massimi di pagamento dei clienti ecc.), superati i quali il nostro progetto non sarebbe più sostenibile dal punto di vista economico e/o dal punto di vista finanziario. L’elaborazione dei bilanci previsionali risulta molto più difficile se il prodotto è talmente innovativo da non consentirci di stimare nemmeno in modo approssimativo dati fondamentali quali costi unitari, costi fissi e immobilizzazioni. In questi casi può risultare oggettivamente impossibile costruire un modello di simulazione; per fortuna è molto raro trovarsi a lanciare un progetto talmente innovativo da non poter stimare almeno in modo approssimativo i principali dati di costo e di investimento. Per concludere, i bilanci previsionali non servono tanto per “prevedere”, quanto per analizzare e comprendere il modello operativo del business, per capire quali sono le determinanti principali dei risultati economico-finanziari e, quindi, quali sono le variabili critiche da tenere sotto controllo. 6.2 LE GESTIONI AZIENDALI Per elaborare in modo rapido e corretto i bilanci previsionali occorre anzitutto ricondurre le attività e il loro risvolto economico-finanziario alle diverse gestioni aziendali, mettendo in secondo piano la distinzione fra valori economici e valori finanziari. All’interno di qualsiasi attività economica è possibile distinguere quattro diversi tipi di gestione: - Gestione operativa: comprende tutte le attività connesse all’attività tipica dell’impresa ed è quindi strettamente legata alle scelte che riguardano il modello di business. Da queste attività e da queste scelte derivano sia conseguenze economiche (misurabili in termini di ricavi e costi di gestione operativa), sia conseguenze finanziarie (misurabili in termini di impieghi e fonti di gestione operativa). Nell’elaborazione dei bilanci previsionali questa è la prima gestione che occorre considerare. - Gestione finanziaria passiva: include tutte le attività e le scelte che riguardano la copertura del fabbisogno finanziario che scaturisce dalla gestione operativa. Sono riconducibili a questa gestione le scelte relative alla copertura del fabbisogno finanziario (mezzi propri, finanziamenti di terzi a breve e finanziamenti di terzi a medio e lungo termine) e i costi (oneri finanziari) che da tali scelte derivano. In un bilancio previsionale non si possono prendere in considerazione le scelte relative alla gestione finanziaria passiva se prima non si è calcolato il fabbisogno finanziario derivante dalle scelte della gestione operativa. È tuttavia possibile che valutazioni di gestione finanziaria portino a riconsiderare le scelte di gestione operativa, per esempio quando queste portano a un fabbisogno finanziario eccessivo che non si riesce a coprire in modo conveniente. - Gestione finanziaria attiva: è denominata anche gestione patrimoniale e include tutte le attività e le scelte relative all’impiego dell’eventuale liquidità eccedente che, in alcuni casi, può derivare in modo permanente o transitorio dalla gestione operativa. Si tratta di una gestione che interessa una piccola parte delle imprese e che, in genere, deriva da cicli finanziari particolarmente favorevoli, ovvero da situazioni in cui l’incasso delle vendite avviene prima del pagamento dei costi di gestione (ad es. supermercati o società di assicurazione). La gestione finanziaria attiva è quindi l’esatto opposto della gestione finanziaria passiva: si presenta a fronte di eccessi di liquidità, implica investimenti in attivo patrimoniale (titoli, immobili da dare in affitto, liquidità non impiegata nella gestione caratteristica) e comporta il sorgere di ricavi di gestione finanziaria (interessi attivi, dividendi, affitti attivi ecc.). - Gestione fiscale: riguarda le attività e le scelte che influenzano l’ammontare delle imposte a carico delle imprese e l’ammontare dei debiti e dei crediti verso l’erario. In un bilancio previsionale è l’ultima delle gestioni che viene presa in considerazione, in quanto l’ammontare delle imposte è legato al reddito ante imposte che scaturisce dalla sommatoria dei risultati di gestione operativa e finanziaria (arriva o passiva). Occorre anzitutto prevedere i costi e i ricavi di gestione operativa (sintetizzati nel conto economico) e gli impieghi e le fonti di gestione operativa (sintetizzati nello stato patrimoniale). Una volta fatta questa operazione, si può passare all’elaborazione delle voci di gestione finanziaria passiva (se dalla gestione operativa scaturisce un fabbisogno finanziario) o di gestione finanziaria attiva (se dalla gestione operativa scaturisce un eccesso di liquidità), per arrivare infine a considerare la gestione fiscale. Mentre solitamente nell’analisi dei bilanci consuntivi i conti economici e gli