Scarica Capire la grammatica e più Sintesi del corso in PDF di Linguistica solo su Docsity! Capire la grammatica. Il contributo della linguistica. 1. Le alterne vicende della grammatica tradizionale Una concezione strettamente normativa ispira tutte le grammatiche del volgare, poi detto “italiano”, a partire dal Quattrocento e destinate prima ai dotti che desideravano scrivere con ricercatezza e in seguito, dal tardo Settecento, a un insegnamento scolastico. La presenza della grammatica è una costante nei programmi scolastici dall’Unità in poi. La conoscenza della lingua italiana era un elemento portante del programma “fare gli italiani”, in un paese appena formato e con la maggioranza della popolazione analfabeta. Fin dai programmi del 1860 elementi di grammatica sono prescritti a partire dalla seconda elementare. Compare già in quel testo, accanto all’idea che la grammatica sia necessaria, la preoccupazione che il suo insegnamento non sia troppo esteso e sproporzionato all’età degli alunni. Si vuole evitare che <<nasca nella mente del ragazzo il concetto di una grammatica astratta, sistematica e definitiva raccolta di regole, fine a sé stessa>>. Indicazioni più precise di contenuto, tuttavia, si trovano solo nel più recente programma per la scuola elementare (1985) e nelle Indicazioni nazionali. L’idea di grammatica come corpus compatto di definizioni e concetti che si era formato nei secoli venne messa bruscamente in crisi negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, dall’irruzione nella cultura italiana della linguistica moderna. I manuali di grammatica correnti nelle scuole furono oggetto di critiche durissime: riguardavano le definizioni nozionali delle categorie lessicali, la confusione di questi criteri con quelli sintattici, e le categorie dell’analisi logica (soggetto come “colui che compie l’azione”, la lista sterminata di complementi). Inoltre, le critiche erano rivolte ai limiti della grammatica (morfologia e sintassi), che ignora la riflessione sul lessico, sulla costituzione dei testi, sulla variabilità sociolinguistica. Veniva insomma criticata l’analisi della frase dichiarativa fuori contesto, costruita su un modello della lingua scritta e stereotipata, avulsa dagli usi comunicativi reali. La conclusione più drastica si trova nelle Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica redatte nel 1975 da Tullio De Mauro e adottate come testo fondativo dal GISCEL (Gruppo di intervento e studio nel campo dell’educazione linguistica). Dalla sentenza di inutilità e nocività della grammatica tradizionale contenuta in questo testo, si potrebbe ricavare l’idea di abolire del tutto l’insegnamento grammaticale. In realtà, nessuno, tra i protagonisti del dibattito, arrivò a una proposta così radicale. Più presente fu l’ipotesi che la riflessione sulla lingua fosse da riservare ai livelli superiori dell’istruzione, dato il suo carattere altamente concettuale. Nei fatti però la grammatica non fu cancellata dai programmi per la scuola elementari. Ci furono proposte di libri di testo per la scuola aggiornati sui più recenti studi di linguistica, a partire dagli anni 70. Si trattava di una sorta di “grammatica allargata” comprendente considerazioni sulla variabilità linguistica storica, geografica, sociale, a volte anche considerazioni di linguistica generale e prospettive pragmatiche e testuali. C’erano proposte tra loro inconciliabili e frammentarie, il che provocò insieme ad altri fattori il “ritorno alla grammatica”. Le rigidità sul piano normativo appaiono non tanto nei libri di testo, quanto nella pratica di molti insegnanti: persistono “regole” inventate e forse mai scritte, e la grammatica finisce per sgretolarsi in una serie di “si dice” e “non si dice”, sganciati da una visione sistematica del funzionamento della lingua. Grammatica deriva dalla parola greca gramma, che significa ‘lettera’: agli inizi della cultura greca, il “grammatico” è colui che sa leggere e scrivere, e colui che scrive per gli analfabeti e anche colui che insegna a scrivere. La grammatica sin dall’inizio è una disciplina pratica e normativa. A partire dal III sec. a.C., “grammatico” assume un senso più simile a quello di “filologo”: è riferito a quel gruppo di studiosi che ad Alessandria di Egitto si preoccupa di ricostruire i testi dei poemi omerici. Per questa operazione era necessario disporre di criteri definiti per stabilire cosa è un verbo e cosa è un nome, dunque bisognava costruire una grammatica. Infatti, il primo trattato di grammatica (datato circa al 100 a.C.) è attribuito a un grammatico alessandrino, Dionisio Trace: la Técne grammatiké, un breve testo in cui si presenta una suddivisione delle parole in classi in buona parte adottata ancora oggi. Dionisio enumera otto parti del discorso: nome, verbo, participio (unica classe non più utilizzata, considerata come modo verbale non finito), articolo, pronome, preposizione, avverbio, congiunzione. Rispetto al nostro elenco mancano aggettivo e interiezione, il primo considerato da Dionisio sottoclasse del nome, la seconda come sottoclasse degli avverbi. Come nascono, invece, i concetti di soggetto e predicato? Dobbiamo ricordare, anzitutto, che il termine logos, tra i suoi molteplici significati in greco antico, ha anche quello di ‘frase’, utilizzato in questo senso forse per la prima volta da Platone e Aristotele. Il primo e più semplice logos è formato per loro da ònoma e rhema (che in Dioniso sono il nome e il verbo, dunque classi di parole), che corrispondono a soggetto e predicato, ossia funzioni sintattiche. La distinzione tra analisi logica e grammaticale è estranea a questi autori: sarà introdotta solo a partire dal Settecento. Una parte consistente della grammatica tradizionale risale all’opera dei grammatici alessandrini. Basta leggere le definizioni di nome e verbo di Dionisio: Il nome è una parte del discorso dotata di caso, che indica un oggetto corporeo o incorporeo. Il verbo è una parola priva di caso, ma che contiene tempi, persone e numeri, e descrive un agire e un patire. Il trattato di Apollonio Discolo (II secolo d.C.) Sulla sintassi (sintassi in greco significa disposizione, organizzazione) esamina quelle “disposizioni di parole” che sono ammissibili in greco. Apollonio era mosso da preoccupazioni pratiche: dopo la conquista di Alessandro Magno, il greco si era diffuso in tutto l’Oriente mediterraneo, bisognava stabilirne la forma “corretta” per le popolazioni non greche. I latini ripresero il sistema dei grammatici alessandrini, cioè l’elenco di otto parti del discorso. L’articolo, assente in latino, fu sostituito con l’interiezione. Prisciano (V-VI sec. d.C.) visse a Costantinopoli in un momento in cui il latino stava scomparendo dall’Impero romano d’Oriente, ma veniva utilizzato nei documenti ufficiali. Le Institutiones Grammaticae di questo grammatico rappresentavano, come si direbbe oggi, “la grammatica di