Scarica Canto primo dell' Adone di Marino e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! ADONE DI GIAN BATTISTA MARINO CANTO 1 ALLEGORIA Nella sferza di rose e di spine, con cui Venere batte il figlio, si figura la qualità degli amorosi piaceri, non già mai discompagnati da’ dolori. In Amore, che commove prima Apollo, poi Vulcano, e finalmente Nettuno, si dimostra quanto questa fiera passione sia potente per tutto, eziandio negli animi de’ Grandi. In Adone, che con la scorta della Fortuna dal paese d’Arabia sua patria passa all’Isola di Cipro, si significa la gioventù, che sotto il favore della prosperità corre volentieri agli amori. Sotto la persona di Clizio s’intende il Signor Giovan Vincenzo Imperiali, gentiluomo genovese di belle lettere, che questo nome si ha appropriato nelle sue poesie. Nelle lodi della vita pastorale si adombra il Poema dello Stato Rustico, dal medesimo leggiadramente composto. ARGOMENTO Passa in picciol legnetto a Cipro Adone da le spiagge d’Arabia, ov’egli nacque. Amor gli turba intorno i venti e Tacque, Clizio Pastor l’accoglie in sua magione. 1 Io chiamo te, per cui si volge e move la più benigna e mansueta sfera, santa madre d’Amor, figlia di Giove, bella Dea d’Amathunta, e di Cithera; te, la cui stella, ond’ogni grazia piove, de la notte e del giorno è messaggiera; te, lo cui raggio lucido e fecondo serena il Cielo, ed innamora il mondo. 2 Tu dar puoi sola altrui godere in terra di pacifico stato ozio sereno. Per te Giano placato il tempio serra, addolcito il Furor tien l’ire a freno: poi che lo Dio de l’armi e de la guerra spesso suol prigionier languirti in seno, e con armi di gioia e di diletto guerreggia in pace, ed è steccato il letto. 3 Dettami tu del Giovinetto amato le venture e le glorie alte e superbe: qual teco in prima visse, indi qual fato l’estinse e tinse del suo sangue l’erbe. E tu m’insegna del tuo cor piagato a dir le pene dolcemente acerbe, e le dolci querele, e ’l dolce pianto: e tu de’ Cigni tuoi m’impetra il canto. 4 Ma mentr’io tento pur, Diva cortese, d’ordir testura ingiuriosa agli anni, prendendo a dir del foco che t’accese i pria sì grati, e poi sì gravi affanni; Amor con grazie almen pari a l’offese lievi mi presti a sí gran volo i vanni: e con la face sua (s’io ne son degno) dia quant’arsura al cor, luce a l’ingegno. 5 E te, Ch’Adone istesso, o gran Luigi, di beltà vinci, e di splendore abbagli, e seguendo ancor tenero i vestigi del morto Genitor, quasi l’agguagli; per cui suda Vulcano; a cui Parigi convien che palme colga, e statue intagli; prego intanto m’ascolti: e sostien’ch’io intrecci il Giglio tuo col lauro mio. 6 Se movo ad agguagliar l’alto concetto la penna, che per sé tanto non sale, facciol per ottener dal gran suggetto, col favor che mi regge, ed aure, ed ale. Privo di queste, il debile intelletto, ch’ai Ciel degli onor tuoi volar non vale, teme a l’ardor di sì lucente sfera stemprar l’audace e temeraria cera. 7 Ma soffrirò che ’n Ciel vibri i tuoi strali, non perdonando a le beate genti? che sostengan per te strazii sí rei, serpentello orgoglioso, anco gli Dei? 16 Che piú? fin de le stelle il sommo Duce questo malnato di sforzar si vanta: e spesso a stato tale anco il riduce, ch’or in mandra, or in nido, or mugghia, or canta. Un pestifero mostro, orbo di luce, avrá dunque fra noi baldanza tanta? un, che la lingua ancor tinta ha di latte, cotanto ardisce? — E ciò dicendo il batte. 17 Con flagello di rose insieme attorte, ch’avea groppi di spine, ella il percosse, e de’ bei membri, onde si dolse forte, fe’ le vivaci porpore piú rosse. Tremaro i poli, e la stellata Corte a quel fiero vagir tutta si mosse. Mossesi il Ciel, che piú d’Amor infante teme il furor, che di Tifeo Gigante. 18 De la reggia materna il figlio uscito, con quello sdegno allor se n’allontana con cui soffiar per l’arenoso lito calcata suol la Vipera Africana o l’Orso cavernier, quando ferito si scaglia fuor de la sassosa tana e va fremendo per gli orror piú cupi de le valli Lucane, e de le rupi. 19 Sferzato, e pien di dispettosa doglia, fuggí piangendo a la vicina sfera, lá dove cinto di purpurea spoglia (gran Monarca de’ tempi) il Sole impera. E ’n su l’entrar de la dorata soglia stella nunzia del giorno e condottiera Lucifero incontrò, che ’n Oriente apria con chiave d’or l’uscio lucente. 