stati patrimoniali vengono articolati in modo diverso (per gestione i primi, per scadenza dei valori i secondi), in sede di elaborazione dei bilanci previsionali è opportuno mantenere una perfetta simmetria fra il modo in cui possono essere articolati costi e ricavi da un lato e impieghi e fonti dall’altro. Le voci legate alla gestione operativa possono essere distinte in tre gruppi riconducibili a quelli già presentati trattando delle determinanti delle dinamiche competitive: - Valori legati prevalentemente ai volumi effettivi quali i ricavi di vendita, il costo dei materiali, il costo della manodopera diretta, i crediti verso i clienti, i debiti verso fornitori, le scorte ecc. - Valori legati alla capacità produttiva quali i costi fissi di struttura o le immobilizzazioni di gestione operativa; - Valori legati allo sviluppo quali le spese di ricerca e sviluppo, marketing e formazione e le immobilizzazioni immateriali come marchi, brevetti o spese di sviluppo capitalizzate. Fra i valori extra gestione operativa, inoltre, sono incusi i valori derivanti da eventi straordinari. È bene sottolineare come questi non siano riconducibili a una diversa categoria gestionale, bensì a eventi straordinari riconducibili a una delle quattro gestioni presentate. La vendita di un impianto diventato obsoleto, per esempio, è un evento straordinario riconducibile alla gestione operativa che può portare alla nascita di minusvalenze (costi straordinari che si manifestano quando una immobilizzazione viene venduta a un valore inferiore al suo valore contabile). Allo stesso modo, le sanzioni legate a una verifica fiscale sui redditi di anni precedenti rappresentano un onere straordinario riconducibile alla gestione fiscale. - La risoluzione delle immagini (versioni con minore risoluzione gratis o a prezzi molto ridotti, per foto di qualità superiore prezzi più alti); - La velocità di funzionamento; - La flessibilità d’uso; - La capacità; - Le caratteristiche e le funzioni (per esempio nel caso del software alcune funzioni possono essere disabilitate nelle versioni meno costose); - La completezza (database con tutti gli articoli > solo alcuni articoli); - Il fastidio (versione premium dei giochi online, senza pubblicità e possibilità di salvataggio); - Il supporto; - La personalizzazione (possibilità di personalizzare il layout del sito web e del tipo di informazioni riportate sulla home page); - Il gruppo di appartenenza (il prodotto è lo stesso e la differenza di prezzo è giustificata dal gruppo di appartenenza dell’acquirente). Le vendite online nella maggior parte delle situazioni sono fondamentali perché la gestione delle diverse versioni di un bene digitalizzato non risulti troppo complessa. Se la vendita del bene viene effettuata online, infatti, l’impresa non deve preoccuparsi di fare arrivare a ciascun gruppo di clienti la versione giusta del bene e si può limitare a rendere disponibili le diverse versioni, lasciando che siano i clienti a scegliere la versione che più si addice alle loro esigenze. In ogni caso, nel caso dei beni non digitalizzati i vantaggi della personalizzazione dei prezzi e del versioning sono meno macroscopici, ma comunque presenti. Anche i beni non digitalizzati, inoltre, possono presentare un contenuto informativo più o meno rilevante e, per la parte informativa del loro sistema di offerta, si possono in parte adattare le regole descritte precedentemente (esempio: M&M’s personalizzati: bene semplice e con contenuto informativo migliore). Se anche per i prodotti semplici è possibile utilizzare le tecniche della personalizzazione e dell’articolazione dei prezzi, è evidente che per beni più complessi e a maggior contenuto informativo le possibilità di articolazione del sistema di offerta e del prezzo dipendono solo dalla creatività dell’imprenditore. Dinamica della clientela. Le analisi sulla dinamica della clientela variano molto a seconda del grado di concentrazione della stessa. Le idee che verranno presentate sono particolarmente utili a fronte di un numero molto elevato di clienti, ciascuno dei quali incide relativamente poco sul fatturato totale. Quando un’impresa opera con un numero limitato di grandi clienti, invece, più che sulla dinamica di clientela occorre focalizzarsi sulle relazioni dirette e personali con i singoli clienti. Possiamo affermare che il numero complessivo dei clienti di un’impresa dipende essenzialmente dai fattori descritti di seguito: • L’ammontare degli investimenti in comunicazione e la resa di tali investimenti che, insieme, determinano il numero di nuovi clienti acquisiti grazie alla pubblicità e alla comunicazione in generale. • Oltre che attraverso campagne pubblicitarie, i nuovi clienti possono essere