riferimento” del latino. L’Ars minor di Donato (IV secolo d.C.) è un elenco delle parti del discorso e delle loro definizioni, spesso identiche a quelle di Dionisio Trace: esso è un tratto semplice e lineare e costituì il modello di grammatica scolastica per molti secoli. Le nozioni di soggetto e predicato entrano a far parte della tradizione grammaticale occidentale a opera di un filosofo, Severino Boezio (V-VI secolo d.C.), che introduce i termini latini subiectum e praedicatum. Le definizioni sono date in un commento del trattato di Aristotele, noto come De Interpretatione. Boezio non distingue l’analisi grammaticale da quella logica, ossia nome da soggetto e verbo da predicato. Le due entità sono definite in base all’ordine delle parole (il soggetto viene prima del predicato) e l’estensione dei termini coinvolti (il nome Socrate si riferisce a un solo individuo, mentre il predicato disputa può applicarsi a molti individui). Anche se non c’è traccia della nozione di frase dipendente, si distingue qui la frase semplice dalla frase complessa. Dal momento in cui Boezio viene riscoperto, dopo il mille, le nozioni di soggetto e predicato ricorrono con regolarità. La grammatica speculativa (filosofica) cominciò a entrare in crisi nel XV secolo, con l’avvento dell’Umanesimo. Dotti come Lorenzo Valla non nascondono il loro fastidio dei grammatici medievali che, da un lato, si perdono in astruserie filosofiche, e dall’altro, utilizzano un latino “barbaro”, ben diverso da quello degli scrittori dell’antica Roma (es. Cicerone). Gli umanisti propongono un ritorno al latino classico, saltando l’inutile grammatica medievale. Pochi decenni dopo, però, si avverte l’esigenza di scrivere grammatiche delle lingue “volgari”, soprattutto perché cominciano a costituirsi gli Stati nazionali, che hanno come fattore di identificazione proprio la lingua. Ancora una volta le grammatiche nascono da un’esigenza normativa, come era accaduto per il greco e il latino nell’antichità. La prima grammatica italiana può essere attribuita a Leon Battista Alberti, ma essa rimase allo stadio di manoscritto e non ebbe dunque influssi sulla tradizione successiva. Un influsso enorme invece ebbero le Prose della volgar lingua, di Pietro Bembo. Le categorie grammaticali utilizzate non differiscono molto da quelle di Prisciano e mancano ancora nozioni come quelle di soggetto e predicato e quella di frase dipendente. La situazione cambia radicalmente verso la metà del Seicento, con la Grammatica di Port-Royal di Arnould e Lancelot (1660). Quest’opera ha come idea di fondo che dietro la diversità e la molteplicità delle lingue, c’è la ragione umana universale, mediante la quale si possono spiegare in modo adeguato le strutture delle lingue stesse. Nella Grammatica troviamo l’analisi della frase, chiamata proposizione, come costituita necessariamente da due termini: uno è ciò di cui si afferma, il soggetto, mentre l’altro è ciò che si afferma, il predicato, oltre al legame tra questi due termini, il verbo essere. Le parti del discorso rimangono quelle tradizionali. Si introduce il concetto di frase dipendente, dunque si compiono i primi passi di ciò che verrà chiamata poi “analisi del periodo”. Non si usano ancora questi termini, ma nella proposizione complessa vengono individuate altre frasi contenute dal soggetto o dal predicato. Sono dati esempi di frasi che oggi chiameremmo “relative” e che vengono qui definite come “proposizioni incidenti”. Gli autori di Port-Royal introducono anche una distinzione tra due tipi di pronomi relativi: esplicativo e determinativo immediati”. Un costituente è un componente di una forma complessa ed è immediato quando non fa parte di un altro costituente. Classico esempio di Bloomfield: frase Poor John ran away, i suoi costituenti immediati sono Poor John e run away; i costituenti immediati di Poor John sono poor e John, quelli di run away sono run e away; infine i costituenti immediati di away sono a- e way. Quest’analisi mostra la struttura non solo lineare, ma gerarchica della frase. Harris definì la “trasformazione” come relazione equivalente tra frasi, consistente in una corrispondenza sistematica di morfemi. Le relazioni possono essere espresse mediante regole che rappresentano le varie trasformazioni: passiva, interrogativa, quella che introduce una frase subordinata in una frase principale, ecc. Alla “grammatica trasformazionale” di Harris si affiancarono poi gli studi di un suo allievo, Noam Chomsky, che sviluppò la sua teoria, chiamata grammatica generativa, in modo diverso e molto più astratto. Egli infatti analizza il rapporto tra struttura superficiale e struttura profonda: ad esempio, le frasi attive e passive corrispondenti avrebbero la stessa struttura profonda, ma diverse strutture superficiali. La grammatica generativa elabora una serie di regole formali ed esplicite in grado di produrre un numero infinito di frasi; è lo strumento formale che rende conto delle capacità illimitate dei parlanti di una lingua (ad es. riconoscere le frasi grammaticali da quelle agrammaticali, nel senso che appaiono ben formate o malformate al parlante nativo). Secondo Chomsky, questo meccanismo formale corrisponde a qualcosa di esistente nella mente dei parlanti; inoltre si sarebbe sviluppato in ogni individuo grazie a una dotazione genetica innata e specifica della specie umana. Si intende chiaramente la capacità innata di acquisire una lingua e non che sia innata una determinata lingua; una capacità che abbiamo fino all’adolescenza: dopo di che delle altre lingue non avremo mai la stessa padronanza. 2.2 Oggetto, scopi e metodi della linguistica Un altro risultato della linguistica è quello di aver dimostrato che non esiste, dal punto di vista linguistico, alcuna differenza tra lingua e dialetto. Max Weinreich definì la lingua come <<un dialetto con un esercito e una marina>>: una definizione scherzosa, ma che coglie nel segno, ossia mette in luce il fatto che le differenze non sono linguistiche, ma storiche e politiche. Saussure fu il primo a distinguere anche “lingua” e “linguaggio”. La lingua (ossia la langue) è l’aspetto sociale del linguaggio che si oppone a quello individuale, la parole; la lingua è un oggetto definibile e individuabile, mentre il linguaggio è un insieme <<multiforme ed eteroclito>>. Per linguaggio si intende la capacità, comune a tutti gli esseri umani, di acquisire e di parlare una qualsiasi lingua; per lingua si intende un sistema di comunicazione spazialmente e temporalmente definito. Un concetto comune a tutte le scuole di linguistica moderna è quello di “livello di analisi”, che indica i diversi aspetti da riconoscere nel funzionamento di tutte le lingue umane e quindi, presumibilmente, del linguaggio umano in generale: la fonologia, la morfologia, la sintassi, la semantica e la pragmatica. La fonologia riguarda lo studio dei suoni e dei fonemi del linguaggio e delle loro