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CARAVAGGIO (1571-1610) Michelangelo Merisi, Formatosi a Milano e attivo a Roma, Napoli, Malta e in Sicilia fra il 1593 e il 1610, Caravaggio acquisì grande fama internazionale in vitae subito dopo la morte, costituendo la corrente del caravaggismo ed esercitando una forte influenza sulla pittura barocca del XVII secolo[3], ed è oggi considerato uno dei più celebri rappresentanti dell'arte occidentale di tutti i tempi, fondatore della corrente naturalistica moderna, in contrapposizione al Manierismo e al Classicismo, così come precursore della sensibilità barocca I suoi dipinti dimostrano un'eccezionale sensibilità nella resa della dimensione umana, fisica ed emotiva, anche tramite la fedeltà al modello dal vivo e l'uso scenografico della luce, caratteristiche che furono considerate al tempo rivoluzionarie, in totale contrapposizione alla prassi accademica raffaellesca La principale componente del suo stile consiste nel realizzare la prospettiva e la tridimensionalità attraverso l'uso drammatico e teatrale della tecnica del chiaroscuro. Animo particolarmente irrequieto, nella sua vita affrontò gravi vicissitudini fino alla data cruciale del 28 maggio 1606 quando, commesso un omicidio durante una rissa e condannato a morte, dovette fuggire dalla città di Roma per scampare alla pena capitale. BACCO (1495) 📍UFFIZI COMMITTENTE: CARDINALE FRANCESCO MARIA DEL MONTE Regalarlo a Ferdinando I de' Medici in occasione della celebrazione delle nozze del figlio Cosimo II, per rinsaldare l'amicizia con Ferdinando. Il Bacco è rappresentato posato su un letto a triclinio posto accanto a un tavolo, dove troviamo un cestino di ceramica pieno di frutta (Mele, fichi, pere, pesche, mele cotogne, uva, un melagrana ecc.). Bacco rivolge lo sguardo all’osservatore, mostrandogli un calice di vetro colmo di vino rosso, appena versato da una bottiglia posta lì a fianco. Nel dipingere il Bacco, Caravaggio avrebbe dovuto affrontare il soggetto mitologico secondo la tradizione rinascimentale, cosa che ovviamente non avviene. Ad esempio, un vecchio materasso sembra essere stato ripiegato per simulare il triclinio. Il giovane, ben lontano dall’essere una classica figura idealizzata, ha le unghie sporche, mentre le sue guance arrossate e la presa malferma del calice, che genera increspature sulla superficie del vino, sembrano tradire un certo stato di ebbrezza. Anche la frutta non eccelle per qualità: La mela è bacata, la mela cotogna è ammaccata, la pesca è mezza marcia. È quindi chiaro che l’artista, almeno secondo alcune interpretazioni, non volesse raffigurare Bacco ma un normale ragazzo di strada travestito da Bacco. Il vero soggetto del dipinto sarebbe quindi questo suo travestimento. Si dice infatti che, per prendersi gioco della tradizione classica e rinascimentale e farsi beffa del pubblico, avrebbe ritratto un suo amico un po’ brillo chiedendogli di tenere in mano un bicchiere di vino e posando davanti a lui con della frutta di qualche giorno. Altri credono invece che la chiave di lettura per comprendere il vero significato dell’opera sarebbe da individuare nel fiocco nero che il ragazzo tiene in mano che non ha alcun legame con la tradizionale iconografia del dio. Si tratta infatti di un simbolo di morte. Anche la frutta marcia con le foglie secche potrebbe alludere, a sua volta, allo scorrere del tempo ed alla vita che finisce. È possibile cioè che il dipinto alluda proprio alla figura di Cristo. Anche la presenza della melagrana, tradizionale simbolo della Passione e resurrezione di Gesù, avvalorerebbe questa ipotesi, così come il calice di vino rosso offerto, che evocherebbe il mistero eucaristico. CANESTRA DI FRUTTA (1595) 📍PINACOTECA AMBROSIANA, MILANO COMMITTENTE: CARDINALE BORROMEO ⚠È considerato uno dei primi dipinti del genere della natura morta. L'opera sintetizza diverse esperienze, quella tardo manierista interessata ai grandi apparati naturali