acquisiti anche attraverso il passaparola. Alcune ricerche hanno dimostrato come i clienti acquisiti da passaparola sembrino essere più fedeli rispetto a quelli acquisiti da pubblicità e siano meno impegnativi in termini di supporto clienti perché tendono a rivolgersi a coloro che li hanno consigliati per risolvere dubbi e chiedere informazioni. • Un’altra importante determinante della dinamica della clientela è rappresentata dal tasso di ritenzione dei clienti: il numero complessivo di clienti aumenta con l’ingresso di nuovi clienti e diminuisce a causa dell’abbandono di alcuni di questi nel corso del tempo. Il grado di fedeltà dei clienti rappresenta una determinante spesso sottovalutata della dinamica dei clienti. Capita spesso di vedere imprese che monitorano attentamente la resa delle diverse iniziative promozionali e rilevano il numero di nuovi clienti acquisiti attraverso i diversi canali, trascurando però di rilevare il numero di clienti persi e i motivi per cui se ne sono andati. Questa disattenzione si riflette inevitabilmente anche sullo stesso sistema di offerta proposto ai clienti (ad esempio le società di telefonia mobile: le offerte sono mirate a sottrarre clientela ai concorrenti, più che a mantenere i già clienti) Per molti versi il tasso di ritenzione dei clienti è più importante della capacità di attrarre nuovi clienti: - In molti casi i clienti tendono ad aumentare i loro acquisti medi nel corso del tempo, a mano a mano che si consolida il rapporto di fiducia con i fornitori. - I clienti più fedeli sono in genere quelli più attenti al servizio e meno sensibili al prezzo. Questa loro caratteristica li rende in media più redditizi dei clienti di nuova acquisizione. - I clienti fedeli sono più propensi a consigliare il bene ad altri possibili utenti. La loro rilevanza influenza quindi il tasso di passaparola. - Elevati tassi di ritenzione della clientela consentono di ridurre gli investimenti in comunicazione necessari per ottenere il numero complessivo di clienti desiderato. A parità di reddito operativo, costi di comunicazione più bassi possono rendere possibili maggiori spese e investimenti in innovazione, in attività di servizio e in azioni volte ad aumentare la qualità dell’offerta, innescando un circolo virtuoso fra fedeltà della clientela e capacità dell’impresa di aumentare il valore reale della propria offerta ai clienti. Seguendo un approccio bottom-up alla stima della domanda, è interessante costruire un modello per la stima dei ricavi di vendita e dei margini che includa la resa degli investimenti pubblicitari, il passaparola e la percentuale di clienti persi in ogni periodo. Facendo 3 simulazioni, in ciascuna si calcolano i tempi di recupero (in anni) dei costi di acquisizione dei clienti, il fatturato e il margine di contribuzione totale di un ipotetico prodotto in funzione di 6 variabili: - investimenti in pubblicità: - resa degli investimenti pubblicitari misurata con il costo medio di acquisizione di un nuovo cliente; - percentuale di clienti persi ogni anno, calcolata sul numero cumulato di clienti dell’anno precedente; - percentuale dei nuovi clienti acquisiti ogni anno con il passaparola, calcolata sul numero cumulato di clienti dell’anno precedente; - il fatturato medio per cliente; - il margine di contribuzione medio percentuale sul fatturato (MDC). L’MDC esprime la parte dei ricavi che rimane all’azienda dopo aver coperto tutti i costi diretti di produzione e vendita. Al fine di focalizzare l’attenzione sulla fedeltà dei clienti e, quindi, sui tassi di ritenzione e di passaparola a questa correlati, nelle tre simulazioni tutte le variabili sono state mantenute invariate tranne la percentuale di clienti persi e la percentuale di passaparola. Si osserva che: - Se le due percentuali si equivalgono, i nuovi clienti da passaparola compensano esattamente i clienti persi e l’aumento del numero di clienti dipende dall’investimento pubblicitario e dalla sua resa. Variazioni apparentemente non molto significative nel livello di fedeltà della clientela possono portare, nel tempo, a differenze importanti nel fatturato e nei risultati reddituali. Comportamento di acquisto della clientela. Una volta acquisiti, i clienti possono generare ricavi e margini più o meno elevati a seconda del loro comportamento di acquisto. Occorre considerare in particolare: - Quanto i clienti acquistano ogni volta; - Quanto spesso riacquistano; - Che cosa acquistano (versione base/premium…); - Su che base acquistano (singola unità, abbonamento ecc); - Quando acquistano. I diversi elementi elencati hanno un impatto sia sul fatturato medio annuo per cliente, sia sul margine di contribuzione che ciascun cliente consente di generare per la