combinazioni. Questo livello non ha relazioni immediate con la grammatica. La morfologia è lo studio dei morfemi, ossia delle unità minime dotate di suono e significato e delle loro combinazioni in parole. Vi sono parole “semplici” e parole “complesse”, che a loro volta si distinguono in “derivate” e “composte”. La sintassi riguarda la combinazione delle parole, che si raggruppano in costituenti. La semantica riguarda il rapporto tra le espressioni del linguaggio e i loro significati. La nozione di significato è molto difficile da definire, anche se afferrabile dal punto di vista intuitivo. Ci sono parole “omonime”, ossia uguali ma con diversi significati (sale come sostanza usata per il cibo, come terza pers.sing. del verbo salire e come plurale del nome sala), e “polisemiche” ossia una sola parola con significati diversi che hanno una qualche relazione (es. mano come arto, oppure turno di gioco, o strato di vernice; nelle ultime due l’arto è coinvolto nelle azioni). Il fatto che contesti d’uso diversi possono assegnare diversi significati a frasi identiche è un esempio della dimensione pragmatica delle lingue naturali: con pragmatica si intende l’uso delle espressioni linguistiche da parte dei parlanti. Oltre a variare nel tempo (“variazione diacronica”), la lingua può variare nello spazio: l’italiano presenta “varietà regionali”. In questo caso si parla di “variazione diatopica”. Un altro tipo è quella “diastratica”, cioè legata ai diversi strati sociali. La variazione “diamesica” è quella dovuta al tipo di mezzo di comunicazione utilizzato, in primo luogo lo scritto oppure il parlato. La variazione “diafasica”, infine, riguarda il tipo di registro utilizzato, che può variare dal meno al più informale. In conclusione, possiamo affermare che la variazione caratterizza la lingua in modo essenziale. 2.3 Linguistica moderna: alcuni concetti grammaticali Premessa: mentre la grammatica tradizionale è un sistema sostanzialmente condiviso, la linguistica moderna è frammentata in tante correnti molto differenziate e spesso in aspra polemica le une con le altre. Esiste però un insieme di nozioni che sono di fatto condivise. L’uso di lui e lei come soggetto era severamente sanzionato dalle grammatiche scolastiche, che seguivano la condanna di Pietro Bembo. L’opposizione grammaticale e agrammaticale non ha una base normativa, ma si fonda sull’intuizione dei parlanti. Potremmo dire che le forme giudicate “corrette” dalla grammatica normativa di una determinata lingua sono un sottoinsieme di quelle che i parlanti riconoscono intuitivamente come grammaticali, ossia ben formate. Ad esempio, a me mi è grammaticale, ma scorretta. Non si suggerisce che ogni cosa può andar bene, ma che si devono considerare la varietà dei registri e soprattutto non giustificare le scelte normative su basi di pretesa “logica”. L’opposizione tra categorie grammaticali e nozionali risale a Jespersen, un linguista danese. Ad esempio, il tempo come categoria grammaticale si distingue dal tempo come categoria nozionale: il tempo passato in inglese esprime diversi tempi cronologici, come l’irrealtà nel presente, un “presente spostato” e qualunque momento del tempo. La distinzione è esplicita in diverse lingue: in inglese, il tempo grammaticale è chiamato tense e quello cronologico time. Lo stesso avviene con il genere grammaticale e la categoria nozionale del sesso: spesso non corrispondono e talvolta sono del tutto arbitrarie, come nel caso degli oggetti inanimati. Così anche per numero (grammaticale) e quantità (nozionale): l’italiano distingue singolare e plurale, mentre altre lingue aggiungono il duale. La relazione tra i due tipi di categorie nelle varie lingue è un ottimo esempio di ciò che Saussure chiamava “arbitrarietà del segno linguistico”. Valenza verbale - L’obbligatorietà degli argomenti, rispetto alla facoltatività dei circostanziali, è mostrata dal fatto che senza uno di essi la frase è agrammaticale. Ad esempio: Quel giorno, Eva diede una mela ad Adamo nel giardino delle delizie *Eva diede una mela nel giardino delle delizie. Mentre i circostanzialiEva diede una mela nel giardino delle delizie. Mentre i circostanziali possono essere sottratti e la frase rimarrebbe grammaticale. Esempio: Quel giorno, Eva diede una mela ad Adamo nel giardino delle delizie Eva diede una mela ad Adamo. I circostanziali si distinguono dagli argomenti anche per la possibilità di ricorrere in posizioni diverse all’interno della frase senza mutarne il significato. Esempio: Eva diede una mela ad Adamo nel giardino delle delizie, quel giorno (stesso significato di prima); Quel giorno, Adamo diede una mela ad Eva nel giardino delle delizie (diverso significato). uestione. In sintesi, distinguiamo tre diversi valori del termine parola: come occorrenza, come forma, come lessema (o lemma, forma di citazione). 3. Frase, periodo, testo 3.1 Definizioni tradizionali Ci sono oltre duecento definizioni di frase proposte nel corso dei secoli, anche se non tutte sono realmente diverse l’una dall’altra. Possiamo ridurle ad alcuni tipi fondamentali. Tre di queste sono quelle usate più di frequente dalle grammatiche scolastiche dell’italiano: - La frase è “l’espressione di senso compiuto”; - La frase è “l’espressione di un giudizio”; - La frase è “la struttura grammaticale che contiene obbligatoriamente un verbo di modo finito”. La prima è la più antica e risale al grammatico latino Prisciano, che definisce la frase come una <<combinazione coerente di parole che esprime un senso compiuto>>. Anzitutto esistono frasi che non esprimono un senso compiuto, cioè le frasi dipendenti; una definizione del genere è oggi irrimediabilmente limitativa. Inoltre, esistono espressioni di senso compiuto che non sono combinazioni coerenti di parole, come gli imperativi, i vocativi e le interiezioni. La seconda definizione risale alla grammatica di Port-Royal. Questa si applica solo alle frasi dichiarative principali, escludendone di fatto molti altri tipi (dipendenti, interrogative o imperative). La terza, più completa delle altre, presenta dei problemi, in quanto in alcune lingue non è necessario che ogni frase contenga un verbo finito. Ad esempio, in russo, al presente indicativo non si colloca mai la copula tra soggetto e predicato nominale (possiamo tradurre letteralmente Gianni studente, che esprime la frase Gianni è studente). Le grammatiche tradizionali distinguono di solito le frasi in base a criteri come: - la “complessità” (frasi semplici e frasi complesse o periodi), - la “modalità” (frasi dichiarative, imperative ed esclamative), - la “gerarchia sintattica” (frasi principali e dipendenti), - la “polarità” (frasi affermative e negative), - la “diatesi (frasi attive e passive), ecc. Una dimensione che non è mai considerata esplicitamente è quella delle frasi segmentate (di cui parla Bally). Frasi del genere sono presenti anche nelle scritture più consapevoli e controllate. I