e dall'altro lato, nell'assolutezza della figura che il cesto colmo determina e nell'insolito punto di vista equatoriale, in cui il Merisi afferma un interesse per il soggetto inanimato non più periferico e complementare alla figura umana, ma centrale ed esauriente. Il tema della natura morta è già documentato nell'arte ellenistica dei secoli III e II a.C. e nei mosaici di Pompei, Ercolano e Stabia (sec. I a.C - I d.C.) Oltre a ciò, il tema interessò l'iconografia ricca di richiami evocativo-simbolici dell'arte religiosa. Si affermò come genere autonomo solo negli anni della Controriforma. Negli ultimi decenni del Cinquecento, lo sviluppo della natura morta si inserì all'interno del rinnovamento iconografico della pittura di devozione come conseguenza del riconoscimento, sancito dal Concilio di Trento, della capacità degli elementi naturali di stimolare la devozione religiosa con la loro semplice immediatezza. Nella cultura controriformista si sviluppò il gusto per i soggetti emblematici, allegorici, concettosi, che ebbe una notevole importanza per la fortuna della natura morta l cesto di vimini è rappresentato come se si trovasse in alto rispetto allo sguardo di un ipotetico spettatore, come se fosse posto su una tavola da cui dà l'impressione di sporgere lievemente. La scelta di questo taglio permette alla composizione di far emergere la natura morta attraverso l'uso di uno sfondo chiaro, uniforme e luminoso. La luce sembra provenire da una fonte naturale e svela le gradazioni di colore che differenziano gli acini chiari e acerbi in primo piano e quelli già molto maturi nel grappolo posto dietro la mela bacata (che simboleggia la precarietà delle cose e il trascorrere del tempo), creando un effetto illusionistico di tridimensionalità dell'immagine. La frutta diventa la protagonista del quadro e acquista un significato ambiguo: ora fresca e fragrante, ora florida e matura, fragile al punto da essere subito intaccata, è ripresa in una cornice di foglie, argentee e rinsecchite, metafora puramente esistenziale e, forse, colta e cristologica. L'artista paragona così la brevità della giovinezza e dell'esistenza umana alla maturazione della frutta e dei fiori. MARTIRIO DI SAN MATTEO La scena è rappresentata all'interno di una struttura architettonica che ricorda quella di una chiesa (ciò si deduce dalla presenza di un altare con la croce e di un fonte battesimale) e quindi si atterrebbe alla Legenda Aurea per cui S. Matteo sarebbe stato assassinato dopo una messa. I personaggi sono stati disposti su una sorta di piattaforma inclinata, alla maniera teatrale, che ha l'effetto di avvicinarli allo spettatore e aumentare il pathos della raffigurazione. Al centro del quadro vi è San Matteo che giace a terra dopo essere stato colpito dal suo carnefice, il personaggio seminudo (probabilmente il falso neofita) che gli blocca il braccio; il corpo di quest'ultimo è tornito, a ricordo dell'Adamo della Sistina di Michelangelo. La posizione delle braccia di San Matteo, aperte, richiama la croce; tuttavia, egli non è illuminato totalmente quanto lo è il carnefice, perché egli è già in Grazia Divina. Il vero protagonista-peccatore è dunque il sicario, è su di lui che deve agire la luce salvifica di Dio. In alto a destra un angelo di ispirazione tardo-manierista, elegantissimo e raffinato anche nella postura sinuosa, si sporge da una nuvola per tendere a San Matteo la palma del martirio. Attorno, in tutto lo spazio figurativo disponibile, Caravaggio inserisce i fedeli presenti alla messa: due personaggi di fronte, uno volto in avanti e l'altro presentato con uno scorcio ardito, un bimbo che scappa, altri uomini scomposti in gesti e posture dalle quali traspare tutto l'orrore e la tensione per essere testimoni di una scena simile. È da notare un autoritratto di Caravaggio in fondo a sinistra, nel personaggio che osserva. Come spesso è accaduto anche in quest'opera, nella quale Caravaggio decide di