Scarica canto adone 1 parafrasi marino e più Dispense in PDF di Diritto Italiano solo su Docsity! CANTO 34-ORLANDO FURIOSO 1 Oh famelice, inique e fiere arpie ch’all’accecata Italia e d’error piena, per punir forse antique colpe rie, in ogni mensa alto giudicio mena! Innocenti fanciulli e madri pie cascan di fame, e veggon ch’una cena di questi mostri rei tutto divora ciò che del viver lor sostegno fòra. 2 Troppo fallò chi le spelonche aperse, che giá molt’anni erano state chiuse; onde il fetore e l’ingordigia emerse, ch’ad ammorbare Italia si diffuse. Il bel vivere allora si summerse; e la quïete in tal modo s’escluse, ch’in guerre, in povertá sempre e in affanni è dopo stata, et è per star molt’anni: 3 fin ch’ella un giorno ai neghitosi figli scuota la chioma, e cacci fuor di Lete, gridando lor: — Non fia chi rassimigli alla virtú di Calai e di Zete? che le mense dal puzzo e dagli artigli liberi, e torni a lor mondizia liete, come essi giá quelle di Fineo, e dopo fe’ il paladin quelle del re etïopo. — [p. 35 modifica] 4 Il paladin col suono orribil venne le brutte arpie cacciando in fuga e in rotta, tanto ch’a piè d’un monte si ritenne, ove esse erano entrate in una grotta. L’orecchie attente allo spiraglio tenne, e l’aria ne sentí percossa e rotta da pianti e d’urli e da lamento eterno: segno evidente quivi esser lo ’nferno. 5 Astolfo si pensò d’entrarvi dentro, e veder quei c’hanno perduto il giorno, e penetrar la terra fin al centro, e le bolgie infernal cercare intorno. — Di che debbo temer (dicea) s’io v’entro, che mi posso aiutar sempre col corno? Farò fuggir Plutone e Satanasso, e ’l can trifauce leverò dal passo. — 6 De l’alato destrier presto discese, e lo lasciò legato a un arbuscello: poi si calò ne l’antro, e prima prese il corno, avendo ogni sua speme in quello. Non andò molto inanzi, che gli offese il naso e gli occhi un fumo oscuro e fello, piú che di pece grave e che di zolfo: non sta d’andar per questo inanzi Astolfo. 7 Ma quanto va piú inanzi, piú s’ingrossa il fumo e la caligine, e gli pare ch’andare inanzi piú troppo non possa; che sará forza a dietro ritornare. Ecco, non sa che sia, vede far mossa da la volta di sopra, come fare il cadavero appeso al vento suole, che molti di sia stato all’acqua e al sole. [p. 36 modifica] 36 Sí poco, e quasi nulla era di luce in quella affumicata e nera strada, che non comprende e non discerne il duce chi questo sia che sí per l’aria vada; e per notizia averne si conduce a dargli uno o duo colpi de la spada. Stima poi ch’uno spirto esser quel debbia; che gli par di ferir sopra la nebbia. 9 Allor senti parlar con voce mesta: — Deh, senza fare altrui danno, giú cala! Pur troppo il negro fumo mi molesta, che dal fuoco infernal qui tutto esala. — Il duca stupefatto allor s’arresta, CANTO 34-ORLANDO FURIOSO 1 Oh famelice, inique e fiere arpie ch’all’accecata Italia e d’error piena, per punir forse antique colpe rie, in ogni mensa alto giudicio mena! Innocenti fanciulli e madri pie cascan di fame, e veggon ch’una cena di questi mostri rei tutto divora ciò che del viver lor sostegno fòra. 2 Troppo fallò chi le spelonche aperse, che giá molt’anni erano state chiuse; onde il fetore e l’ingordigia emerse, ch’ad ammorbare Italia si diffuse. Il bel vivere allora si summerse; e la quïete in tal modo s’escluse, ch’in guerre, in povertá sempre e in affanni è dopo stata, et è per star molt’anni: 3 fin ch’ella un giorno ai neghitosi