principali grammatici hanno sempre censurato l’uso di queste frasi, sulla base di un’impostazione che vorrebbe essere <<razionalizzante>>. Ad esempio, in una frase come Gianni, lui di queste cose se ne intende davvero, sembrano esserci due soggetti e forse per questo si tende a considerarla scorretta. Non tutte le frasi segmentate però presentano questi pleonasmi, ad esempio: A Gianni, voglio regalare questo libro. Questo tipo di frasi, come quelle dette “marcate”, sono sempre più diffusi anche nell’italiano scritto. La nozione di periodo è entrata a far parte in modo organico della grammatica tradizionale solo a partire dal Seicento. La definizione è data partendo da due prospettive diverse. Quella “dell’espansione”, secondo cui il periodo si ottiene sostituendo delle frasi (dipendenti) ai costituenti nominali della frase; quella “della combinazione”, secondo cui il periodo è dato dall’unione di più frasi semplici in una complessa. La seconda definizione non si adatta a molti periodi, in cui non tutte le frasi sono indipendenti: in Giorgio ha visto che Maria ha preso la macchina, non possiamo considerare da sola la frase Giorgio ha visto, perché agrammaticale, prima di oggetto. Il risultato è paradossale: la frase che consideriamo “principale” non può stare da sola, me la dipendente può (Maria ha preso la macchina). Bisogna dunque rivedere le definizioni tradizionali di “subordinazione” e “coordinazione”. Di solito, per distinguere i due tipi di frase si ricorre al “criterio dell’autonomia sintattica”. L’esempio mostrato prima sembra invalidarlo, in quanto la frase subordinata può stare da sola. Varie classificazioni sono state proposte per la classificazione delle frasi dipendenti, tra cui quella di Fornaciari (1881) che si basa sulla prospettiva dell’espansione (subordinate soggettive, oggettive, attributive e avverbiali). La grammatica di Serianni (1989) invece è scettica sulla possibilità di arrivare a una classificazione adeguata delle frasi dipendenti. È certo che bisogna adoperare criteri più affidabili per definire le varie relazioni di subordinazione. Una definizione molto antica dice che il soggetto è “ciò di cui si parla” e che il predicato è “ciò che si dice a proposito del soggetto”; un’altra dice che il soggetto indica “colui che compie l’azione” e che il predicato indica “l’azione compiuta dal soggetto”. Anzitutto, non sempre “ciò di cui si parla” coincide con il soggetto grammaticale. Ad esempio, in A Maria piace la matematica si sta parlando di Maria, ma il soggetto è la matematica. Anche il concetto di compiere un’azione non si adatta a molte frasi, come Maria ha subito un intervento chirurgico, Maria capisce la matematica, Maria conosce l’inglese. 3.2 L’analisi della frase È opportuno distinguere i diversi valori che il termine frase assume, a seconda che si consideri dal punto di vista pragmatico, semantico, sintattico. Se consideriamo l’espressione Gianni è arrivato, in senso concreto, come presente in questa pagina, scritta in un preciso carattere, la possiamo considerare un enunciato, cioè un’entità del livello pragmatico-comunicativo. La frase, invece, è un’entità del livello sintattico, un’entità astratta che può ricorrere in vari contesti. Questa distinzione ci permette di risolvere quei problemi legati alle definizioni di frase. Nella filosofia del linguaggio e nella linguistica moderna, con proposizione si intende lo “stato di cose descritte dall’enunciato”. In questo senso la proposizione è indipendente dalla lingua in cui è espressa e riguarda la definizione di tipo semantico della frase (“la frase è l’espressione di un giudizio”). Possiamo dire che ciò che rende una determinata combinazione di parole una frase è la presenza di una “struttura predicativa”, cioè una combinazione di soggetto e predicato. In sintesi, chiamiamo “frase” l’entità sintattica caratterizzata da una particolare struttura grammaticale, quella predicativa (non sempre con la presenza di un tempo finito!). La nozione di marcatezza (le frasi segmentate sono un esempio di frasi marcate) è stata elaborata negli anni Trenta del Novecento dalla scuola di Praga. Nel nostro caso, le frasi che presentano un ordine diverso da quello soggetto-verbo-oggetto sono marcate in quanto la loro struttura permette di modificare l’informazione trasmessa, pur descrivendo lo stesso stato di cose. In una frase come Gianni, io non lo sopporto proprio descriviamo la nostra antipatia per Gianni, ma comunichiamo anche che è di Gianni anzitutto che vogliamo due eventi, quindi una coerenza fra i termini coordinati. L’affermazione è sfumata perché ha bisogno di conferme. Un problema che si pone è: fino a quando possiamo considerare due frasi giustapposte come facenti parte dello stesso periodo? Un criterio abbastanza sicuro, nella lingua scritta, per identificare la fine di un periodo è il punto fermo. Nel parlato informale è difficile parlare di periodo. In alcuni grammatici tradizionali, troviamo una dilatazione del periodo (oltre il punto fermo), che probabilmente dipende dal non concepire nessuna unità di analisi al di sopra del periodo e dalla concezione di frase come unità minima di comunicazione dotata di senso compiuto. La linguistica della seconda metà del Novecento ha elaborato la nozione di testo fondata su una trama di riferimenti, dal ritorno di oggetti e temi del discorso che stabiliscono una continuità di periodo in periodo e assicurano una certa unità e compiutezza di senso. Nelle grammatiche tradizionali la lista delle congiunzioni coordinanti è numerosa e ricca di sottocategorie (additive, disgiuntive, avversative, dichiarative, conclusive). In questa abbondanza i confini si fanno sfumati, soprattutto tra congiunzioni e avverbi. Possiamo notare che hanno un vincolo alla posizione iniziale, rispetto all’elemento che introducono, le congiunzioni e (non inoltre), o, ma (non però), la congiunzione negativa né e la correlativa sia…sia: in base al criterio della collocazione sono queste le vere congiunzioni coordinanti; ad esse si possono aggiungere le forme composte con e (eppure, ebbene) e con o (oppure, ovvero) . Come definire le altre parole (però tuttavia infatti quindi perciò dunque, ecc.) considerate nelle grammatiche congiunzioni coordinanti, stabilito che esse realizzano anche relazioni di tipo subordinato? Possiamo considerarli avverbi e notare che esistono avverbi in funzione anaforica, ossia indicano qualcosa che è già stato nominato nel testo. Questi vengono a volte chiamati “pronominali” perché hanno la stessa funzione anaforica dei pronomi. Si tratta di un fenomeno testuale, che non ha a che fare con la sintassi. Questa funzione può essere assunta anche da altri verbi di tempo e di luogo. Ad esempio, là può indicare un luogo nominato prima. La differenza è che quelle parole definite congiunzioni coordinanti sono usate sempre in modo anaforico testuale e non occasionalmente; inoltre non hanno