rappresentare il martirio del santo come se si trattasse di un assassinio brutale lungo una strada, vi è la testimonianza della sua inventiva per l'aver trasferito un episodio della storia sacra nella vita di ogni giorno, per conferire realtà, veridicità e una forte componente emotiva VOCAZIONE DI MATTEO Il dipinto è realizzato su due piani paralleli, quello più alto vuoto, occupato solo dalla finestra, mentre quello in basso raffigura il momento preciso in cui Cristo indica san Matteo. Matteo è seduto ad un tavolo con un gruppo di persone, vestite come i contemporanei del Caravaggio, come in una scena da osteria. Ricorre all'espediente di immergere la scena in una fitta penombra tagliata da squarci di luce bianca, che fa emergere visi, mani (per evidenziare e guidare lo sguardo dello spettatore sull'intenso dialogo di gesti ed espressioni) o parti dell'abbigliamento e rende quasi invisibile tutto il resto. L'opera prende vita grazie all'uso magistrale della luce e i personaggi si muovono sulla tela come attori su un palco grazie ad essa. Il fatto, poi, che essi siano vestiti secondo la moda dell'epoca del pittore ed abbiano il viso di modelli scelti tra la gente comune e raffigurati senza alcuna idealizzazione, con il realismo esasperato che ha sempre caratterizzato l'opera di Caravaggio, trasmette la percezione dell'artista dell'attualità della scena, la sua intima partecipazione all'evento raffigurato, mentre su un piano altro, totalmente metastorico, si pongono il Cristo e lo stesso Pietro, avvolti in una tunica senza tempo. La gestualità dei personaggi dipinti dal Caravaggio (già di sicuro visti dal pittore nell'Ultima cena di Leonardo da Vinci) danno un movimento e un coinvolgimento dei personaggi unico nel suo genere e fanno notare come il Merisi sia stato un frequentatore di locande dei bassifondi romani del periodo e sia stato in grado di riprodurre atteggiamenti, espressioni e azioni (come nelle scene di genere da lui dipinte) di sicuro appresi da esso nella sua vita. Tale partecipazione viene espressa in modo ancor più efficace, se possibile, nell'altra tela di grandi dimensioni, raffigurante il Martirio del Santo, nella quale da una colonna sulla sinistra sbuca, timido e pregno di compassione, un volto che non è altro se non l'autoritratto di Caravaggio stesso, che pare riaffermare la propria personale partecipazione all'evento narrato. CAPPELLA CERASI CROCIFISSIONE DI PIETRO (1600-1601) Di carattere volutamente antieroico e antiaulico, in essa i gesti dei "serventi", sono più da "operai" indaffarati, che non di carnefici, tanto da dare alla scena un senso di incolpevole evidenza, dove ognuno attende al suo compito. Nel quadro la luce investe la croce e il santo, entrambi simbolo della fondazione e della costruzione della Chiesa, attraverso il martirio del Primo Pontefice, eletto da Gesù Cristo. La luce altresì investe i carnefici, qui raffigurati non come aguzzini che agiscono in maniera gratuitamente brutale, ma come uomini semplici, costretti ad un lavoro faticoso. Spettacolare è , oltre all'illuminazione, la resa dei particolari: le venature del legno della croce, il piede nero dell'aguzzino chino, le rughe sulla fronte dell'aguzzino di sinistra, il riflesso della luce sulle unghie del Santo e dell'aguzzino che tende la corda. Il quadro che vediamo è una seconda versione, che Caravaggio decise di realizzare su tela, dopo che le dimensioni della Cappella Cerasi furono ridotte rendendo la prima versione su pioppo sovradimensionata. A differenza della Conversione, la prima versione della Crocifissione non ci è pervenuta. San Pietro si fa crocifiggere a testa in giù per umiltà nei confronti di Cristo. Tutte le figure concorrono a formare una x con le assi della croce e con i corpi degli aguzzini; dunque, anche questi ultimi sono accomunati col santo dal senso della fatica. Lo sfondo cupo contribuisce a far risaltare le figure mettendo in evidenza la tensione drammatica dei