figli scuota la chioma, e cacci fuor di Lete, gridando lor: — Non fia chi rassimigli alla virtú di Calai e di Zete? che le mense dal puzzo e dagli artigli liberi, e torni a lor mondizia liete, come essi giá quelle di Fineo, e dopo fe’ il paladin quelle del re etïopo. — [p. 35 modifica] 4 Il paladin col suono orribil venne le brutte arpie cacciando in fuga e in rotta, tanto ch’a piè d’un monte si ritenne, ove esse erano entrate in una grotta. L’orecchie attente allo spiraglio tenne, e l’aria ne sentí percossa e rotta da pianti e d’urli e da lamento eterno: segno evidente quivi esser lo ’nferno. 5 Astolfo si pensò d’entrarvi dentro, e veder quei c’hanno perduto il giorno, e penetrar la terra fin al centro, e le bolgie infernal cercare intorno. — Di che debbo temer (dicea) s’io v’entro, che mi posso aiutar sempre col corno? Farò fuggir Plutone e Satanasso, e ’l can trifauce leverò dal passo. — 6 De l’alato destrier presto discese, e lo lasciò legato a un arbuscello: poi si calò ne l’antro, e prima prese il corno, avendo ogni sua speme in quello. Non andò molto inanzi, che gli offese il naso e gli occhi un fumo oscuro e fello, piú che di pece grave e che di zolfo: non sta d’andar per questo inanzi Astolfo. 7 Ma quanto va piú inanzi, piú s’ingrossa il fumo e la caligine, e gli pare ch’andare inanzi piú troppo non possa; che sará forza a dietro ritornare. Ecco, non sa che sia, vede far mossa da la volta di sopra, come fare il cadavero appeso al vento suole, che molti di sia stato all’acqua e al sole. [p. 36 modifica] 36 Sí poco, e quasi nulla era di luce in quella affumicata e nera strada, che non comprende e non discerne il duce chi questo sia che sí per l’aria vada; e per notizia averne si conduce a dargli uno o duo colpi de la spada. Stima poi ch’uno spirto esser quel debbia; che gli par di ferir sopra la nebbia. 9 Allor senti parlar con voce mesta: — Deh, senza fare altrui danno, giú cala! Pur troppo il negro fumo mi molesta, che dal fuoco infernal qui tutto esala. — Il duca stupefatto allor s’arresta, se non quanto volea costui, non spinse. Costui, poi che gli parve i benefici suoi meritarlo, un dí col re si strinse a domandargli in premio de le spoglie tante arrecate, ch’io fossi sua moglie. 19 Fu repulso dal re, ch’in grande stato maritar disegnava la figliuola, non a costui che cavallier privato altro non tien che la virtude sola: e ’l padre mio troppo al guadagno dato, e all’avarizia, d’ogni vizio scuola, tanto apprezza costumi, o virtú ammira, quanto l’asino fa il suon de la lira. [p. 39 modifica] 20 Alceste, il cavallier di ch’io ti parlo (che cosí nome avea), poi che si vede repulso da chi piú gratificarlo era piú debitor, commiato chiede; e lo minaccia, nel partir, di farlo pentir che la figliuola non gli diede. Se n’andò al re d’Armenia, emulo antico del re di Lidia e capital nimico; 21 e tanto stimulò, che lo dispose a pigliar l’arme e far guerra a mio padre. Esso per l’opre sue chiare e famose fu fatto capitan di quelle squadre. Pel re d’Armenia tutte l’altre cose disse ch’acquisteria: sol le leggiadre e belle membra mie volea per frutto de l’opra sua, vinto ch’avesse il tutto. 22 Io non ti potre’ esprimere il gran danno ch’Alceste al padre mio fa in quella guerra. Quattro eserciti rompe, e in men d’un anno lo mena a tal, che non gli lascia terra, fuor ch’un castel ch’alte pendici fanno fortissimo; e lá dentro il re si serra con la famiglia che piú gli era accetta, e col tesor che trar vi puote in fretta. 