per antecedente un complemento, ma si riferiscono genericamente al contesto precedente. La congiunzione e può avere un “valore” di successione temporale, di conseguenza causale, avversativo, oppositivo e altri che sarebbe difficile enumerare in modo esauriente. L’interpretazione non deriva dal valore di e, ma dal contenuto dalle frasi coordinate. La congiunzione disgiuntiva o può essere interpretata come esclusiva, quando una delle due frasi coordinate esclude l’altra (la più comune); come inclusiva, quando le due frasi rappresentano idee o eventi di cui potrebbe verificarsi l’uno, l’altro o entrambi (spesso situazioni eventuali, ipotetiche o collocate nel futuro); come parafrastica, quando si introduce un termine che può essere usato al posto dell’altro senza cambiare significato. La congiunzione avversativa ma ha principalmente due valori: avversativo, quando blocca nel destinatario un’idea che può essersi fatto in base all’informazione; sostitutivo, quando il primo membro della coordinazione è sempre negato. Ci sono casi in cui e e ma rinviano a un intero blocco di testo precedente: questi hanno una funzione propriamente testuale, simile a quella degli avverbi connettori. Possiamo dire che: - la tradizionale analisi del periodo è uno strumento didattico utile, ma approssimativo e parziale; - la possibilità di coordinare due costituenti non dipende dalla loro definizione categoriale (frase, sintagma dell’uno o dell’altro tipo), ma dalla loro funzione sintattica di oggetto, attributo, complemento tra frase e periodo non esiste una differenza sostanziale: un periodo è una frase complessa, in cui alcune posizioni sono occupate da ulteriori frasi invece che da sintagmi. 3.5 Oltre il periodo: il testo La linguistica testuale distingue due proprietà generali dei testi, la “coesione” e la “coerenza”. La prima è stata definita da Halliday e Hasan come le relazioni non strutturali costitutive del testo, proprietà del testo in quanto tale e di nessuna unità strutturale quale la frase semplice o il periodo. Alla base di tali relazioni sta l’anafora testuale: essa si verifica quando, per interpretare in un modo compiuto un punto del testo, bisogna risalire mentalmente a uno precedente, detto “antecedente” dell’anafora. Tra l’antecedente e l’espressione anaforica o anafora si può istituire un rapporto di “coreferenza”. Entrambe si riferiscono a una stessa entità del mondo (il mondo del testo, reale o immaginario). Un’espressione capace di riferirsi a un’entità è detta “referenziale”. Le più comuni anafore sono di tipo nominale, pronominale, avverbiale, o sono ellissi. Il nome può essere semplicemente il nome testa dell’antecedente (un cavaliere rossocrociato il cavaliere), oppure un sinonimo dell’antecedente (caso di “parafrasi” o “sinonimia in contesto”), o ancora “iperonimo” dell’antecedente (iperonimia: rapporto fra un termine di significato più generale e altri più particolari detti suoi “iponimi”, come mammifero felino gatto). Il pronome si riferisce prevalentemente a tutto il sintagma di cui quel nome è testa. Le espressioni quello di e l’altro sono i veicoli più comuni di anafora non coreferente (una donna copiava l’altra, l’anafora ha come antecedente donna, ma indica un referente diverso, cioè una donna diversa da quella indicata prima). La “capsula anaforica” ha come antecedente un’intera frase o anche una porzione più ampia del testo. Esiste anche un rinvio in avanti, detto “catafora” (già lo sapevo, che sono un tipo piuttosto furbo). L’ellissi si verifica quando il soggetto viene omesso (soggetto nullo) e il lettore deve ricavarlo da un precedente sintagma espresso, che non sempre ha la funzione di soggetto. Si realizza spesso in un testo una “catena anaforica”, in cui più anafore, anche di diverso tipo, rinviano a uno stesso referente. La coesione, anche se è una proprietà significativa di quasi tutti i testi, non è sufficiente a costituire un testo e non è una condizione necessaria, in quanto ci sono testi che non presentano tracce di anafora. La “coerenza”, ossia l’unità tematica, è invece una proprietà essenziale dei testi. Questa viene specificata in termini di unitarietà (senso globale del testo), continuità (tra le sue parti la successione è significativa e non casuale) e progressione (ogni unità che lo compone aggiunge qualcosa al senso globale). Più che una proprietà oggettiva del testo, la coerenza è un principio che guida l’interpretazione. 4. Le parti del discorso 4.1 Critica delle parti del discorso La classificazione delle parti del discorso elaborata nei secoli dalla grammatica tradizionale è in sostanza valida. Quel che la linguistica ha messo in discussione è il modo di definire questi concetti. Le definizioni partono da ciò che queste categorie “indicano” nella realtà del mondo: sostanza, azioni o “modi di essere”, qualità e proprietà. Le categorie linguistiche di nomi, verbi, aggettivi avrebbero il compito di rispecchiare tali articolazioni della realtà. Queste definizioni nozionali sono vaghe, spesso inducono in errore ( pugno è un’azione, dunque dovrebbe essere un verbo) e danno l’impressione che le classi di parole siano compartimenti non comunicanti (vicino invece può essere un aggettivo, un avverbio-preposizione e un nome). Il criterio nozionale contiene un certo nucleo di verità. Ma questo non è un approccio semplice e sicuro alle parti del discorso. Anche perché una lingua ha la capacità di considerare ogni situazione da punti di vista diversi: facendone un’entità (La tranquillità di Tizio), una proprietà di un’entità (Tizio è tranquillo), il risultato di un’azione (Hanno tranquillizzato Tizio). Il criterio sintattico è il più completo, perché le parti invariabili possono essere definite solo grazie a esso. Ma dobbiamo tener conto che presuppone un’analisi delle strutture della frase. Il criterio morfologico non può fare distinzioni tra le parti invariabili, ma tra le variabili isola il verbo, individuato dalla sua flessione di tempo, di persona, ecc.; distingue il nome che ha un genere intrinseco e si flette secondo il numero, dall’aggettivo, che in italiano assume genere e numero dal nome con cui concorda. Dunque, è un criterio di chiara evidenza, ma di portata limitata. 