corpi che balzano verso l'osservatore. La composizione è estremamente dinamica e realistica e vi è una solida definizione dei volumi. La presenza di alcune parti della composizione che vengono "tagliate" (si notino, ad esempio, il piede sinistro dell'aguzzino rappresentato nella porzione inferiore della tela, oppure la parte terminale della croce, in corrispondenza dei piedi del santo) permette di dilatare idealmente lo spazio rappresentato, che prosegue oltre la tela stessa. CONVERSIONE DI SAULO (1600-1601) 📍BASILICA DI SANTA MARIA DEL POPOLO Sotto al dipinto attuale è stata scoperta un'opera completamente diversa[1] che potrebbe essere o un'opera precedente o, più probabilmente, una prima elaborazione del soggetto, trasformata poi radicalmente nel corso dell'esecuzione. Il 24 settembre 1600 Caravaggio fu incaricato da monsignor Tiberio Cerasi, finanziatore dell'Ospedale della Consolazione, di dipingere due quadri che raffigurassero il prodigio della conversione di san Paolo e la crocifissione di san Pietro. Caravaggio iniziò dal primo soggetto e ne presentò una versione iniziale, ma successivamente ne dipinse un'altra: come dimostrato da Luigi Spezzaferro[2], il motivo non sta nel rifiuto della prima versione, come si è creduto per molto tempo, ma più semplicemente in un cambio di idea, o da parte dei committenti che l'artista assecondò, oppure da parte di Caravaggio stesso dopo che le dimensioni della Cappella (in costruzione durante l'esecuzione della prima versione dell'opera) furono ristrette rispetto a quelle del progetto originario, il che avrebbe portato la tela a essere sovradimensionata. La scena ritrae il momento topico della conversione di Paolo:quello in cui a Saulo, sulla via di Damasco, appare Gesù Cristo in una luce accecante che gli ordina di desistere dal perseguitarlo e di diventare suo ministro e testimone. Sono presenti nella scena un vecchio e un cavallo, il quale, grazie all'intervento divino, alza lo zoccolo per non calpestare Paolo. Caravaggio adotta l'iconografia della luce accecante e evitando di mostrare la figura di Cristo (presente invece nella prima versione): secondo alcuni studiosi l'artista lombardo optò per questa scelta perché il committente lo aveva esortato a rispettare l'ortodossia, cioè a dipingere letteralmente ciò che era stato scritto negli Atti degli Apostoli, e dunque una luce ma non una figura. Un altro importante dettaglio da notare è che Caravaggio dipinge un Saulo accecato: Alcuni critici hanno ironicamente soprannominato il dipinto la "Conversione del cavallo" dato che l'animale occupa una parte rilevante del dipinto, delineando anche in questa scelta il carattere innovatore della pittura caravaggesca, benché le norme paleottiane prescrivessero di non porre al centro della rappresentazione un animale o elementi secondari. Calvesi ritiene che la scelta di porre al centro del dipinto il cavallo sia stata fatta per simboleggiare l'irrazionalità del peccato (basti pensare al Mito del carro e dell'auriga di Platone): il palafreniere quindi rappresenterebbe la Ragione, la luce invece è il simbolo della Grazia divina che irrompe nelle tenebre del peccato (il fondo scuro). Inoltre, il fondo nero, oltre ad avere una funzione simbolica, si presta in modo eccelso a far risaltare i volumi plastici dei personaggi e in particolare del cavallo. del bordone in mano (segno del pellegrinaggio a Santiago de Compostela), dietro al quale si scoverebbe un terzo personaggio, probabilmente pellegrino anch'egli, che si evince dalla presenza del solo orecchio che esce dal buio dello sfondo. 5. Curare gli infermi: allo stesso santo dell'opera di vestire gli ignudi è legata la figura dello storpio in basso nell'angolo più buio a sinistra della scena, disteso e con le mani congiunte in preghiera che chiede aiuto a Martino di Tours, anche questo un riferimento alla sua agiografia. 