23 Quivi assedionne Alceste; et in non molto termine a tal disperazion ne trasse, che per buon patto avria mio padre tolto che moglie e serva ancor me gli lasciasse con la metá del regno, s’indi assolto restar d’ogni altro danno si sperasse. Vedersi in breve de l’avanzo privo era ben certo, e poi morir captivo. [p. 40 modifica] 24 Tentar, prima ch’accada, si dispone ogni rimedio che possibil sia; e me, che d’ogni male era cagione, fuor de la ròcca, ov’era Alceste invia. Io vo ad Alceste con intenzione di dargli in preda la persona mia, e pregar che la parte che vuol tolga del regno nostro, e l’ira in pace volga. 25 Come ode Alceste ch’io vo a ritrovarlo, mi viene incontra pallido e tremante: di vinto e di prigione, a riguardarlo, piú che di vincitore, have sembiante. Io che conosco ch’arde, non gli parlo sí come avea giá disegnato inante: vista l’occasïon, fo pensier nuovo conveniente al grado in ch’io lo trovo. 26 A maledir comincio l’amor d’esso, e di sua crudeltá troppo a dolermi, ch’iniquamente abbia mio padre oppresso, e che per forza abbia cercato avermi; che con piú grazia gli saria successo indi a non molti dí, se tener fermi saputo avesse i modi cominciati, ch’al re et a tutti noi si furon grati. 27 E se ben da principio il padre mio gli avea negata la domanda onesta (però che di natura è un poco rio, nè mai si piega alla prima richiesta), farsi per ciò di ben servir restio non doveva egli, e aver l’ira sí presta; anzi, ognor meglio oprando, tener certo venire in breve al desiato merto. [p. 41 modifica] 23 E quando anco mio padre a lui ritroso stato fosse, io l’avrei tanto pregato, ch’avria l’amante mio fatto mio sposo. Pur, se veduto io l’avessi ostinato, avrei fatto tal opra di nascoso, che di me Alceste si saria lodato. Ma poi ch’a lui tentar parve altro modo, 29 E se ben era a lui venuta, mossa da la pietá ch’al mio padre portava, sia certo che non molto fruir possa il piacer ch’al dispetto mio gli dava; ch’era per far di me la terra rossa, tosto ch’io avessi alla sua voglia prava con questa mia persona satisfatto di quel che tutto a forza saria fatto. 30 Queste parole e simili altre usai, poi che potere in lui mi vidi tanto; e ’l piú pentito lo rendei, che mai si trovasse ne l’eremo alcun santo. Mi cadde a’ piedi, e supplicommi assai, che col coltel che si levò da canto (e volea in ogni modo ch’io’l pigliassi) di tanto fallo suo mi vendicassi. 31 Poi ch’io lo trovo tale, io fo disegno la gran vittoria insin al fin seguire: gli do speranza di farlo anco degno che la persona mia potrá fruire, s’emendando il suo error, l’antiquo regno al padre mio fará restituire; gli fo quei tutti ingiuriar, ch’io sento che per lui sono, e a tutti in odio il metto. Egli che non sentia maggior contento che d’ubbidirmi, senza alcun rispetto le mani ai cenni miei sempre avea pronte, senza guardare un piú d’un altro in fronte. 41 Poi che mi fu, per questo mezzo, aviso spento aver del mio padre ogni nimico, e per lui stesso Alceste aver conquiso, che non si avea, per noi, lasciato amico; quel ch’io gli avea con simulato viso celato fin allor, chiaro gli esplico: che grave e capitale odio gli porto, e pur tuttavia cerco che sia morto. 42 Considerando poi, s’io lo facessi, ch’in publica ignominia ne verrei (sapeasi troppo quanto io gli dovessi, e crudel detta sempre ne sarei), mi parve fare assai ch’io gli togliessi di mai venir piú inanzi agli occhi miei. Né veder né parlar mai piú gli volsi, né messo udi’, né lettera ne tolsi. 