copertura dei costi fissi e finanziari. Molto importante è il margine di contribuzione % che dipende sia dal livello dei prezzi sia dalle scelte dei clienti. Molto spesso l’attenzione delle imprese e degli analisti si concentra soprattutto sul fatturato, probabilmente perché si tratta di un risultato molto chiaro e facile da conoscere anche per aziende terze. In realtà quello che veramente conta, più che il fatturato, è il margine complessivo che i nostri clienti con il loro comportamento di acquisto ci consentono di generare. Un aumento del fatturato medio per cliente, per esempio, potrebbe non essere desiderabile se per ottenerlo fossimo costretti ad abbassare troppo i prezzi o a vendere loro beni con margine inferiore, riducendo così in modo significativo l’MDC%. L’aumento di fatturato, a parità di margine percentuale, porta ovviamente ad un aumento di MDC totale. Tuttavia se per aumentare il fatturato siamo costretti a ridurre in modo significativo l’MDC%, il risultato complessivo può essere negativo. 6.4 IL MODELLO DEI COSTI OPERATIVI I costi operativi possono essere essenzialmente articolati su tre categorie: • I costi legati ai volumi effettivi, quali i costi di materie prime, provvigioni, lavorazioni esterne, manodopera diretta; • I costi legati alla capacità produttiva, come i costi per l’affitto di fabbricati, le consulenze legali e fiscali, le utenze, le assicurazioni, la manodopera indiretta; • I costi legati allo sviluppo, come costi per la ricerca e lo sviluppo di nuovi prodotti, ricerche di mercato, pubblicità e formazione. Nel linguaggio aziendale i costi legati ai volumi effettivi vengono normalmente denominati costi variabili, mentre le altre due categorie costituiscono insieme i costi fissi, articolabili in costi fissi di struttura e costi fissi di sviluppo. Esiste una forte corrispondenza fra questa classificazione dei costi operativi e la classificazione delle attività in ottica strategica: le attività di realizzazione comportano principalmente costi variabili, le attività di predisposizione della struttura costi fissi di struttura e le attività di sviluppo costi fissi di sviluppo. È tuttavia opportuno sottolineare che in sede di elaborazione di un bilancio previsionale quello che conta è l’effettivo comportamento del costo nel caso specifico, non il tipo di attività a cui è legato. Più in general possiamo affermare che, a prescindere dalla natura di un costo, quello che conta – ai fini della sua classificazione – è il suo comportamento nel caso specifico. I costi telefonici per esempio nella maggior parte delle situazioni rappresentano un costo fisso di struttura, ma per le società di telemarketing rappresentano un costo variabile. I costi di energia elettrica sono normalmente costi di struttura, ma sono legati ai volumi nel caso di imprese siderurgiche. Costi legati ai volumi effettivi: sono esempi di costi legati ai volumi, ovvero di costi variabili, i costi per l’acquisto di materie prime e semilavorati o di merci da rivendere senza ulteriori lavorazioni, le - Il giro di affari necessario per coprire tutti i costi, data una certa ipotesi di capacità produttiva, ovvero il punto di pareggio; - il grado di flessibilità della struttura di costo. Il punto di pareggio e la flessibilità della struttura di costo dipendono soprattutto dalla capacità produttiva che si sta ipotizzando di installare e dalle scelte di make, buy o connect. In genere le scelte di esternalizzazione consento di variabilizzare i costi, rendendo più flessibile la struttura di costo. Nel caso di un’impresa in fase di avvio, quindi, non esiste un unico punto di pareggio, ma diversi punti di pareggio (e tante strutture di costo) in funzione delle diverse opzioni di make, buy o connect e delle diverse ipotesi di capacità produttiva che si stanno prendendo in considerazione. Nell’ambito di una certa ipotesi di make, buy o connect e di capacità produttiva, ovvero di una certa configurazione della struttura aziendale: - la relazione fra costi variabili e volumi effettivi continua a essere rappresentata nella realtà da una curva, ma può essere trasformata in una funzione di tipo lineare. In altri termini, nell’ambito di una struttura aziendale data, si può ipotizzare, senza commettere errori significativi, che i costi variabili unitari rimangano invariati; - i costi fissi di struttura sono completamente fissi e non aumentano a gradini, in quanto la capacità produttiva è fissa per definizione. I costi fissi (dati dalla sommatoria di costi fissi di struttura e costi fissi di sviluppo) non subiscono aumenti perché si ipotizza di rimanere nell’ambito di una certa capacità produttiva e di non variare le scelte di make, buy o connect e i costi di sviluppo. I costi