6. Visitare i carcerati: tratto da un episodio della storia romana, l'opera misericordiosa viene raccontata dagli stessi personaggi di quella di dar da mangiare agli affamati, con Pero che fa visita in carcere al padre, Cimone. 7. Seppellire i morti: è raffigurato sulla destra in secondo piano con il trasporto di un cadavere, di cui si vedono solo i piedi lividi, da parte di un portatore mentre un diacono che regge la fiaccola fa luce sul percorso. DECOLLAZIONE DI SAN GIOVANNI (1607-1608) 📍ORATORIO DI S. GIOVANNI BATTIOSTA DEI CAVALIERI, MALTA Nella tela sono rappresentati il carceriere imperterrito, il boia che s'appresta a vibrare il colpo finale, una giovane che porta un bacile su cui raccoglierà la testa del Battista e una vecchia che si copre il volto con le mani per l'orrore; sulla destra due carcerati assistono da una grata alla scena. In questo quadro il rapporto figure-spazio è rovesciato a vantaggio di quest'ultimo, tanto da creare ampie zone di vuoto, mentre attenuando i contrasti luministici, l'artista immerge la scena nella penombra. Il Santo è colto negli ultimi spasmi di vita, con le mani legate dietro le spalle, e indossa l'abituale veste di peli di cammello intrecciati (suo emblema), ed una tunica rossa (rimando al futuro martirio di Cristo suo cugino, a cui assomiglia anche esteticamente e fisicamente). Al centro della composizione è il corto pugnale, detto "misericordia", col quale il boia s'appresta a staccare la testa dal busto; al di sotto del Santo la spada con cui era stato scagliato il primo colpo, mentre una corda recisa e fissata ad un anello sulla parete a destra fa intuire cos'era successo qualche istante prima, quando il Santo era stato slegato e portato avanti. Il muro vuoto della prigione interrotto dalle inferriate, i due prigionieri che osservano la scena ed il tono cupo dell'opera rimandano ad una spietata esecuzione, eseguita alle prime luci dell'alba. RESURREZIONE DI LAZZARO (1609) 📍MUSEO REGIONALE, MESSINA COMMITTENTE: Ricco mercante genovese Giovanni Battista de' Lazzari l'ordine per l'esecuzione di una pala per la cappella maggiore della chiesa dei Padri Crociferi, detta anche dei Ministri degli Infermi. l pittore stesso si sarebbe autoritratto in quest'opera come l'uomo con le mani giunte dietro l'indice di Cristo. Il realismo è sconvolgente: Lazzaro, obbedendo al gesto di un Cristo in penombra e quasi minaccioso nella sua imponenza, viene investito in pieno dalla salvifica luce divina che, come corrente elettrica, ne scioglie i muscoli irrigiditi dalla morte e gli ridona la vita; nell'atto di rinascere, egli stira le braccia mimando il gesto allusivo della croce. Osservando per bene il dipinto, viene subito in mente la Vocazione di San Matteo dipinta qualche anno prima per la chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma: anche qui come allora, infatti, la luce è il simbolo della Grazia. Ma mentre nella tela romana la luce era diretta e creava contorni netti, qui è più soffusa e guizzante, creando un effetto di maggiore drammaticità. Per questo, il dipinto è uno dei più rappresentativi degli ultimi anni di Caravaggio, dedicati ad una maggiore sperimentazione sulla luce, tendente ormai a "cancellare" i personaggi. DAVID CON LA TESTA DI GOLIA (1610) 📍GALLERIA BORGHESE, ROMA Il dipinto fu eseguito a Napoli, dove Caravaggio, fuggito da Roma nel 1606 con l'accusa di omicidio, si trovava in esilio. La scelta del soggetto, con la vittoria dell’eroe d’Israele sul gigante filisteo Golia, si deve probabilmente allo stesso pittore. David, infatti, non manifesta un atteggiamento di trionfo ma, triste e malinconico, regge e osserva commosso il capo mozzato di Golia, nel cui viso il pittore raffigura il proprio autoritratto. Il giovane, inoltre, impugna una spada sulla cui lama compare la sigla "H.AS O S" sciolta dalla critica con il motto agostiniano 'H[umilit]AS O[ccidit] S[uperbiam]', letta insieme al soggetto come un'impressionante testimonianza degli ultimi mesi di vita di Caravaggio. Tale particolare, infatti, renderebbe