4.2 Il nome La tradizione grammaticale definisce il nome in base a un criterio nozionale-semantico. In Fornaciari: <<Il nome sostantivo, o semplicemente nome, è quella parola che indica una sostanza reale, o una qualità o un modo di essere concepito come sostanza>>. Il termine nome sostantivo risale alla concezione medievale e rinascimentale che faceva di sostantivi e aggettivi due sottoclassi della categoria “nome”. Le definizioni correnti evitano il riferimento alla sostanza e ricorrono all’elenco degli oggetti nominabili, come persone, animali, cose, concetti, fenomeni. Il catalogo del nominabile non può avere fine. La definizione nozionale non delimita il nome e non fornisce un criterio per riconoscerlo. Dal punto di vista morfologico, il nome ha, in italiano e in altre lingue, la caratteristica di essere dotato di un genere proprio e di potersi flettere secondo il numero. Esiste però una sottoclasse di nomi che sembrano flettersi come gli aggettivi: nomi di animali superiori (gatto – gatta – gatti – gatte), nomi di alcune professioni e attività. Qui non si tratta di flessione, ma di una forma particolare di derivazione da nome a nome, detta “mozione” dai linguisti (Schwarze). Sul piano sintattico il nome “comanda” l’accordo con le parole che lo circondano, ogni aggettivo si concorda al nome per genere e numero e non viceversa. Questa osservazione porta alla definizione di nome come testa di un sintagma nominale. La tradizione scolastica assegna al nome diverse sottoclassi in parte prive di contenuto grammaticale. La più inutile è la partizione in nomi concreti e astratti. Si tratta di considerazione semantiche da non irrigidire in una dicotomia. La dimensione concreto/astratto riguarda il significato delle parole e ha diversi valori per ogni accezione del significato di un lemma. Sono invece morfologiche le sottoclassi dei nomi derivati e dei nomi alterati. Qui l’errore consiste nel trattare questi fenomeni come propri esclusivamente del nome: la derivazione, infatti, agisce tra nomi, verbi e aggettivi in tutte le direzioni possibili; l’alterazione esiste per gli aggettivi (grandicello), per i verbi (dormicchiare), per qualche avverbio (benino). Sicuramente fondata è la distinzione tra nomi comuni e propri. Il nome comune designa una classe di oggetti. Un nome proprio è privo di contenuto semantico, non ha significato, ma designa direttamente un oggetto. Questa distinzione non è priva di conseguenze sintattiche: i nomi propri si usano molto spesso senza articolo in italiano e in altre lingue non prendono mai l’articolo. Una distinzione ignorata dalla tradizione grammaticale italiana è quella tra nomi numerabili e nomi non numerabili o nomi di massa. Questi ultimi di regola non ammettono l’articolo indeterminativo se non per indicare un sottotipo della sostanza (un’acqua minerale, un latte magro, un’assiduità ammirevole); altrimenti l’indeterminatezza è designata con l’articolo partitivo (del latte, del coraggio) che invece non si può usare con i nomi numerabili al singolare. Al plurale i non numerabili o non sono del tutto usati (*Eva diede una mela nel giardino delle delizie. Mentre i circostanzialii coraggi) o vengono a indicare una varietà di tipi della sostanza designata (i diversi vini, i diversi oli di diversi produttori). È ben noto alle grammatiche che molte parole appartenenti ad altre categorie possono essere usate come nomi. In primo luogo, gli aggettivi sostantivati (i ricchi, il bello, l’essenziale), poi i verbi all’infinito (alcuni dei quali si sono lessicalizzati come nome e possono prendere il plurale, come il piacere, il sedere, il potere), ancora avverbi (il male), congiunzioni (il perché), intere locuzioni (un non so che). Una seconda forma di nominalizzazione è la derivazione con suffisso da aggettivi (ricchezza) e da verbi (emigrazione). Ogni nome deverbale eredita dal verbo la sua struttura di argomenti: un nome derivato da un verbo monovalente conserva il soggetto del verbo che si trasforma in un complemento del nome con di (Maria piange Il pianto di Maria); un secondo argomento preposizionale si conserva di solito con la stessa preposizione (Maria è partita per Bari La partenza di Maria per Bari), mentre un complemento oggetto diventa pure un complemento con di (la difesa delle mura può significare che le mura difendono o che qualcuno difende le mura: è la situazione che alcune grammatiche definiscono come “genitivo soggettivo” o “oggettivo”). Quando il nome conserva sia il soggetto che l’oggetto si possono avere due complementi identici oppure la locuzione preposizionale da parte di, o variando la preposizione del soggetto (Maria ama suo figlio L’amore di Maria per suo figlio). Infine, un complemento circostanziale può conservarsi come complemento del nome (Acquistare a rate L’acquisto a rate). Gli argomenti del nome derivato dal verbo, però, si possono omettere con molta libertà. La nominalizzazione è diventata frequente nella prosa saggistica e scientifica, oltre che in quella giornalistica. Non sempre però rende scorrevole la sintassi. 4.3 L’aggettivo Per gli aggettivi qualificativi assumiamo una definizione morfologica e sintattica già accennata: l’aggettivo in italiano si flette per genere e numero, che sono determinati per accordo con un nome da cui dipende. Dal punto di vista sintattico l’aggettivo è testa di un sintagma che può avere funzione di attributo all’interno di un sintagma nominale o di predicato. Il sintagma aggettivale può essere costituito dal solo aggettivo, oppure dall’aggettivo modificato da un avverbio di intensità: veramente buono, molto grande. Sono parte di questo sintagma anche complementi retti dall’aggettivo: sono costituiti da preposizione più nome (pieno di vino, fedele alla parola data) o da preposizione più verbo all’infinito (pronto a partire). Anche il sintagma aggettivale può includere una frase subordinata retta dall’aggettivo: sono contento che tu venga. Dipendono dall’aggettivo anche il secondo termine di paragone di forma nominale, aggettivale o frasale. La tradizione grammaticale attribuisce all’aggettivo qualificativo italiano tre gradi di intensità: positivo, comparativo e superlativo. Ma in italiano non esiste un comparativo morfologico, né un superlativo relativo morfologico. Le costruzioni comparative sono sintattiche e non riguardano solo gli aggettivi, ma anche gli sto leggendo). I verbi lessicali hanno una valenza propria, quelli grammaticali assumono la valenza dei verbi che accompagnano. Serianni colloca tra gli ausiliari (in senso lato) anche i cosiddetti verbi “servili” o “modali” (potere, dovere, volere). A nostro avviso, questi verbi invece hanno un comportamento diverso: potere ha una valenza propria, nella frase Renzo può chiamare Lucia i suoi argomenti sono il soggetto Renzo e la frase oggettiva all’infinito. Questa classe di verbi può essere infatti assimilata semplicemente a quelli che reggono una frase oggettiva all’infinito (es. preferisco tacere). Le grammatiche tradizionali definiscono come verbi impersonali sia i verbi metereologici che verbi come bastare, bisognare ecc. in frasi come Bisogna che tu parta. I primi sono verbi zerovalenti, i secondi sono verbi monovalenti, che reggono una frase soggettiva. I verbi intransitivi sono per lo più monovalenti, ma esistono molti verbi intransitivi bivalenti. Ad esempio, verbi di moto, come andare (es. Maria è andata a Roma). Possiamo elaborare una definizione di transitività strettamente formale, sintattica: sono transitivi, in senso stretto, i verbi bivalenti che realizzano entrambi i loro argomenti tramite due sintagmi nominali, che assumono