20 E ’l Crepuscolo seco a poco a poco uscito per la lucida contrada sovra un corsier di tenebroso foco spumante il fren d’ambrosia e di rugiada, di fresco giglio e di vivace croco, Forier del bel mattin, spargea la strada, e con sferza di rose e di viole affrettava il camino innanzi al Sole. 21 La bella Luce, che ’n su l’aurea porta aspettava del Sol la prima uscita, era di Citherea ministra e scorta, d’amoroso splendor tutta crinita. Per varcar l’ombre innanzi tempo sorta giá la biga rotante avea spedita, e ’l venir de la Dea stava attendendo, quando il fier pargoletto entrò piangendo. 22 Pianse al pianger d’Amor la mattutina del Re de’ lumi ambasciadrice stella, e di pioggia argentata e cristallina rigò la faccia rugiadosa e bella, onde di vive perle accolte in brina potè l’urna colmar l’Alba novella: l’Alba, che l’asciugò col vel vermiglio l’umido raggio al lagrimoso ciglio. 23 Ricoverato al ricco albergo Amore, trovò che, posto a’ corridori il morso, giá s’era accinto il Principe de l’ore con la verga gemmata al novo corso; e i focosí destrier sbuffando ardore l’altere iube si scotean su ’l dorso: e sdegnosi d’indugio, il pavimento ferian co’ calci, e co’ nitriti il vento. 24 Sta quivi l’Anno sovra l’ali accorto, che sempre il fin col suo principio annoda, e ’n forma d’angue innanellato e torto morde l’estremo a la volubil coda; e qual Anteo, caduto, e poi risorto, cerca nova materia ond’egli roda. V’ha la serie de’ mesi, e i di lucenti, i lunghi e 1 brevi, i fervidi e gli algenti. 25 L’aurea corona, onde scintilla il giorno, del Tempo gli ponean le quattro figlie. Due schiere avea d’alate ancelle intorno, dodici brune, e dodici vermiglie. Mentre accoppiavan queste al carro adorno gli aurati gioghi e le rosate briglie, gli occhi di foco il Sol rivolse, e ’l pianto vide d’Amor, che gli languiva a canto. 26 Era Apollo di Venere nemico, e tenea l’odio ancor nel petto vivo, da che lassú de l’adulterio antico publicò lo spettacolo lascivo, quando accusò del talamo impudico al fabro adusto il predator furtivo, e con vergogna invidiata in Cielo ai suoi dolci legami aperse il velo. 27 Or che gli espone Amor sua grave salma, — E che sciocchi dolor — dice — son questi? Se’ tu colui che litigar la palma in riva di Peneo meco volesti? Tu tu mente del mondo, alma d’ogni alma, vincitor de’ mortali e de’ celesti, or con strale arrotato e face accesa vendicar non ti sai di tanta offesa? 28 ché l’armonia non sol ristora assai qualunque sia piú faticoso incarco, ma molto può co’ numeri sonori ad eccitare ed incitar gli amori. — 37 Pur queste efficacissime parole fòlli, ch’ai folle cor soffiaro orgoglio: ond’irritato abbandonò del Sole senza far motto il lampeggiante soglio; e rumando da l’eterea mole invèr le piagge del materno scoglio, corse col tratto de le penne ardenti, piú che vento leggier, le vie de’ venti. 38 Come prodigiosa acuta stella, armata il volto di scintille e lampi, fende de l’aria, orribil sí, ma bella passaggiera lucente, 1 larghi campi: mira il nocchier da questa riva e quella con qual purpureo piè la nebbia stampi, e con qual penna d’or scriva e disegni le morti ai Regi, e le cadute ai regni: 39 cosí mentre ch’Amor dal Ciel disceso scorrendo va la region piú bassa, con la face impugnata, e l’arco teso, gran traccia di splendor dietro si lassa. D’un solco ardente e d’auree fiamme acceso riga intorno le nubi, ovunque passa, e trae per lunga linea in ogni loco striscia di luce, impression di foco. 40 Su ’l mar si cala, e sí condirá il punge, se stesso aventa impetuoso a piombo. Circonda i lidi quasi mergo, e lunge fa de l’ali stridenti udire il rombo. Né grifagno Falcon quando raggiunge col fiero artiglio il semplice Colombo fassi lieto cosí, com’ei diventa quando il leggiadro Adon gli si presenta. 