totali coincidono con i costi fissi quando i volumi effettivi sono pari a zero e aumentano quindi in modo lineare in funzione dell’aumento dei costi variabili; i ricavi partono da zero e aumentano all’aumentare dei volumi a un ritmo superiore rispetto all’aumento dei costi variabili. I ricavi aumentano più rapidamente dei costi variabili se il prezzo unitario supera i costi variabili unitari. Nel caso in cui il progetto prevedesse dei ricavi fissi si può intervenire o facendo partire la retta dei ricavi non da zero, bensì dall’ammontare dei ricavi fissi, oppure sottraendo dai costi fissi i ricavi fissi. Il punto di pareggio è il volume nel quale la retta dei ricavi incrocia la retta dei costi totali. Prima del punto di pareggio l’impresa presenta una perdita operativa e successivamente un utile operativo. Sia la perdita che l’utile sono misurate dalla distanza fra retta dei ricavi e retta dei costi totali. Il punto di pareggio può essere calcolato in due diverse versioni: - il punto di pareggio in volumi, che esprime i volumi che occorre raggiungere per andare a pareggio. La formula è: Costi fissi/MDC unitario (MDC unitario → ricavo unitario – costo variabile unitario - il punto di pareggio in fatturato, che esprime il fatturato che occorre raggiungere per andare a pareggio: Costi fissi/MDC% (MDC% → MDC unitario / ricavo unitario o → MDC totale / ricavi totali) il punto di pareggio è solo una delle misure che esprimono il grado di flessibilità della struttura di costo di un’impresa. Una struttura di costo flessibile, infatti, comporta non solo un basso punto di pareggio ma anche una forbice stretta fra costi totali e ricavi. In genere queste due misure (il punto di pareggio e il divario fra costi e ricavi) sono correlate, ma a parità di punto di pareggio si possono anche presentare situazioni differenziate. In una struttura flessibile, il mancato raggiungimento del punto di pareggio comporta minori perdite rispetto all’altra struttura di costo (rigida), così come il superamento del punto di pareggio comporta minori utili. Una misura della sensibilità dei costi al variare dei ricavi è rappresentata dall’indice di flessibilità: Indice di flessibilità → costi variabili totali / costi fissi totali (calcolato nel punto di pareggio) Più alto è questo rapporto, maggiore è la flessibilità della struttura di costo e, di conseguenza, minore è la perdita se non si consegue il punto di pareggio. Una struttura flessibile con un basso punto di pareggio è certamente meno rischiosa di una struttura di costo rigida. Le strutture di costo flessibili comportano perdite limitate prima del punto di pareggio, ma anche utili limitati una volta superato il punto di pareggio. Le strutture rigide, invece, sono maggiormente rischiose, ma consentono di aumentare più rapidamente i profitti una volta superato il punto di pareggio. Le strutture di costo flessibili, quindi, non sono sempre desiderabili, e vanno privilegiate solo quando si ha il timore di non riuscire ad arrivare al punto di pareggio. Analisi del punto di pareggio e bilancio previsionale: il punto di pareggio operativo è, nella maggior parte dei casi, il punto di rottura più significativo in fase di valutazione di un progetto imprenditoriale. Sapendo il punto di pareggio operativo possiamo confrontare questo dato con le nostre analisi di mercato e valutare quali siano le probabilità che abbiamo di raggiungere e superare questo livello . è in funzione di questo che potremo giudicare il grado di sostenibilità economica del nostro progetto. Ci sono molte situazioni in cui, sebbene l’impresa offra molti prodotti o servizi, è possibile identificare fra questi un comune denominatore. In altri casi la formula del punto di pareggio in volumi può essere adattata per calcolare non tanto il numero di prodotti da vendere per andare a pareggio, quanto il numero di clienti da raggiungere per andare a pareggio. Le uniche situazioni in cui l’analisi costi-volumi-risultati non è di particolare utilità si hanno quando l’impresa lavora su grandi commesse, adattando di volta in volta le strutture utilizzate (ad es. assumendo di volta in volta il personale necessario). In questi casi, peraltro, più che un bilancio previsionale aziendale è utile costruire un preventivo a livello di singola commessa. 