plausibile l’ipotesi secondo la quale l'artista avrebbe inviato la tela al cardinale Scipione Borghese quale dono da far recapitare al pontefice Paolo V per ottenere il perdono e il ritorno in patria. GIUDITTA E OLOFERNE (1599) 📍GALLERIA NAZIONALE D’ARTE ANTICA, PALAZZO BARBERINI, ROMA COMMITTENTE: OTTAVIO COSTA In questo quadro Caravaggio rappresenta l'episodio biblico della decapitazione del condottiero assiro Oloferne da parte della vedova ebrea Giuditta, che voleva salvare il proprio popolo dalla dominazione straniera. Giuditta è raffigurata intenta a decapitare Oloferne con una scimitarra, mentre alla scena assiste la vecchia serva, Abra, che sorregge con le mani il drappo contenente il cesto nel quale va conservata la testa. Nel ruolo di Giuditta venne raffigurata forse la cortigiana Fillide Melandroni, amica dell'artista[3]. Studi recenti, invece, propongono convincentemente come modella della Giuditta la cortigiana romana Maddalena Antognetti Non ci sono molti elementi che contribuiscono a rendere nota l'ambientazione della scena, lo sfondo è scuro, è presente un panneggio rosso in alto a sinistra e una parte minima del letto su cui giace Oloferne. Caravaggio è rimasto fedele al clima dell'episodio biblico, facendo decapitare il generale con una daga mediorientale, ma ha anche attualizzato la scena, poiché l'abbigliamento di Giuditta è quello tipico delle donne a lui contemporanee; è possibile che il pittore si sia anche ispirato ad ambientazioni sacre di tipo teatrale rappresentate a Roma e comunque il pittore, ricevute commissioni più importanti e passato da una visione statica ad una dinamica, come ad un aspetto più drammatico della scena, accentuata dal fondo nero e dalla luce che rivela i contrasti dei volti e gli stati dell'animo, doveva aver certamente ripreso considerazioni sugli affetti ed i moti d'animo di ascendenza leonardiana diffusi dal lombardo Giovan Paolo Lomazzo e gli studi sulla fisiognomica e la gestualità, che stavano tanto alla base del teatro quanto della stessa pittura Il pittore fissa l'acme emotiva nell'immagine di Oloferne: lo sguardo vitreo farebbe supporre che sia già morto, ma lo spasmo e la tensione dei muscoli indurrebbero a pensare il contrario. Giuditta, invece, sembra adempiere al suo compito con molta riluttanza: le braccia sono tese, come se la donna volesse allontanarsi il più possibile dal corpo di Oloferne, e il suo volto è contratto in un'espressione mista di fatica e orrore. Accanto a Giuditta, Caravaggio ha inserito una serva molto vecchia e brutta, come simbolico contraltare alla bellezza e alla giovinezza della vedova. In questo modo l'autore sottolinea (con un artificio artistico legato alla fisiognomica, caro anche a Leonardo[6]) le differenze tra le due figure e fa risaltare maggiormente la prima, che incarna grandi valori morali. Infatti, la poca credibilità di Giuditta come vedova e la tensione fisica minima con cui ella, turbata, taglia la testa ad Oloferne, confermano il forte valore simbolico di tale rappresentazione, diversamente, per esempio, dal dipinto di Artemisia Gentileschi, con il medesimo soggetto, dove l'azione è più mossa, è una vera lotta fra i due sessi, risolta dalla grande pittrice in senso più personalistico (venne stuprata da un amico del padre). Infatti, Giuditta, presentata come simbolo di salvezza che Dio offre al popolo ebraico, assurge anche a simbolo della Chiesa stessa e del suo ruolo salvifico, ulteriormente testimoniato dal colore bianco della camicia della donna, che evoca la purezza. Tuttavia non va ignorato, sempre in senso simbolico sia il fatto che il volto di Oloferne è un possibile ritratto del pittore, sia l'interpretazione in chiave simbolico-psicologica, in cui l'orrore e l'urlo di spavento e di dolore del generale, sono una rappresentazione, appunto simbolica, della paura e della castrazione, che la decapitazione (spesso presente nell'opera del Caravaggio) evoca in modo drammatico