41 Era Adon ne l’etá che la facella sente d’Amor piú vigorosa e viva, ed avea dispostezza a la novella acerbitá degli anni intempestiva. Né su le rose de la guancia bella alcun germoglio ancor d’oro fioriva; o se pur vi spuntava ombra di pelo, era qual fiore in prato, o stella in cielo. 42 In bionde anella di fin or lucente tutto si torce e si rincrespa il crine. De l’ampia fronte in maestá ridente sotto gli sorge il candido confine. Un dolce minio, un dolce foco ardente sparso tra vivo latte e vive brine gli tinge il viso in quel rossor, che suole prender la rosa in fra l’Aurora e ’l Sole. 43 Ma chi ritrar de l’un e l’altro ciglio può le due stelle lucide serene? Chi de le dolci labra il bel vermiglio, che di vivi tesor son ricche e piene? O qual candor d’avorio, o qual di giglio la gola pareggiar, ch’erge e sostiene, quasi colonna adamantina, accolto un Ciel di meraviglie in quel bel volto? 44 Qualor, feroce e faretrato Arciero, di quadrella pungenti armato e carco affronta, 0 segue, in un leggiadro e fiero, o fere attende fuggitive al varco, e in atto dolce Cacciator guerriero, saettando la morte, incurva l’arco, somiglia in tutto Amor: se non che solo mancano a farlo tale il velo, e ’l volo. 45 Egli tanto tesoro in lui raccolto di Natura e d’Amor par ch’abbia a vile, e cerca del bel ciglio e del bel volto turbar il Sole, inorridir l’Aprile. Ma minacci cruccioso, o vada incolto, esser però non sa, se non gentile; e rustico quantunque, e sdegnosetto, convien pur ch’altrui piaccia a suo dispetto. 46 Or mentre per l’Arabiche foreste, dov’ei nacque e menò l’etá primiera, Torme seguia per quelle macchie e queste d’alcuna vaga e timidetta fera, errore il trasse, o pur destin celeste, da la terra deserta a la costiera, colá dove fa lido a la marina del lembo ultimo suo la Palestina. 47 Giunto a la sacra e gloriosa riva che con boschi di palme illustra Idume, dietro una cerva lieve e fuggitiva stancando il piè, sí com’avea costume, trovò di guardia e di governo priva, ritratta in secco appo le salse spume, da’ pescatori abbandonata, e carca d’ogni arredo marin, picciola barca. 48 Ed ecco varia d’abito e di volto strania Donna venir vede per Tonde, c’ha su la fronte il biondo crine accolto tutto in un globo, e quel ch’è calvo asconde. Vermiglio e bianco il vestimento sciolto con lieve tremolio l’aura confonde. Lubrico è il lembo, e quasi un aèr vano, che sempre a chi lo stringe esce di mano. 49 Zefiri destri al volo, aure vezzose Tali scotean, ma tosto lor fur tronche, il mar cangiossi, il Ciel ruppe la fede. Oh malcauto colui ch’ai venti crede! 58 Oh stolto quanto industre, oh troppo audace fabro primier del temerario legno, ch’osasti la tranquilla antica pace romper del crudo e procelloso regno! Piú ch’aspro scoglio, e piú che mar vorace rigido avesti il cor, fiero l’ingegno, quando sprezzando l’impeto marino gisti a sfidar la morte in fragil pino. 59 Per far una leggiadra sua vendetta Amor fu solo autor di sí gran moto. Amor fu, ch’a pugnar con tanta fretta trasse turbini e nembi, Africo e Noto. Ma de la stanca e misera barchetta fu sempr’egli il Poppiero, egli il Piloto. Fece vela del vel, vento con l’ali, e fur l’arco timon, remi gli strali. 60 Da la madre fuggendo iva il figliuolo quasi bandito e contumace intorno, perché (com’io dicea) vinto dal duolo di fanciullesca stizza arse, e di scorno. Né per che poscia il richiamasse, il volo fermar volse giá mai, né far ritorno; e ’n tal dispetto, in tant’orgoglio salse, che di vezzo o pregar nulla gli calse. 61 Per gli spazii sen giá de l’aria molle scioccheggiando con l’aure Amor volante, e dettava talor rabbioso e folle tragiche rime a piú d’un mesto amante. Talor lungo un ruscello o sovra un colle piegava l’ali, e raccogliea le piante, e dovunque ne giva il superbetto, rubava un core, o trapassava un petto. 