6.5 IL WORKING CAPITAL Le scelte compiute sul modello di business determinano non solo i ricavi e i costi operativi, ma anche gli impieghi e le fonti operative. Nell’ambito di impieghi e fonti di gestione caratteristica si possono identificare due componenti chiaramente distinte: - il capitale circolante netto (CCN) operativo, composto principalmente da crediti verso clienti, scorte, debiti verso fornitori e altri debiti di gestione operativa. Il comportamento di queste voci è simile a quello dei costi variabili, in quanto è molto sensibile al giro d’affari. - Le immobilizzazioni, composte principalmente da immobilizzazioni materiali (fabbricati, impianti, automezzi ecc.) e immateriali (marchi, brevetti ecc.). Le immobilizzazioni materiali hanno un comportamento simile a quello dei costi fissi di struttura, in quanto sono legate alla capacità produttiva, mentre le immobilizzazioni immateriali hanno un comportamento simile ai costi di sviluppo. Il CCN tradizionale Il CCN operativo non va confuso con il CCN dell’analisi di bilancio classica, che chiamiamo CCN tradizionale. Il CCN tradizionale è dato dalla differenza fra attività correnti (ovvero liquidità e altre attività trasformabili in liquidità entro i 12 mesi) e passività correnti (ossia tutti i debiti a breve termine con scadenza entro i 12 mesi). Le attività correnti includono quindi valori quali la cassa, i conti correnti attivi, i titoli, i crediti vs clienti, le scorte, mentre le passività correnti includono i conti correnti passivi, altri prestiti a breve termine, debiti vs fornitori e altri debiti a breve di gestione operativa. Nell’analisi di bilancio classica il CCN tradizionale viene calcolato per valutare il grado di liquidità dell’impresa: maggiori sono le attività correnti e minori le passività correnti, più liquida è considerata la struttura patrimoniale dell’impresa. Il CCN tradizionale può essere fuorviante in quanto confonde le diverse gestioni aziendali, aggregando impieghi e fonti in funzione dalla loro liquidità/scadenza a prescindere dalla gestione di appartenenza. Nelle attività correnti troviamo, quindi, sia voci di gestione finanziaria attiva (titoli di stato) sia voci di gestione operativa (crediti verso clienti e scorte), mentre nelle passività correnti si trovano voci sia di gestione finanziaria passiva (c/c passivi, altri prestiti a breve termine) sia di gestione operativa (debiti verso fornitori, altri debiti di gestione operativa). Confondere le diverse gestioni è fuorviante perché il grado di effettiva liquidità o esigibilità di una voce dipende non tanto dalla sua natura, quanto dalla gestione a cui si riferisce. Non è quindi la natura di un impiego patrimoniale (cassa o immobilizzazione) quanto la sua destinazione (gestione operativa o gestione finanziaria attiva) che ne determina il grado di liquidità. Tutti gli impieghi di gestione finanziaria attiva (titoli, c/c attivi, immobili dati in affitto) sono liquidi, in quanto, non servendo per la gestione tipica, possono essere rapidamente trasformati in liquidità, qualora già non lo fossero. Tutti gli impieghi di gestione operativa, al contrario, sono di fatto duraturi, siano essi immobilizzazioni, cassa, crediti o scorte. I crediti verso i clienti, per esempio, rappresentano un impiego duraturo anche se scadono entro i 12 mesi. È vero, infatti, che i singoli crediti vengono incassati e si trasformano in liquidità nel breve termine, ma mano a mano che i crediti vengono incassati, altri crediti nascono per effetto delle vendite e, di conseguenza, i crediti verso clienti nel loro complesso permangono e non possono essere eliminati (a meno che non si riesca a convincere i clienti a pagare immediatamente). Non è pertanto corretto dire che la cassa necessaria per la gestione operativa, i crediti verso i clienti e le scorte siano “correnti”. Essendo legate alla gestione tipica, queste voci sono in realtà “circolanti”: sebbene il singolo credito possa essere incassato e la singola merce in magazzino possa essere venduta, altri crediti e altre scorte nascono di continuo e questo fa sì che crediti e scorte si rinnovino continuamente nella loro composizione, ma permangano nel tempo e comportino quindi un fabbisogno finanziario duraturo. Allo stesso modo, i debiti di gestione operativa sono circolanti e non correnti e rappresentano quindi una fonte stabile di finanziamento. I debiti di gestione finanziaria, al contrario, nel momento della loro scadenza devono essere rimborsati e, se non vengono rinnovati, si estinguono. Non è vero, quindi, che crediti verso clienti e scorte siano impieghi liquidi e in effetti le imprese che hanno troppe scorte e non riescono a farsi pagare in tempi ragionevoli dai clienti sono tutt’altro che liquide, anzi hanno problemi di liquidità. Allo stesso modo, non è vero che chi ha un forte potere contrattuale nei confronti dei fornitori e riesce a pagare i propri acquisti dopo molti mesi sia poco liquido, anzi, spesso questa situazione si accompagna a eccessi di liquidità che possono essere investiti in gestione finanziaria attiva. - Immobili; - Spese per la ristrutturazione o l’adattamento degli immobili; - Macchinari e