43 Questa mia ingratitudine gli diede tanto martir, ch’al fin dal dolor vinto, e dopo un lungo domandar mercede, infermo cadde, e ne rimase estinto. Per pena ch’al fallir mio si richiede, or gli occhi ho lacrimosi, e il viso tinto del negro fumo: e cosí avrò in eterno; che nulla redenzione è ne l’inferno. — [p. 45 modifica] 44 Poi che non parla piú Lidia infelice, va il duca per saper s’altri vi stanzi: ma la caligine alta ch’era ultrice de l’opre ingrate, sí gl’ingrossa inanzi, ch’andare un palmo sol piú non gli lice; anzi a forza tornar gli conviene, anzi, perché la vita non gli sia intercetta dal fumo, i passi accelerar con fretta. 45 Il mutar spesso de le piante ha vista di corso, e non di chi passeggia o trotta. Tanto, salendo inverso l’erta, acquista, che vede dove aperta era la grotta; e l’aria, giá caliginosa e trista, dal lume cominciava ad esser rotta. Al fin con molto affanno e grave ambascia esce de l’antro, e dietro il fumo lascia. 46 E perché del tornar la via sia tronca a quelle bestie c’han si ingorde l’epe, raguna sassi, e molti arbori tronca, che v’eran qual d’amomo e qual di pepe; e come può, dinanzi alla spelonca fabrica di sua man quasi una siepe: e gli succede cosí ben quell’opra, che piú l’arpie non torneran di sopra. 47 Il negro fumo de la scura pece, mentre egli fu ne la caverna tetra, non macchiò sol quel ch’apparia, et infece, ma sotto i panni ancora entra e penètra; sí che per trovare acqua andar lo fece cercando un pezzo; e al fin fuor d’una pietra vide una fonte uscir ne la foresta, ne la qual si lavò dal piè alla testa. [p. 46 modifica] 48 Poi monta il volatore, e in aria s’alza per giunger di quel monte in su la cima, che non lontan con la superna balza dal cerchio de la luna esser si stima. Tanto è il desir che di veder lo ’ncalza, ch’al cielo aspira, e la terra non stima. De l’aria piú e piú sempre guadagna, tanto ch’al giogo va de la montagna. 49 Zafir, rubini, oro, topazi e perle, e diamanti e crisoliti e iacinti potriano i fiori assimigliar, che per le liete piaggie v’avea l’aura dipinti: sí verdi l’erbe, che possendo averle qua giú, ne fòran gli smeraldi vinti; né men belle degli arbori le frondi, e di frutti e di fior sempre fecondi. 50 Cantan fra i rami gli augelletti vaghi azzurri e bianchi e verdi e rossi e gialli. Murmuranti ruscelli e cheti laghi di limpidezza vincono i cristalli. Una dolce aura che ti par che vaghi a un modo sempre e dal suo stil non falli, facea sí l’aria tremolar d’intorno, che non potea noiar calor del giorno: 51 e quella ai fiori, ai pomi e alla verzura gli odor diversi depredando giva, e di tutti faceva una mistura che di soavitá l’alma notriva. Surgea un palazzo in mezzo alla pianura, ch’acceso esser parea di fiamma viva: tanto splendore intorno e tanto lume raggiava, fuor d’ogni mortal costume. [p. 47 modifica] 52 Astolfo il suo destrier verso il palagio che piú di trenta miglia intorno aggira, a passo lento fa muovere ad agio, e quinci e quindi il bel paese ammira; e giudica, appo quel, brutto e malvagio, e che sia al cielo et a natura in ira questo ch’abitian noi fetido mondo: tanto è soave quel, chiaro e giocondo. 