62 — Non è questo lo strai possente e fiero ch’ai Rettor de le stelle il fianco offese? per cui piú volte dal celeste impero, l’aureo scettro deposto, in terra scese? quel ch’ai quinto del Ciel Nume guerriero spezzò passò Tadamantino arnese? quel che punse in Thessaglia il biondo Dio, superbo sprezzator del valor mio? 63 Questa la face è pur, cui sola adora (non che la terra e ’l Ciel) Stige e Cocito; che strugger fe’, che fe’ languir talora il Signor de le fiamme incenerito. Quella, da cui non si difese ancora di Theti il freddo ed umido marito; che tra’ gelidi umori infiamma i fonti, tra l’ombre i boschi, e tra le nevi i monti! 64 Ed or costei, da cui con biasmo eterno mill’onte gravi io mi soffersi, e tacqui, perché dee le mie forze aver a scherno, se ben dal ventre suo concetto io nacqui? Dunque andrá da que’ lacci il cor materno libero, a cui (non ch’altri) anch’io soggiacqui? Arse per Marte, è ver; ma questo è poco, lieve piaga fu quella, e debil foco. 65 Altro ardor piú penace, altra ferita vo’ che piú forte al cor senta pur anco. Sí vedrá, ch’ella istessa ha partorita la Vipera crudel che l’apre il fianco! Degg’io sempre onorar chi piú m’irrita? Forse per tema il mio valor vien manco? No no, segua che può. — Cosí dicea l’implacabil fígliuol di Citherea. 66 Mentre che quinci e quindi or basso, or alto vola e rivola il predator fellone, come prima lontan dal verde smalto vede in picciol legnetto il vago Adone, subitamente al disegnato assalto l’armi apparecchia, e l’animo dispone; e tutto inteso a tribular la madre, vassene in Lenno a la magion del padre. 67 Ne la fuliginosa atra fucina, dove il zoppo Yulcan suo genitore de’ Numi eterni i vari arnesi affina tinto di fumo e molle di sudore, entra per fabricar tempra divina d’un aureo strale, imperioso Amore; strai ch’efíicace, e penetrante, e forte possa un petto immortai ferire a morte. 68 Libero l’uscio al cieco Arciero aperse la gran ferriera del divino Artista, parte di giá polite opre diverse parte imperfette ancor, confusa e mista. Colá fan l’armi lampeggianti e terse del celeste Guerrier superba vista. Qui la folgor fiammeggia alata e rossa del gran fulminator d’Olimpo e d’Ossa. 69 V’è di Pallade ancor lo scudo e l’asta, il rastello di Cerere e ’l bidente, l’acuto spiedo di Diana casta, la grossa mazza d’Hercole possente, la falce onde Saturno il tutto guasta, l’arco ond’Apollo uccise il fíer Serpente, di Nettuno il trafiero, e di Plutone con due punte d’acciaio havvi il forcone. 70 e di sua propria man vi sparge sopra de l’umor d’un’ampolla alquanti spruzzi, piena di stille di dogliosi pianti di sfortunati e desperati amanti. 79 Mentr’è caldo il metallo, i tre fratelli ch’un sol occhio hanno in fronte, e son Giganti, con vicende di tuoni i gran martelli movono a grandinar botte pesanti; e ’l dotto mastro al martellar di quelli, che fan tremar le volte arse e fumanti, per dar effetto a quel c’ha nel disegno pon gli stromenti in opera, e l’ingegno. 80 Tosto che ’l ferro è raffreddato, in prima sbozza il suo lavorio rozo ed informe, poi sotto piú sottil minuta lima con industria maggior gli dá le forme. L’arrota intorno, e lo forbisce in cima, applicando al pensier studio conforme. Col foco alfin l’indora, e col mordente, e fa l’acciaio e l’or terso e lucente. 81 Poi che l’egregio artefice a lo strale per tutto il liscio e ’l lustro ha dato a pieno, n’arma il fanciullo un’asticciuola frale ma che trafíge ogni piú duro seno. Gl’impenna il calce di due picciol’ale, e ’l tinge di dolcissimo veleno: e tutto pien d’una superbia stolta pon la caverna e i lavoranti in volta. 82 Va de la Dea che generaro i flutti il baldanzoso e temerario figlio spiando intorno, e i ferramenti tutti de la scola fabril mette in scompiglio. Or de’ Ciclopi mostruosi e brutti la difforme pupilla e ’l vasto ciglio, or il corto tallon del piè paterno prende con risi e con disprezzi a scherno. 83 Veggendo alternamente arsicci e neri pestar ferro con ferro i tre gran mostri, — Troppo son — dice — deboli e leggieri a librar le percosse i polsi vostri! Omai con colpi assai piú forti e fieri questa mano a ferir v’insegni e mostri. Impari ognun da la mia man che spezza qualunque di diamante aspra durezza. 