impianti; - Stampi e attrezzature; - Automezzi per il trasporto merci, per l’ufficio e per gli addetti alla vendita; - Insegna e cartelli pubblicitari; - Scaffalature e arredi per il magazzino; - Sistemi informatici (hardware, software e predisposizione della rete); - Arredi e macchine per l’ufficio; - Acquisizioni di marchi, brevetti o altre immobilizzazioni immateriali; - Acquisizioni di partecipazioni strategiche in altre aziende. Nel valutare il costo di ciascuna immobilizzazione occorre considerare tutte le opportunità di risparmio. Una buona regola che tutti coloro che avviano un’impresa dovrebbero seguire è, infatti, “non acquistare quello che puoi affittare e non affittare quello che puoi prendere a prestito”. Se non si riesce a prendere a prestito, prima di acquistare è opportuno valutare la possibilità di affittare le immobilizzazioni richieste. Su questo fronte, negli ultimi anni, le possibilità sono aumentate in modo considerevole. Oltre agli immobili, oggi è possibile esternalizzare la proprietà e la gestione di importanti attività aziendali, quali il sistema informativo, il call center , i trasporti e i magazzini. Nel valutare la possibilità di outsourcing occorre tenere presente che, in genere, questa operazione diventa conveniente solo quando l’elemento dato in outsourcing presenta una certa complessità. Come visto per il CCN, al di là di scelte di outsourcing e delle tattiche in fase di start-up, anche per le immobilizzazioni operative l’ammontare del capitale investito dipende soprattutto dal modello di business adottato. Le immobilizzazioni danno luogo nel bilancio a diverse voci fra di loro strettamente collegate: - Il valore storico di acquisto delle immobilizzazioni, che viene riportato nell’attivo dello stato patrimoniale; - La quota di ammortamento che rappresenta la quota del costo delle immobilizzazioni spesata su ciascuno degli esercizi in cui l’immobilizzazione viene utilizzata (ad es. impianto da 100.000 euro utilizzato per 5 anni, quota annua di ammortamento è 20.000 euro.) - Il fondo di ammortamento, che rappresenta la sommatoria di tutte le quote di ammortamento spesate fino a un dato momento e che può essere indicato fra le fonti dello stato patrimoniale, oppure con segno meno fra gli impieghi, a rettifica del valore storico delle immobilizzazioni. - La differenza fra valore storico e fondo di ammortamento dà il valore contabile delle immobilizzazioni. Nel caso in cui un’immobilizzazione sia venduta, si genera una plusvalenza (ricavo straordinario) qualora il corrispettivo di vendita fosse superiore al valore contabile e una minusvalenza (costo straordinario) in caso opposto. Per la maggior parte delle voci di bilancio previsionale è in genere comodo inserire prima il valore di conto economico (ricavi, acquisti, costo del lavoro) e poi inserire nello stato patrimoniale i valori a questi correlati (crediti verso clienti, debiti verso fornitori, fondo TFR). Nel caso delle immobilizzazioni conviene partire dallo stato patrimoniale. Il punto di pareggio operativo in volumi Il punto di pareggio operativo è rappresentato dal volume (Q) per il quale i ricavi sono pari ai costi totali di gestione caratteristica, ovvero: Q= Costi fissi / (Ricavi unitari – Costi variabili unitari) Q = Costi fissi / Margine di contribuzione unitario (margine che ogni singola unità venduta lascia per la copertura dei costi fissi e la generazione di un utile operativo) Il punto di pareggio in fatturato = Costi fissi / MDC% MDC% : - se ho ricavi e costi variabili totali: MDC%=MDC tot / Ricavi totali Ricarico (mark-up): ammontare aggiunto al costo variabile per determinare il prezzo di vendita. Applicare un ricarico del 50% significa vendere ad un prezzo superiore del 50% rispetto al costo variabile: se il costo variabile fosse 100, venderei a 150, se fosse 150 venderei a 225 (150 + (150 x 50%) ) oppure, con una formula rapida, prezzo = costo variabile x (1+ % di ricarico) MDC% = % di ricarico / (1 + % di ricarico) Erario conto IVA: è una voce dello stato patrimoniale e si calcola: + Iva sugli acquisti (costi variabili, costi fissi soggetti a iva) + Iva sulle immobilizzazioni acquistate nel periodo -Iva sulle vendite Sono soggetti a IVA tutti i costi che fanno capo a fornitori con partita IVA, con l’esclusione di oneri finanziari e assicurazioni (che non sono soggetti). Sono soggetti a iva tutti i costi tranne costo del lavoro, accantonamento TFR relativo, ammortamenti, oneri finanziari e assicurazioni. Se la somma riportata è <0, tale importo va versato allo stato e rappresenta un debito. Visto che ogni mese l’IVA a debito va versata, se si sta elaborando un bilancio previsionale su base annuale la cifra ottenuta va divisa per 12, in quanto a