rispettivamente le funzioni di soggetto e oggetto diretto. Questa soluzione è equivalente a quella di Salvi in termini di passivizzabilità: <<i verbi transitivi sono quelli che, in italiano, possono essere usati nella costruzione passiva>> (es. L’aria buona aiuta la respirazione La respirazione è aiutata dall’aria buona). Tuttavia, questa soluzione non elimina tutte le difficoltà. Ad esempio, ci sono verbi transitivi che non possono apparire nella forma passiva, come avere, costare, riguardare ecc. (*Eva diede una mela nel giardino delle delizie. Mentre i circostanzialiMolti soldi sono avuti da Zio Paperone) Il fatto di realizzare entrambi gli argomenti mediante sintagmi nominali è solo una condizione necessaria, ma non sufficiente, perché un verbo possa essere definito transitivo. Un’altra condizione necessaria riguarda la natura dei ruoli semantici (agente, esperiente, paziente, ecc.) assegnati ai vari argomenti. La linguistica moderna ha evidenziato il comportamento diverso tra i verbi intransitivi italiani che prendono come ausiliare essere rispetto a quelli che prendono l’ausiliare avere: - Solo quelli con essere possono rappresentare una parte del soggetto mediante la particella ne (in senso partitivo). Esempi: Arrivano molti studenti Ne arrivano molti. Parlano molti studenti Ne parlano molti (qui ne è grammaticale in senso genitivo, parlano molti “di qualcosa”). - I verbi con ausiliare essere possono essere usati al participio come modificatori del nome e in una costruzione “assoluta”. Esempi: Uno studente arrivato poco fa. Arrivato Gianni, abbiamo potuto cenare. - È possibile la formazione di nomi derivati mediante il suffisso agentivo -ore solo con i verbi che prendono come ausiliare avere. Esempi: *Eva diede una mela nel giardino delle delizie. Mentre i circostanzialiarrivatore, parlatore. - Una differenza più profonda è che l’ordine non marcato delle frasi con verbo ad ausiliare avere sarebbe soggetto-verbo, mentre quelle con i verbi ad ausiliare essere sarebbe verbo-soggetto. Esempi: Gli studenti parlano vs Arrivano gli studenti. L’aspetto, scrive Squartini, si riferisce al modo in cui viene presentata l’azione. Consideriamo la differenza tra passato prossimo e passato remoto. Entrambi sono esempi di aspetto perfettivo, ossia indicano un’azione già terminata. Fornaciari definisce il passato prossimo come il passato nel presente, ossia un tempo che indica un’azione già compiuta ma considerata in relazione col presente. Pensiamo a frasi come Gianni è nato nel 1960 e Gianni nacque nel 1960: usiamo preferibilmente la prima se Gianni è ancora vivo, la seconda se non è più tra noi. L’aspetto del passato prossimo è compiuto, mentre quello del passato remoto è aoristico (indefinito, illimitato), cioè descrive azioni di cui non si valutano le conseguenze, ma ci si limita a presentare un’azione nella sua globalità. All’interno dell’aspetto imperfettivo, si distinguono progressivo, abituale e continuo. Il presente può essere usato con tutti e tre i valori dell’imperfettivo, ma anche in certi casi con valore perfettivo. La differenza fondamentale tra le categorie di aspetto e azione sta nel fatto che la prima è legata ai morfemi grammaticali del verbo, la seconda a quelli lessicali: quindi i vari lessemi verbali vanno classificati in tipi azionali differenti. Ci sono i verbi “stativi” che indicano qualità inalienabili o permanenti del soggetto: ad esempio essere, conoscere, possedere. Questi sono incompatibili con l’aspetto progressivo. Un altro tipo azionale è la “telicità”, cioè l’espressione del raggiungimento di una meta o la conclusione di un’operazione (arrivare, costruire). La grammatica tradizionale elenca quattro modi “finiti” e tre “non finiti”: qui la finitezza significa il fatto di esprimere o meno la persona, il numero e il tempo. Secondo Fornaciari, l’indicativo è il modo della certezza, l’imperativo il modo che esprime direttamente la volontà che una cosa avvenga o si faccia, il condizionale quello che afferma in modo condizionato e il congiuntivo il modo della possibilità incondizionata. Definizioni di questo tipo si scontrano con varie difficoltà. Nelle frasi indipendenti, l’atteggiamento del parlante rispetto all’evento descritto dal verbo si può esprimere anche mediante modi grammaticali diversi. L’indicativo non sempre esprime certezza: ad esempio, nelle interrogative ha il valore di un imperativo “attenuato”, si tratta una richiesta educata. Dovrebbe essere dunque considerata la “modalità”, ossia l’atteggiamento del parlante rispetto alla sua comunicazione. Questa categoria non è puramente grammaticale, ma coinvolge anche sintassi, semantica e pragmatica. Anche nelle frasi dipendenti la definizione tradizionale risulta inadeguata. L’uso dell’indicativo o del congiuntivo in base al fatto che il contenuto della dipendente sia reale o possibile/irreale/impossibile non è valida: nella frase Mi spiace che Giovanni sia partito, il fatto descritto della partenza è reale. La scelta del congiuntivo o dell’indicativo è determinata soltanto dalle proprietà specifiche del verbo o in generale del predicatore della frase reggente; oppure dalla scelta di un certo registro stilistico, con il congiuntivo preferito in uno stile più formale. Un altro caso dell’inadeguatezza delle definizioni è l’uso del condizionale come “futuro del passato”: ad esempio, Gianni disse che sarebbe arrivato il giorno dopo. 4.6 Le parti invariabili Fornaciari dà una definizione di avverbio che è in sostanza quella dei grammatici antichi: <<l’avverbio (così detto dalla stretta relazione che ha col verbo) è quella parola indeclinabile che accenna o determina le circostanze dell’azione significata dal verbo>>. In realtà, l’avverbio può modificare anche altre parti del discorso, come l’aggettivo; e questo è riconosciuto in forma esplicita nella Sintassi dello stesso Fornaciari. La grammatica tradizionale tende a suddividere gli avverbi in base a un criterio nozionale (di modo, di tempo) e include tra gli avverbi anche le negazioni e le particelle sì e no. Queste due particelle non modificano nessun’altra parte del discorso, ma hanno il valore di un’intera frase o enunciato: sarebbe meglio non considerarle nella classe degli avverbi e chiamarle “profrasi”. Le profrasi sono un tipo di “olofrasi”; un altro tipo è rappresentato dalle interiezioni: queste non hanno legame logico con le altre parti della frase, quindi non vanno considerate come una parte del discorso. La classificazione più ragionevole degli avverbi è quella di Salvi. La sua proposta si basa sulla distinzione introdotta da Fornaciari tra avverbi aggettivali e avverbi pronominali: i primi significano esplicitamente una proprietà o maniera dell’azione, mentre i secondi indicano, accennano rapporti diversi (es. fare così, è volato lassù). La maggior parte degli avverbi aggettivali, prosegue Fornaciari, <<sono aggettivi usati inevitabilmente nella forma del