84 Vólto a colui c’ha fabricato il telo, soggiunge poscia: — In questa tua fornace le fiamme son piú gelide che gelo, altro ardor piú cocente ha la mia face! — Tolto indi in mano il fulmine del Cielo, e sciolto il freno a l’insolenza audace, in cotal guisa, mentre il vibra e move, prende le forze a beffeggiar di Giove: 85 — Deh quanto, o Tonator, che da le stelle fai sdegnoso scoppiar le nubi orrende, piú de la tua, ch’a spaventar Babelle dal Ciel con fiero strepito discende, atta sola a domar genti rubelle senza romor la mia saetta offende! Tu de’ monti, io de’ cori abbiam le palme: Cuna fulmina i corpi, e l’altra l’alme. 86 Depon l’arme tonante, e ricercando di qua di lá l’affumigato albergo, trova di Marte il minaccioso brando, il fin brocchier, l’avantaggiato usbergo. — Or la prova vedrem — dice scherzando — s’a difender son buoni il fianco e ’l tergo! — Lo strale in questa uscir da l’arco lassa: falsa lo scudo, e la lorica passa. 87 Di sí fatte follie sorridea seco lo Dio distorto, che ’l mirava intanto. — Tu ridi — disse il faretrato cieco — né sai che l’altrui riso io cangio in pianto! E piú che la fumea di questo speco farti d’angoscia lagrimar mi vanto. — Ciò detto al gran Nettun vola leggiero, che nel mondo de Tacque ha sommo impero. 88 Velocemente a Tenaro sen viene, e Taria scossa al suo volar fiammeggia. Abitator de le piú basse arene quivi ha Nettun la cristallina reggia, che da l’umor, di cui le sponde ha piene, battuta sempre e flagellata ondeggia. Rende dagli antri cavi Eco profonda rauco muggito a lo sferzar de Tonda. 89 A l’arrivo d’Amor da’ cupi fonti sgorga, e crespo di spuma il mar s’imbianca. Quinci e quindi gli estremi in duo gran monti sospende, e in mezo si divide e manca: e scoverti del fondo asciutti i ponti, del gran Palagio i cardini spalanca. Passa ei nel regno ove la madre nacque, patria de’ pesci, e regio n de Tacque. 90 Passa e sen va tra l’una e l’altra roccia quasi per stretta e discoscesa valle. L’onda noi bagna, e ’l mar, non che gli noccia, ritira indietro il piè, volge le spalle. Filano acuto gelo a goccia a goccia ambe le rupi del profondo calle, e tra questo e quell’argine pendente a pena ei scorger può Taria lucente. 91 Di salce il Mincio, l’Adige d’oliva, l’Arno al par del Peneo cinto d’alloro, di pampini il Meandro, e d’edre l’Hebro, e d’auree palme incoronato il Tebro. 100 Vede di verdi pioppe ombrar le corna l’Eridano superbo e trionfale, ch’ove il Rettor del pelago soggiorna vien da l’Alpi a votar l’urna reale; e mercé de’ suoi Duci, il ciglio adorna di splendor glorioso ed immortale: onde quel ch’è nel Ciel, di lume agguaglia, e con fronte di Luna il Sole abbaglia. 101 Poi di grido minor ne vede molti che con rami divisi in varie parti per l’Italia felice errano sciolti del gran padre Appennin concetti e parti. E quai di canna e quai di mirto avolti le tempie, e quai di rosa ornati e sparti, somministran con Tacque in lunga schiera sempiterno alimento a Primavera. 102 Tra questi umil fígliuol del bel Tirreno il mio Sebeto ancor Tacque confonde: picciolo si, ma di delizie pieno, quanto ricco d’onor, povero d’onde. — Giriti intorno il Ciel sempre sereno, né sfiori aspra stagion le belle sponde, né mai la luce del tuo vivo argento turbi con sozzo piè fetido armento. 103 Giacque in te la Sirena, e per te poi sorger Virtute e fiorir Gloria io veggio. Trono di Giove, e di pregiati Eroi felice albergo e fortunato seggio. Dolce mio porto, agli abitanti tuoi, ne’ cui petti ho il mio nido, eterno io deggio. Padre di Cigni, e lor ricovro eletto, e de’ fratelli miei fido ricetto. — 104 Con questi encomii affettuosi Amore del patrio fiume mio le lodi spande, che ’l riconosce al limpido splendore, che fra mill’altri è segnalato e grande, e de’ cedri fioriti al grato odore, di cui s’intesse al crin verdi ghirlande. Intanto ne la gelida caverna, dove siede Nettuno, i passi interna. 