53 Come egli è presso al luminoso tetto, attonito riman di maraviglia; che tutto d’una gemma è ’l muro schietto, piú che carbonchio lucida e vermiglia. e poi disse: — Figliuol, tu non sai forse che in Francia accada, ancor che tu ne vegne. Sappi che ’l vostro Orlando, perché torse dal camin dritto le commesse insegne, è punito da Dio, che piú s’accende contra chi egli ama piú, quando s’offende. 63 Il vostro Orlando, a cui nascendo diede somma possanza Dio con sommo ardire, e fuor de l’uman uso gli concede che ferro alcun non lo può mai ferire; perché a difesa di sua santa fede cosí voluto l’ha constituire, come Sansone incontra a’ Filistei constituí a difesa degli Ebrei: [p. 50 modifica] 64 renduto ha il vostro Orlando al suo Signore di tanti benefici iniquo merto; che quanto aver piú lo dovea in favore, n’è stato il fedel popul piú deserto. Sí accecato l’avea l’incesto amore d’una pagana, ch’avea giá sofferto due volte e piú venire empio e crudele, per dar la morte al suo cugin fedele. 65 E Dio per questo fa ch’egli va folle, e mostra nudo il ventre, il petto e il fianco; e l’intelletto sí gli offusca e tolle, che non può altrui conoscere, e sé manco. A questa guisa si legge che volle Nabuccodonosor Dio punir anco, che sette anni il mandò di furor pieno, sí che, qual bue, pasceva l’erba e il fieno. 66 Ma perch’assai minor del paladino, che di Nabucco, è stato pur l’eccesso, sol di tre mesi dal voler divino a purgar questo error termine è messo. Né ad altro effetto per tanto camino salir qua su t’ha il Redentor concesso, se non perché da noi modo tu apprenda, come ad Orlando il suo senno si renda. 67 Gli è ver che ti bisogna altro vïaggio far meco, e tutta abbandonar la terra. Nel cerchio de la luna a menar t’aggio, che dei pianeti a noi piú prossima erra, perché la medicina che può saggio rendere Orlando, lá dentro si serra. Come la luna questa notte sia sopra noi giunta, ci porremo in via. — [p. 51 modifica] 68 Di questo e d’altre cose fu diffuso il parlar de l’apostolo quel giorno. Ma poi che ’l sol s’ebbe nel mar rinchiuso, e sopra lor levò la luna il corno, un carro apparecchiòsi, ch’era ad uso d’andar scorrendo per quei cieli intorno: quel giá ne le montagne di Giudea da’ mortali occhi Elia levato avea. 69 Quattro destrier via piú che fiamma rossi al giogo il santo evangelista aggiunse; e poi che con Astolfo rassettossi, e prese il freno, inverso il ciel li punse. Ruotando il carro, per l’aria levossi, e tosto in mezzo il fuoco eterno giunse; che ’l vecchio fe’ miracolosamente, che, mentre lo passar, non era ardente, 70 Tutta la sfera varcano del fuoco, et indi vanno al regno de la luna. Veggon per la piú parte esser quel loco come un acciar che non ha macchia alcuna; e lo trovano uguale, o minor poco di ciò ch’in questo globo si raguna, in questo ultimo globo de la terra, mettendo il mar che la circonda e serra. 71 Quivi ebbe Astolfo doppia maraviglia: che quel paese appresso era sí grande, il quale a un picciol tondo rassimiglia a noi che lo miriam da queste bande; e ch’aguzzar conviengli ambe le ciglia, s’indi la terra e ’l mar ch’intorno spande, discerner vuol; che non avendo luce, l’imagin lor poco alta si conduce. [p. 52 modifica] 72 Altri fiumi, altri laghi, altre campagne sono lá su, che non son qui tra noi; altri piani, altre valli, altre montagne, c’han le cittadi, hanno i castelli suoi, con case de le quai mai le piú magne non vide il paladin prima né poi: e vi sono ampie e solitarie selve, ove le ninfe ognor cacciano belve. 