maschile, ovvero aggettivi e participii in forma femminile, composti col suffisso ménte>>; gli avverbi pronominali, invece, si possono distinguere in dimostrativi e quantitativi. Salvi reinterpreta questa distinzione nel quadro della teoria della valenza: a seconda del verbo, gli avverbi pronominali hanno una funzione equivalente a quella degli argomenti (Pietro abita qui) o dei circostanziali (Qui Vittorio Emanuele incontrò Garibaldi). Gli avverbi aggettivali hanno invece una funzione attributiva e Salvi li chiama <<veri avverbi>>. Un tipo particolare di avverbi è rappresentato dai “focalizzatori”, cioè parole che producono inferenze sulle possibili alternative al costituente modificato: ad esempio, se dico Gianni legge anche libri gialli, se ne inferisce che Gianni legge pure altre cose. Della preposizione le grammatiche tradizionali danno una definizione puramente sintattica: la preposizione è quella parola indeclinabile che accenna la relazione di dipendenza tra le parti del discorso in una proposizione complessa (Fornaciari). Le grammatiche tradizionali introducono una distinzione tra le preposizioni “proprie” (di, a, da, in, con, su, per, tra, fra) e “improprie”. I limiti di queste ultime sono più sfumati: Serianni dice che sono numerose e ne dà alcuni esempi; aggiunge inoltre le locuzioni preposizionali, come dietro a, costituite da due preposizioni (comunemente una propria e una impropria), oppure come in cima a, per mezzo di, nell’intento di (formate da un sostantivo interposto tra due preposizioni). Serianni aggiunge che un gruppo consistente di preposizioni improprie è costituito da parole che nel loro valore primario sono avverbi: ad esempio sopra, sotto, davanti, dietro, dentro, fuori, vicino, lontano. Che differenza c’è allora tra avverbi preposizionali e preposizioni? Jespersen suggerisce che si tratta sempre di preposizioni: in un caso seguite da un sintagma nominale, nell’altro no (in cui ad esempio tempo e luogo sono impliciti e ricavabili dal contesto: Gianni è arrivato dopo oppure Gianni ha parcheggiato la macchina dentro). Possiamo comunque accogliere la definizione tradizionale di preposizione, aggiungendo che la natura del rapporto di dipendenza istaurato dalle preposizioni può essere indicata in modo generico o viceversa più preciso. Come osserva Salvi, l’apporto della preposizione diventa più corposo in frasi come Si è messo dietro la balaustra. In questi casi le preposizioni sono un po' come dei predicatori aggiuntivi che servono a definire meglio il tipo di evento. Serianni attribuisce alla congiunzione la funzione di unire non solo frasi, ma anche parole e gruppi di parole. Abbiamo visto che la coordinazione non consiste soltanto nella connessione di due o più frasi, ma di due o più costituenti dello stesso livello che abbiamo un’identica funzione all’interno della frase. Dal punto di vista morfologico si possono distinguere le congiunzioni semplici da altri tipi di congiunzioni, definite <<composte>> e <<locuzioni congiuntivali>> da Serianni. Dal punto di vista sintattico si oppongono le congiunzioni coordinanti da quelle subordinanti. Serianni osserva che in molti casi gli stessi elementi lessicali possono trovare impiego ora come congiunzioni, ora come preposizioni o avverbi; gli esempi da lui citati sono dopo, senza, quando. Secondo Fornaciari le congiunzioni primitive sono cinque: tre coordinanti (e, o, ma) e due subordinanti (che e se). Le analisi della linguistica moderna si differenziano da quella di Fornaciari essenzialmente dal punto di vista terminologico: che è chiamato “complementatore”; il suo ruolo infatti è quello di indicare la natura di complemento della frase subordinata di modo finito. Esistono tuttavia frasi subordinate di modo finito non introdotte da che, come le condizionali o alcune temporali. La soluzione proposta da Salvi è ipotizzare che in casi come questi il complementatore che non sia espresso, o lo sia facoltativamente. La congiunzione se può avere valore condizionale e interrogativo indiretto. Quest’ultimo può essere definito come la variante del complementatore specializzata per le frasi interrogative (queste sono frasi argomentali). 5. Qualche idea per l’insegnamento della grammatica 5. QUALCHE IDEA PER L’INSEGNAMENTO DELLA GRAMMATICA Ci sono situazioni in cui la produzione o la ricezione linguistica non fluisce naturalmente e richiede un attimo di riflessione: in quel momento deve affiorare una competenza metalinguistica, che può nascere solo da un’abitudine costruita nel tempo a riflettere in termini grammaticali. Inoltre, una certa conoscenza della grammatica della lingua materna può avere la funzione di “grammatica universale”, cioè essere utile per l’apprendimento di altre lingue, fornendo un insieme di termine e concetti. Naturalmente quanto abbiamo detto si riferisce a uno studio grammaticale che sia riflessione e non si riduca alla memorizzazione di etichette da apporre a forme e a liste di forme. Resta spesso ai margini della prospettiva grammaticale il lessico. Anche nel lessico esistono aspetti sistematici parziali, che meritano una riflessione a scuola. Sul piano delle forme, si sa che una parola può generarne altre per derivazione e combinazione; secondo i calcoli di De Mauro, quasi la metà delle parole che entrano in un dizionario sono derivate o composte da altre parole italiane. Sul piano dei significati, il lessico è attraversato da relazioni di vario tipo, che creano raggruppamenti di parole: sinonimia, opposizione semantica (contrari o contraddittori), le relazioni di inclusione, le relazioni tra i diversi significati di una stessa parola. Questi temi si intrecciano comunque in molti punti con elementi di morfosintassi, e ne presuppongono la conoscenza. La scuola si preoccupa di avviare per gradi a usi più formali rispetto a quelli che usa un bambino; ma questa preoccupazione può tradursi nell’imposizione sempre e comunque di una lingua formale e stereotipata, il cosiddetto “italiano scolastico”. Bisognerebbe invece educare all’uso di diversi registri, più o meno formali, nello scritto e nel parlato, a seconda delle circostanze. È vero che la linguistica del Novecento e attuale si presenta come un groviglio di tendenze e scuole spesso in polemica fra loro, o che addirittura presentano modelli di analisi incompatibili. È però vero anche che in questo caos apparente c’è un processo cumulativo, un acquisto di conoscenze condivise. Basta pensare a un concetto come quello di valenza verbale, che è penetrato in modelli sintattici anche molto diversi. Bisognerebbe procedere per generalizzazioni motivate, sulla base di dati testuali e sottoporre ogni affermazione a verifica, dunque potenzialmente a controversia. Questo significa fare della riflessione grammaticale un campo di educazione alla razionalità. Nell’insegnamento tradizionale accade spesso il contrario, la grammatica è il luogo delle affermazioni dogmatiche.