103 Seggio di terso orientai cristallo preme de’ flutti il Regnator canuto, che da colonne d’oro e di corallo con basi di diamante è sostenuto. E chi d’una Testudine a cavallo, chi d’un Delfin, chi d’un Vitel cornuto, cento altri Dei minor, Numi vulgari, cedono a lui la monarchia de’ mari. 106 — Non pensar che per ira — Amor gli disse Gran Padre de le cose, a te ne vegna; ché non può Dio di pace amar le risse, e nel petto d’Amore odio non regna. Ma perché novamente il Ciel prefisse impresa a l’arco mio nobile e degna, per render l’opra agevole e spedita di cortese favor ti cheggio aita. 107 Tu vedi lá, dove di Siria siede la spiaggia estrema, che col mar confina, vago fanciul del mio bel regno erede col remo essercitar l’onda marina. Questo, che di bellezza ogni altro eccede, a la mia bella madre il Ciel destina, onde frutto uscir dee di beltá tanta che fia simile in tutto a la sua pianta. 108 Se deriva da te l’origin mia, s’a chi mi generò désti la cuna, se ’l tuo desir, quando d’Amor languia, ottenne unqua da me dolcezza alcuna, acciò ch’io possa per piú facil via condurlo a posseder tanta fortuna, mercé di quanto feci o a far mi resta siami nel regno tuo breve tempesta. 109 Di questa immensa tua liquida slera turbar la bella e placida quiete piacciati tanto sol, ch’innanzi sera venga Adone a cader ne la mia rete. E fia tutto a suo prò, perché non pera sí ricca merce in malsecuro abete, il cui navigio con incerta legge piú ’l timor che ’l timon govern e regge. 110 Sai che quando Ciprigna in novi amori occupata non è, com’ha per uso, usurpando a Minerva i suoi lavori non sa se non trattar la spola o ’l fuso: onde inutil letargo opprime i cori, torpe spento il mio foco, il dardo ottuso, manca il seme a la vita, ed infecondo a rischio va di spopolarsi il mondo. 111. Oltre queste cagion, per cui devrei impetrar qualch’effetto a le mie voci, dee l’util proprio almeno a’ preghi miei far piú le voglie tue pronte e veloci. Ha questi felicissimi imenei corteggiata da mille e mille Proci l’eroe uscirá, che piú d’ogni altra bella fia de le Grazie l’ultima sorella. 112 In novo stile, in disusata foggia l’augello il nuoto impara, il volo il pesce. Oppongosi elementi ad elementi, nubi a nubi, acque ad acque, e venti a venti. 121 Potè, tant’alto quasi il flutto sorse, la sua sete ammorzar la Cagna estiva; e di nova tempesta a rischio corse, non ben secura in Ciel, la nave Argiva. E voi fuor d’ogni legge, o gelid’Orse, malgrado ancor de la gelosa Diva, nel mar vietato i luminosi velli lavaste pur de le stellate pelli. 122 Deh che farai dal patrio suol lontano misero Adone, a navigar mal atto? Vaghezza piieril tanto pian piano il malguidato palischelmo ha tratto, che la terra natia sospiri invano dal gran rischio confuso e sovrafatto. Tardi ti penti, e sbigottito e smorto ornai cominci a desperar del porto. 123 Giá giá convien che ’l timido Nocchiero a l’arbitrio del caso s’abbandoni. Fremono per lo ciel torbido e nero fra baleni ondeggianti i rauchi tuoni. E tuona anch’egli il Re de Tacque altero, ch’a suon d’Austri soffianti e d’Aquiloni col fulmine dentato (emulo a Giove) tormentando la terra, il mar commove. 124 Corre la navicella, e ratta e lieve la corrente del mar seco la porta. Piega Torlo talvolta, e Tonda beve, assai vicina a rimanerne absorta. Piú pallido e piú gelido che neve volgesi Adon, né scorge piú la scorta: e di morte sí vasta il fiero aspetto confonde gli occhi suoi, spaventa il petto. 125 Ma mentre privo di terreno aiuto l’agitato battei vacilla ed erra, ambo i fianchi sdruscito, e combattuto da quell’ondosa e tempestosa guerra, quando il fanciul piú si tenea perduto, ecco rapidamente approda in terra, e tra giunchi palustri in su l’arena vomitato da Tacque, il corso affrena. 126 Oltre l’Egeo, lá donde spunta in prima il pianeta maggior, che ’l dí rimena, sotto benigno e temperato clima stende le falde un’Isoletta amena. Quindi il superbo Tauro erge la cima, quinci il famoso Nil fende l’arena. Ha Rhodo incontro, e di Soria vicini e di Cilicia i fertili confini. 127 Questa è la terra ch’a la Dea che nacque da Tonde con miracolo novello, tanto fu cara un tempo, e tanto piacque, che disprezzato il suo divino ostello, qui sovente godea fra l’ombre e Tacque con invidia de l’altro un Ciel piú bello; e v’ebbe eretto a l’immortale essempio fle la sua diva imago altare e tempio. 