fine anno 11/12 saranno mediamente già stati versati. Se invece la somma è >0, allora l’erario conto IVA è a credito e va indicato fra gli impieghi. In questo caso la somma ottenuta non va divisa per 12 in quanto lo stato non rimborsa ogni mese e quindi a fine anno l’intera IVA a credito deve ancora essere recuperata. CAPITOLO 7 – IL MODELLO FINANZIARIO E IL BILANCIO PREVISIONALE 7.1 Le previsioni economico-finanziarie nel business plan Arco temporale: in genere l’arco temporale coperto dai bilanci previsionali va dai 3 ai 5 anni. La scelta del periodo di copertura delle previsioni dipende dalla turbolenza del mercato e della tecnologia e dai tempi di messa a punto del progetto. Riguardo a quest’ultimo punto, vale la regola che sarebbe opportuno arrivare oltre la fase di primo sviluppo per dare un’idea della struttura economica del business a regime. Cadenza temporale: nella maggior parte dei casi è sufficiente elaborare i bilanci previsionali su base annuale: tutto sommato l’obiettivo è capire se il progetto è economicamente e finanziariamente sostenibile e comprenderne la struttura economica, mentre stimare che cosa avverrà nei singoli mesi o trimestri non è molto rilevante. L’unico limite di un’elaborazione su base annuale è che non ci consente di valutare eventuali punte di fabbisogno finanziario legate a fenomeni di stagionalità. Significato dei valori patrimoniali previsionali: esiste una differenza molto rilevante fra stati patrimoniali consuntivi e stati patrimoniali preventivi: i primi sono ottenuti dalla contabilità e contengono valori patrimoniali alla data di chiusura del bilancio, mentre i secondi sono ottenuti partendo dalla stima delle singole voci della gestione operativa e contengono valori patrimoniali medi. Se le voci vengono indicate nel bilancio previsionale per il loro valore medio, possiamo dedurre che anche il fabbisogno finanziario che ne deriva sarà il fabbisogno finanziario medio e non il fabbisogno finanziario effettivo a fine anno. Questa specificità dello stato patrimoniale previsionale non rappresenta un problema, ma un vantaggio: è molto più utile conoscere l’ammontare medio del fabbisogno finanziario che l’ammontare del fabbisogno finanziario in un preciso istante, che potrebbe non essere rappresentativo della situazione media. Fra l’altro, è sulla base di questo fabbisogno che calcoleremo l’indebitamento necessario e, correttamente, stimeremo l’ammontare degli oneri finanziari in funzione dell’indebitamento medio. Per le imprese già esistenti, soprattutto in caso di business stagionali, i dati degli stati patrimoniali preventivi non sono direttamente confrontabili con quelli degli stati patrimoniali consuntivi; inoltre, se si analizzano i bilanci consuntivi per ottenere dati da utilizzare in sede previsionale, occorre tener conto della distorsione causata dal fatto che gli stati patrimoniali consuntivi contengono i valori finali. Tornando ai bilanci preventivi, se il business non presenta stagionalità rilevante, e il fabbisogno finanziario reale oscilla, ma non si discosta molto da quello medio, calcolare il solo fabbisogno finanziario medio su base annuale è più che sufficiente. Quando invece il fabbisogno finanziario reale oscilla in modo significativo, è opportuno cercare di valutare, oltre al fabbisogno medio, anche le punte di fabbisogno finanziario, elaborando un budget di cassa mensilizzato. Lo schema di riclassificazione del conto economico previsionale Lo schema di riclassificazione da utilizzare per i conti economici previsionali deve ovviamente essere adattato al tipo di progetto che si vuole valutare. È però opportuno cercare di rispettare le seguenti indicazioni: - Riclassificare le voci per gestioni (gestione tipica, gestione finanziaria attiva e passiva, gestione fiscale) - Eventuali costi e ricavi straordinari devono essere indicati subito prima del reddito ante imposte (reddito di competenza +/- proventi e oneri straordinari = reddito ante imposte) - Utilizzare lo schema a margine di contribuzione (MDC), così da poter facilmente calcolare il punto di pareggio - Creare un gradino fra MDC e costi fissi per la manodopera diretta che tende a comportarsi come un costo variabile all’aumentare dei volumi e come un costo fisso al ridursi dei volumi. Calcolare un margine prima e dopo la manodopera diretta consente di rimandare la scelta se considerarla un coso fisso o variabile al momento del calcolo del punto di pareggio. - Nell’ambito dei costi fissi, tenere sempre distinti i costi di sviluppo - Tenere distinte voci che hanno ricadute diverse su altre voci del bilancio previsionale. (per esempio l’accantonamento TFR non va inglobato nel costo del lavoro perché deve essere accumulato nel Fondo TFR)