73 Non stette il duca a ricercare il tutto; che lá non era asceso a quello effetto. Da l’apostolo santo fu condutto in un vallon fra due montagne istretto, ove mirabilmente era ridutto ciò che si perde o per nostro diffetto, o per colpa di tempo o di Fortuna: ciò che si perde qui, lá si raguna. 74 Non pur di regni o di ricchezze parlo, in che la ruota instabile lavora; ma di quel ch’in poter di tor, di darlo non ha Fortuna, intender voglio ancora. Molta fama è lá su, che, come tarlo, il tempo al lungo andar qua giú divora: lá su infiniti prieghi e voti stanno, che da noi peccatori a Dio si fanno. 75 Le lacrime e i sospiri degli amanti, l’inutil tempo che si perde a giuoco, e l’ozio lungo d’uomini ignoranti, vani disegni che non han mai loco, E cosí tutte l’altre avean scritto anco il nome di color di chi fu il senno. Del suo gran parte vide il duca franco; ma molto piú maravigliar lo fenno molti ch’egli credea che dramma manco non dovessero averne, e quivi dénno chiara notizia che ne tenean poco; che molta quantitá n’era in quel loco. 85 Altri in amar lo perde, altri in onori, altri in cercar, scorrendo il mar, richezze; altri ne le speranze de’ signori, altri dietro alle magiche sciocchezze; altri in gemme, altri in opre di pittori, et altri in altro che piú d’altro aprezze. Di sofisti e d’astrologhi raccolto, e di poeti ancor ve n’era molto. 86 Astolfo tolse il suo; che gliel concesse lo scrittor de l’oscura Apocalisse. L’ampolla in ch’era al naso sol si messe, e par che quello al luogo suo ne gisse: e che Turpin da indi in qua confesse ch’Astolfo lungo tempo saggio visse; ma ch’uno error che fece poi, fu quello ch’un’altra volta gli levò il cervello. 87 La piú capace e piena ampolla, ov’era Il senno che solea far savio il conte, Astolfo tolle; e non è sí leggiera, come stimò, con l’altre essendo a monte. Prima che ’l paladin da quella sfera piena di luce alle piú basse smonte, menato fu da l’apostolo santo in un palagio ov’era un fiume a canto; [p. 56 modifica] 88 ch’ogni sua stanza avea piena di velli di lin, di seta, di coton, di lana, tinti in varii colori e brutti e belli. Nel primo chiostro una femina cana fila a un aspo traea da tutti quelli, come veggián l’estate la villana traer dai bachi le bagnate spoglie, quando la nuova seta si raccoglie. 89 V’è chi, finito un vello, rimettendo ne viene un altro, e chi ne porta altronde: un’altra de le filze va scegliendo il bel dal brutto che quella confonde. — Che lavor si fa qui, ch’io non l’intendo? — dice a Giovanni Astolfo; e quel risponde: — Le vecchie son le Parche, che con tali stami filano vite a voi mortali. 90 Quanto dura un de’ velli, tanto dura l’umana vita, e non di piú un momento. Qui tien l’occhio e la Morte e la Natura, per saper l’ora ch’un debba esser spento. Sceglier le belle fila ha l’altra cura, perché si tesson poi per ornamento del paradiso; e dei piú brutti stami si fan per li dannati aspri legami. — 91 Di tutti i velli ch’erano giá messi in aspo, e scelti a farne altro lavoro, erano in brevi piastre i nomi impressi, altri di ferro, altri d’argento o d’oro: e poi fatti n’avean cumuli spessi, de’ quali, senza mai farvi ristoro, portarne via non si vedea mai stanco un vecchio, e ritornar sempre per anco. [p. 57 modifica] 92 Era quel vecchio sí espedito e snello, che per correr parea che fosse nato; e da quel monte il lembo del mantello portava pien del nome altrui segnato. Ove n’andava, e perché facea quello, ne l’altro canto vi sará narrato, se d’averne piacer segno farete con quella grata udienza che solete.