128 Scende quivi il Garzon salvo a l’asciutto, ma pur dubbioso, e di suo stato incerto, ch’ancor gli par de l’orgoglioso flutto veder l’Abisso orribilmente aperto. Yolgesi intorno, e scorge esser per tutto circondato dal mar bosco e deserto. Ma quella solitudine che vede, gioconda è si, ch’altro piacer non chiede. 129 Quivi si spiega in un sereno eterno l’aria in ogni stagion tepida e pura, cui nel piú fosco e piú cruccioso verno pioggia non turba mai, né turbo oscura; ma prendendo di par l’ingiurie a scherno del gelo estremo, e de l’estrema arsura, lieto vi ride, né mai varia stile, un sempreverde e giovinetto Aprile. 130 I discordi animali in pace accoppia Amor, né l’un da l’altro offeso geme. Va con l’Aquila il Cigno in una coppia, va col Falcon la Tortorella insieme. Né de la Volpe insidiosa e doppia il semplicetto Pollo inganno teme. Fede a l’amica Agnella il lupo osserva, e secura col Veltro erra la Cerva. 131 Da’ molli campi, i cui bennati fiori nutre di puro umor vena vivace, dolce confus’ion di mille odori sparge e ’nvola volando aura predace: aura, che non pur lá con lievi errori suol tra’ rami scherzar, spirto fugace, ma per gran tratto d’acque anco da Junge peregrinando i naviganti aggiunge. 132 Va oltre Adone, e Filomena e Progne garrir ode per tutto, ovunque vanne, c di stridule pive e rauche brogne sonar foreste e risonar cappanne, di villane sordine e di sampogne, di boscherecci zuffoli e di canne, e con alterno suon da tutti i lati doppiar muggiti, e replicar baiati. 133 non potea piú conforme a sí bel velo terra trovarsi, o regione alcuna. Certo con lei, che con Amor qui regna, sol di regnar tanta bellezza è degna. 142 L’Isola, dove sei, Cipro s’appella, che del mar di Panfilia in mezo è posta. La gran reggia d’Amor (vedila) è quella, ch’io lá t’addito invèr la destra costa. Xé (se non quanto il vuol la Dea piú bella) colá giá mai profano piè s’accosta. Scender di Ciel qui spesso ella ha per uso, in altro tempo il ricco albergo è chiuso. 143 Y’ha poi templi ed altari, havvi Amor seco simulacri, olocausti, e sacerdoti, dove in segno d’onor, del popol greco pendono affissi in lunga serie i voti. Offrono al Nume faretrato e cieco vittime elette i supplici devoti, e gli spargono ognor tra roghi e lumi di ghirlande e d’incensi odori e fumi. 144 Qui per elezzlon, non per ventura giá di Liguria ad abitar venn’io. Pasco per l’odorifera verdura i bianchi armenti, e Clizio è il nome mio. Del suo bel Parco la custodia in cura diemmi la madre de l’alato Dio, dov’entrar, fuor ch’a Venere, non lice, ed a la Dea selvaggia e cacciatrice. 143 Trovato ho in queste selve ai flutti amari d’ogni umano travaglio il vero porto. Qui da le guerre de’ civili affari quasi in securo Asilo, il Ciel m’ha scòrto. Serici drappi non mi fur sí cari come l’arnese ruvido ch’io porto; ed amo meglio le spelonche e i prati, che le logge marmoree, e i palchi aurati. 146 Oh quanto qui piú volentieri ascolto i sussurri de Tacque, e de le fronde, che quei del foro strepitoso e stolto, che ’l fremito vulgar rauco confonde! Un’erba, un pomo, e di Fortuna un volto quanto piú di quiete in sé nasconde di quel ch’avaro Principe dispensa sudato pane in malcondita mensa! 147 Questa felice e semplicetta gente, che qui meco si spazia e si trastulla, gode quel ben, che tenero e nascente ebbe a goder sí poco il mondo in culla: lecita libertá, vita innocente, appo ’l cui basso stato il regio è nulla, ché sprezzare i tesor, né curar l’oro, questo è secolo d’or, questo è tesoro. 148 Non cibo o pasto prezioso e lauto il mio povero desco orna e compone. Or Damma errante, or Cavriuolo incauto l’empie, or frutto maturo in sua stagione. Detto talora a suon d’avena o flauto ai discepoli boschi umil canzone. Serva no, ma compagna amo la greggia; questa mandra malculta è la mia reggia. 149 Lunge da’ tasti ambiziosi e vani m’è scettro il mio baston, porpora il vello, ambrosia il latte, a cui le proprie mani scusano coppa, e nèttare il ruscello. Son ministri i bifolci, amici i Cani, sergente il Toro e cortigian l’Agnello, musici gli augelletti e l’aure e Tonde, piume l’erbette, e padiglion le fronde. 150 Cede a quest’ombre ogni piú chiara luce, ai lor silenzii i piú canori accenti. Ostro qui non fiammeggia, òr non riluce, di cui sangue e pallor son gli ornamenti. Se non bastano i fior, che ’l suol produce, di piú bell’ostro e piú bell’or lucenti, con sereno splendor spiegar vi suole pompe d’ostro l’Aurora, e d’oro il Sole. 151 Altro mormorator non è che s’oda qui mormorar, che ’l mormorio del rivo. Adulator non mi lusinga o loda, fuor che lo specchio suo limpido e vivo. Livida Invidia, ch’altrui strugga e roda, loco non v’ha, poi ch’ogni cor n’è schivo, se non sol quanto in questi rami e ’n quelli gareggiano tra lor gli emuli augelli. 152 Hanno colá tra mille insidie in Corte Tradimento e Calunnia albergo e sede, dal cui morso crudel trafitta a morte è l’innocenza, e lacera la fede. Qui non regna perfidia, e se per sorte picciol’ape talor ti punge e fiede, fiede senza veleno, e le ferite con usure di mèl son risarcite. 153 Non sugge qui crudo Tiranno il sangue, ma discreto Bifolco il latte coglie. Non mano avara al poverello essangue la pelle scarna, o le sostanze toglie. Solo a l’agnel, che non però ne langue, liavvi chi tonde le lanose spoglie. Punge stimulo acuto il fianco a’ buoi, non desire immodesto il petto a noi. 154 recar copia di cibi, a cui la molta fame accrebbe sapore e condimento. Mèi di diletto, e nettare d’Amore, soave al gusto, e velenoso al core. 163 Né mai di Loto abominabil frutto di secreta possanza ebbe cotanto, né fu giá mai con tal virtú costrutto di bevanda Circea magico incanto, che non perdesse e non cedesse in tutto al pasto del Pastor la forza e ’l vanto. Licore insidioso, ésca fallace, dolce velen, ch’uccide, e non dispiace. 164 Nel Giardin del Piacer le poma colse Clizio amoroso, e quindi il vano espresse, ond’ebro in seno il Giovinetto accolse fiamme sottili, indi s’accese in esse. Non però le conobbe, e non si dolse, ché fin ch’uopo non fu, giacquer suppresse, qual serpe ascosa in agghiacciata falda, che non prende vigor, se non si scalda. 165 Sente un novo desir ch’ai cor gli scende, e serpendo gli va per entro il petto. Ama, né sa d’amar, né ben intende quel suo dolce d’Amor non noto affetto. Ben crede e vuole amar, ma non comprende qual esser deggia poi l’amato oggetto; e pria si sente incenerito il core, che s’accorga il suo male essere Amore. 166 Amor, ch’alzò la vela e mosse i remi quando pria tragittollo al bel paese, va sotto l’ali fomentando i semi de la fiamma, ch’ancor non è palese. Fa su la mensa intanto addur gli estremi de la vivanda il Contadin cortese. Adon solve il digiuno, e i vasi liba, e quei segue il parlar, mentr’ei si ciba. 167 — Signor, tu vedi il Sol, ch’aventa i rai di mezo l’arco onde saetta il giorno: però qui riposar meco potrai tanto che ’l novo di faccia ritorno. Ben da sincero cor (prometto) avrai in albergo villan lieto soggiorno; avrai con parca mensa e rozo letto accoglienze cortesi, e puro affetto. 168 Tosto che sussurrar tra ’l mirto e ’l faggio io sentirò l’auretta mattutina, teco risorgerò, per far passaggio a la casa d’Amor, ch’è qui vicina. Tu poi quindi prendendo altro viaggio, potrai forse saldar l’alta ruina, conosciuto che sii l’unico e vero successor de la reggia, e de l’impero. — 169 Ben che non tema il folgorar del Sole tra fatiche e disagi Adon nutrito, di quell’Oste gentil non però vole sprezzar l’offerta, o ricusar l’invito. Risposto al grato dir grate parole, quivi di dimorar prende partito; e ringrazia il destin, che lasso e rotto a sí cara magion l’abbia condotto. 170 Sceso intanto nel mar Febo a corcarsi lasciò le piagge scolorite e meste, e pascendo i destrier fumanti ed arsi nel presepe del Ciel biada celeste, di sudore e di foco umidi e sparsi nel vicino Ocean lavár le teste: e l’un e l’altro Sol stanco si giacque, Adon tra’ fiori, Apollo in grembo a Tacque.